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Dati mancanti, travisati o inventati. Soprattutto su donne e bambini

DiElena Buccoliero

Nov 7, 2019

Nei contesti più turbolenti, quando chiedevamo di stimare quanti alla loro età si ubriacano o fumano marijuana, i ragazzi rispondevano “tutti” o, come minimo, il 90%. Parlandone insieme, a partire anche dagli stili di vita e consumo presenti in classe (gli insegnanti erano fuori dall’aula, si poteva parlare), riconoscevano che la loro affermazione era sbagliata. Quello che ci avevano restituito non era un dato reale ma una percezione.

Me ne sono ricordata leggendo l’ultimo post di Daniele Lugli, Torto marcio, e riflettendo sul procedimento mentale cui assistevo, corroborato dalla dinamica di gruppo. Quel 90% come dovevamo considerarlo? Io credo fosse la risposta giusta per un’altra domanda: “quanti dei tuoi coetanei più popolari o nei quali ti riconosci, a cui tieni, che valgono per te, si ubriaca o fuma marijuana?”. Gli astinenti erano considerati strani, sfigati, marziani, secchioni… Più o meno duro che fosse il giudizio su di loro, resta il fatto che non rientravano nella base 100, non facevano statistica. I nostri interlocutori, spaziando con lo sguardo entro confini tracciati a loro immagine e somiglianza, osservavano quella che ritenevano la realtà e ne traevano un insegnamento generale che li orientava nei comportamenti e nelle valutazioni.

Come ormai sappiamo l’inganno ha effetto su giovani e adulti. Trae vantaggio dal fatto che non soltanto, come italiani, ci affidiamo eccessivamente alle emozioni e siamo scarsi in matematica, incapaci di leggere correttamente una statistica anche elementare, ma oltretutto su molti argomenti non abbiamo dati, o così striminziti che è difficile utilizzarli per descrivere la realtà.

La violenza e la protezione nei rapporti familiari o di genere ne sono cronicamente interessate e, direi, aggravate. Le banche dati degli ospedali non dialogano con quelle delle forze di polizia, i sistemi informatici del sociale non si relazionano con quelli del sanitario, neppure tra un ospedale e l’altro si possono incrociare i dati, o tra polizia e carabinieri. Così non ci si accorge che, ad esempio, lo stesso bambino è stato ricoverato più volte per lesioni sospette in ospedali sempre diversi, o nella stessa famiglia ci sono state liti violente e ripetute sedate da forze di polizia non comunicanti tra loro. Il danno mi pare evidente. La privacy sembra dettare un limite invalicabile e a me pare strano non si possano condividere informazioni tra operatori ugualmente tenuti a rispettarla. Gli stessi femminicidi riusciamo a quantificarli solo grazie ad alcune associazioni che su questo si impegnano con costanza esaminando le notizie di stampa.

I politici ciclicamente si accorgono di questo vulnus e s’indignano, non si capisce con chi, come non toccasse a loro decidere e finanziare rilevazioni statistiche nazionali costanti, osservatori competenti e affidabili che aiutino a comprendere cosa ci sta attorno al di là della percezione.

Mentre le informazioni scarseggiano c’è chi si dedica alla statistica in modo creativo. A pensarci bene mi sembra di poter distinguere diverse linee di condotta: enfatizzare singoli eventi e sottacerne altri per orientare la percezione complessiva di un fenomeno; leggere i dati in modo distorto; negarli e inventarne di alternativi. Alcuni esempi.

Proprio un anno fa – il 3 novembre 2018 – Violeta Senchiu, una donna rumena di 32 anni, madre di tre figli, è morta dopo venti ore di agonia per essere stata bruciata viva dal compagno, un pregiudicato italiano. La cronaca nazionale ne ha parlato in ritardo e solo grazie al web. Fin troppo facile immaginare cosa sarebbe avvenuto a nazionalità invertite, se cioè una donna italiana fosse stata così barbaramente uccisa da un compagno rumeno. Il caso di Violeta non è isolato, parlando di femminicidi o di violenza in genere. È facile accorgersi che i reati commessi da persone straniere sono trattati con un’enfasi che non viene attribuita ai crimini autoctoni, con l’effetto che l’opinione pubblica fa propria l’equazione stranieri = malfattori.

La lettura distorta del dato è praticata continuamente in relazione alla violenza verso donne e bambini. Se lo scopo è coltivare stereotipi sulla bontà degli italiani e sulla protezione della famiglia, si comprende che quanto li contraddice venga omesso o sminuito per quanto possibile, divulgando piuttosto ciò che aiuta a rinforzarli.

Sul maltrattamento all’infanzia in particolare esiste una – soltanto una – ricerca nazionale condotta secondo criteri di scientificità e comparabile con quelle di altri paesi europei, ed è stata promossa dall’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza con Cismai e Terres des Hommes, coinvolgendo l’Istat nella rilevazione. Basandosi su quell’indagine (altre non ce ne sono, una riedizione è in corso) nelle ultime settimane è stato scritto che solo il 4% delle segnalazioni sono veramente abusi. Chiunque non conosca il report la intende così: su 100 segnalazioni per abuso su minore 96 sono false, e appena 4 vere. Con l’ovvia implicazione che qualsiasi notizia di violenza sessuale su un bambino non va presa in considerazione, avendo il 96% delle probabilità di essere inventata. Il dato reale che emerge dall’indagine è però completamente diverso: fatto 100 il numero dei minorenni in carico ai servizi sociali per qualsiasi ragione, 4 sono seguiti in quanto vittime di violenza sessuale, gli altri 96 per motivi differenti, tra cui maltrattamento fisico, violenza assistita, trascuratezza e altro ancora, e non perché l’abuso doveva esserci e non c’era, ma perché all’infanzia toccano tanti malanni che richiedono assistenza e l’abuso sessuale è soltanto uno tra questi, con un’incidenza fortunatamente minoritaria tra tutti i bambini in carico al servizio sociale.

Esempio analogo lo abbiamo avuto quando, a proposito della Val d’Enza, la quasi totalità delle testate giornalistiche ha pubblicato che, su 100 richieste di allontanamento trasmesse dal servizio sociale nell’ultimo biennio, solo 15 sono state accolte dal tribunale per i minorenni. Il che significa: per 100 volte in due anni gli operatori hanno chiesto ai giudici il permesso di portare via i bambini, ma i giudici non li hanno seguiti e hanno detto di sì soltanto nei 15 casi veramente gravi. Premesso che le segnalazioni dei servizi arrivano al tribunale dopo il filtro del pubblico ministero minorile, cui spetta rivolgere richieste ai giudici, il fatto che le cose stiano come prospettate dai giornalisti è astrattamente possibile – solo chi ha letto tutti i ricorsi può dirlo, quindi non io – ma altamente improbabile. Più realistico è che su segnalazione di quel servizio sociale la procura minorile abbia inviato al tribunale 100 ricorsi in due anni per i motivi più svariati, dalla trascuratezza, all’abbandono, alla violenza assistita ecc. e, su questi, 15 siano stati giudicati talmente gravi da richiedere un allontanamento. La rilettura ipotizzata non dice niente sull’accusa di fondo, gravissima, che soltanto la magistratura potrà verificare, riguardo a una voluta distorsione della realtà da parte del servizio sociale, ma getta una luce completamente diversa sui ruoli e i rapporti tra le istituzioni coinvolte ed è soprattutto un richiamo a riportare i dati con il rispetto dovuto.

E che dire sui costi delle comunità per minori? Da anni si legge di tutto e di più. Chi è del settore sa che una casa famiglia ha determinati costi di funzionamento, ben diversi da quelli di una comunità ad alta intensità educativa e terapeutica per ragazzi con problemi psicologici o psichiatrici, ma quando si dice “400 Euro al giorno per le comunità” non si dà un range e non si fanno distinzioni. Né si dice che i ragazzi con problemi gravissimi sono una minoranza, e spesso si trovano in comunità col benestare delle famiglie le quali non saprebbero, da sole, reagire a un tentativo di suicidio o contenere una crisi psichiatrica.

Quanto al numero dei figli allontanati, poi, i dati vengono elaborati e diffusi in ritardo ma sono ciò di cui disponiamo in questo momento e non bisognerebbe ignorarli. Il Quaderno n. 42 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali li aggiorna alla fine del 2016 e rileva 26.615 minorenni che si trovano fuori famiglia (in parte con il consenso dei genitori), di cui 14.012 in affido (presso parenti o altre famiglie) e 12.603 in strutture comunitarie. A quanti commentano “però sono molti di più”, e azzardano stime che raddoppiano o triplicano il totale senza esplicitare le loro fonti, quale credibilità si deve riconoscere? Totale, rispondono in tanti che li seguono acriticamente e volentieri. Tutti quelli che vi trovano una conferma alla loro percezione, o che hanno aperto un contenzioso con tutto ciò che odora di ufficialità e non vedono l’ora di screditare le istituzioni, di sbugiardarle.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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