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La Sindrome del bambino scosso: attenzione ai piccolissimi

DiElena Buccoliero

Gen 2, 2020

Per casi come questi si parla di Sindrome del bambino scosso, traduzione di Shaken Baby Symdrome, termine coniato negli Stati Uniti negli anni Settanta osservando un ricorrere di eventi di questo tipo. Colpisce i bambini entro i due anni, il picco dei casi si ha tra le due settimane e i sei mesi di vita quando i neonati piangono di più, e i maltrattanti sono generalmente le madri o comunque chi è incaricato dell’accudimento. Nel mese di ottobre un papà statunitense molto giovane, 21 anni, ha ucciso il figlio allo stesso modo, per farlo smettere di piangere, procurandogli 28 fratture e emorragie interne letali.

Come si vede non si tratta di eventi estremamente rari. In un’intervista una pediatra di un ospedale di Torino ha detto di rilevare 5-6 casi all’anno. I dati complessivi però non si conoscono, per varie ragioni. La prima, tutta italiana e più volte richiamata su questo blog, è che non esiste un osservatorio nazionale sul maltrattamento all’infanzia. Al contrario di noi, ad esempio, la Francia riesce a dire che registra 200 casi all’anno, ritenuti sottostimati. Nella sottostima c’è la seconda importante ragione sull’assenza di dati, ed è il fatto che spesso questa sindrome non viene riconosciuta. Sì, con maggior certezza, quando lo scuotimento è più violento e ripetuto e porta a conseguenze gravissime – oltre alla morte, che riguarda un bambino su quattro casi accertati, possono esserci emorragie interne, cecità, capacità mentale profondamente ridotta, paralisi agli arti, paralisi cerebrale, stato vegetativo persistente – ma ci sono pure scuotimenti di minore intensità che provocano ritardi cognitivi, disturbi comportamentali o dell’apprendimento non così facili da ricondurre alla causa.

Ho cercato informazioni in rete sul bambino morto a Padova e non ho trovato quasi nulla. Si sa che la mamma è vicentina e ha 29 anni, si sa che quando il 118 è arrivato – chiamato da lei stessa perché il piccolo non respirava più – in casa c’era anche il marito ma non è chiaro se fosse presente durante il gesto di lei. Che esistono dei parenti, sconvolti dall’accaduto, è accertato per il fatto che hanno fatto scudo ai giornalisti e negato le responsabilità della madre, evidentemente incapaci di associare la loro figlia o nipote o cugina… insomma la donna che loro conoscono e amano, a quella che ha portato alla morte il suo bambino di pochi mesi. E di dissociazione parlano gli psichiatri anche descrivendo queste madri, che non si riconoscono nei propri atti e a volte li rifiutano per separarli da sé.

Un solo articolo parla di una bimba, al femminile, e non so se ha ragione, ma d’istinto ho pensato che sarebbe molto importante indicare questa piccola vita in modo preciso. Forse per riconoscere al bambino, alla bambina, il suo essere pienamente persona, anche se per pochi giorni, che è poi il movimento interiore opposto al black-out di quegli istanti. Una mamma condannata in Francia per avere ucciso il figlio allo stesso modo ha proprio dichiarato che in quel momento per lei non era un bambino ma un oggetto urlante da far tacere. Come scaraventare giù dal comodino una sveglia molesta nel tentativo di spegnerla.

I genitori che lo fanno a volte sono ignari delle conseguenze, altre volte esprimono la volontà di fare del male al figlio. I primi casi si prevengono con l’informazione, spiegando bene che un neonato ha una testa più pesante rispetto al corpo, una muscolatura del collo ancora debole e un cervello più gelatinoso e liquido di quello di un adulto, per questo i danni di uno scuotimento brusco (molto più di un vola-vola o di un cavalluccio sulle ginocchia) possono essere tanto gravi. Sul tema l’associazione Terres des Hommes ha realizzato una campagna informativa molto interessante che raccoglie dati, spiegazioni, consigli e uno spot di sensibilizzazione. Con chi maltratta e scuote i figli neonati benché ne conosca la fragilità il lavoro da fare è enormemente più complesso.

In genere la Sindrome del bambino scosso si verifica in famiglie che potrebbero essere riconosciute e aiutate prima. Ci sono fattori di rischio personalissimi come un’età particolarmente giovane dei genitori, la tossico o alcoldipendenza, i disturbi psichiatrici, l’essere stati a propria volta bambini maltrattati o rifiutati, ed altri che stanno nelle condizioni sociali e ambientali quali essere l’unica persona incaricata di accudire il neonato, non avere nessuno accanto a cui chiedere sollievo o consiglio, e poi la perdita del lavoro o della casa, le difficoltà economiche particolarmente pesanti, l’essere stati lasciati dal partner a causa o in concomitanza con la gravidanza o la nascita. Qualche volta questi elementi si sommano insieme e il cocktail può essere davvero letale.

Negli anni trascorsi al tribunale per i minorenni di Bologna mi è capitato – pochissime volte – di madri che si rivolgevano al servizio sociale rendendosi conto che una parte di sé desiderava fare del male al bambino. Erano donne con un vissuto di grande sofferenza, donne che si ritrovavano madri senza poter essere state figlie e, pur desiderando intensamente riscattarsi nella maternità, provavano l’impulso di sopprimere quella parte bambina. Dichiararlo era un gesto di grande coraggio e responsabilità da parte loro. Abbiamo deciso che per un periodo vivessero in una comunità con il figlio, cioè in un luogo dove potessero essere supportate e controllate – le due cose insieme – e che intanto seguissero un percorso psicologico. In parallelo incaricavamo i servizi sociali e sanitari del territorio di conoscere tutti i familiari e approfondire le relazioni tra loro e dunque il padre del piccolo, i nonni e gli zii materni o paterni, per verificare le risorse del nucleo, sostenere e recuperare tutto il possibile o trovare alternative quando non era possibile. Molte vicende si sono chiuse con il rientro del bambino in famiglia in condizioni di sicurezza, insieme alla mamma ormai più serena e capace di occuparsi di lui.

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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