I nomi della guerra
La guerra cambia volto e riti, e anche nome, senza mai cessare di esserci. Guido Ceronetti
Conflitto
Così la guerra si viene a situare nel contesto, più ampio e diluito, dei conflitti che la vita privata e pubblica quotidianamente ci propone. In fondo “non è che un duello su vasta scala… una continuazione della politica con altri mezzi” aveva detto von Clausewitz. È un’opzione tra le altre, disponibile per raggiungere gli scopi della politica, che infatti non ha mai preso sul serio il ripudio della guerra previsto dalla Carta dell’Onu e dalla nostra Costituzione. Per sapere se si deve o no fare la guerra basta applicare la formula di Rosen. Se P = probabilità di vincere la guerra, C = costi della guerra, CT = costi tollerabili, la decisione sarà per la guerra se CT per P maggiore di C. Certo ci sono valutazioni non semplici da compiere, ma se C si guarda bene dal ricadere sui decisori questi hanno un compito facilitato. Un’accorta aggettivazione, a seconda dei popoli e del momento storico, aumenta il consenso: guerra santa, giusta, inevitabile, umanitaria…
Igiene
“Guerra sola igiene del mondo” proclamava Marinetti, ma “Nulla salus bello” aveva detto, saggiamente, ben prima di lui Virgilio. Che guerra peste e carestia/ vanno sempre in compagnia lo sapevano anche i nostri vecchi. Ora sappiamo tutto sull’inquinamento di lunga durata dell’aria, dell’acqua, della terra, normale effetto collaterale della guerra. Ogni guerra ha le sue epidemie e le sue sindromi, correlate alle caratteristiche di quella particolare guerra ed allo status dei belligeranti. La spagnola fece strage, a suo tempo, in Europa. Ora morbi ed epidemie, semplici e letali, portati od aggravati dalla guerra, continuano a colpire i più poveri. Le sindromi, più complesse ed intriganti, sono invece riservate ai più ricchi: sindrome del Vietnam, sindrome del Golfo. Nuova e perniciosa appare la sindrome dei Territori occupati: colpisce ufficiali e soldati israeliani che non ritengono sufficiente la giustificazione che fu già di Eichman, e non gli giovò: “Ho solo obbedito a degli ordini”.
Jihad
Ci è stato spiegato che è pessima la traduzione di Jihad con guerra santa. Sarebbe meglio dire lotta, sforzo. Anche intesa come guerra si tratterebbe comunque di Jihad al saghir, di una lotta dei corpi, di una lotta minore. Trascurabile, neanche da mettere con Jihad al-Kabir, la lotta delle anime, la lotta maggiore. È la lotta contro il nemico che alberga in noi e non quella contro il nemico esterno, il profondo contenuto del precetto. Scriveva Toufic Fahd, venti o trenta anni fa, che la questione della guerra santa “nell’epoca moderna ha perduto molta della sua rilevanza, al punto che in alcuni manuali contemporanei di teologia morale non se ne parla neanche più”. Che si parli ora di nuovo ed ampiamente di Jihad non ci fa piacere, anche se se ne sottolineano gli aspetti spirituali e di fede, piuttosto che quelli materiali e guerreschi. Nelle nostre cristianissime contrade li chiamavano atti della fede, gli autodafè, che consistevano nell’abbrustolimento di eretici e miscredenti.
Male
La guerra è un male ricorrente. Potrebbe essere un cataclisma naturale, come i terremoti, una malattia della società, come il traffico stradale, un po’ le due cose, come le epidemie? Di qui lo studio del fenomeno per individuarne intensità, frequenza, leggi, meccanismi di produzione. Abbiamo una buona conoscenza della distribuzione della guerra nel tempo e nello spazio, della sua diversa tipologia, della sua classificazione in megamorti. Ma per ridurne i danni, se non per abolirla, occorre sapere qualcosa di più sulle cause. La guerra di volta in volta, e contemporaneamente, viene attribuita alla natura umana, all’organizzazione interna degli stati, ai rapporti tra gli stati. Solo Bush ha individuato con chiarezza l’asse del male. Ma la sua diagnosi è controversa. Il problema è delegato agli esperti. Dovrebbe interessare tutti: “L’umanità deve por fine alla guerra o la guerra porrà fine all’umanità” diceva John F. Kennedy all’Onu il 25 settembre 1961, il giorno dopo la prima marcia Perugia – Assisi.
Militare
“Ci sono tre tipi di intelligenza: l’intelligenza umana, l’intelligenza animale, l’intelligenza militare”, ha scritto Aldous Huxley. La tecnologia è andata oltre incorporando l’intelligenza nelle armi, nuove, sorprendenti, affascinanti. Così i militari della civiltà superiore possono starsene al riparo ed evitare la volgarità della morte. Non per viltà certo, ma perché la guerra non finisca, come succedeva un tempo, per mancanza di combattenti (Et le combat cessa, faute de combattants, El Cid, Pierre Corneille). E poi la morte è facile, non richiede addestramento, né equipaggiamento specifico. La fa bene anche un civile (anche molti civili), anche un bambino (anche molti bambini). I militari hanno altro, importante, da fare. Da Talleyrand in poi si è detto che “La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai militari”. Ora invece ai militari è delegata pure la pace, come peace keeping, making, building (peace sta bene con tutti i verbi; fate la prova; io ho verificato i soli verbi irregolari da abiding a writing). Più guerre ci sono, più paci da kipare, meikare, bildare ci stanno.
War
La parola guerra verrebbe dal germanico werra: mischia. Ha soppiantato nelle lingue latine il bellum romano. La parola ha prevalso nelle lingue, come aveva prevalso, sui campi di battaglia, la disordinata werra dei germani sull’ordinato bellum. Non ce ne ricorderemmo neppure non fosse per qualche sostantivo ed aggettivo residuo: bellico, bellicoso, belligerante, belligeranza. Giustamente la parola werra si è mantenuta pressoché inalterata nella lingua degli attuali signori mondiali della guerra: war. È stata invece sostituita dai più diretti discendenti di quei Germani. I tedeschi dicono infatti Krieg, come sappiamo per il classico studio di Karl von Clausewitz “Vom Kriege” e per il fulmineo Blitzkrieg che piegò Polonia, Fiandra, Francia. Ma non sono più loro i signori della werra. Parola che vince non si cambia.
Cyber war
Alessandro Curioni e Aldo Giannuli hanno scritto “Cyber war. La guerra prossima ventura” (Mimesis Edizioni). È già in atto, nella duplice modalità fredda e calda. La prima è pure detta info war. Sono i sistemi informatici per spionaggio, propaganda, controllo e manipolazione delle informazioni nei confronti dei nemici esterni e interni: Russiagate e la Bestia, per esempio. Della cyber war abbiamo significativi assaggi: virus informatici alla rete ucraina, con blackout elettrici, attacco a siti internet di Governo, banche e organismi di informazione estoni, Stuxnet, malware dei servizi segreti israeliani e statunitensi, contro il programma nucleare dell’Iran, uso crescente dei droni. Poca cosa ma le prospettive sono grandi: prendere il controllo informatico di un aeroporto (aerei usati come armi), dei semafori di una città (in pochi secondi decine di migliaia di incidenti), della rete idrica, della rete elettrica. Bastano pochissimi esperti hacker, ma la super potenza è Google: motore di ricerca per il 95% delle persone connesse, sistema operativo dell’89% degli smartphone, massimo gestore di caselle di posta e del sistema di geolocalizzazione.
(immagine tratta da remocontro.it)