Ci sono delle storie che sembrano difficili da raccontare. Come quando, a scuola, ti trovavi a fare il tema e guardavi le tracce scritte sulla lavagna, poi tormentavi la penna in cerca di un’ispirazione che spesso tardava ad arrivare. In quanti, onestamente, avrebbero scelto un titolo che avesse recitato, più o meno, così: “Racconta la vita dal punto di vista di un tetraplegico, fermo in un letto con le sbarre, che non parla assolutamente, ascolta solo quello che dicono nella sala d’ingresso e vede solo i muri della stanza e, quando viene girato, una porzione di esterno dal vetro della finestra”.
Sarei pronto a scommettere che in pochi avrebbero scelto questa opzione. Ma Michele Cecchini, scrittore vero, ha scelto proprio questa storia ed è riuscito, affrontando una materia così complessa, almeno a prima vista, a costruire un romanzo che finisce, addirittura, per essere leggero. E questa è una qualità dei grandi narratori, intendendo questo termine, leggerezza, nel significato che gli attribuisce Italo Calvino, nella prima delle sue ‘Lezioni americane’: la capacità di saper trovare l’essenza di ciò che appare complesso, riuscendo a districare i grovigli che impediscono di cogliere il senso profondo delle cose. Saper planare sulla realtà, osservandola dall’alto, da una giusta distanza, quella che permette di sentirne il respiro, il suono più nascosto. Per Calvino il simbolo di questa dimensione è Mercurio che con i suoi calzari alati volteggia tra gli esseri portando messaggi, trasferendo storie, condividendo parole.
Cecchini riesce in un’operazione che sembra impossibile, eppure la rende così fluida e lineare da farcela apparire semplice. Come un’operazione matematica che trova il numero primo, che scompone i termini di un’articolata proporzione, scoprendo il valore dell’incognita.
E la chiave sta nel linguaggio.
Colui che parla, che si autodefinisce “un coso che ha due braccia e due gambe, ma non funziona nulla” è, prima di tutto, uno che ascolta, anche perché non può permettersi altro, visto che non è in grado di esprimere alcun suono. E rielabora, secondo la sua prospettiva i discorsi dei ‘normali’. Qui sta il meccanismo vincente di questo lavoro così dettagliato: trasferire su un foglio quello che può comprendere una mente alla quale manca qualsiasi esperienza concreta.
Che cosa finiscono per essere, per lui, parole come tirocinante, gavetta, pazienti, veterano, trattamento.
Giulio, così si chiama il protagonista di questo romanzo, ascolta mozziconi di frasi, pezzi di discorsi e si crea un mondo in cui esse hanno un significato, che è altro rispetto a quello che noi, ‘i normali’ attribuiamo loro. Ma la domanda è: non ha forse ragione lui? Il mondo in cui vive, quello della campagna fiorentina degli anni ‘60, è un luogo in cui ci si vergogna di questi ‘infelici’, tanto che li si nasconde in soffitta o, nella migliore delle ipotesi, in una camera buia, quando arrivano gli ospiti.
Eppure Giulio è tutto tranne che ‘infelice’ e al suo sguardo candido, di una persona che assapora ogni istante, consapevole che potrebbe essere l’ultimo, gli scontenti, gli arrabbiati, gli assurdi siamo proprio noi, con le nostre meschinità, le gelosie, le invidie.
Noi che viviamo tra le bugie, i sotterfugi che distruggono relazioni, creano distanze, aprono voragini e tutto questo sembra, agli occhi di questo ragazzo di sedici anni, che sembra averne otto, uno spreco di tempo, di energie, imperdonabile.
Giulio ci osserva muoversi, affannarsi, senza riuscire a comprenderne il senso e lasciandoci con l’atroce dubbio che, davvero, forse un senso profondo al nostro agire non ci sia. Tant’è che nella via Cadorna, dove il ragazzo vive, cominciano a verificarsi frequenti casi di letargia: ‘i normali’ si addormentano, così, all’improvviso, come se il vivere in questo modo, quasi all’oscuro di sé, li portasse ad addormentarsi, di botto, quasi a dimenticarsi un presente così privo di stupore, di incanto, di meraviglia.
Infatti, tutti coloro che si muovono intorno a ‘il coso’ hanno doppi fondi, dal padre, poco adatto al rapporto con gli altri, privo di ambizioni e perciò segregato in uno spazio di biasimo, alla madre, che sogna un’altra vita, ma non fa niente per cambiarla, accusando chi le sta intorno della vacuità della propria esistenza. Anche i nonni, con i quali il ragazzo vive, sono figure che indossano maschere: lui del grand’uomo, del capo famiglia, che vorrebbe regolare la vita di tutti, ma che si trova costantemente a fronteggiare imprevisti e malintesi che lo scombussolano; la nonna, credente, donna di Chiesa, che aspetta un miracolo, che non arriva mai.
L’unica figura vera è quella di un dottore, mutuato sulla figura vera di Adriano Milani, fratello di colui che da tutti è ricordato come Don Milani, che, per primo, in Italia ha cominciato a curare ‘gli infelici’ come esseri umani, in un centro a Firenze.
Grazie all’incontro con questo medico, la vita di Giulio cambia e forse non è un caso che noi veniamo a conoscere il nome di questo ragazzo solo dopo questo momento, come se l’identità vera del protagonista si inizi a formare solo a partire da questo riconoscimento.
Anche qui Cecchini fa un ricamo: molti sarebbero partiti da qui, dando a questo snodo un ruolo centrale nel racconto. E invece no. La storia è quasi tutta svolta prima, proprio per farci sentire ancora di più la chiusura, la segregazione subita da questo ragazzo, circondato, sì, da affetto, ma sbiadito, figlio della vergogna. Quando si apre una nuova luce, non c’è più tanto bisogno di raccontare. Già lo sentiamo cosa accadrà.
Non c’è bisogno. Il resto ce lo possiamo immaginare da soli.
Gran bel libro che non solo conferma il talento di Cecchini, già evidente ne ‘Il cielo per ultimo’ sempre di Bollati Boringhieri, ma che ne testimonia un salto di qualità profondo. Vi è qui una consapevolezza nell’utilizzo del linguaggio più netta, una maggiore sicurezza nella scelta del suono della frase, una musicalità del testo che fanno di questo romanzo uno dei migliori di quelli letti, almeno fino a oggi, in questo 2021.
Buona lettura.
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