L’appello, che si può leggere proprio sul sito di Assopace, accende una luce sulla questione israelo-palestinese e sulla lotta delle donne che in quei paesi, unite nella ricerca di una pace giusta, anche nelle ultime settimane hanno levato la loro voce. Insieme dicono no all’annessione e ricordano che proprio su di loro ricadono le maggiori sofferenze del conflitto. Eppure le donne non sono ascoltate, né a livello politico, né a livello sociale. Per questo il loro impegno abbraccia tutti i campi, dalla politica al rifiuto della violenza di genere in tutte le sue forme, come arma di guerra o come oppressione sociale e familiare.
In Israele oltre centocinquanta donne, espressione del mondo della politica, dell’arte, della cultura, dell’università e della società civile – tra loro la cantante Noa, celebre in tutto il mondo per il suo impegno pacifista non meno che per la sua voce straordinaria – si riconoscono accomunate da “un profondo impegno per una soluzione negoziata a due Stati del conflitto israelo-palestinese che garantisca la nostra sicurezza e la piena uguaglianza come donne e come esseri umani”. Da isrealiane esprimono preoccupazione per il piano di annessione del Presidente Trump per il futuro dell’area, che avrebbe “conseguenze disastrose per la nostra sicurezza, la democrazia, il benessere, l’uguaglianza e il futuro di noi stessi e della nostra regione”. Nessuna sicurezza per il loro paese può nascere dall’oppressione della Palestina, lo indicano chiaramente. E “se da un lato il prolungato conflitto ha avuto un impatto negativo su tutte le parti coinvolte, dall’altro ha colpito in modo particolare le donne. I ripetuti cicli di tensione, le guerre e i conflitti emarginano le donne e invitano a molteplici abusi basati sul genere nella vita quotidiana, radicano l’insicurezza fisica, economica, sociale e politica e riducono i valori democratici di libertà, equità e tolleranza reciproca”.
L’annessione unilaterale, in piena pandemia Covid-19 e in spregio alle risoluzioni ONU, “è un atto di coercizione che istituzionalizza la disuguaglianza e si fa beffe della dignità umana”, scrivono ancora le donne israeliane. “Incarna anche l’esclusione di genere. È stata concepita quasi interamente da uomini senza alcun riferimento alle diverse prospettive delle donne di diverse posizioni sociali. E non considera gli effetti negativi del patriarcato radicato sulla legittimità, sul tessuto morale e sulla traiettoria dinamica di Israele e di tutti i popoli della regione. Da un punto di vista umano e femminista, l’annessione non può restare incontestata”.
In Palestina Hanan Ashrawi, più volte ministra, oggi membro dell’esecutivo dell’Olp e paladina dei diritti delle donne, in una intervista a Globalist dichiara che “essere donna in Palestina significa essere parte di un movimento di liberazione nazionale e al tempo stesso battersi per il superamento dei caratteri più opprimenti di una società patriarcale”.
Oggetto di violenze dalla parte israeliana come pure dagli uomini palestinesi, resi ancor più rabbiosi dallo stato di sottomissione nel quale sono ridotti, le donne del suo popolo devono lottare per una doppia liberazione, “dovendosi occupare di mandare avanti famiglie con tanti bambini e spesso da sole perché il marito o il figlio più grande sono in un carcere israeliano. Dobbiamo ricordare che stiamo combattendo contro un’occupazione che è estremamente violenta in sé. Gli studi hanno dimostrato come questo influenza le donne in molti modi, ma anche come eccita gli uomini generando un contesto di violenza. Quando gli uomini si sentono evirati nel senso tradizionale, a causa della violenza dell’occupazione, degli assalti costanti e dell’umiliazione, la loro rabbia e frustrazione è diretta contro donne e bambini. Il sistema patriarcale e macho combinato con il circolo di violenza in cui viviamo, può provocare questo tipo di comportamento”.
“Nel corso degli anni – prosegue Hanan Ashrawi, la prima donna ad aver ricoperto il ruolo di portavoce della Lega Araba – sempre più donne sono state arrestate dall’esercito israeliano, e nelle carceri hanno conosciuto situazioni di promiscuità, le ragazze in particolare, e una pressione fisica e psicologica che spesso ha sconfinato nella tortura. Vi sono in proposito rapporti documentati delle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali”.
Anche Riya al-Sanah, del movimento femminista Tal’at, in una intervista a nena-news.it ha dichiarato che la sua organizzazione è impegnata per la giustizia, l’uguaglianza e il rispetto verso tutti gli esseri umani, indipendentemente da esso e da qualsiasi altra caratteristica personale. E conclude:
“C’è una cultura del silenzio e noi accendiamo una luce, integrandola in quella più ampia della liberazione nazionale. La liberazione del popolo non può essere slegata da quella delle donne. La nostra capacità di affrontare questa realtà dirà molto del nostro futuro di popolo. Non si può avere una nazione libera senza la liberazione delle donne e di ogni settore della società. Solo così avremo una Palestina che non sia solo democratica ma anche giusta”.
Le cantanti israeliana e araba Noa e Mira Awad cantano “Ther’s must be another way”, dev’esserci un’altra via, e la mettono in pratica eseguendo insieme il brano. La canzone è significativa, anche e proprio nell’Eurovision Song Contest. La traduzione, in inglese e in italiano, si trova qui.