Chiunque abbia avuto occasione di riflettere sulla storia e sulla politica non può non essere consapevole dell’enorme ruolo che la violenza ha sempre avuto negli affari umani, ed è a prima vista piuttosto sorprendente constatare come la violenza sia stata scelta così di rado per essere oggetto di particolare attenzione. Questo dimostra fino a che punto la violenza e la sua arbitrarietà siano state date per scontate e quindi trascurate: nessuno mette in discussione o sottopone a verifica ciò che è ovvio per tutti1.
La violenza è l’oggetto di attenzione di questo libro e fornire un contributo a decostruirne il suo essere ovvia per tutti – come denunciato da Hannah Arendt – e a prepararne le alternative è l’obiettivo di queste pagine, attraverso una selezione ragionata di articoli pubblicati sui miei blog durante la pandemia di covid-19. Ossia durante un lungo periodo di crisi globale che, come tutte le crisi, mentre rende esplicite le molte contraddizioni che l’hanno generata, può rappresentare l’occasione per cambiare strada, porre rimedio agli errori del passato, aprire nuove e differenti prospettive di sviluppo. La violenza e la sua ovvietà, il suo essere l’implicito culturale da non mettere in discussione – emerso in tutte le sue implicazioni durante quest’ultima pandemia – è il fondamentale problema della condizione umana, tanto sul piano personale che collettivo. Per questo è necessario metterla a tema, sottrarla all’ovvio, dirne la verità che è aletheia, cioè disvelamento, e indicarne alcune via di superamento.
Il 26 aprile 2021 è stato pubblicato l’annuale rapporto del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) l’autorevole organismo indipendente internazionale che ogni anno compila un rapporto sulle spese militari globali, relativo all’anno precedente. Ebbene, il rapporto registra che nel 2020, nel pieno dell’imperversare della pandemia, i governi nel loro insieme hanno aumentato ancora, per l’ennesima volta, le spese militari, attestate ormai su quasi 2000 miliardi di dollari. Ciò significa che ogni giorno, mentre cresce il triste conteggio dei morti a tutte le latitudini, i governi spendono complessivamente in armamenti 5,4 miliardi di dollari, che vengono dunque sottratti alle spese sanitarie, sociali, civili, culturali. Cioè enormi risorse scippate all’impegno per salvaguardare e proteggere vite umane e consegnate all’industria che, invece, progetta, costruisce e vende strumenti per uccidere vite umane.
Una cifra quotidiana, per esempio, ampiamente superiore al budget biennale fornito dai governi all’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) pari a 4,8 miliardi.
All’interno di questo dato, l’Italia si colloca all’undicesimo posto al mondo e al quarto posto in Europa, dove invece è ultima in tutte le graduatorie virtuose dell’Eurostat, per esempio per investimenti per l’istruzione, la cultura, la ricerca, il numero di laureati; ed è prima per disoccupazione giovanile e per neet, giovani che non studiano, non lavorano, non seguono percorsi formativi, con una percentuale superiore del 10% alla media europea. Nel nostro Paese, in particolare, la continua crescita della spesa pubblica militare negli ultimi dieci anni, ha corrisposto al progressivo taglio degli investimenti pubblici sul Servizio sanitario nazionale, che è stato decurtato di oltre 37 miliardi di euro mentre la spesa militare nei bilanci dei governi è schizzata ad oltre 26 miliardi annui con un aumento, nello stesso periodo, di oltre il 20%. Non a caso già nel 2012 Famiglia Cristiana pubblicava la significativa vignetta, che è circolata per anni sui social, che rappresenta un degente in ospedale costretto a camuffare il proprio letto in cacciabombardiere F35, affinché non venisse tagliato.
Insomma non solo non abbiamo svuotato gli arsenali per colmare i granai – secondo la via maestra indicata dalla Costituzione e ribadita dal presidente Sandro Pertini nel suo discorso di insediamento al Quirinale nel 1978 – ma per riempire ancora di più i primi, abbiamo svuotato anche gli ospedali dalla loro capacità di prendersi cura della salute di tutti.
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Allora, la domanda da porsi è perché tutto questo sia possibile senza un’attenzione vera da parte della stampa (salvo rare eccezioni), delle forze politiche e sociali su questi temi e senza un’indignazione generale? Perché non c’è una mobilitazione civile e intellettuale rispetto a questa scandalosa enormità, se non da parte delle sole organizzazioni impegnate da sempre, meritoriamente, per la nonviolenza e il disarmo?
Ciò non accade perché, io credo, siamo completamente immersi all’interno di quel sistema di violenza che Johan Galtung ha definito “triangolo della violenza”, composto dalla violenza diretta, dalla violenza strutturale e dalla violenza culturale, dove
la violenza diretta è un evento; la violenza strutturale è un processo con alti e bassi, la violenza culturale è un’invarianza, una permanenza, che rimane essenzialmente la stessa per lunghi periodi di tempo, data la lentezza delle trasformazioni della cultura di base2.
La prima e più evidente violenza diretta è quella che si manifesta nelle guerre, nei terrorismi, negli omicidi, nei comportamenti violenti ai quali viene dato socialmente e mediaticamente ampio risalto, soprattutto se avvengono nel nostro Paese o nella parte occidentale del pianeta. La seconda e più indiretta e nascosta violenza strutturale si manifesta nel modello di sviluppo economico fondato sullo sfruttamento del lavoro, sulla rapina delle risorse naturali, sullo stupro dell’ecosistema; ma anche nella politica che sceglie, per esempio, di spendere per le armi anziché per scuole e ospedali o nelle leggi che sanciscono “decreti sicurezza” che trasformano il Mediterraneo in un cimitero di disperati. Inoltre, la violenza strutturale è anche quella esercitata da alcuni poteri, per certi versi occulti, come per esempio “il complesso militare-industriale”, rispetto al quale metteva in guardia negli USA già il presidente Dwight Eisenhower, il quale, in quanto ex generale, se ne intendeva. È il potere acquisito dal complesso militare-industriale anche nel nostro Paese che spiega la crescita costante della spesa militare italiana, indipendentemente dal colore dei governi e anche dalle intenzioni dei partiti prima di andare al governo, come il folle programma di acquisto pluriennale dei cacciabombardieri F35, che procede imperterrito governo dopo governo. Senza e con la pandemia.
Tuttavia, la violenza strutturale e gran parte della violenza diretta non sarebbero possibili senza la violenza culturale che legittima e rende un implicito culturale – da non mettere in discussione, ossia “ovvio per tutti” – l’uso della violenza, la costruzione dei mezzi a essa necessari e lo spreco di risorse pubbliche a questo scopo.
Scrive Galtung:
Per violenza culturale intendiamo quegli aspetti della cultura, la sfera simbolica della nostra esistenza – esemplificata da religione e ideologia, lingua e arte, scienza empirica e scienza formale – che possono essere usati per giustificare o legittimare la violenza strutturale3.
Essa fa sì che
la violenza diretta e strutturale appaiano e addirittura vengano sentite come giuste, o almeno non sbagliate4.
Gli strumenti e i luoghi nei quali si genera, si esercita e si diffonde la violenza culturale ai nostri giorni, impercettibilmente ma pervasivamente, sono molteplici.
Oggi la violenza, scrive Byung-Chul Han in apertura del suo Topologia della violenza, si trasferisce dal visibile all’invisibile, dal corporeo al mediale, dal reale al virtuale, dalla dimensione fisica a quella psichica, dal negativo al positivo e si ritira in spazi sottocutanei, subcomunicativi, capillari e neuronali, così da dare l’impressione – fallace – di scomparire5.
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In queste pagine – che si propongono di essere una sorta di contro-narrazione di una fase drammatica della nostra storia presente – non si va alla ricerca delle radici antropologiche della violenza, né se ne fa un trattato etico, impegni che meriterebbero ben altro approfondimento. Qui si mettono a tema, fenomenologicamente, alcuni esempi di violenza culturale, nel linguaggio, nei media, nella narrazione pubblica della pandemia, di violenza strutturale, a cominciare dalla contraddizione tra le minacce reali e le difese approntate, insieme all’empatia nei confronti delle vittime di entrambe le forme di violenza, a cominciare dai giovani a cui viene rubato il futuro. E si propongono alcune uscite di sicurezza dall’epoca delle molte “pandemie”, non solo da virus, delle piste di lavoro per impegnarsi nel disarmare la violenza culturale – ispirati anche dal pensiero e dall’azione di figure come Aldo Capitini e Alex Langer che hanno speso la vita a questo scopo – fondate sulla convinzione che, dovendo aggredire direttamente questo livello profondo di violenza al fine di poter disarmare davvero anche quelli più superficiali, ormai solo l’educazione ci può salvare. Non un’educazione qualsiasi, ma l’educazione intenzionale alla nonviolenza.
[Dalla Introduzione al libro]
Il volume Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie è acquistabile in tutti gli store on line (sia in formato ebook che cartaceo) e ordinabile in tutte le librerie
1Hannah Arendt, Sulla violenza, Guanda, Milano, 1996, p. 11.
2 Johan Galtung, Pace con mezzi pacifici, Esperia, Milano, 2000, p. 363.
3Ibidem, p. 357
4Ibidem, p. 358
5Byung-Chul Han, Topologia della violenza, nottetempo, Milano, 2020.