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1200 chilometri per gli still life di Portopalo

DiRoberto Rossi

Ago 22, 2014

Al punto da esserne deficiente e diventarne l’opposto: solitudine e morte. Il troppo che proverbialmente stroppia. Poi, nel finale, la scommessa sta nel credere – o nell’immaginare, dato che di cinema parliamo – che l’eccedenza fosse giustificata, che la relazione persista, persino si moltiplichi, oltre la vita, nella morte che è ancora vita: still life, per l’appunto.

Morte e solitudine. Il protagonista è un dipendente comunale che si occupa di dare sepoltura a persone morte sole. Il suo compito è rintracciarne i parenti, comunicarne il decesso e organizzare le esequie. L’aggiunta di umanità sta nell’indagine che John fa sulle vite dei morti: considerarne le convinzione religiose e in base a queste predisporre con cura l’estremo saluto, convincere parenti e amici a presenziare, collezionare i suoi morti in un album fotografico, entrare in relazione con loro. Distaccandosi così da quello che disumanamente gli è invece richiesto: rapidità.

Un distacco dalla “normalità” che lo conduce inesorabilmente verso una solitudine estrema. Da qui il gioco dell’immedesimazione trova il suo naturale sviluppo: quella diegetica, tra John, e i suoi morti; e quella extradiegetica, dello spettatore, il quale non può non considerare quanto unica e sola sia la verità scientificamente ponderata sulla morte di ognuno, il fatto che avvenga e che avvenga in solitudine.

La fine, lieta o meno che sia, non poteva che essere un’escatologia, perfettamente in linea con l’indagine sull’umanità relata svolta dal regista: fine, intesa/o come morte e come senso. La morte è la fine di una nuova e sconvolgente relazione con una persona viva finalmente, che si spezza sul nascere. E tuttavia, proprio alla fine, quella stessa morte riempie di senso la vita di un “pazzo”, concedendole appunto finalità e restituendo compimento alle relazioni da lui intessute tra la vita e la morte. Un’escatologia profondamente religiosa, più simile nella definizione alla compresenza nei valori, tra i vivi e i morti, di stampo capitiniano: il valore tutto umano della stessa relazione, o dell’apertura, usando il vocabolario caro agli amici della nonviolenza.

Vuole il caso che la sera in cui in un’arena estiva di Catania si assiste al trattato sul valore della dignità della morte di Uberto Pasolini, una giovane donna, accompagnata dall’associazione antimafia Libera, chieda agli spettatori una firma che ha come scopo la restituzione della dignità alle vittime della strage di Natale del 1996, quando 283 persone migranti annegarono a largo di Portopalo nel tentativo di raggiungere le coste italiane.

Era la notte fra Natale e Santo Stefano, la nave aveva un carico di circa 300 vite provenienti dall’India, dal Pakistan e dallo Sri Lanca. Nelle operazioni di trasbordo, durante una tempesta, la nave colò a picco. Di quella che allora fu la più grande sciagura marittima dal dopoguerra nessuno seppe nulla, le autorità non la registrarono, men che meno gli organi di informazione. Fu il mare a prendersi la briga di restituire i cadaveri alla spicciolata. Finivano nelle reti dei pescatori che, impauriti e irrigiditi da possibili guai giudiziari, rigettavano a mare quei resti. Fu la coscienza di uno di questi uomini di mare, Salvo Lupo, ad opporsi a quella che era diventata ormai una triste consuetudine. Divenne la fonte di un giornalista di Repubblica, Gianni Maria Bellu, che, a spese del giornale, recuperò le tracce di quella nave in fondo al mare, svelò la storia e la raccolse poi nel libro “I fantasmi di Portopalo”. De Gregori ci scrisse una canzone, “Natale di seconda mano”.

A distanza di diciassette anni dal naufragio, Gaia Ferrara, sostenuta dall’associazione “Viandando”, ha deciso di percorrere in bici 1200 km per quei fantasmi, in un viaggio su quelle che oggi più di allora sono le terre di approdo di questa umanità alla ricerca di futuro: Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia; partenza da San Severo, il 2 agosto, l’ultima tappa a Portopalo, il 23. Lo scopo, raccogliere le firme per chiedere all’Unione Europea di recuperare il relitto (si può sottoscrivere online qui), mobilitare sul tema la società civile, creare un legame tra i vivi e gli still life di Portopalo.

Roberto Rossi

Di Roberto Rossi

L'interesse per il rapporto tra mafia e informazione e per il tema della censura violenta – sviluppato attraverso i linguaggi della saggistica, del teatro e del giornalismo – gli ha fatto ultimamente incontrare gli amici della nonviolenza, per i quali ha curato la rubrica Mafie e Antimafie su “Azione Nonviolenta”. Ha pubblicato con “Problemi dell'informazione” (Il Mulino), ha partecipato alla fondazione di Ossigeno per l'informazione, l'osservatorio sui cronisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza, ha scritto il libro “Avamposto” (Marsilio), sulle storie dei giornalisti minacciati dalla mafia in Calabria. Si interessa di teologia.

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