Hacca mi piace: adoro la sua direttrice che ho ascoltato spesso a incontri e conferenze quando esprimeva sempre idee originali e interessanti sull’editoria e che ha sempre dimostrato un’empatia profonda nei confronti del genere umano, anche se spesso non ce lo meriteremmo. E poi fanno copertine fantastiche. Ho letto parecchi libri del loro catalogo e mi convince la linea di ricerca. Mi sembra che si possa trovare un filo conduttore: romanzi di qualità, che indagano il reale con un occhio proiettato verso l’Altrove, inteso come spazi esterno, luogo interiore, o come dimensione onirica, tra sogno e incubo. Mi ricordo in particolare i libri di Sara Gamberini ‘Maestoso è l’abbandono’ e quello di Stefano Corbetta ‘Sonno Bianco’, che indagano, con voci diverse il tema del distacco, del delirio, nel primo caso verso la poesia, la magia; nell’altro verso il dolore, la perdita. In un’ottica di comprensione di ogni sfumatura, di tutte le diversità. Sono stato contento quando ho visto che avevano stampato un libro di Matteo Meschieri, che già conoscevo per aver letto due suoi libri, usciti per Exorma, altra casa editrice meravigliosa. Claudio Morandini, Leonardo Malaguti e Massimo Roscia, per esempio, tra i nomi da segnalare.
Ma torniamo a noi.
Meschieri non è uno solo uno scrittore, ma un antropologo. Anche un po’ geologo. Un appassionato dei popoli tribali, delle montagne, delle crature dei boschi, degli Appennini. Insieme ad Antonio Vena, spesso, discute dell’ Antropocene, l’era che i geologici identificano con l’attuale, forse quella che potrebbe sancire la nostra scomparsa dalla Terra. Questo romanzo è uscito l’anno scorso. Non è un riflesso degli ultimi mesi, ma non sono stati in pochi recentemente a riflettere su quanto il nostro impatto sull’ecosistema del pianeta fosse arrivato a un punto di non ritorno. Meschieri tra questi.
Nel libro tutto questo c’è, ma rimane sullo sfondo. Con un linguaggio molto particolare, con termini desueti, accanto a frasi brevi, fulminanti, l’autore ci porta in montagna. La storia sa di terra, di pietra e anche il racconto procede come un sentiero di montagna in un giorno di nebbia, che lo vedi, ma dopo un passo, lo perdi, per ritrovarlo quando ormai hai perso la speranza.
Si racconta il viaggio di Libera, bambina che parla con gli spiriti della natura, che riceve dai Patriarchi il compito di trovare uno di loro, fuggito verso le terre degli umani, per scongiurare la scomparsa dei Popoli e interrompere la Guerra delle Cose. Libera si muove in un mondo che vive più dimensioni, con entità pericolose e un Uomo Somaro che l’aspetta da più di 950 anni e cerca di proteggerla. Perché molti non vogliono che lei riesca nella sua missione: gli abitanti delle pianure vanno lasciati al loro destino di morte e di distruzione: non si meritano altro.
Ma Libera non abdica al suo impegno, alla sua promessa. Incontra un uomo, Matteo, che l’ascolta e decide di raccontare la sua storia e l’aiuta a fuggire da un manicomio, dove viene rinchiusa, visto che parla con gli alberi e descrive lotte tra entità sovrannaturali. Un testo importante. Nel senso preciso del termine: ti porta da altre parti.
Se proprio mi posso permettere, nella seconda parte diventa meno incisivo. Quando la protagonista si avvicina alla meta. Forse cala un po’ l’intensità. Anche perché fino lì il racconto era andato come un temporale sulla via Vandelli. Nel finale si acquieta. E lascia qualche rammarico.
Ma è un libro che vale la pena leggere.
Anche solo perché non somiglia a niente di quello che c’è in giro. Almeno, di quello che conosco io da lettore.
Buon cammino.