È stata recentemente pubblicata una raccolta di scritti di Alexander Langer intitolata Quei ponti sulla Drina. Idee per un’Europa di pace (a cura di Sabina Langer ed Edi Rabini, Infinito edizioni, 2020). Il volume raccoglie alcune riflessioni di Langer, scritte tra il 1991 e il 1995, sulla situazione nei Balcani, sul nazionalismo e sull’integrazione europea. Comprende, inoltre, una prefazione di Paolo Bergamaschi, un’introduzione di Sabina Langer, una postfazione di Adriano Sofri e una breve nota autobiografica di Langer del 1986.
Nel volume si ritrova la passione, l’energia e la lungimiranza dell’impegno pacifista di Langer. In uno dei primi scritti che compongono il volume, intitolato Pace e ordine mondiale, per esempio, egli si schiera programmaticamente a favore di un movimento pacifista che sappia elaborare una strategia di lungo periodo e prevenire i conflitti, non solo mobilitarsi quando la violenza è ormai scoppiata. Un simile pacifismo, secondo Langer, dovrebbe iniziare dalla lotta per ridimensionare la forza della sovranità degli stati. Più precisamente, egli sostiene che l’obiettivo di un movimento pacifista efficace dovrebbe essere quello di rendere i confini statali permeabili al potere dell’opinione pubblica internazionale, soprattutto su questioni che riguardano ogni abitante del pianeta (come il rispetto dei diritti e l’ecologia). Questo ridimensionamento della sovranità statale andrebbe sostenuto da autorità giurisdizionali capaci di porre limiti effettivi agli stati, e di far rispettare le proprie decisioni attraverso la forza di una polizia internazionale.
Langer torna sul tema delle caratteristiche del pacifismo in un breve saggio del 1993 intitolato Pacifismo tifoso, pacifismo dogmatico, pacifismo concreto. Egli appare preoccupato che il pacifismo manchi di concretezza e si limiti a proporre un ideale astratto di armonia. Al contrario, a suo giudizio, il pacifismo dovrebbe essere fondato su una conoscenza precisa della realtà dei conflitti; tenere conto che la vita dei popoli è complicata, che la forza non può esservi semplicemente espunta, e che ogni manicheismo è fuori luogo. Il pacifismo concreto che Langer ha in mente, insomma, mira alla conciliazione e alla mediazione, non all’affermazione di dogmi né a urlare slogan vuoti.
Naturalmente, in questi scritti, Langer non si abbandona a facili speranze sulle possibilità di un assetto internazionale pacifico e, anzi, è consapevole dei pericoli che si profilano ben visibili all’orizzonte. Il pericolo maggiore – Langer ne parla in Il demone del nazionalismo del 1991 – è che riemerga il nazionalismo, con i suoi corredi di fanatismo, xenofobia e perfino razzismo. Tale pericolo, a suo giudizio, non riguarda solo i Balcani, ma anche la stessa Europa che, malgrado il processo di integrazione in atto, fatica ancora a superare le logiche egoiste e a scegliere prospettive davvero lungimiranti. Il demone del nazionalismo, dunque, va combattuto nei Balcani, prima che si espanda al resto del continente. Per farlo, Langer propone di fermare le violenze con un intervento militare (di polizia internazionale); e contestualmente di favorire il dialogo politico tra le parti in lotta, e di aprire ai popoli della ex Jugoslavia la possibilità concreta di integrarsi nell’Unione Europea, in modo che trovino una casa comune più grande delle loro contrapposizioni.
A partire dal 1994, l’attenzione di Langer si concentra sull’Europa. Ormai è chiaro che nei Balcani il fallimento dei propositi di pace è profondo, ed egli sembra cercarne le ragioni nella debolezza dell’Europa, nella sua incapacità di diventare una vera forza di pace. Il tema è discusso in Il ruolo dell’Europa nella crisi del Kosovo, del 1994, e più approfonditamente, in L’Europa muore o rinasce a Sarajevo del 1995. In questi saggi, Langer torna a denunciare la permanenza del nazionalismo, del “sacro egoismo” tra i paesi europei. Soprattutto, egli richiama l’attenzione sul fatto che l’Europa non è stata in grado di offrire ai popoli balcanici la prospettiva dell’integrazione, dell’accoglienza; non è stata in grado, insomma, di mettere in pratica i principi democratici e inclusivi che proclama.
Nella postfazione, Adriano Sofri scrive che leggere Quei ponti sulla Drina è come ripercorrere una tragedia. Una doppia tragedia: quella di Langer e quella della ex Jugoslavia. Sappiamo, infatti, che Langer porrà fine alla sua vita il 3 luglio 1995; pochi giorni dopo (11 luglio 1995) il generale Mladic entrerà a Srebrenica. Non è però in un suicidio, né nella strage di innocenti compiuta dall’ennesimo macellaio della storia che consiste la vera sconfitta del pacifismo di Langer. Essa, piuttosto, sta nel fatto che le sue idee per la pace (una polizia internazionale, corpi di pace per favorire il dialogo, un pacifismo concreto) sono state affossate o scippate a chi davvero aveva a cuore la buona sorte dei popoli da parte dei potenti della terra, e applicate nei Balcani in modo distorto. Ogni pratica volta a costruire il dialogo e le condizioni della pace è stata lasciata cadere; e, soprattutto, alla forza di polizia internazionale immaginata da Langer si è sostituita la violenza distruttiva dei bombardieri della NATO che, dopo quasi un decennio di guerre sanguinose, hanno soffocato le mire di Milosevic sul Kosovo in un ulteriore bagno di sangue innocente.
La storia ha replicato molto duramente agli sforzi di Langer per la pace e di certo non c’è da stupirsene, perché da sempre proprio simili repliche sono riservate a chi si oppone alla brutalità del secolo. Bisogna saperlo (e di sicuro Langer lo sapeva) e, nonostante tutto, continuare nell’impegno. Alla fine degli anni ‘70, Norberto Bobbio proponeva l’immagine del gigantesco e infernale meccanismo della guerra. Un meccanismo che non si ferma facilmente, ma contro il quale non si può rinunciare a sollevare della polvere nella speranza che un granello si infili nei suoi meandri e lo fermi. Questo ha fatto Langer e questo è il compito che spetta a chiunque abbia a cuore la civiltà.
Alberto Castelli
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