Leaticia Ouedraogo ha 20 anni, è di origini burkinabé, è di Bergamo ma vive a Venezia, dove studia Lingue a Ca’ Foscari e lavora nella biblioteca universitaria. Ha scritto questa lettera aperta dopo che nei bagni dell’università è apparsa una scritta inneggiante a Luca Traini. La lettera, che riportiamo integralmente, è stata pubblicata sul blog Linea 20
Leaticia: “E cos’hai mangiato oggi in mensa?”
Mathys: “Uhm… la pasta in bianco con tantissimo formaggio.”
Leaticia: “Wow, che buono!”
Mathys: “Eh sì. Ma Leaty, posso farti una domanda?”
Leaticia: “Certo Mathys, dimmi tutto.”
Mathys: “Ma cosa vuol dire negher?”
Leaticia: “Perché me lo chiedi?”
Mathys: “Perché oggi all’intervallo Alessandro e Gabriele mi hanno detto negher.”
Leaticia: “E tu cos’hai risposto?”
Mathys: “Ehhh niente perché non so cosa vuol dire.”
Leaticia: “Ok… Allora, negher vuol dire negro.”
Mathys: “OHHH!!!”
Leaticia: “Eh sì, Mathys, ti hanno detto che sei negro. Doveva essere un insulto. Magari credono di essere migliori di te perché loro sono bianchi. Ma tu non ci devi credere, perché non è vero. La prossima volta che te lo dicono, tu rispondi che sei fiero di essere negro. Capito?”
Mathys: “Sì.”
Leaticia: “Bravissimo. Ripetilo.”
Mathys: “Cosa?”
Leaticia: “Che sei fiero di essere negro.”
Mathys: “Sono fiero di essere negro.”
Leaticia: “Ecco. Bravissimo. Ti voglio bene, Mathys.”
Mathys: “Anche io ti voglio bene, Leaty.”
Questa è una conversazione che ho avuto con il mio fratellino di otto anni al ritorno da scuola. Risiediamo a Bergamo con i nostri genitori, ma studio come fuori sede a Venezia e ci sentiamo spesso al telefono. Le nostre conversazioni non durano mai più di una decina di minuti. Solitamente, ci raccontiamo quello che facciamo e quello che mangiamo. A volte mi chiede come stiano i miei amici. Altre volte mi racconta delle sue liti con la mamma. Altre volte ancora, lo aiuto a fare i compiti al telefono. In otto anni della sua vita, non ho mai pensato che avrei dovuto un giorno spiegargli il razzismo. Sono stata molto ingenua perché, dall’alto dei miei vent’anni, di episodi di razzismo ne ho vissuti. I primi si sono verificati quando avevo all’incirca dodici anni. Ma ero già grande e sapevo difendermi con le sole parole. Ma a otto anni, come si rielabora il razzismo? E io, da sorella maggiore, come lo semplifico il razzismo per un bambino ingenuo?
Ancora non lo so. Ma devo trovare un modo di rendere mio fratello immune al razzismo. Proprio come sua sorella. Sì, perché io mi ritengo immune al razzismo: non sono razzista e i razzisti non mi fanno paura, non mi fanno arrabbiare, non li detesto. E oltretutto, ho sviluppato una sottile arma per combattere il razzismo a modo mio. Io rispondo con l’ironia, anzi, il sarcasmo. Faccio fiumi di battute auto-razziste alle quali in generale la gente rimane di stucco. Non sa se ridere o meno. Perché verrebbe da ridere, ma ridere sarebbe politicamente scorretto. Quando la gente comincia a conoscermi, si abitua alle mie battute e comincia a ridere. Quando la gente ride e soprattutto quando la gente riesce a fare battute razziste, ritengo che il mio lavoro abbia avuto successo, semplicemente perché portando in superficie l’ignoranza e ridendone, la si demistifica. Io sono immune al razzismo: questo è quello che mi sono sempre detta. E sono sempre stata fiera di aver sconfitto il razzismo. Imperdonabile ingenuità!
Ieri, 6 marzo 2018, è stata una giornata intellettualmente pesante e difficile per me. Lo scenario delle elezioni non ne è però la causa. Lunedì 5 marzo, Idy Diene, ambulante senegalese di cinquantatré anni è morto sul ponte Vespucci a Firenze: con cinque colpi di pistola, tre dei quali a segno, uno sparato a bruciapelo, alla testa, quando l’uomo era già a terra. A confessare l’assassino subito dopo essere stato bloccato e arrestato, è stato Roberto Pirrone, sessantacinque anni, ex tipografo in pensione. La comunità senegalese di Firenze ha letto, in questa tragedia, un omicidio razzista e ha manifestato ieri pomeriggio per le strade di Firenze danneggiando di proposito quello che trovava sul suo passaggio.
Ieri ancora nei bagni della biblioteca in cui lavoro come collaboratrice sono state trovate delle scritte fasciste e razziste. “W IL DUCE, ONORE A LUCA TRAINI. UCCIDIAMOLI TUTTI STI NEGRI”.
Wow. Un momento di profondo respiro. Rileggo la frase di nuovo. Per un bianco, o comunque un non negro, credo che questa affermazione possa suscitare ribrezzo, tristezza, rabbia. In verità non so cosa possa provare un bianco, e non so perché debba essere diverso da quello che può provare una negra quale sono io. Da negra, non mi sento offesa. Sono profondamente confusa che queste scritte si ritrovino in un luogo così culturale, e confusa soprattutto perché probabilmente l’autore delle scritte è un mio coetaneo. La biblioteca delle Zattere è anche chiamata Cultural Flow Zone: un ambiente giovane e vivace, dove, tra una pausa e l’altra dallo studio, si può spostarsi di sala e vedere una mostra, assistere alla presentazione di un libro o partecipare ad un cineforum. Devo dire che è un ambiente lavorativo umanamente parlando molto stimolante e si può proprio sentire la cultura fluire. Incontro persone diverse tra loro: dagli universitari ai liceali, dal personale tecnico ai docenti, dagli attori e cantanti ai corrieri. Questo ambiente non mi sembra un ambiente razzista, anzitutto perché altrimenti non avrei superato un colloquio in cui concorrevo con molti altri ragazzi bianchi. Tuttavia, è stato un colpo per me vedere queste scritte. Ho tentato a più riprese di immaginare la scena di un ragazzo che come molti altri mi chiede di fare una tessera giornaliera, e lo immagino come il probabile autore delle scritte. E voglio parlargli, capire perché mi voglia uccidere, visto che sono negra. Sono impaurita, non perché io abbia paura di essere uccisa, ma mi spaventano le ragioni per cui verrei uccisa. Come puoi pensare di uccidere qualcuno solo per il colore della sua pelle? Cosa ti può distorcere così tanto da volere uccidere qualcuno perché non è bianco? Ho le vertigini solo a pensarci. Cosa otterresti dalla mia morte? Io vorrei solo capire. Vienimi a parlare. Voglio essere guardata dritto negli occhi e voglio sentire cosa ti affligge. Perché mi odi? Come mi uccideresti? Come ti sentiresti dopo la mia morte? Saresti felice? Voglio capire la dinamica dei tuoi sentimenti. Vienimi a parlare prima di uccidermi, cosicché io ti possa abbracciare e mostrare un po’ di umanità. Io non ti odio, non perché io sia gentile. È perché sono profondamente triste per te, provo pietà perché non so come tu sia giunto a questo punto. Mi dispiace per i fallimenti che ci sono stati nella tua educazione. Mi dispiace che qualcuno sia riuscito a manipolarti a tal punto e a convincerti di queste cose. Ti hanno avvelenato la mente e il cuore con questo odio insensato e questo suprematismo bianco. Ti hanno rubato la tua libertà intellettuale e questo non è giusto. Mi sono sempre ritenuta immune al razzismo, convinta che fosse una bassa manifestazione di odio dovuto alla mediocrità intellettuale. Ho sempre attribuito il razzismo ai bigotti. Dovrei sentirmi rassicurata e felice che tutti i miei amici e conoscenti non siano bigotti. Ma a me non basta. A me interessi tu, caro fascista, caro razzista. Credo che tu viva in una grande farsa, un equivoco impensabile. Il valore più grande della tua umanità è l’universalità, perché di umanità ve n’è una sola. Non mi puoi uccidere solo perché sono negra. È una argomentazione inconsistente. Tu non sei fatto per l’ignoranza o l’oscurantismo, semplicemente perché sei umano e sarebbe un tradimento alla tua umanità. Un alto tradimento, imperdonabile a te stesso. Non devi uccidere me, devi uccidere quel mostro oscuro che si nutre delle tue paure e della tua ignoranza, ma anche della tua ingenuità. Ti auguro sinceramente di sconfiggere questi mostri.
Mi sento di dire che questa lettera dovrebbe essere pubblicata in tutti i luoghi pubblici,sperando che possa guarire quelle menti razziste per sempre.Grandissima.
[…] nella biblioteca di Cà Foscari a Venezia e denunciato nella lettera aperta della studentessa Leaticia Ouedraogo: “vienimi a parlare prima di uccidermi, cosicché io ti possa abbracciare e ti possa mostrare un […]
[…] nella biblioteca di Cà Foscari a Venezia e denunciato nella lettera aperta della studentessa Leaticia Ouedraogo: “vienimi a parlare prima di uccidermi, cosicché io ti possa abbracciare e ti possa mostrare un […]
[…] nella biblioteca di Cà Foscari a Venezia e denunciato nella lettera aperta della studentessa Leaticia Ouedraogo: “vienimi a parlare prima di uccidermi, cosicché io ti possa abbracciare e ti possa mostrare un […]