• 22 Novembre 2024 17:46

Effetto farfalla. Un anno dopo la fuga da Kabul

DiPasquale Pugliese

Ago 16, 2022

“Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza” – Tiziano Terzani

Quando il meteorologo Edward Lorenz – con la domanda “può il battito d’ali di una farfalla in Brasile generare un uragano in Texas?” – ipotizzò il principio che sarebbe diventato universalmente noto come “effetto farfalla”, forse non aveva del tutto chiaro che stava esprimendo un concetto che si applica a tutti i sistemi complessi, non solo – come ormai ci è drammaticamente chiaro – a quelli climatici. Ma anche, per esempio, al sistema delle relazioni internazionali tra gli Stati, nelle loro influenze reciproche, in particolare quando si pretende di esercitare – senza conseguenze e contraccolpi – politiche di potenza regionali o addirittura globali. Per questo, anche per comprendere pienamente alcune delle ragioni del ritorno della guerra aperta in Europa, con l’invasione russa del territorio ucraino, è necessario fare qualche passo indietro. Acquisire profondità e prospettiva, ossia complessità di visione, per sottrarsi al presentismo nel quale siamo immersi, nella bulimia del flusso informatico continuo dove notizia nuova scaccia notizia “vecchia”, in una sovrapposizione di istantanee semplificanti, nelle quali si perdono i nessi e le articolazioni. Cioè, precisamente, la capacità di comprendere pienamente ciò che accade qui ed ora.

20 anni di guerra in Afghanistan: per la rabbia e l’orgoglio o per lucida follia?

Quanto accaduto dal punto di vista mediatico a partire dal febbraio 2022, con l’improvvisa esplosione sui mezzi di comunicazione della guerra in Ucraina in riferimento all’aggressione russa, senza che negli otto anni precedenti fosse stato minimamente raccontato il conflitto armato in corso nella regione di confine tra Ucraina e Russa del Donbass, è sul piano comunicativo – mutatis mutandis – la riproposizione di quanto avvenuto solo alcuni mesi prima, nell’agosto del 2021, quando canali televisivi e piattaforme social sono stati inondati improvvisamente da drammatiche immagini e informazioni provenienti dall’Afghanistan, in riferimento alla ritirata statunitense ed occidentale dalla ventennale occupazione militare che non era stata raccontata negli anni precedenti, se non nei mesi iniziali. E, dunque, sostanzialmente rimossa dalla consapevolezza generale.

Per comprendere quanto accadde nei giorni della fuga da Kabul – e mettere a fuoco la cornice di quanto accade nei nostri – bisogna fare un flashback, un salto indietro di oltre venti anni, tra l’11 settembre e il 7 ottobre del 2001, quando si scatenò in Occidente la furia vendicatrice per l’attacco terroristico alle Twin Towers di New York che prevedeva per il presidente George Bush jr una guerra di occupazione contro uno Stato sovrano, in qualche modo riconducibile ai cosiddetti “nemici dell’Occidente”: la scelta cadde sull’Afghanistan, nonostante nessuno degli attentatori fosse cittadino afghano e il rifugio dove fu scovato e ucciso Osama Bin Laden, terrorista saudita che rivendicò quell’attentato, fu trovato dieci anni dopo nell’alleato Pakistan… Guerra alla quale – nonostante la contrarietà delle Nazioni Unite – i governi occidentali e la relativa stampa “libera” si accodarono, “senza se e senza ma”, guidati non dalla ragione e dalla saggezza ma da “la rabbia e l’orgoglio”, come il titolo di un famoso articolo sul Corriere della Sera – e poi del relativo libro – della giornalista e scrittrice Oriana Fallaci, che ne sostenne e fomentò la crociata.

Furono ignorate, invece, tutte le voci ragionevoli e sagge contrarie alla guerra a cominciare da quella di Tiziano Terzani, il grande giornalista e scrittore che provò a rispondere così – profeticamente, direi – dalle stesse pagine del Corriere della Sera (che allora usava ospitare anche opinioni differenti), ad Oriana Fallaci ed a tutti i fondamentalisti della guerra:

Quel che sta accadendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’aver davanti prima dell’11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta. Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui.1

Fu ignorata anche la voce di Gino Strada, il fondatore di Emergency, che rispondeva così il 7 ottobre del 2001 da Kabul a Gianni Mura che lo intervistava telefonicamente per il quotidiano la Repubblica, sotto le bombe occidentali: “Senta, è da quando siamo piccoli che ce la menano col si vis pacem para bellum dei latini. Non è vero, è vero l’esatto contrario. Se vuoi la pace prepara la pace. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra”. Concetto che avrebbe ribadito venti anni dopo nel suo ultimo intervento su La Stampa dove, qualche giorno prima della morte2 – e pochi giorni prima della fuga statunitense da Kabul – ha fatto un tragico bilancio della ventennale occupazione:

La guerra all’Afghanistan è stata – né più né meno – una guerra di aggressione iniziata all’indomani dell’attacco dell’11 settembre, dagli Stati Uniti a cui si sono accodati tutti i Paesi occidentali. Il 7 novembre 2001, il 92 per cento circa dei parlamentari italiani approvò una risoluzione a favore della guerra. Chi allora si opponeva alla partecipazione dell’Italia alla missione militare, contraria alla Costituzione oltre che a qualunque logica, veniva accusato pubblicamente di essere un traditore dell’Occidente, un amico dei terroristi, un’anima bella nel migliore dei casi. L’intervento della coalizione internazionale si tradusse, nei primi tre mesi del 2001, solo a Kabul e dintorni, in un numero vittime civili superiore agli attentati di New York. Dicevamo 20 anni fa che questa guerra sarebbe stata un disastro per tutti. Oggi l’esito di quell’aggressione è sotto i nostri occhi: un fallimento da ogni punto di vista. Oltre alle 241 mila vittime e ai 5 milioni di sfollati, tra interni e richiedenti asilo, l’Afghanistan oggi è un Paese che sta per precipitare di nuovo in una guerra civile, i talebani sono più forti di prima, le truppe internazionali sono state sconfitte e la loro presenza e autorevolezza nell’area è ancora più debole che nel 20013

Furono ignorate anche le trecentomila persone che il 14 ottobre del 2001 marciarono da Perugia ad Assisi, sulle orme di Aldo Capitini, per manifestare il ripudio costituzionale della guerra; furono ignorate le cinquecentomila persone che manifestarono a Firenze il 9 novembre del 2002, anche contro l’ulteriore guerra di aggressione contro l’Iraq che già si stava preparando, con la costruzione delle false prove delle inesistenti “armi di distruzione di massa”; furono ignorate le tre milioni di persone che invasero pacificamente Roma il 16 febbraio del 2003, insieme a cento milioni di altre persone che manifestavano in tutte le capitali del pianeta, in quella che il New York Time definì “l’altra superpotenza mondiale”, contro entrambe le guerre che avrebbero funestato i primi due decenni del XXI secolo. E le cui conseguenze allungano le loro ombre sul presente e le allungheranno ancora sul futuro. Le tremende immagini di quei giorni delle persone cadute dagli aerei USA in fuga da Kabul ai quali si erano disperatamente aggrappate hanno simbolicamente chiuso – centinaia di migliaia di morti dopo – il girone infernale aperto con le persone che si gettavano disperatamente dalle Twin Towers per sfuggire alle fiamme. La follia di chi ha pensato che la guerra fosse il mezzo giusto per raggiungere il fine della giustizia è stato pari solo all’ignavia di tutti quelli che ci hanno creduto, alla debolezza di quelli che, evidentemente, non si sono opposti per tempo e abbastanza ed alla malafede di coloro che hanno giustificato e difeso quella fallacia logica, prima che morale.

Chi ha vinto e chi ha perso

Ma per comprendere fino in fondo come si è arrivati a quelle scene di fuga dell’agosto 2021, bisogna ulteriormente allargare lo sguardo sul rapporto degli Stati Uniti con i talebani che non cominciava ventuno anni fa con l’invasione armata dell’Afghanistan, bensì negli anni ’80 del secolo scorso quando il presidente Ronald Reagan incontrava ripetutamente allo “studio ovale” e finanziava abbondantemente i mujaheddin (i guerrieri santi) – compreso un certo Bin Laden, allora alleato – perché facessero la jihād (la guerra santa) contro la Repubblica Democratica dell’Afghanistan, in funzione anti sovietica. Che questo avrebbe comportato la fine dell’emancipazione delle donne afghane, conquistata in quegli anni di governi filo-socialisti, era l’ultima delle preoccupazioni occidentali. Fino all’occupazione militare di quel martoriato paese nel 2001. Tutte le guerre del resto passano e si svolgono, anche, tragicamente sui corpi delle donne.

In quella guerra chiusa nell’agosto 2021, dunque, non hanno vinto gli statunitensi, che dopo vent’anni di occupazione militare e 2.300 miliardi di dollari bruciati sono tornati a casa lasciando il caos dietro di se. Non hanno vinto gli afghani, che hanno avuto centinaia di migliaia di vittime tra il terrorismo della guerra e la guerra del terrorismo e sono stati lasciati in balìa dei signori dell’oppio. Non hanno vinto i talebani, che hanno preso in mano il governo di un paese martoriato e devastato. Non hanno vinto le donne afghane, che erano state rigettate nel medioevo proprio da quelli che venti anni fa si erano imposti come “liberatori”, salvo abbandonarle al loro destino quando hanno deciso che era ora di andarsene. In Afghanistan hanno perso tutti, tranne coloro che nelle guerre vincono sempre: il complesso militare-industriale, quell’industria bellica che in vent’anni di guerra ha visto straordinariamente lievitare i propri profitti di morte, raddoppiandoli, e il proprio potere di influenza sulle decisioni dei governi.

Il fallimento della strategia bellica dichiarata e la nostra falsa coscienza

In quei giorni estivi di fuga si sviluppò sui quotidiani italiani, tra gli altri commenti più o meno “autorevoli”, anche un surreale confronto a distanza tra l’ex giudice della Corte costituzionale Sabino Cassese4 e il politologo Gianfranco Pasquino5 sulla esportabilità o meno della democrazia, in riferimento al “fallimento della ventennale missione americana in Afghanistan” (Cassese), rispetto al quale c’erano almeno due punti deboli che hanno inficiato le rispettive argomentazioni, come spesso accade in questi casi, e che è utile riportare perché anticipano, per certi versi, questioni in ballo anche nella guerra in corso in Ucraina. Il primo punto debole è che si è trattato di un mero confronto accademico, seppur sviluppato sui quotidiani, senza alcun riferimento alla realtà concreta, perché – se in vent’anni non fosse stato sufficientemente chiaro – lo stesso presidente USA Joe Biden, con la franchezza che lo contraddistingue, si era incaricato nella conferenza stampa alla Casa Bianca del 17 agosto 2021 di chiarire definitivamente l’obiettivo della guerra afghana, annunciando l’imminente ritiro delle truppe di occupazione USA: “lo state-bulding non è mai stato l’obiettivo della nostra missione nel Paese, che era centrata su attività di anti-terrorismo e non sulla creazione di una democrazia”6. Il secondo punto debole è dato dall’assenza nel confronto di una riflessione sul rapporto tra mezzi e fini: il tema fondamentale di tutte le guerre, ossia – nello specifico della guerra in Afghanistan – non tanto la questione della legittimità o meno di esportare in astratto la democrazia e i suoi valori, ma se questo fine possa essere raggiunto attraverso il concretissimo e devastante mezzo della guerra. Era di questo che si trattava. Ed è di questo che, in fondo, si tratta ancora sui diversi scacchieri internazionali dove si confrontano per l’egemonia le superpotenze nucleari USA, Russia e Cina.

In verità, come hanno ulteriormente dimostrato anche gli attentati all’aeroporto di Kabul nei giorni della precipitosa smobilitazione statunitense, la guerra in Afghanistan non è stata efficace neanche nella mera “attività anti-terrorismo” indicata dal presidente Biden. Anzi le quasi 200 vittime dell’ultimo attacco dell’agosto 2021 a Kabul, mentre gli statunitensi prendevano letteralmente il volo, si sono andate ad aggiungere alle centinaia di migliaia di vittime del terrorismo, dilagato in tutto il mondo nei vent’anni di guerra globale al…terrorismo. Il terrorismo della guerra non solo non ha fermato ma ha potenziato la guerra del terrorismo: non solo non è servita ad esportare e costruire alcuna democrazia – né in Afghanistan, né in Iraq, né in Libia, né da nessun’altra parte dove questo era stato proclamato – ma, contraddicendo la retorica bellica, è stata contro-produttiva anche rispetto all’obiettivo minimo di combattere quel terrorismo che invece si è moltiplicato ed ha colpito ovunque, come registra anno dopo anno il Global Terrorism Index7. E’ stato il fallimento completo di una strategia irrazionale rispetto agli obiettivi dichiarati. La verità, dunque, è che – nonostante i fiumi di retorica versati per due decenni – i venti anni di guerra in Afghanistan sono serviti, di fatto, solo a riversare migliaia di miliardi nelle casse dell’industria bellica internazionale. Che hanno prodotto sangue, terrore e caos, in un prevedibile – e previsto, come abbiamo visto – crescendo di tragedia e follia collettiva.

Infine, mentre nell’agosto del 2021 i media internazionali si sono meritoriamente preoccupati di raccogliere le drammatiche immagini e testimonianze dell’aeroporto di Kabul assediato da coloro che cercavano disperatamente di fuggire dal paese – come dal febbraio 2022 avrebbero fatto con i profughi ucraini in fuga dai territori di guerra – è opportuno ricordare che il Rapporto dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati proprio nel giugno precedente aveva comunicato che il numero di persone in fuga da guerre e persecuzioni in tutto il mondo nel 2020 aveva superato gli 82 milioni, di 3 milioni in più rispetto all’anno precedente, diventate 100 milioni l’anno successivo… Quindi sarebbe opportuno che agenzie, giornali e televisioni, uscissero dallo strabismo mediatico ed allargassero l’obiettivo sui profughi di tutte le guerre, delle quali sono i drammatici effetti collaterali e rispetto ai quali, di norma – invece di organizzare ponti aerei – tutti i giorni i governi alzano muri, fili spinati, lager ed onde del mare. Distinguendo talvolta tra profughi buoni, da accogliere, e profughi cattivi, da respingere. Lontani dalle telecamere e dalla nostra coscienza. Falsa coscienza, per lo più.

Violenza su violenza. Il ventennale dimenticato dell’inizio di una guerra vergognosa

Come insegna Johan Galtung, tra le diverse dimensioni dell’esercizio diretto e indiretto della violenza, la più profonda e pervasiva è la violenza culturale8, che genera l’immaginario simbolico e produce senso comune. Una delle “armi” più potenti della violenza culturale è la costruzione e l’uso selettivo della memoria pubblica condivisa, che decide e separa ciò che dev’essere ricordato da ciò che, invece, non deve esserlo. Per esempio, dopo l’agosto della fuga da Kabul, l’11 settembre 2021, nell’occasione del ventennale degli attentati terroristici a New York che, con il crollo delle Torri gemelle, hanno provocato 2977 vittime, la stampa internazionale per giorni ha ricordato quell’evento con dirette, edizioni straordinarie di magazine, approfondimenti di varia natura: una memoria giustamente celebrata dopo due decenni pieni. In conseguenza di quell’attacco kamikaze, poche settimane dopo, già il 7 ottobre 2001 cominciavano i bombardamenti anglo-statunitensi su Kabul con i quali iniziava la ventennale e illegale guerra di occupazione occidentale durata, appunto, fino all’agosto 2021: stesso e conseguente anniversario pieno ma memoria – al contrario – rimossa, senza alcun bilancio, valutazione pubblica o riconoscimento di responsabilità politiche per l’immane disastro globale.

Poiché quella occupazione militare, anziché la libertà duratura annunciata (Enduring freedom si chiamava la guerra), ha distrutto tutto per non cambiare niente – se non, ribadiamolo ancora, per i fatturati dell’industria bellica internazionale – è evidente che per i governi che l’hanno voluta e finanziata per due decenni e per i media maintream che ne hanno, inizialmente, sostenuto e legittimato l’avvio e, successivamente, ignorato crimini e misfatti, “è bene e pio si taccia ormai anche il nome” – come fa dire Umberto Eco ad Adso ne Il nome della rosa – ma, dopo la celebrazione mondiale del ventennale dell’11 settembre, l’osceno silenzio che ha avvolto quello conseguente del 7 ottobre, è una violenza culturale continuata nel tempo. Senza contare l’assenza di alcun minimo cenno di aver appreso la lezione paradigmatica dell’Afghanistan sul fallimento della guerra come strumento regolatore dei conflitti – in verità già ripudiata dalla Costituzione italiana – per la quale il ventennale dell’inizio dei bombardamenti avrebbe potuto/dovuto essere l’occasione. Ed, invece, da lì a poco la guerra sarebbe tornata anche sul territorio europeo, dando nuovo slancio all’industria bellica, orfana della guerra precedente, anziché impulso agli sforzi ed ai dispositivi di mediazione. Del resto, come scriveva Antonio Gramsci, “la storia insegna ma non ha scolari”9.

Si può ravvisare, inoltre, in quel silenzio anche la continuazione di un pesante e strutturale razzismo informativo in base al quale non tutte le vite sono ugualmente degne di lutto e di racconto: a fronte dei fiumi di retorica versati per le vittime occidentali dell’atto di guerra terrorista, le infinitamente superiori vittime afghane ed irakene di vent’anni di terroristici atti di guerra, delle quali non si conosce ne il nome ne il numero esatto, non solo non sono state degne di narrazione mentre i fatti accadevano – e chi lo ha fatto, come Julian Assange con WikiLeaks, oggi subisce anche un’incredibile ed esemplare tortura giudiziaria – ma non sono neanche degne di memoria. Del resto solo poche settimane dopo, tra gennaio e febbraio del 2022 – dopo aver ignorato i profughi afghani, irakeni, siriani e pachistani respinti nel gelo invernale ai confini tra Bielorussia e Polonia, vittime delle nostre guerre – il circo mediatico avrebbe trovato un’altra “guerra giusta” da raccontare, momento per momento, esplosa all’improvviso sugli schermi mediatici. Quella di difesa del governo ucraino dall’occupante russo, senza averne mai narrato in nessun modo gli “antefatti”, come si studiavano a scuola prima di affrontare con l’Iliade un’altra cronaca di guerra decennale, di alcune migliaia di anni prima.

Naturalmente, nessun antefatto può giustificare l’occupazione militare russa, ma le relazioni internazionali sono un sistema complesso, dove il “battito d’ali di una farfalla in Brasile può generare un uragano nel Texas”. Così come un missile nucleare lanciato da un continente può sortire effetti devastanti in un altro, come si è ripreso a minacciare tra le potenze atomiche, ma in modalità estremamente meno elegante – quanto più semplificata e distruttiva – di una farfalla. Meglio non dimenticarlo.

1 4 ottobre 2001, oggi si trova nella raccolta Lettere contro la guerra, 2002, TEA

2Avvenuta il 13 agosto 2021

3 La Stampa, 13 agosto 2021

4La democrazia e i diritti sono un <<valore universale>>, Il corriere della sera, 22 agosto 2021

5Perché non esiste alcun regime politico preferibile alla democrazia, Domani, 24 agosto 2021

6 Cfr https://www.rainews.it/archivio-rainews/articoli/biden-afghanistan-de3733d5-97d8-417a-9ab4-35a4c3295f6d.html

7 Vedi: https://www.visionofhumanity.org/maps/global-terrorism-index/#/

8Vedi, per esempio, Disarmare il virus della violenza. Annotazioni per una fuoriuscita nonviolenta dall’epoca delle pandemie, GoWare, 2021

9 L’Ordine Nuovo, 11 marzo 1921, anno I, n. 70

Di Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare, ordinabili in libreria oppure acquistabili sulle piattaforme on line).

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