La canta Jean Ferrat cinquanta anni fa. Ora a me piace ricordarla per il concorso degli italiani, dei garibaldini in particolare. In uno dei volumi “Dall’Unità ad oggi” della Storia d’Italia c’è di Robert Paris “L’Italia fuori d’Italia. Gli italiani alla Comune di Parigi”. Ne traggo qualche notizia.
Innanzi tutto quanti sono. Vengono fatte stime inverosimili: fino a 10 mila. “Un italiano che combatte dalla parte opposta, un ufficiale della legione straniera francese, un versagliese, dunque, Fortunato Marazzi, ne riduce il numero a 217”. Trovo nomi di garibaldini che riporto: Menotti Garibaldi, Amilcare Cipriani, Adolphe Alphonse Assi, Paolo Tibaldi, Napoleone La Cecilia, Napoleon Biondetti, Paul Alessio, Romain Capellaro. Di qualcuno solo il cognome: Mizara, Pisani, Moro, Pugno. Trovo pure Vitale Regis, Pier Luigi Savio, Giuseppe Carusi, certamente “internazionalisti”, non se con un più stretto legame con Garibaldi. Potrei aggiungere Ricciotti Garibaldi – a Parigi per osservare gli sviluppi della Comune, su incarico del padre, con la raccomandazione di non farsi coinvolgere troppo – e Carlo Piazza, negli Chasseurs des Alpes dell’Esercito dei Vosgi, a Parigi dal 15 aprile.
Ai nomi posso aggiungere qualcosa. Menotti Garibaldi – già col fratello Ricciotti accanto al padre nella campagna dei Vosgi – eletto deputato della Comune nell’aprile, sfugge al massacro. Amilcare Cipriani – volontario a quindici anni alla battaglia di San Martino (1859), promosso caporale, disertore per unirsi ai Mille (1860) e promosso ufficiale, tornato nell’esercito diserta nuovamente per unirsi a Garibaldi nella spedizione per Roma (Aspromonte 1862) – è colonnello della legione garibaldina a difesa di Parigi, prima della Comune. Due volte condannato a morte per la sua attività nella Comune, è deportato. Adolphe Alphonse Assi il 18 marzo all’Hôtel de Ville di Parigi: “In nome del popolo si proclama la Comune di Parigi!”. Di famiglia italiana, operaio in Svizzera, nel 1859 è garibaldino. Il 18 marzo è colonnello e governatore dell’Hôtel-de-ville, quindi deputato alla Comune. Condannato a morte e poi deportato. Paolo Tibaldi, già con Garibaldi alla difesa della Repubblica romana, nominato generale della guardia nazionale di Parigi, si reca a Caprera per chiedere, senza successo, a Garibaldi di assumere lui la carica. Napoleone La Cecilia, partecipa alla spedizione dei Mille come capitano del genio. A Parigi il 24 aprile è nominato generale. È sulle barricate nella difesa della Comune. Si rifugia poi a Londra. Napoléon Biondetti è chirurgo del 233° battaglione federale. Paul Alessio è nel Consiglio di guerra. Romain Capellaro – scultore, nato in Italia e naturalizzato francese, già nella Guardia Nazionale – è eletto delegato al Comitato Centrale della Comune.
Non trovo legami particolari di Garibaldi con gli altri citati. Neppure procedo oltre i cognomi di Mizara, comandante del 104° battaglione; Pisani, aiutante di campo di Flourens, Moro, comandante del 22° battaglione. Di Pugno trovo il nome, Raoul, e qualche notizia: di padre italiano ne eredita la passione musicale. Suona in pubblico all’età di sei anni. Nella Comune fa parte della Commissione per gli aiuti all’arte e agli artisti musicali e, diciannovenne, è Direttore del Conservatorio. Diverrà direttore musicale dell’Opera di Parigi. Qualcosa trovo anche degli “internazionalisti” citati, ma non sto a riportare nulla. Che tra gli italiani, magari pure garibaldini, ci fossero dei ferraresi? Chi poteva dirmelo o certamente averne traccia e il piacere di seguirla non c’è più.
Anche così sento però vicina e di conforto la breve esperienza della Comune. L’assemblea, eletta il 26 marzo 1871 ha proclamato autonomia municipale, separazione tra Chiesa e Stato, gratuità e laicità dell’insegnamento per ragazze e ragazzi. Ha promosso l’eguaglianza donna-uomo e aperto l’accesso alle responsabilità pubbliche agli stranieri, in nome della Repubblica universale. Ha affermato il diritto alla cultura e alla fruizione delle opere d’arte, al lavoro e ai diritti sociali. I beni sono pubblici. In poco più di due mesi, nel corso di una guerra atroce, ha permesso di intravvedere azione pubblica e cittadinanza attiva in una prospettiva di eguaglianza e liberazione: un tempo di speranza, come nella canzone, allora molto ripetuta, Le temps des cerises. Per questo la repressione dei “versagliesi” (sono tanti anche ora) è stata così dura, impotente però a cancellarne memoria e richiamo.
A me ricorda pure la Repubblica partigiana dell’Ossola, durata un mese di meno della Comune, ma, come scrive Giorgio Bocca, “quanto a rinnovamento democratico, fece più quella piccola repubblica in quarantaquattro giorni che la grande repubblica nei due decenni seguenti”. E il successivo mezzo secolo non ha migliorato le cose. “Chi è stato nell’Ossola fra il settembre e l’ottobre ´44 ha veramente respirato l’aria esilarante della libertà, non corrotta dalla consuetudine”, scrive Gianfranco Contini. “Il fine è quello di restituire l’Italia agli italiani… poiché l’azione per esempio ossolana è un’azione italiana in piccolo volta all’azione italiana in grande, è la possibilità ossolana di essere italiani”. L’azione è aperta al mondo. Non teme l’utopia: “Utopia la federazione delle Nazioni, l’abbassamento delle frontiere? Riderà bene chi riderà ultimo. Utopie parevano ai loro tempi l’unità d’Italia, l’unità della classe lavoratrice, la liberazione dalle dittature per non dire la possibilità di votare”.
Vorrei che il mio paese e l’Europa, per cominciare, si ricordassero di queste esperienze. Ai funerali di Bruno Trentin – un sindacalista come ce ne vorrebbero ancora – Giovanna Marini ha cantato, era un desiderio di Bruno, Le temps de cerises assieme a We Shall Overcome e Bella ciao. Stanno benissimo insieme. Io propongo però solo Le temps de cerises nell’interpretazione, per stare un po’ in tema, dell’italo–francese Ivo Livi, più noto come Yves Montand