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Per me Fichte ha ragione

DiDaniele Lugli

Dic 16, 2019

Mi congeda. Proprio uno che ce l’ha con Fichte mi doveva capitare !?”. Il ricordo affiora mentre mi predispongo a un incontro che l’amico mi propone nel suo Corso di Etica della comunicazione. È Sergio Gessi. Mi invita con un sociologo, Bruno Turra, e una pedagogista, Loredana Bondi, a parlare ai suoi studenti su un tema di sintetico titolo, “Noi”.

Leggo in Capitini – Elementi di un’esperienza religiosa del 1937 – “Dice il Fichte nel libro Sulla missione del dotto: L’umanità non è ancora abbastanza evoluta in noi; noi stessi non siamo ancora maturati alla coscienza della nostra libertà e della nostra autonomia, perché, se così fosse, noi dovremmo necessariamente desiderare di vedere intorno a noi delle creature simili a noi, cioè libere”.

Proprio così dovremmo essere e volere gli altri per poter dire Noi! In un momento particolarmente critico, sempre Capitini, ripete Noi. È uno scritto clandestino diffuso nel ’40 all’entrata in guerra dell’Italia. “Darsi alla attività civile e sociale, tentare sempre, è fede che muove da noi; oltre l’eventuale delusione dell’attuale momento. È religioso non pensare alla propria morte; ed è religioso questo puro dare, questa fedeltà anche quando le cose tardano a disporsi come noi abbiamo pensato che fosse il meglio. Certe volte il momento diventa tragico, il mondo della forza e della quantità ci si rivolta contro; ed è allora che noi dobbiamo aver fede nella qualità come la vedova del Vangelo, che dà due soldi, e ciò vale più della copia di ricchezza. Con noi c’è il meglio di tutta la civiltà e l’umanità; per conservarlo bisogna accrescerlo; e perciò proprio oggi più che mai bisogna approfondire i nostri ideali, e tutta la nostra vita del cuore; farci più buoni e più aperti in ogni rapporto familiare e umano; lavorare col pensiero intensamente facendo più complesse, ricche, valide per i secoli le nostre filosofie, le nostre direttive, le nostre competenze, e continuare a cercare attivamente amici, che è lavoro paziente ed eterno. Le sconfitte passeranno nell’urto dei mesi o degli anni: il valore spirituale respirerà coi decenni e coi secoli, perché l’umanità (che è un tutto a cui è presente Dio) ricerca prima o poi e ritrova nel suo intimo il bene che noi, anche se oscuri ma persuasi, vi deponiamo…”. Le sottolineature, naturalmente, sono mie.

Noi, oscuri, in tempi oscuri, abbiamo bisogno di questa persuasione per dirci che un Noi può permanere, allora come ora, in una società in cui le guerre proseguono e le diseguaglianze crescono. “A dieci anni dalla crisi finanziaria i miliardari sono più ricchi che mai e la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani. L’anno scorso soltanto 26 individui possedevano la ricchezza di 3,8 miliardi di persone, la metà più povera della popolazione mondiale. Nel 2017 queste fortune erano concentrate nelle mani di 46 individui e nel 2016 nella tasche di 61 miliardari” secondo l’ultimo rapporto Oxfam. Ci aveva avvertito Lelio Basso, morto nel ’78, “nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello ‘proletari di tutti i paesi unitevi’ i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati… La democrazia appare sotto assedio. Un pugno di manager di immense multinazionali fanno e disfano quello che vogliono. Gli altri miliardi di uomini sono complici o schiavi. Se si rifiutano, nella migliore delle ipotesi, sono emarginati e non contano niente”.

L’amico Gessi mi telefona: il Noi sta per Comunità. Dico che l’avevo intuito. E allora penso alla “Comunità aperta” il cui disegno Capitini porta a compimento proprio nel Convegno di Ferrara – dal 6 all’8 maggio 1948 – dopo averne accennato in precedenti convegni: Milano 10-12 aprile 1947, trasformazione dell’Italia in “comunità aperta”, non adesione a blocchi preesistenti, non guerra, nonviolenza; Gavinana: 8-10 ottobre 1947, passaggio, da socializzarsi secondo comunità (nazionale o continentale o mondiale) chiusa, al socializzarsi secondo comunità aperta; Assisi 3-5 gennaio 1948, preparazione di un manifesto per la comunità aperta. Inutilmente propone questa prospettiva al Fronte democratico per le elezioni del 18 aprile. A elezioni avvenute, alla società chiusa ed alla politica separata e subalterna che si sono affermate nel Paese, Aldo Capitini contrappone l’ideale di una società aperta a tutte le forme finora realizzate di comunità chiusa, cui è fatale, quale gruppo contro altri gruppi, lo sbocco della guerra. Alla comunità aperta invece è intrinseca la tendenza ad associare universalmente tutti gli uomini. Modi di apertura di una società sono l’antinazionalismo, le istanze socialiste, le posizioni di coscienza di nonviolenza e di nonmenzogna. In una circolare – 17 luglio 1948, “I COS per la comunità aperta” – Aldo Capitini con Silvano Balboni cerca senza esito un lancio dell’iniziativa. I COS sono i Centri di Orientamento Sociale promossi da Capitini a Perugia, diffusi in altre città e a Ferrara in particolare. Sono precursori e motori della Comunità aperta. A dirla con Capitini “Il C.O.S. è la comunità aperta. La caratteristica della comunità aperta, di contro alle società esistenti, tutte più o meno chiuse, è di essere in movimento, di non ripetere se stessa, il proprio passato, la propria tradizione, le proprie abitudini, ma di aprire continuamente se stessa… Nella comunità aperta del C.O.S. tutti debbono avere pane e lavoro, e per questo si attua uno scambio di servizi e di aiuti, di pane e di lavoro”.

Il testo della relazione è pubblicato sul Nuovo corriere, 20 maggio 1948, poi in “Italia nonviolenta”, Libreria Internazionale di Avanguardia, Bologna 1949, e sempre in “Italia nonviolenta”, Centro Studi Aldo Capitini, Perugia, 1981. L’ho riletto. A me pare attuale. Chi è interessato – non era ad ascoltarmi e non trova il libro – può chiedere a me. Per chi si abbona ad Azione nonviolenta ho qualche copia. Chi proprio vuol saperne di più legge “Silvano Balboni era un dono”.

Una sintesi di cosa si possa intendere per Comunità aperta ce l’offre comunque Gandhi. Mi piace condividere un pensiero valido non solo allora, non solo in India:” Non voglio che la mia casa sia recintata da ogni lato e le mie finestre murate. Voglio che le culture di tutti i paesi si aggirino intorno a casa mia il più liberamente possibile… Il momento in cui una donna potrà camminare liberamente di notte per le strade, in quel momento potremo dire che l’India ha raggiunto la sua indipendenza”.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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