Meno di una settimana prima Laura Castigliani era in Afghanistan, nella regione del Panshir. Ne parla a Ferrara il 21 giugno, nello spazio dibattiti allestito in occasione degli Emergency Days. Laura è ostetrica e per tre volte è stata in missione nel Centro maternità che proprio Emergency ha aperto ad Anabah nel 2003. Da allora in quel centro sono nati oltre 76mila bambini.
“In Afghanistan il ruolo principale della donna è fare figli, possibilmente maschi. Le donne sono macchine da figli. Vanno incontro a dieci, dodici gravidanze nella loro vita e incominciano sempre più presto perché la povertà è cresciuta, l’istruzione è di nuovo preclusa alle ragazze, quindi i matrimoni e i parti precoci sono in aumento. Immaginate una donna malnutrita, immaginate il suo corpo che si trasforma per 10, 12 volte. Spesso la donna perde molto sangue e non può curarsi, né riposare dopo una gravidanza, perché deve occuparsi degli altri bambini. Soprattutto se non nasce un maschio il marito non si ferma. A una donna sconsolata cui ho consegnato una bella bimba ho detto: «Non capisco, l’importante è che stia bene», e lei di rimando: «Sai cosa mi fa adesso mio marito perché torno a casa con la sesta femmina? Fra poco dovrò fare un altro figlio perché se non arriva il maschio la colpa è mia»”.
L’accusa ai talebani per persecuzione di genere
Mentre ascolto Laura Castigliani mi torna alla mente “Il tappeto afghano”, il libro edito dalla meridiana che raccoglie sedici racconti dedicati alle donne afghane scritti da Gholam Najafi.
Leggo intanto dal sito di Amnesty International che A.I. e la Commissione internazionale dei giuristi stanno chiedendo una indagine contro i talebani in Afghanistan per possibili crimini di diritto internazionale, tra i quali il crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.
“Da quando hanno preso il potere, i talebani hanno imposto restrizioni draconiane ai diritti delle donne e delle bambine afgane”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. “Non c’è dubbio, questa è una guerra contro le donne: bandite dagli spazi pubblici, dall’istruzione e dal lavoro, impossibilitate a muoversi liberamente, torturate e fatte sparire per aver denunciato quelle restrizioni e aver opposto resistenza all’oppressione. Si tratta di crimini internazionali: organizzati, massicci e sistematici”.
Secondo quel rapporto, le donne e le bambine afgane che fuggono dalla persecuzione dovrebbero essere automaticamente considerate rifugiate bisognose di protezione internazionale.
La donna non decide per il suo corpo. Un bambino (maschio) di 11 anni può.
L’attesa del figlio maschio è importante anche per le donne.
“Anche la madre lo desidera perché il maschio le permette di uscire di casa, di andare al bazar a cercare qualcosa da mangiare. Senza un maschio accanto, per una donna è un problema anche essere curata perché non può decidere del proprio corpo. Se serve un cesareo urgente perché la donna rischia di morire, non possiamo fare niente senza l’autorizzazione di un parente maschio. Quando il marito è lontano e non ci sono fratelli va bene anche il consenso del figlio di 11 anni”.
I mariti si prendono cura della salute delle donne?
“Dipende. Mi è capitato di chiedere a un uomo di donare una sacca di sangue, il farmaco più importante in ostetricia, perché la moglie ne aveva perso molto durante il parto e rischiava di morire, e lui ha risposto: «Se Allah ha voluto questo va bene così». Altri mariti non solo accettano ma portano tutti i loro parenti per assicurare le trasfusioni”.
Si può fare qualcosa di più strutturale per proteggere la salute delle donne?
“Lo chiamiamo family planning. Cerchiamo di proporre una dilazione tra una gravidanza e l’altra secondo un progetto di famiglia condiviso tra i partner. Non è facile parlarne e non tutte le coppie lo accettano. Nel nostro ospedale si può fare la chiusura delle tube, ad esempio, almeno per dare alle donne un po’ di tempo per riprendersi. Poi ci sono donne che arrivano da noi quando il parto è in corso, scappando da un ospedale afghano dove non ricevevano cure idonee. Lì negli ospedali nascono anche 600 bambini al mese (a Ferrara, che è la mia città, in tutto il 2022 ne sono nati poco più di 700, n.d.r.) e iniettano l’ossitocina intramuscolo per accelerare il travaglio. L’effetto è che i parti sono violentissimi, le donne rischiano di perdere l’utero, di perdere il bambino e la loro stessa vita. I mariti che hanno a cuore le mogli capiscono che qualcosa non va, le fanno dimettere e le portano da noi”.
La guerra e i suoi strascichi entrano prepotentemente nella quotidianità. In un contesto così deprivato, il centro nascite di Emergency diventa un punto di riferimento per il territorio.
“È venuta da noi una donna dicendo: «Ho male dappertutto, ho 25 anni, sono incinta». Ne avrà avuti 70, di anni, e non aspettava un bambino, ma mi ha detto «Ti prego, curami lo stesso». Aveva camminato ore per venire da noi. Il Panshir è una zona bellissima e sperduta a quasi 2000 metri di altitudine. Era noto come la valle della pace, ora invece i talebani sono ben presenti ed è impressionante essere fermata di continuo da uomini con il passamontagna e il kalashnikov. Ai posti di blocco fermano anche i locali. I travagli partono per la maggior parte di notte ma, se i talebani le fermano, fino al mattino le donne non possono venire da noi. Arrivano con le crisi convulsive, in condizioni gravissime. Una donna è arrivata con il marito che continuava a dire “Che vergogna, che vergogna!”. Abbiamo capito dopo che erano stati fermati a un posto di blocco e lei si era arrabbiata con i talebani, aveva urlato “Fatemi passare, devo partorire!”, loro si erano arresi e lui si preoccupava per la brutta figura”.
L’istruzione delle donne, la minaccia per i talebani
Il centro nascita di Anabah promuove una rivoluzione silenziosa anche perché fa formazione e offre lavoro a donne del luogo ma da quando, nell’agosto 2021, i talebani hanno conquistato il potere, la scuola pubblica è stata preclusa a bambine e ragazze e progressivamente anche le università private, come pure la possibilità di collaborare con le organizzazioni non governative. È una vera catastrofe, soprattutto per chi è cresciuta con il sogno di una emancipazione che sembrava a portata di mano.
“Per le donne lo stop all’istruzione è la condanna a non poter lavorare, a non poter avere un ruolo nella società, una dignità. Le ragazze, le donne che collaborano con noi sono rimaste, si sobbarcano anche tre ore di autobus tutti i giorni per venire a lavorare e per guadagnare il loro stipendio, anche se sono ostacolate dalle famiglie. Collaborano con il personale internazionale, si formano insieme a noi e ne sono molto orgogliose, hanno una enorme coscienza del valore di questa opportunità.
Alcune sono promesse spose. Una ragazza ci ha chiesto di fare i doppi turni pur di non tornare a casa, i genitori non accettavano il suo rifiuto del matrimonio combinato con un cugino che lei non voleva. È rimasta una settimana, sorda a ogni supplica, finché ha convinto i genitori. Un’altra, proprio grazie al lavoro presso il nostro ospedale, è riuscita a mettere da parte un gruzzoletto e con quello ha riscattato la sua libertà dal matrimonio con un uomo che poi si è unito ai talebani, e con cui lei non voleva avere niente a che fare”.
I provvedimenti dei talebani hanno chiuso anche le facoltà di ginecologia e ostetricia, fino a quel momento aperte solo alle donne.
“Se in futuro non ci saranno più ostetriche e ginecologhe, posto che le donne non possono farsi visitare da un uomo, come partoriranno? In casa, con tutti i rischi che ne conseguono?”.