[Intervista per l’agenzia di stampa Pressenza, a cura di Olivier Turquet, in preparazione della riflessione per i 100 anni di Don Milani che concluderà domenica 28 Maggio la seconda edizione di Eirenefest, il festival del libro per la pace e la nonviolenza]
Intanto un chiarimento: non sempre la figura di Don Milani viene associata alla nonviolenza, come mai secondo te? E puoi spiegare i legami profondi tra il priore di Barbiana e la nonviolenza?
E’ destino comune a molti personaggi, dirompenti nel proprio tempo, di essere trasformati in innocui “santini” nella narrazione pubblica successiva, come per esempio è successo a Martin Luther King negli USA: in Italia è accaduto a don Milani, che ha innumerevoli scuole a lui dedicate, ma del quale è andata persa la radicalità trasformativa del messaggio. Se c’è un ambito nel quale, invece, il suo insegnamento non solo ha resistito ma è stato generativo, è proprio nel mondo della nonviolenza, in particolare tra gli obiettori di coscienza. Generazioni di giovani nel nostro paese (tra i quali il sottoscritto, a suo tempo) si sono dichiarati obiettori di coscienza al servizio militare dopo aver letto gli atti del suo processo: la lettera incriminata ai cappellani militari e la successiva lettera ai giudici. Pubblicati in origine dalla Libreria Editrice Fiorentina con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù”, sono stati anche il quarto “Quaderno” di materiali di approfondimento pubblicato da “Azione nonviolenta”, la rivista fondata da Aldo Capitini, e negli anni più volte ristampato. Anche negli attuali percorsi di formazione generale rivolti ai volontari in servizio civile sulla storia dell’obiezione di coscienza, il riferimento a don Lorenzo Milani è imprescindibile. Per me, in quanto formatore di formatori, una lettura obbligatoria sulla quale svolgo lavori di gruppo con formatori e ragazzi. Il rapporto di don Milani con la nonviolenza è, dunque, strutturale, tanto su piano del contributo di idee e di impegno civile ed educativo, quanto sul piano dell’interlocuzione diretta con le figure di riferimento del movimento nonviolento italiano, a cominciare da Aldo Capitini, che fu più volte a Barbiana e con il quale fu progettato e stampato (seppur per soli quattro numeri) il “Giornale scuola”, una sorta di ipertesto ante litteram e artigianale.
Uno dei temi canonici pensando a Don Milani è appunto quello dell’obiezione di coscienza: lo puoi inquadrare storicamente?
La vicenda di don Milani e dell’obiezione di coscienza al servizio militare s’inquadra tanto all’interno della dimensione nazionale di quella storia – che, politicamente, aveva avuto inizio in Italia nel 1948 con il rifiuto della divisa da parte di Pietro Pinna – che nella specifica vicenda toscana, e fiorentina in particolare, dove era già stato condannato un altro sacerdote, Ernesto Balducci. Per la storia dell’obiezione di coscienza in Italia rimando all’ottimo libro di Marco Labbate, Un’altra patria (2020), qui preme dire che, sul piano nazionale, all’interno dello scenario della corsa agli armamenti tra Est e Ovest, dopo la Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli voluta da Aldo Capitini nel 1961, da Perugia ad Assisi, nacque il Movimento Nonviolento che aveva l’impegno per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza tra gli specifici obiettivi politici e da esso il Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN), guidato dallo stesso Pietro Pinna in azioni dirette nonviolente represse o attenzionate dalle questure di varie città d’Italia, tra il 1963 e il 1966. Nel 1962 c’è anche l’obiezione di coscienza, e il carcere, per il primo obiettore di coscienza cattolico, Giuseppe Gozzini. A Firenze – che in quegli anni vede sindaco Giuseppe La Pira porre la pace al centro del suo mandato – la condanna di Balducci nel 1964, che in un articolo aveva difeso “il diritto di disertare”, aveva diviso la città. Ed è in questo clima che il quotidiano La Nazione pubblica il 12 febbraio 1965 il comunicato stampa dei cappellani militari in congedo della Toscana che definiscono “espressione di viltà” l’obiezione di coscienza, che vedeva in quel momento decine di giovani nelle carceri militari. La lettura di questo testo insieme ai ragazzi della Scuola di Barbiana, genera l’indignata lettera di risposta che, firmata da don Milani, verrà pubblicata dal settimanale comunista Rinascita. Le associazioni combattentistiche denunciano così il priore di Barbiana per “apologia di reato”. La sua auto-difesa al processo, al quale non potrà partecipare perché già ammalato, diventa la straordinaria Lettera ai giudici nella quale risponde sia “come maestro” che “come sacerdote”. Assolto in primo grado, don Lorenzo morirà prima del processo di appello voluto dall’accusa. L’eco della sua vicenda giudiziaria e la circolazione dei suoi scritti contribuirono in maniera significativa a costruire il clima culturale e politico che porterà al primo riconoscimento legislativo dell’obiezione di coscienza nel 1972.
Qual è il valore civile ed educativo, per noi oggi, della testimonianza di don Milani su questo tema?
Nella risposta ai cappellani militari c’è una rimessa in discussione dell’angusto concetto nazionalista di patria, del quale – dice – un giorno “i nostri figli rideranno”. E lo scrive con quelle parole nitide e scolpite che hanno un valore universale: “se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, in non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Aggiungendo un passaggio fondamentale sulla scelta dei mezzi, che è tema centrale della nonviolenza: “le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Aggiunge poi un ripasso – alla luce del rasoio di Occam degli articoli 11 e 52 della Costituzione italiana – di tutte le guerre italiane dall’unità alla seconda guerra mondiale, dimostrando come i soldati avrebbero dovuto sempre obiettare anziché obbedire. E se c’è stata una “guerra giusta (se una guerra giusta esiste)”, specifica, è stata proprio quella combattuta da coloro che hanno disobbedito al fascismo, anziché obbedire, facendo la Resistenza. Una lezione civile, condivisa con i suoi ragazzi, in questa scrittura collettiva che anticipa la più famosa Lettera ad una professoressa. Che continua nella Lettera ai giudici, ai quali spiega la differenza tra il tribunale e la scuola: i giudici devono applicare le leggi esistenti, la scuola invece “deve condurre i ragazzi su un filo di rasoio; da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico”. Per questo è necessario educare anche alla disobbedienza, quando le leggi sono ingiuste. E’ il criterio universale del valore formativo e costituente dell’obiezione di coscienza, rispetto alla quale don Milani rivendica le letture fatte con i ragazzi: da Socrate ai Vangeli, da Gandhi alle lettere tra uno dei piloti di Hiroshima e Günther Anders. Ossia la scuola come laboratorio permanente e incarnato di educazione civica – anche attraverso l’esempio personale del maestro portato fino in fondo – per compiere scelte consapevoli e responsabili: “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Oggi, di fronte al rischio mai così vicino di una guerra nucleare ed al riarmo ed al bellicismo dilaganti anche nel nostro paese, è una lezione da ribadire ovunque. Ogni giorno.