di Emanuele Profumi*
Si sa che il tempo storico delle società è molto variabile. Può essere lineare, circolare, procedere lentissimamente o per salti rivoluzionari. E, come nel caso del Cile in questo momento, avanzare invece a singhiozzo.
Lo scorso 25 Ottobre, oltre 5 milioni di persone hanno archiviato la vecchia e autoritaria costituzione del 1980, voluta da Pinochet e scritta dall’ideologo Jaime Guzman, poi legittimata con la forza e imposta come primo, enorme, rospo da ingoiare nel compromesso che ha avviato il nuovo corso democratico negli anni ‘90 del secolo scorso. Un rospo in gola, che per decenni ha impedito di respirare alla maggioranza della popolazione.
Proseguendo quanto era successo nel 1988, quando il 55% degli aventi diritto aveva rifiutato che Pinochet continuasse ad essere presidente della repubblica per altri 8 anni, domenica scorsa i cileni hanno messo un punto definito ad una costituzione che non hanno mai accettato. La stessa che quasi tutti i governi democratici cileni hanno cercato di rendere più digeribile, attraverso riforme continue, ma senza mai riuscirci.
Come ho avuto modo di documentare recentemente (“Cile, il futuro già viene”, Prospero 2020), questo movimento ha una lunga e profonda radice nelle mobilitazioni popolari capitanate dagli studenti sin dal 2011, quando centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze hanno chiesto una riforma radicale dell’educazione, completamente asservita alla logica privatistica e liberista. Già in quel momento, infatti, un loro manipolo ha rinnovato l’idea che la Costituzione del 1980 non andasse solo riformata, ma fosse da cancellare. Come si sosteneva al momento della sua nascita, all’indomani del fraudolento plebiscito voluto dal dittatore in capo allo Stato. Soprattutto a causa dell’impianto giuridico a difesa dell’economia neoliberista e del ruolo ancora più che ingombrante dell’esercito per la difesa dell’ordine sociale. Le stesse ragioni poi sottolineate dagli studenti. Un binomio non casuale, da tenere presente anche al di fuori dell’esperienza cilena.
La Democrazia liberale cilena, in altre parole, ha continuato a riprodurre il modello economico sviluppato negli anni ’70, e a difendere privilegi e potere dell’esercito, imponendo, per dirla con Johan Galtung ed essere sintetici, una violenza strutturale, culturale e diretta impressionante.
Ecco perché, quando lo scorso anno c’è stata l’esplosione di proteste, l’ormai famoso “estallido social”, iniziato il 18 Ottobre, la parola che più di tutte ha rappresentato il movimento è stata “dignità”. Dopo aver impedito che il governo di Pinochet proseguisse come se nulla fosse, questa volta i cileni hanno rifiutato l’organizzazione sociale, economica e politica di stampo neoliberista che la sua dittatura aveva reso sistematica.
Ritrovando nella parola “rivoluzione”, declinata in modo nonviolento, istituzionale, hanno puntato il dito sulle basi della violenza culturale, denunciando la narrazione mediatica di un “Paese di successo”, del suo supposto progresso e della pretesa ricchezza. Entrambi, si diceva, sarebbero stati i frutti diretti del neoliberismo. Il movimento di protesta ha rintracciato in modo creativo, in sostanza, la sua radice ideologica: un discorso pubblico in cui i media malcelavano continuamente la miseria umana e materiale generale, normalizzandola e manipolando scientemente la percezione della realtà. Una menzogna insostenibile, che ancora in Italia e in Europa viene difesa da più parti.
Insomma, in Cile, dove per la prima volta è stato applicato il modello neoliberista di società, ormai si sono svegliati, e ci stanno chiaramente indicando una possibile strada alternativa. Difficile, non lineare e piena di insidie e ancora da sviluppare realmente. Ma nessuno ha più intenzione di tornare indietro. Con il Plebiscito viene sancito, infatti, che la Democrazia è incompatibile con l’economia neoliberista, il dominio dell’esercito sulla società e un’eredità culturale impregnata di competizione economica e logica autoritaria che impedisce che la solidarietà, l’eguaglianza e la libertà diventino i valori guida delle istituzioni civili. Un sistema giuridico-politico-economico-culturale che le rende compatibili tra loro non si può chiamare Democrazia. Sempre se intendiamo quest’ultima non come mera struttura procedurale, bensì come società in cui questi valori impregnino non solo le istituzioni pubbliche e gli usi e i costumi della popolazione, ma siano la base per sempre nuovi e reali diritti sociali. Prima di tutto, nel caso cileno, quelli dei popoli originari, come i Mapuches.
Ecco perché i manifestanti non si sono fermati, e hanno rischiato la vita sino alla resa politica del presidente miliardario. Neanche davanti alla brutale repressione militare, e all’esplicita dichiarazione di guerra da parte del governo, hanno fatto un passo indietro. Hanno deciso che non fosse più il momento di chiudere gli occhi, di abbassare lo sguardo, di avere paura. Anche a costo di perderli, quegli occhi, hanno sfidato una repressione militare che sposa una strategia repressiva che si sta facendo largo anche in altre parti del pianeta (basti guardare alla repressione dei Gilets Jaunes in Francia). Davanti alle cariche e alle pallottole hanno mantenuto lo sguardo chiaro e la coscienza politica intatta. Le violenze di ritorno che si sono generate contro i carabineros, sono poca cosa e marginali, rispetto al processo di trasformazione nonviolenta della società a cui mira questo complesso movimento sociale.
Dopo qualche settimana, Piazza Italia, al centro di Santiago ed epicentro di tutti i movimenti sociali cileni del passato e del presente, è stata ribattezzata “Piazza Dignità”. Ormai simbolo importante del lungo processo storico di liberazione che inizia negli anni ‘80, “Piazza Dignità” è diventata l’emblema di un cammino rivoluzionario avviato sulla strada lunga e complessa di una trasformazione istituzionale, inclusiva e politica. Un cambiamento nonviolento popolare inedito, che va compreso sino in fondo.
Per farlo, perché, nel frattempo, non prendere a pretesto questa strana indicazione fortuita? L’ associazione casuale che ha “trasformato l’Italia in Dignità”? Così da cominciare, anche nel nostro Paese, a sostenere senza paura che il sistema neoliberista e la militarizzazione della società sono due facce dello stesso dominio, incompatibile con la Democrazia?
*filosofo politico esperto di Sudamerica, insegna “Introduzione ai Peace Studies” all’Università di Pisa.