Tra le tante confusioni lessicali – e di conseguenza concettuali – che hanno una ripercussione fuorviante nella comunicazione e nell’informazione, fino a falsificare la posta in gioco in riferimento alla guerra in Ucraina, continua ad essere riproposta l’identificazione strumentale tra richiesta di cessare il fuoco e negoziare subito – che avanzano i movimenti per la pace, il disarmo e la nonviolenza, insieme a papa Francesco – e richiesta, che non fa nessuno, di resa dell’Ucraina.
Non è di questa semplificazione che si tratta. Si tratta invece di aiutare le parti coinvolte a trovare una via d’uscita responsabile e sostenibile per entrambe da un avvitamento della guerra che comprende effettivamente – mai come questa volta – il folle rischio di escalation nucleare, che mette in pericolo per primo il popolo ucraino e poi tutti i popoli europei. Se non l’intero pianeta. Chi blatera di “vittoria”, come abbiamo ripetutamente spiegato, sta giocando con le parole ad un gioco che non si può giocare. E le parole, in questo caso più che mai, sono pietre.
Oggi, finalmente, questa irresponsabile follia comincia ad essere timidamente stigmatizzata anche da testate giornalistiche che per mesi hanno considerato filo-putiniano chiunque solo osasse dirlo. “Urge affrancarci dalla marcia della follia – scrive, per esempio, da Lucio Caracciolo, direttore di Limes, su La Stampa di sabato 15 ottobre – “Non lo faremo mai finché ci inchioderemo nel presente immediato, matrice del futuro già scritto. Conviene partire dall’avvenire desiderato, implausibile finché rimaniamo prigionieri della cronaca. Primo passo, tregua in Ucraina. Condizione insufficiente e necessaria della pace che molto dopo tempo verrà. Decisori responsabili si esercitano in questa simulazione coraggiosa e salvifica. Sicuramente anche al Cremlino. Ma noi?”. Noi? Noi oltre a recitare il mantra dell’”aggressore” e dell’”aggredito” e alimentare con ulteriori invii di armi una guerra che uccide gli uni e gli altri, nella perversa spirale di violenza e contro-violenza – dentro all’orizzonte nucleare che si staglia sullo sfondo – il nulla. Se non continuare da parte di certi politici e intellettuali a dare addosso a chi propone responsabili passi di pace. Fino a dar loro, per esempio, degli “immorali” (Carlo Calenda, Ansa, 10 ottobre 2022) o sostanzialmente dei vili, accusandoli preventivamente di aver “subito arreso” l’Italia in caso di invasione straniera (Nadia Urbinati, profilo facebook personale, 12 ottobre 2022).
Quel che manca, nel dibattito pubblico, oltre – in molti casi – all’onestà intellettuale ed all’uso della guerra per i “posizionamenti” politici interni, sono i saperi minimi delle pratiche di pacificazione. I saperi di base della nonviolenza. Quelli che conoscono, per esempio, tutti coloro che si occupano di mediazione, i quali sanno che se i conflitti degenerano in violenza e sono lasciati a se stessi (o peggio alimentati da istigatori) ad ogni azione violenta di una parte corrisponde un’azione contraria di livello di violenza superiore dall’altra, in un crescendo fino potenzialmente alla distruzione dell’altro. O di entrambi. Se non intervengono soggetti terzi a mediare tra le parti, anziché ad alimentare il conflitto. Si chiama dinamica dell’escalation, quella che Mohandas K. Gandhi spiegava dicendo che “occhio per occhio, il mondo diventa cieco”. E’ invece ci sono ancora voci insane di mente che – pur scandalizzandosi ogni volta di più per una nuova tappa di violenza e contro-violenza – continuano a ribadire che il conflitto tra Russia ed Ucraina, che vede già il coinvolgimento sul campo di due potenze nucleari, possa e debba risolversi sul piano militare. Sul terreno della guerra, anche nucleare. E continua ad inviare strumenti funzionali a questo scopo.
E poi nella vulgata binaria – resistenza o resa – che costruisce fin dagli inizi di questa guerra la narrazione tossica anti-pacifista, mancano i saperi di oltre un secolo di lotte nonviolente e resistenze disarmate. Saperi che non mancavano, per esempio ad Hannah Arendt, che proprio ne La banalità del male, faceva un appello inascoltato per lo studio della resistenza danese all’occupazione nazista in tutte le facoltà di scienze politiche “per dare un’idea della potenza enorme della nonviolenza, anche se l’avversario è violento e dispone di mezzi infinitamente superiori”. Saperi che non mancano, per esempio, in Italia alla campagna Un’altra difesa è possibile che già per due legislature consecutive ha presentato in parlamento la proposta di legge organica per la creazione in Italia di una vera difesa civile, non armata e nonviolenta, appunto per preparare, organizzare e finanziare le alternative possibili al monopolio militare della difesa, secondo gli articoli 11 e 52 della Costituzione. Ossia tutt’altro che la resa. Proposta sostanzialmente ignorata dai due parlamenti precedenti, che dovrà essere rilanciata nella nuova legislatura.
Se il circo mediatico, dunque, anziché rincorrere (salvo rare eccezioni) il circo politico nei posizionamenti – reali o strumentali – sulla “pace” raccontasse approfonditamente le proposte, le campagne, le riflessioni e le iniziative che le organizzazioni impegnate per la pace, il disarmo e la nonviolenza svolgono quotidianamente e ne valorizzasse i saperi, questo potrebbe essere un paese informato sui fatti e capace di fare proposte per disarmare la guerra, anziché l’intelligenza. Perché, come spiegava ancora una volta Hannah Arendt – di cui il 14 ottobre è stato l’anniversario della nascita – questa volta nel saggio Sulla violenza, “Il pericolo della violenza, anche se essa si pone consapevolmente in un quadro non estremistico di obiettivi a breve termine, sarà sempre quello che i mezzi sopraffacciano il fine (…). La pratica della violenza, come ogni azione, cambia il mondo, ma il cambiamento più probabile è verso un mondo più violento”.