In questi mesi di avvicinamento alle prossime elezioni nazionali, ho partecipato a diversi incontri ed iniziative – in particolare a Reggio Emilia dove vivo, ma non solo – promosse dalle forze della sinistra (civica e politica) per la faticosa costruzione comune del programma elettorale. Poiché le prossime settimane sono cruciali per definire l’orizzonte programmatico e le alleanze con il quale la “sinistra” si presenterà alle elezioni, ecco alcune annotazioni, che mi paiono fondamentali sul tema della pace e del disarmo. Ossia che stanno a fondamento del cambiamento necessario
1. Non basta più ribadire il principio costituzionale del “ripudio della guerra”: senza una sua precisa declinazione politica rischia di essere un mantra consolante. Necessario, rispetto alle missioni di guerra in cui l’Italia è ancora ingaggiata, ma non sufficiente rispetto alla corsa al riarmo degli ultimi quindici anni.
2. E’ tempo, dunque, di aggiornare le analisi politiche sul tema pace-guerra. Cambiare le coordinate, a partire dalla conoscenza dei dati reali. In particolare in merito alle spese militari di questo Paese. Non è un caso se il Movimento Nonviolento è il principale promotore dell’ Osservatorio sulle spese militari italiane, il MILEX.
3. La conoscenza dei dati ci dice che negli ultimi 10 anni di recessione e di tagli generalizzati a tutti i comparti sociali, la spesa pubblica militare italiana è invece aumentata del +21% con una crescita costante, che continua ancora. Se nel 2017 la spesa militare complessiva si è attestata sulla cifra enorme di 24 miliardi di euro – corrispondente a 64 milioni al giorno – la Legge di Bilancio per il 2018 prevede un miliardo tondo in più (corrispondente al +4%) per giungere a 25 miliardi di euro, pari all’1,42% del PIL (più della Germania, ferma all’1,2%).
4. Questo significa, per esempio, che siamo l’ultimo Paese europeo – come da dati EUROSTAT – per spesa pubblica per l’istruzione, per la cultura e per numero di laureati, mentre siamo il primo Paese per cacciabombardieri F35 acquistati, per numero di portaerei, per tasso di incremento della spesa militare ed anche per numero di testate nucleari USA in Europa…
5. Una parte consistente di queste risorse, pari a 3,5 miliari sul 2018 (+5% rispetto al 2017), non proviene dal Ministero della Difesa ma dal Ministero per lo Sviluppo Economico, per l’acquisizione di nuovi armamenti “made in Italy”. Cifra pari al 71% del budget totale MiSE per la competitività e lo sviluppo delle imprese italiane. Ciò significa che – dal punto di vista governativo – lo sviluppo economico italiano è centrato in larghissima parte sull’industria bellica.
6. Se a questo si aggiunge che Leonardo-Finmeccanica – l’azienda di cui il governo italiano è l’azionista di maggioranza – ha completamente dismesso la tecnologia civile a vantaggio di quella militare, che esporta in tutto il mondo, e si aggiunge anche che l’export bellico italiano negli ultimi due anni è sestuplicato, passando da 2,1 a 14,6 miliardi di euro, anche in pesante violazione della legge 185/90 sul commercio delle armi, che non consente la vendita ai regimi ed ai Paesi in guerra come l’Arabia saudita che scarica sullo Yemen i missili prodotti in Sardegna…
7. …Ne deriva che l’economia profonda del nostro Paese – quella che attira la spesa pubblica, opera gli investimenti tecnologici e moltilica i profitti privati – è una vera e propria economia di guerra.
8. Rispetto al cui incremento non si nota nessuna differenza sostanziale tra governi di centro-destra e centro-sinistra degli ultimi venti anni. Anzi il progetto dei famigerati caccia F35 – che ha un costo complessivo pluriennale ad oggi stimabile in 14 miliardi di euro – è nato con il governo Prodi nel 1998, confermato da Berlusconi del 2002 e poi man mano da tutti i governi successivi. Mentre ai governi Renzi-Gentiloni, per esempio, spetta il record di autorizzazioni per l’export bellico…
9. Se non si aggredisce il tabù dell’economia di guerra non è possibile impostare una sostenibile economia di pace, ossia civile e sociale. Non si può rovesciare alcun tavolo della diseguaglianza se non si rovescia – contemporaneamente – il tavolo della guerra, liberandone le risorse imprigionate. Oggi, insomma, non c’è alcun cambiamento reale possibile senza mettere al centro le politiche attive di pace.
10. Ecco, dunque, le prime indispensabili misure complementari per un vero programma di cambiamento. Le cinque politiche attive di pace, senza le quali non si costruisce alcun progetto alternativo:
a) disarmo: mettere in vetta alle priorità la sostanziale e progressiva riduzione degli armamenti;
b) riconversione sociale delle spese militari: trasferire le risorse liberate dal disarmo sui comparti sociali e civili di spesa pubblica, a cominciare da istruzione e cultura;
c) riconversione civile dell’industria bellica: realizzare un piano nazionale di riorientamento dell’industria degli armamenti in industria civile ad alta tecnologia. A cominciare da Leonardo-Finmeccanica;
d) costruzione della difesa civile, non armata e nonviolenta: approvazione della proposta di legge della Campagna “Un’altra difesa è possibile”, che prevede – tra le altre cose – la costruzione dei corpi civili di pace;
e) ratificare il Trattato per la messa al bando delle armi nucleari: per la prima volta le Nazioni Unite hanno messo a punto un Trattato internazionale per abolire definitivamente il pericolo atomico. L’Italia si è sottratta insieme agli altri Paesi della NATO: è obbligatorio ratificarlo.
Insomma, non c’è sinistra senza disarmo e politiche attive di pace. Anzi, come scriveva Carlo Cassola “o la sinistra fa dell’impegno per la pace il terreno decisivo dello scontro tra civiltà e barbarie o rimane di destra anche se si proclama di sinistra”. Parole mai così vere quanto oggi.