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7 febbraio, Giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo

DiElena Buccoliero

Feb 7, 2019

Segue da vicino l’evento del 5 febbraio, Giornata mondiale della sicurezza in rete.

Che ci sia bisogno di riflettere ancora su questi fenomeni sembra certo, se è vero che, oltre ai progetti, ai siti, agli spot, agli incontri sulla legalità, ai corsi per insegnanti e genitori, ai finanziamenti destinati alle scuole… la stampa continua a diffondere notizie particolarmente inquietanti.

La Sicilia”, 29 gennaio. “Gela, bullismo a scuola: in tre contro un compagno proveniente dal Senegal. Gli studenti gelesi, a cui sono state notificate le ordinanze, sono accusati di discriminazione razziale, stalking, estorsione e lesioni aggravate”. Il ragazzo vittima, minorenne, da tempo subiva vessazioni di vario genere dai tre compagni di scuola, uno dei quali 18enne, e ha infine trovato il coraggio di denunciare.

La Nazione” di La Spezia, 29 gennaio. “Sei straniero, non hai diritto di stare qua. Bullismo a fondo razziale tra bambini in una palestra: la testimonianza di una mamma”.

Il Resto del Carlino”, 27 gennaio. “Bullismo Cesena, picchiata da un compagno a scuola. Cinque giorni di prognosi. Il papà della ragazza, al primo anno di superiori, ha sporto denuncia”. Il giovane accusato risulta essere un compagno di scuola che pretendeva la merenda e, vendendosi opporre un rifiuto, ha reagito con pugni e schiaffi.

Il Gazzettino”, 23 gennaio. “Bambino suicida a 10 anni: i bulli lo prendevano in giro per il sacchetto della colostomia”. La notizia arriva dal Kentucky, Stati Uniti. L’immagine ritrae Seven Bridges, un ragazzino dal volto simpatico e vivace. La malformazione congenita all’intestino in via di risoluzione aveva reso necessari diversi interventi chirurgici e la stomia era ancora presente. La mamma, che aspettava la fine dell’anno scolastico per cambiarlo di istituto, accusa gli insegnanti di non essere intervenuti, la preside ribatte che non si erano mai accorti di niente.

Ci sono poi tendenze tutte italiane. In Francia, ad esempio, è in atto un progetto nazionale sul bullismo omofobico, mentre in Italia, e precisamente a Ravenna, l’Arcigay segnala la difficoltà di parlare in classe dello stesso tema. Analoga testimonianza ho ricevuto da operatori di altre città che si sono visti agitare contro lo spettro della “teoria del gender”, quasi che riconoscere la presenza di discriminazioni tra pari verso chi un diverso orientamento di genere, o anche soltanto non corrisponde agli stereotipi di maschile e di femminile, significasse inculcare in tutti la tentazione dell’omosessualità.

Che cosa fare, allora, di tutto questo?

A Lecco una bimba di quinta elementare lo ha chiesto a Sergio Mattarella domandando se anche ai suoi tempi c’era bullismo nelle scuole. «Il bullismo è un comportamento ignobile, che un tempo era chiamato prepotenza o cattiveria, ma il male è sempre esistito», risulta avere risposto il Presidente. «Davanti a episodi di bullismo è necessario immediatamente parlarne ai genitori e agli insegnanti».

In tanti, anche al MIUR, invocano una direzione più severa del tutto in linea con la cultura securitaria applicata anche ad altre questioni. Il ministro Bussetti invoca punizioni severe per i prepotenti, riprende la proposta del collega agli Interni per la reintroduzione del grembiule e aggiunge l’importanza di armadietti personalizzati per far sentire i ragazzi di casa.

Con nessuna autorevolezza ma un po’ di esperienza nelle scuole provo a indicare alcune strade: diminuire l’enfasi sull’uso dei media e riconoscere che il problema delle prevaricazioni sta prioritariamente nelle relazioni, e solo in seconda battuta è influenzato dagli strumenti con i quali quelle relazioni si esprimono; accettare che la gran parte delle prepotenze avvengono tra ragazzi che si conoscono e spesso condividono le stesse aule, gli stessi tragitti casa-scuola, che è come accettare che la gran parte dei maltrattamenti e abusi sui bambini si devono agli adulti più vicini, non a improbabili orchi; comprendere che il bullismo è soprattutto una dinamica di gruppo, cioè poi un problema della scuola intesa come sistema, e non il frutto della cattiveria di alcuni.

Leggo su “D Donna di Repubblica” del 1° febbraio che alcuni esperti danesi spiegano come hanno ridotto il bullismo nelle loro scuole passando dal 25 al 7% di studenti coinvolti. Il segreto consisterebbe nell’utilizzo di strumenti quali sociogrammi e questionari per sondare le dinamiche di gruppo, nell’inserimento di un’ora scolastica alla settimana per riflettere con i ragazzi sui rapporti tra loro e nell’incentivare un clima di corresponsabilità, empatia e appartenenza.

Verrebbe da sorridere – è di questo che si parla anche in Italia in tanti progetti contro il bullismo, fin dai primi anni Novanta – se non fosse che la scuola italiana malvolentieri ospita questo tipo di programmi, o lo fa per un tempo molto ridotto e finché regge l’urgenza, o l’entusiasmo delle sperimentazioni. Sì, perché poi bisogna essere efficienti, andare avanti col programma, interrogare, fare cose serie insomma. I danesi però ci assicurano che un’attenzione alle relazioni migliora le performance scolastiche, e lo stesso dice nel nostro piccolo l’esperienza condotta da tanti operatori, e anche da me, nelle scuole italiane.

La sfida vera è provare a pensare che l’organizzazione della scuola, le regole, gli spazi, le modalità di conduzione della classe, la cultura che trasmette sui conflitti, gli errori, la diversità, la violenza… non sono elementi neutri bensì una parte del problema. Anche insegnanti e genitori farebbero a viversi non come spettatori o vittime essi stessi, bensì come attori all’interno del contesto.

Se poi il bullismo si accanisce sui ragazzi stranieri, oppure omosessuali, o diversamente abili, o con coloro che non abbassano la testa di fronte al prepotente di turno – se, insomma, il bullismo si concentra intorno a chi è diverso o non accetta una logica di violenza, alziamo lo sguardo oltre il cortile della scuola. Un motivo ci sarà pure.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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