Periodicamente, per esempio, a destra o a manca, qualcuno tira fuori la proposta di introdurre il servizio civile obbligatorio, mentre – quando è al governo – non riesce neanche a garantire il diritto a svolgere un anno di difesa civile del Paese (è questa la principale finalità del servizio civile) a tutti i giovani che si candidano per farlo, secondo il principio di universalità.
Questo esercizio retorico si è ripetuto ancora una volta con il neo-segretario del Partito Democratico, Enrico Letta, che ha esordito nel suo ruolo con la proposta – tra le altre cose – di portare a 16 anni il diritto di voto. Una proposta che in sé non è né buona né cattiva, ma che incardinata nella situazione esistente appare come una fuga dalla realtà. Qual è il senso di evocare questo abbassamento dell’età del voto mentre da oltre un anno questo Paese non si riesce nemmeno a garantire – ai sedicenni e non solo – quella fondamentale palestra di esercizio della democrazia che è la scuola in presenza? La scuola non è solo la somma degli apprendimenti cognitivi attraverso lo studio individuale delle discipline curricolari, che si è cercato di sostituire bene o male con la didattica a distanza, la scuola è anche – e direi soprattutto – l’agorà nella quale gli adolescenti sperimentano ed esercitano le competenze sociali, il bisogno di riconoscimento, la convivenza delle differenze, la capacità di stare al mondo con gli altri, in una parola la democrazia. Che non può avvenire nell’isolamento digitale.
L’esito di questa sottrazione – sottolinea il prof Gustavo Pietropolli Charmet in una recente intervista – “sono ragazzi spaesati, annoiati, spaventati, soli, abbandonati, che si sentono privati di valore, che si rifugiano in internet che restituisce un po’ di scuola con l’apprendimento a distanza, e restituisce un po’ relazione con gli amici e i compagni ma è una restituzione che vale fino ad un certo punto. Di questo dovremmo preoccuparci, di creare dei “disoccupati” a quindici anni: è un trauma che avrà delle conseguenze e finirà per esprimersi con una rivolta o con una grande sofferenza diffusa… almeno la scuola bisogna restituirgliela” (qui l’intervista integrale).
Ed è stato esattamente l’esercizio partecipato di democrazia di cui si nutre l’esperienza scolastica – essenziale ancora di più adesso che altri luoghi di formazione alla partecipazione politica sono sostanzialmente evaporati (se non quelli legati all’estrema destra, vedi Christian Raimo, Ho 16 anni e sono fascista, 2018) – che aveva portato milioni di studenti ad essere presenti nelle strade e nelle piazze nel 2019, contemporaneamente in Italia e nel mondo, per rivendicare il diritto al futuro, ossia per obbligare i governi a prendere tutte le misure necessarie per fermare i cambiamenti climatici, prima che sia troppo tardi. E, come una profezia che si auto avvera, pochi mesi dopo una pandemia strettamente correlata proprio ai cambiamenti climatici – mentre ha ucciso milioni di anziani – ha sbattuto quegli stessi giovani in un lunghissimo ritiro sociale forzato, che da rifugio individuale è diventata esperienza di massa. Privandoli anche del presente, oltre che del futuro.
Non è quindi il voto ai sedicenni, come strumento formale da utilizzare ogni cinque anni, ciò di cui hanno oggi bisogno i giovani, ma di essere ascoltati davvero tutti i giorni, a cominciare sofferenza che li sta attraversando, nelle sue diverse manifestazioni. Prima del voto ai sedicenni, si tratta di mettere in agenda la riapertura al più presto delle scuole e delle università, di rendere queste ultime accessibili a tutti, di investire molte più risorse sull’istruzione, la cultura, l’occupazione giovanile sana e vera (tutti ambiti in cui siamo fanalino di coda in Europa, da cui deriva anche l’attuale chiusura forzata e prolungata delle scuole), di garantire a tutti il diritto al servizio civile universale, di costruire politiche capaci di futuro a partire dalle radicali scelte ecologiche necessarie e urgenti, di fare politiche di giustizia sociale per combattere la povertà economica che genera anche povertà educativa. Ossia i giovani hanno bisogno di politiche sostanziali che consentano loro di essere protagonisti, qui ed ora, della costruzione del loro futuro, non di improbabili fughe dalla realtà. E se proprio si vuole spostare un limite d’età, si cominci col portare a 18 anni l’obbligo scolastico.