Considero molto importante che sia stata promossa da un gruppo di paesi africani. Il testo esprime la “forte condanna della comunità internazionale” per questa pratica che costituisce “una forma di tortura o maltrattamento” ed una “minaccia al pieno esercizio di diritti e libertà fondamentali di donne e ragazze”. La loro cancellazione rientra anche tra gli obiettivi dell’Agenda 2030, dove al punto 5.3 si legge: “eliminare ogni pratica abusiva come il matrimonio combinato, il fenomeno delle spose bambine e le mutilazioni genitali femminili”.
Il cammino da compiere è ancora lungo. Secondo l’OMS circa 200 milioni di donne e bambine convivono con queste cicatrici; di esse, 44 milioni hanno meno di 14 anni e circa il 90% vive in un paese africano. Al totale rischiano di aggiungersi ogni anno 4,6 milioni di bambine e ragazze.
Dal sito Unicef: in 7 Stati (Egitto, Eritrea, Gibuti, Guinea, Mali, Sierra Leone e Somalia) e nel Nord del Sudan il fenomeno tocca praticamente l’intera popolazione femminile. In altri 4 paesi (Burkina Faso, Etiopia, Gambia, Mauritania) la diffusione è maggioritaria ma non universale. In altri 5 (Ciad, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Kenya e Liberia) il tasso di prevalenza è considerato medio – 30-40% della popolazione femminile – mentre nei restanti paesi la diffusione varia dallo 0,6 al 28,2%.
Le MGF vengono generalmente praticate tra i 4 e i 14 anni di età, ma in alcuni paesi vengono operate bambine con meno di un anno di vita, come nel 44% dei casi in Eritrea e nel 29% dei casi nel Mali, o persino neonate di pochi giorni come in Yemen.
Anche gli interventi sono diversi. Si distinguono in clitoridectomia (asportazione del prepuzio clitorideo), escissione (si aggiunge l’asportazione di parte o della totalità delle piccole labbra), circoncisione faraonica o sudanese (escissione integrale del clitoride e delle piccole labbra oltre all’asportazione parziale o totale delle grandi labbra) e infibulazione (l’apertura vaginale viene cucita e ridotta ad un piccolo foro per consentire la fuoriuscita di urina e sangue mestruale).
La pratica è antichissima e ha l’effetto, voluto, di impedire il piacere sessuale femminile. Presso alcune popolazioni avrebbe l’ulteriore scopo di distinguere più chiaramente la donna dall’uomo (il clitoride costituirebbe un residuo di androginia) o di assicurare la fedeltà della donna (nell’antica Roma e in Grecia venivano infibulate le mogli dei soldati che partivano per la guerra).
Tradizionalmente la mutilazione veniva attuata dagli anziani del villaggio, oppure dalle madri o dalle nonne, con strumenti ordinari e improvvisati quali bisturi, rasoi, coltelli, schegge di vetro, pietre appuntite, schegge di legno o di carbone ardenti, in genere senza anestesia. Le conseguenze fisiche erano ovviamente gravissime – emorragie, infezioni, ascessi, setticemia, anemia, tetano… fino alla morte – tralasciando la salute psichica, non meno compromessa.
Negli ultimi anni è in atto un processo di medicalizzazione. Una indagine Unicef (2020) ci dice che 52 milioni di ragazze e donne – vale a dire un quarto del totale, ma l’80% in Egitto e in Sudan, paesi dove la quasi totalità delle donne è mutilata – ha subito questa pratica da un operatore sanitario e la percentuale è doppia tra le adolescenti (34% tra le ragazze di 15-19 anni, contro il 16% delle donne di 45-49), segno che la consapevolezza dei rischi per la salute non sta riducendo la pratica ma la sta traslando in un ambito che dovrebbe garantire maggiore sicurezza.
La direttrice Unicef Henrietta Fore ha affermato chiaramente che medicalizzare le MGF non le rende “sicure, morali o difendibili”. Restano una forma di violazione dei diritti umani che rimuove e danneggia tessuti sani e normali e interferisce con le funzioni naturali del corpo femminile.
Sono diverse le vie da seguire congiuntamente per la cessazione di questa pratica inumana. Le leggi sono condizione necessaria ma non sufficiente. In Egitto, ad esempio, le MGF sono illegali dal 2008 e nel 2016 è stata stabilita una pena per chi le esegue. In Sudan nel maggio 2020 il governo in carica dal 2019 le ha dichiarate illegali, una svolta storica fortemente voluta dalle donne e a loro spettante, dopo che le stesse hanno aiutato in modo decisivo la caduta della dittatura trentennale di Omar al-Bashir. Del nuovo corso sudanese fanno parte le eliminazioni di divieti che opprimevano la popolazione femminile, come quello di indossare i pantaloni, mostrare i capelli o parlare con uomini esterni alla famiglia. Adesso, in Sudan, chiunque pratichi mutilazioni genitali rischia tre anni di reclusione e una multa. C’è da augurarsi che la legge riesca a penetrare nella cultura diffusa.
L’altra via da seguire è proprio il mutamento culturale: finché si continuerà a ritenere la mutilazione una via giusta e necessaria per garantire la rispettabilità, il controllo e il futuro della donna, le famiglie troveranno il modo di aggirare le leggi, con rischi anche maggiori per la salute delle ragazze. In tal senso acquista rilievo la “Women Deliver Conference” (Vancouver, Canada, 3-6 giugno 2019) cui hanno partecipato migliaia di attivisti, giornalisti, studiosi, avvocati, leader politici e altri operatori impegnati per i diritti umani. In quella sede è stato condiviso un appello (Call to Action) che impegna a sostenere dall’interno il cambiamento culturale contro le MGF, affinare la ricerca, sostenere le vittime, dialogare con il sistema sanitario per contrastare l’idea che la medicalizzazione delle MGF sia una soluzione, attivare risorse.
In questo campo, come già in altri, sembra proprio che introdurre un pensiero differente sia un compito delle donne. Negli ultimi 20 anni, secondo l’UNICEF, nei paesi maggiormente interessati, sono raddoppiate le ragazze e le donne che chiedono di fermare le mutilazioni. L’opposizione è più intensa tra le adolescenti. In Egitto, Sierra Leone e Guinea, ci sono almeno il 50% di probabilità in più che le ragazze si oppongano alle MGF, rispetto alle donne adulte.
Infine, l’Italia non è esente dal problema. Una ricerca dell’Università di Milano Bicocca (2017, su dati 2016), attraverso una semplice analisi demografica sull’immigrazione femminile e sulla diffusione delle MGF nei paesi d’origine, ha stimato che in mezzo a noi vivano tra le 61.000 e le 81.000 donne con una mutilazione. La stessa indagine rileva che un quarto delle donne immigrate in Italia approva la prosecuzione della pratica, il che rivela un elevato rischio per le eventuali figlie. Se non bastassero i danni fisici e psicologici conseguenti, va aggiunto che in molti casi la mutilazione determina l’età del matrimonio e comporta l’interruzione del percorso scolastico, condizionando ulteriormente il futuro delle ragazze.
Nel nostro paese la legge 7 del 2006 e le successive linee guida definiscono le MGF come reato e statuiscono interventi di prevenzione e assistenza, nonché formazione del personale sanitario, con stanziamenti variati negli anni a seconda delle leggi di bilancio. Chi provoca o induce una MGF rischia da 4 a 12 anni di carcere, elevati di un terzo se su una minorenne o a fini di lucro, e i medici italiani che la praticano rischiano anche una sospensione dall’esercizio della professione da 3 a 10 anni.
Apprezzo il fatto che in questo ambito si applichi un principio simile a quello già visto per il turismo sessuale con minorenni, sanzionabile in Italia anche quando si svolge all’estero. Nel caso delle MGF la giustizia italiana può intervenire anche se vengono praticate o indotte fuori dall’Italia da un cittadino italiano, o da uno straniero che ha la residenza in Italia, oppure all’estero contro una cittadina italiana o una straniera residente in Italia. Secondo la norma una bambina che vive in Italia, qualunque sia la sua cittadinanza o quella dei suoi genitori, non può subire una mutilazione genitale, né qui né altrove. Resta da capire se ci sono risorse e intelligenze dedicate al monitoraggio del fenomeno, al lavoro culturale e alle indagini giudiziarie, ma è un principio di protezione dei diritti umani nel quale mi riconosco pienamente. Penso al recentissimo rifinanziamento della missione in Libia e mi dispiace che il nostro paese non se ne ricordi sempre, in ogni decisione.
Infine, chi ritenesse le mutilazioni genitali femminili il semplice frutto di una cultura complessa e come tali non giudicabili né perseguibili è invitato a leggere la testimonianza di Ayaan Hirsi Ali, una politica e scrittrice somala naturalizzata olandese impegnata in favore dei diritti umani.