Si svolge a Roma il 25° Congresso nazionale del Movimento Nonviolento
La nonviolenza va nel profondo più di quanto si creda. Essa si presenta, oggi in modo culminante, come antitesi ai maggiori mali: la guerra e il folle riarmo, l’assolutismo oppressivo dei governi, lo sfruttamento delle moltitudini povere, la chiusura individualistica egocentrica e disperata.
Perciò essa sta alla punta estrema del vecchio mondo più di ogni altro preteso, grossolano e superficiale estremismo: anche se altri sa distruggere la nonviolenza costruisce.
Aldo Capitini, relazione al 1° congresso del Movimento Nonviolento, 1966
Era il gennaio del 1962 quando, sui muri di Perugia, apparve il manifesto che annunciava la nascita del “Movimento Nonviolento per la Pace”. Nell’estate precedente, la “guerra fredda” tra i blocchi dell’Est e dell’Ovest aveva ricevuto una fortissima accelerazione con la costruzione del “muro di Berlino”; nel settembre Aldo Capitini, dalla Rocca di Assisi a conclusione della “Marcia per la pace e la fratellanza tra i popoli”, aveva lanciato la “Mozione del popolo della pace”, nella quale – tra l’altro – scriveva che “la pace è troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti”. In quell’autunno-inverno Aldo Capitini, Pietro Pinna, Daniele Lugli e alcuni altri amici diedero vita al Movimento Nonviolento, che prenderà nelle mani l’impegno per la pace nei successivi 55 anni. “Può darsi che la nostra posizione conservi il carattere di minoranza per lungo tempo e sia perciò semplice aggiunta” – scriveva Capitini nella relazione al 1° Congresso del Movimento Nonviolento, nel 1966 – “ma essa tanto più sarà persuasa di essere già “potere” – un nuovo tipo di potere – quanto più le sue iniziative saranno aperte e valide per tutti, da centri collocati al livello delle moltitudini”. L’1 e 2 aprile 2017 il Movimento Nonviolento celebra a Roma il suo 25° Congresso nazionale, si tratta ormai di una delle comunità politiche più longeve nella storia del nostro Paese.
Nel 1989 i popoli europei abbatterono quel muro che divideva in due l’Europa e il mondo. In molti immaginavamo – o forse speravamo – che con la fine della divisione tra Est e Ovest, la corsa agli armamenti potesse avere finalmente fine e si aprisse una fase nuova per l’umanità. Un periodo di prosperità fondato sui dividendi di pace, cioè sulla liberazione di risorse dalle spese militari a beneficio delle spese civili e sociali. Invece – come la fine della seconda guerra mondiale si chiuse con la manifestazione di potenza degli USA che sganciarono le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, volendo segnare la supremazia sull’Unione Sovietica – la fine dei blocchi contrapposti si aprì con l’invasione della coalizione a guida USA dell‘Iraq, nel 1991 – a seguito dell’occupazione di questo, dei pozzi petroliferi del Kwait – volendo segnare la supremazia del blocco occidentale sull’intero pianeta. Per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, anche l’Italia – aprendo uno squarcio nella Costituzione, mai più ricucito – diede il suo contributo alla guerra. E’ con quella che sarà ricordata come la “prima guerra del Golfo” che comincia l’ossimoro retorico della “guerra umanitaria”, delle “missioni di pace” fatte con la guerra, della “esportazione della democrazia” attraverso le bombe al fosforo bianco e all’uranio impoverito, che produssero – in quel caso – alcune centinaia di morti fra le truppe occidentali, centinaia di migliaia tra militari e civili iracheni. Da allora è un crescendo di interventi armati in giro per il pianeta: Somalia (1992), Haiti (1994), Bosnia (1995), bombardamenti su Bagdad (1998), Kossovo (1999).
Un primo “contraccolpo” a questa frenetica attività bellica USA e NATO è l’attacco dell’11 settembre 2001 alle “torri gemelle” di New York. Oggi si scopre, peraltro, che gli attentatori furono “attivamente aiutati” da funzionari del governo saudita, alleato storico degli USA e dell’Europa. Non fu quella tragedia l’occasione per fermare la proiezione imperialistica occidentale – come invitava a fare, per esempio, Tiziano Terzani – ma il pretesto per avviare nuove imprese belliche, con la nuova retorica della “lotta al terrorismo”: Afghanistan (2001), Iraq (2003), Libia (2011), iniziate e mai più concluse. Milioni di morti dopo, una nuova ondata di terrorismo internazionale, che ha il suo fulcro nel cosiddetto “Stato islamico”, e colpisce continuativamente anche in Europa come mai prima d’ora, è il secondo contraccolpo alla fallimentare strategia della violenza. Sangue non lava sangue, ma si aggiunge e ne prepara dell’altro. Invece la corsa agli armamenti, sia sul piano internazionale che nazionale, è ripresa a ritmo vorticoso: mai, dalla seconda guerra mondiale, gli Stati hanno speso tanto per le spese militari, mai la produzione e il commercio degli armamenti hanno prodotto tanti profitti privati, mai tanti profughi hanno attraversato il Mediterraneo e tanti muri e fili spinati sono stati innalzati nel cuore dell’Europa. Mai come ora, dal 1953 – avverte l’autorevole Bollettino degli scienziati atomici – le lancette dell’Orologio dell’apocalisse erano state così vicine alla mezzanotte nucleare.
Emerge, dunque, l’urgenza della costruzione di un vero movimento per la pace, nazionale e internazionale, che abbia il fine della fuoriuscita dal tempo e dalla logica della guerra. Che stia sempre dalla parte delle vittime civili, senza tentennamenti (come invece è avvenuto difronte alla tragedia della Siria, schiacciata tra il terrore del regime e le roccaforti del terrorismo). Un movimento forte e autorevole, che abbia la guerra come nemico, che sia capace di contrastarla fin dalla preparazione degli strumenti che la rendono possibile, attraverso il disarmo e la costruzione delle alternative civili. In un Paese in cui, negli ultimi dieci anni di crisi economica e di stagnazione, si è tagliato tutto il tagliabile, la spesa pubblica militare italiana è invece aumentata del 21%, (di cui quelle per gli armamenti, a carico del MISE, addirittura dell’85%) al punto che per il 2017 è prevista una spesa di 23,4 miliardi di euro, ossia di 64 milioni al giorno. Mentre per un anno di Servizio civile universale il governo investe l’equivalente di quattro giorni di spesa militare e nel “Fondo per le politiche sociali” addirittura l’equivalente di tre giorni, è necessario un movimento per la pace in grado di imporre all’agenda della politica la liberazione delle risorse sacrificate sull’altare delle spese per la guerra, ripudiata dalla Costituzione, a beneficio delle spese civili e sociali e per la costruzione delle alternative alla guerra, come affermato dalla Costituzione. Un movimento che agisca il proprio potere dal basso, costruendo specificamente politiche attive di pace. Come propone, per esempio, la campagna “Un’altra difesa è possibile”.
Insomma, 55 anni dopo c’è sempre più bisogno di nonviolenza, sul piano culturale, politico e organizzativo. Per questo, ancora una volta, l’1 e 2 aprile, parteciperò a Roma al Congresso nazionale del Movimento Nonviolento.