“L’umanità a un bivio. Il dilemma della sostenibilità a trent’anni da Rio de Janeiro”, ultima opera di Giangi Franz, è al centro di un incontro al quale ho partecipato anch’io venerdì 21 ottobre a Ferrara. Mi limito a riproporre il mio piccolo contributo.
Si parte da un’affermazione del libro:
Siamo a un bivio e ciascuno di noi deve scegliere verso quale direzione procedere; nessuno può chiamarsi fuori da questa sfida, se non altro per responsabilità verso figli e nipoti, con l’aggravante che non ci è più concesso di sbagliare direzione o – com’è accaduto a Glasgow – di continuare a temporeggiare nel fronteggiare le crisi ecologica e climatica, preferendo noi vivere e pensarci in un eterno presente.
A me, a Paola Roncarati Presidente del Garden Club di Ferrara, a Giuseppe Scandurra docente di antropologia culturale sono affidate alcune parole chiave, rispettivamente: Spreco e Parsimonia, Coltura e Cultura, Utopia e Progetto. Dopo l’intervento di Pierluigi Stefanini, Presidente dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, conclude l’incontro l’autore del libro.
Dopo l’introduzione di Cinzia Bracci, Presidente del Centro Documentazione e Sviluppo che organizza l’incontro, Annalisa Ferrari mi rivolge un paio di domande: “Spreco e Parsimonia: È finito il tempo dello Spreco? La Parsimonia può diventare un valore?”.
Spreco e Parsimonia si presentano assieme. La parsimonia raccomandata è un rito penitenziale, destinato a donne e uomini poveri o in procinto di diventare tali. Si diventa poveri senza passare per la parsimonia, senza interrompere consumo e spreco. Produrre e consumare è un processo circolare / consumo e produzione non tollerano interruzione. Dice Aldous Huxley, ne “Il mondo nuovo”: “Aggiustare è antisociale”.
Ho dedicato piccolissimi racconti, modeste riflessioni a questi temi venti anni fa, su un foglio di Legambiente. Ora stanno in un libriccino, “Sassolini di Pollicino”, che è piaciuto a chi organizza questo incontro.
C’è lo spreco di chi ha poco e quello di chi ha troppo. La diseguaglianza, si dice, è legata al merito. Se la forbice cresce vuol dire che crescono meriti e demeriti. Che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri è dunque sviluppo delle rispettive propensioni e capacità. Se proprio, caritatevolmente, si vogliono attenuare le distanze solo ci si può affidare all’imparziale mercato e al progresso tecnico scientifico. Altri tentativi sono finiti in tragedia. Ce lo dice la Tina: l’acronimo inglese assicura che non ci sono alternative. Invece alternative ce ne sono sempre. Bivi si presentano. Una strada è in salita e una in discesa. È quella, sbagliata, che imbocchiamo.
È finito il tempo dello Spreco? Deve finire se non altro perché è finito il mondo che abitiamo e sfruttiamo. Luigi Ferrajoli pensa a una Costituzione della terra per mettere il diritto al servizio della nostra salvezza. Nella premessa all’articolato scrive: “abbiamo devastato l’ambiente naturale e messo in pericolo, con le nostre attività produttive, l’abitabilità del nostro pianeta; consapevoli della catastrofe ecologica che incombe sulla Terra, del nesso che lega la sopravvivenza dell’umanità e la salvaguardia del pianeta e del rischio che, per la prima volta nella storia, il genere umano, a causa delle nostre aggressioni alla natura, possa avviarsi all’estinzione; decisi a salvare la Terra e le generazioni future dai flagelli dello sviluppo insostenibile, delle guerre, dei dispotismi, della crescita della povertà e della fame, che hanno già provocato devastazioni irreversibili al nostro ambiente naturale, milioni di morti ogni anno, lesioni gravissime della dignità delle persone e un’infinità di indicibili privazioni e sofferenze”. Consapevoli e decisi dice, beneaugurante Ferrajoli.
Cito ancora un mio pezzetto di vent’anni fa. “Stiamo sperperando le risorse del pianeta, con la soddisfazione di poter ripetere: dopo di me il diluvio. Bella soddisfazione. E questo in nome della libertà. Mentre sappiamo con Hans (Jonas) che primo compito di ogni libertà, anzi condizione del suo sussistere, è porsi dei limiti. Questo non fa, e lavora dunque alla sua schiavitù, chi restituisce ciò che prende dal tutto in modo non più utilizzabile. Questo si diceva con Hans: noi siamo il pericolo dal quale siamo circondati, con il quale dobbiamo in avvenire lottare”.
L’avvenire è arrivato. Ecco perché la battaglia è prima di tutto culturale. Non basta l’ovvia razionalità della cosa. Un cambiamento necessario e profondo non avverrà se non ne avvertiremo il desiderio. Pressante è l’invito a sempre maggiore velocità, altezza, potenza, secondo il motto olimpico citius, altius, fortius. Antidoto potrebbe essere l’inversione proposta da Alex Langer: lentius, profundius, suavius, più lentezza, profondità, dolcezza. Ce ne ha parlato circa trlent’anni fa con parole che a me suonano attuali. “La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni e impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e controlli; e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti”.
La Parsimonia può diventare un valore? È un valore. La natura lo insegna e lo pratica. Galilei: “la natura non opera con l’intervento di molte cose quel che si può fare col mezzo di poche”. Lo pratica l’Impresa: risparmia sulla remunerazione del lavoro, sempre più precario. Se appena può delocalizza, dove i lavoratori sono più sfruttati e costano meno. Inutilmente il Papa ricorda: “Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri a ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro”.
C’è una parsimonia che è un valore, in altro modo. Ne ho scritto, sempre venti anni fa, così: “Ho qualche ricordo di sobrietà felice, di una sobrietà cioè in cui ogni desiderio è pienamente appagato. Uno mi giunge preciso da una distanza di molti anni e chili”. Si tratta allora di una camminata in montagna, nella neve, confortata da una sosta. “Mi portano due meravigliose uova al burro – il bordo ha una leggera sfumatura marrone – con una fetta di pane nero e un bicchiere di vino”. È un bel ricordo.
Sempre più brutta e degradata è invece la città in cui vivo e non riesco a considerare mia. Con il voto alle amministrative è stata d’esempio. Ora l’Italia è ferrarizzata, come auspicato 79 anni fa, in tragiche circostanze. Non mi diffondo al riguardo dell’onda nera. Cito solo un tema, del quale mi sono molto interessato in passato. Qualche traccia è pure nel libriccino. Ferrara sarebbe perfetta, per dimensioni e struttura, per non avere automobili. È cosa importante. Come noto il loro abuso rende stupidi e cattivi oltre a colpire, in profondità e malignamente, tutti i nostri sensi. Quanto si è faticosamente raggiuto in passato è distrutto. Non la salute, la socialità, la vita dei cittadini, ma solo la stesa dei tavoli del “frizi e magna” ostacola la presenza delle auto ovunque.
No, da questa condizione non ci toglie il mercato, con la sua mano benefica e invisibile. La vediamo invece. È intenta a uno sporco lavoro di distruzione di risorse, di polarizzazione e divisione della società. Non ci salvano gli anonimi mercati, la finanza. Giraud, gesuita come il papa, il miglior economista – non secondo l’Osservatore Romano, ma le Monde – dice che le maggiori banche europee investono praticamente l’intero budget in fondi legati ai combustibili fossili. Quanto alla politica il ministero alla transizione ecologica è pura spruzzata di verde, green-washing, alla compagine governativa. È pensiero magico poi affidarsi alla virtù taumaturgica della scienza e della tecnologia. Sarebbe come la leggendaria lancia di Longino. Quello che procura la ferita la risana.
Chiamiamo democrazia scegliere, con leggi elettorali truffaldine (figlie di un tentativo fallito nel ’53), i nostri rappresentanti, da mettere al servizio dei nostri oligarchi. Ed è già meglio di quel che avviene altrove.
Ci vuole altro. L’idea e la pratica di una partecipazione dal basso, competente e incisiva si fa sempre più lontana. Né vedo risorse incoraggianti provenire dalla cosiddetta società civile. Sia il sostantivo che l’aggettivo mi sembrano inappropriati. In “Omnicrazia” (il potere di tutti e di ciascuno) Capitini scrive: “L’individuo si trova in gruppi di condizionamenti, che per semplificazione abbiamo ridotto a tre: lo Stato, l’Impresa, la Natura. Egli si sente individuo che lotta là dentro, per migliorare la sua condizione: per esser cittadino con certi diritti garantiti; per essere lavoratore non sfruttato dai proprietari dell’impresa; per mantenere la propria vitalità: tre sforzi continui”. Sono sforzi che restano necessari. Esigono individui consapevoli e desideranti.
Quanto a me, insufficiente è la mia apertura all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo degli esseri, pur consapevole che in questa apertura sta l’essenza della nonviolenza. Capitini ripete: “La nonviolenza è il punto della tensione più profonda del sovvertimento di una società inadeguata”. Dice pure: “Veramente tuo è solo il fiore che non cogli”. Mi accontento di meno. Vorrei non esagerare in distruzione, nel tempo che mi resta.
Giuliano Pontara ristampa proprio ora, con importanti aggiunte, “Etica e generazioni future” del ’95. Mi aveva persuaso già allora di un nostro dovere nei loro confronti, nonostante Mark Twain: “Perché sacrificarci per chi verrà, che non ha fatto nulla per noi?”.
Sarà anche perché, a me, le bambine e i bambini piacciono.