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Adduormiti ziemo

DiDaniele Lugli

Nov 30, 2020

Secondo il sunto redazionale per l’intervistato – ricordato che la nazione si basa su un vincolo, a partire dalla lingua, dalla cultura, dalla storia che lega i cittadini – la causa della Grande guerra non è stata il nazionalismo, piuttosto la mancanza di democrazia, ad aprire la strada al fascismo sono stati i socialisti con la loro forsennata campagna contro una guerra, per di più vinta, e contro chi l’aveva combattuta, il cosmopolitismo dei ricchi è una vera secessione dalla nazione e causa del populismo”.

Su quest’ultimo punto mi sarebbe piaciuto un approfondimento. L’intervistato annota “in paesi come l’Italia si è creato un gruppo sociale, un’élite, che manda i figli a studiare all’estero, che sa l’inglese benissimo, per il quale il mercato del lavoro che sia a Milano o a Londra non fa differenza, e poi ci stanno tutti gli altri. Ma questo è un cosmopolitismo malato perché accentua una differenza sociale terribile ed è una delle cause del populismo”. È una differenza tollerata benissimo da tutti quanti. I nostri populisti, dopo qualche imprecazione verso i poteri forti, si dedicano a un’occupazione cara a chi detiene il potere: rendere la vita impossibile a chi sta peggio, in particolare ai migranti. Non una parola a loro è dedicata nell’intervista. Poteva non essere fuori luogo visto il tema.

Per il resto la lettura conferma la sintesi che la rivista ne fa in apertura. Apprendiamo infatti quanto errate siano, ad esempio, le idee di Caffi e dei federalisti di Ventotene sul legame tra nazionalismo e guerra e le responsabilità dei socialisti tutti, con esclusione forse di Turati e Treves, nell’avvento del fascismo. Il primo indiziato potrebbe essere Matteotti, contrario alla guerra, prima, durante e dopo. Chissà se lo storico-editorialista – ora si sta “occupando di Andrea Caffi” – si occuperà di Giacomo Matteotti e ci indicherà tutti i suoi errori. La sinistra italiana sembra anche ora veramente impreparata a tutto, preda del “fighettismo radical-chic”. “Sì, Scalfari è stato quello che ha ucciso la sinistra diventandone il segretario in pectore permanente. Dopodiché ora ha passato le consegne al Papa…”. Forse ha pesato la scomparsa di Berlinguer: “Lui aveva quest’austerità pauperista, da classe dirigente vera, veniva da Sassari in cui erano quattro o cinque le famiglie importanti”. Politici di buona razza non ne troviamo certo a sinistra e neppure di popolari.

Alle critiche dell’intervistato ne potrei aggiungere altre, anche se diverse. Forse perché della sinistra, da indipendente, mi sento parte. Mi verrebbe da ricordare, ad esempio, ancora una volta Lelio Basso: “nonostante Marx avesse lanciato il famoso appello ‘proletari di tutti i paesi unitevi’ i proletari se ne sono dimenticati, e i capitalisti se ne sono ricordati”. Al riguardo nell’intervista è detto: “Ma quando mai c’è stato l’internazionalismo? L’internazionalismo ci può essere soltanto quando si è straordinariamente ricchi e quando si hanno grandi interessi imperiali”. È su quel terreno che si gioca la partita decisiva, ma i non privilegiati non ci possono stare. “Storicamente la nazione è l’unico legame sociale che le masse popolari hanno sentito realmente… Se non fossero stati abbastanza convinti di quello che stavano facendo, ma ti pare che si sarebbero fatti mandare all’assalto venti volte sul Carso?”, dice l’intervistato. Certo e gridavano pure “Avanti Savoia!”. Debbono dunque restare nazionalisti e monarchici per sempre.

Così EGdL ora raccomanda: “attenzione alla Meloni, a mio avviso è una lucida intelligenza politica. E non è antipatica. Tra tutti i leader politici italiani è l’unica veramente popolare, perché viene dal popolo, viene dalla Garbatella, infatti parla ancora con accento romanesco”. Una garanzia! Invece “quelli di sinistra sono ormai poco ‘popolari’ e i grillini sono dei piccoli borghesi, basta guardare Di Maio”.

Quest’annotazione mi ha risvegliato un ricordo. Nel febbraio dello scorso anno c’è una sua intervista sul Foglio. “Abbiamo sottovalutato la loro stupidità”, spiega l’editorialista del Corriere della sera, assiso sul divanetto blu del suo rifugio pariolino. “Abbiamo fatto un’errata apertura di credito, abbiamo pensato che avrebbero frequentato una scuola politica, che avrebbero letto almeno un libro di Angelo Panebianco, invece si sono rivelati il nulla assoluto”. Oltre a non aver letto nemmeno un libro di Panebianco, Di Maio sembra quasi voler correggere l’accento irpino. Di questo però EGdL non l’accusa.

Si noterà che l’intervistato nel “suo rifugio pariolino” usa il plurale modestiae e riconosce il suo abbaglio. Nel febbraio del 2019 ha però le idee chiare. “Salvini è un oratore politico: stabilisce con la folla un rapporto emotivo e sintonico. Oggigiorno, con un Pd votato al suicidio totale e i 5 Stelle condannati allo sprofondo, la Lega è il partito con le maggiori potenzialità di sviluppo. Salvini ha l’opportunità di creare un contenitore completamente nuovo ma è ancora alla prova del fuoco”. Nell’intervista a Una Città, mentre la Meloni, si sa, “È differente da tutti gli altri: Salvini è un finto popolare; poi chi c’è? Berlusconi?”. E così resta solo Giorgia Meloni. Bisogna sì guardarla con attenzione, credo anch’io, non perché simpatica e della Garbatella, piuttosto perché leader della destra europea e legata alla destra americana, che la foraggia generosamente.

Sempre nell’intervista su Una Città, lui guarda la realtà con gli occhi dello storico. “Io penso che la formazione sociologica di tanti intellettuali li porti a vedere la realtà in modi diversi da quello degli storici. Certo, porta a considerare i fatti, ma nell’ambito di schemi teorici. Gli storici invece sono dei miserabili empiristi, ragionano terra terra insomma, non hanno mai alcuna pretesa di enunciare verità o leggi”. Ciò non gli impedisce improvvisi, irresistibili amori, attentamente motivati. Non ne avrebbero bisogno. Da noi si dice che non ci sono spiegazioni: “Santantoni al s’era inamurà in un busghin”, il popolare santo si era innamorato di un porcello, con lui spesso ritratto.

“Quella del professore è stata un’infatuazione fugace” ha annotato l’intervistatrice del Foglio a proposito della scelta grillina. Quella per Salvini è durata forse meno ed è finita. Questa per la Meloni chissà. Non sappiamo quale fatale donna o uomo lo sedurrà nel prossimo futuro. Potrebbe essere di nuovo Di Maio, solo che leggesse almeno un libro di Panebianco e ammettesse, senza nascondere le sue origini, il fallimento: ‘amm fatto fetecchia!. Allora potrebbe raccoglierne l’invito a riposare sul suo bel divanetto blu. Adduormiti ziemo.

Di Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941, Lido di Spina 2923), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà nella segreteria dal 1997 per divenirne presidente, con l’adozione del nuovo Statuto, come Associazione di promozione sociale, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali - argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni - e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948

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