• 27 Novembre 2024 21:17

Put’ Domoi. Donne russe contro la guerra in Ucraina

DiElena Buccoliero

Feb 7, 2024

“Innanzitutto invitiamo le mogli, le madri, le sorelle e i figli dei riservisti russi che si trovano al fronte in Ucraina, a venire a Mosca da tutte le regioni. È importante dimostrare la nostra unità”, si leggeva il 2 febbraio scorso sul canale Telegram del movimento Put’ Domoi (The Way Home), promosso dalle madri, mogli, compagne, sorelle… dei riservisti inviati al fronte.

“In secondo luogo, invitiamo ciascuno, tutti i cittadini preoccupati, a indossare sciarpe o foulard bianchi e a deporre garofani sulla Tomba del Milite Ignoto”. Deporre fiori è una delle poche azioni ancora lecite in Russia per chi voglia protestare contro il governo.

Le donne di Put’ Domoi hanno chiesto al presidente russo Vladimir Putin un decreto che ponga fine alla mobilitazione, per risparmiare ad altri la sofferenza che loro stanno provando. “Gli ingranaggi della macchina statale non si fermeranno ai nostri mariti, figli, padri e fratelli. Chiunque può essere il prossimo. Quindi è dovere di tutti salvare i nostri concittadini dal tritacarne”.

Alla manifestazione del giorno seguente, secondo un canale Telegram, erano presenti oltre 200. Era la nona settimana di mobilitazione e anche la più significativa e partecipata, giacché il 3 febbraio si contavano 500 giorni dalla mobilitazione dei 300mila riservisti che sono stati arruolati nel settembre 2022 con la promessa di un rientro in tempi brevi, per una rotazione delle truppe. Tra i manifestanti del 3 febbraio, 25-30 persone (secondo le fonti) sono state arrestate. Tra loro, alcune donne e i giornalisti che hanno fotografato o ripreso la manifestazione contro la guerra. Radio Free Europe cita i corrispondenti delle testate Caution News, SOTAvision, We Can Explain, Kommersant, Agence France-Presse, Der Spiegel.  Quasi tutti i fermati sono stati rilasciati in serata.

Put’ Domoi: la nascita e le azioni

Frugando in rete (Meduza, Euronews, MoscowTimes, Open Democracy, Radio Free Europe, The Guardian, ABCNews, Svoboda, ecc.) si ricavano informazioni interessanti sul movimento Put’ Dumoi. Il nome significa appunto “The way home”, la strada di casa. Riprende, con un significato ben diverso, il titolo di un documentario governativo molto noto (“Crimea, The way home”) nel quale il presidente Putin raccontava della sua intenzione di annettere la Crimea il 24 febbraio 2014, per proteggere la popolazione “dalla violenza e dalla repressione dei nazionalisti ucraini”.

Le azioni sono marcatamente nonviolente. Citiamo un flash mob in cui le donne hanno apposto sui finestrini posteriori delle loro auto l’adesivo “Riporta indietro mio marito. Sono fottutamente stanca”, o le centinaia di lettere e chiamate al programma “Direct Line” di Putin.

Un video di nove minuti registrato da Maria Ishkova, di San Pietroburgo, ha raccolto su Telegram oltre 25.000 visualizzazioni nel giro di pochi giorni. Ishkova racconta di essere andata a Berdiansk, cittadina ucraina sotto occupazione, per trascorrere il capodanno con il marito riservista, e di averne appreso la morte. Ishkova definisce quel momento un “risveglio”. Ne è scaturito un atto di accusa verso la società civile del suo paese (i russi e il loro “minimo impegno civico” sono “responsabili” della guerra e dei suoi effetti), un richiamo agli altri familiari dei soldati ad alzare la voce (“non c’è più tempo perché ogni giorno può diventare fatale, e molto probabilmente lo sarà) e una presa di posizione contro la guerra anche a protezione del popolo ucraino. “La gente qui non ha bisogno di questo. I nostri uomini stanno morendo per niente”, ha detto la vedova. “Non chiudiamo gli occhi sul fatto che centinaia di migliaia di persone stanno morendo oggi [solo perché] non ce lo mostrano in televisione”.

Open Democracy il 7 agosto scorso scriveva che le donne si attivano anche per rafforzare la sicurezza degli uomini al fronte, accertare che siano curati quando ne hanno bisogno o riportati in patria se sventuratamente vengono feriti o uccisi. “Quando il Ministero della Difesa russo non riesce a fornire nemmeno le informazioni più basilari sui familiari, si auto-organizzano. Usano i social media per diffondere notizie sulla posizione delle unità e dei soldati schierati in Ucraina. Si rivolgono direttamente alle autorità statali russe. Fanno appello allo Stato affinché faciliti lo scambio di prigionieri di guerra, localizzi i soldati dispersi e migliori il supporto medico e assistenziale per i feriti. Quando un soldato viene ucciso, chiedono allo Stato di localizzare, trasportare e consegnare il suo corpo e di fornire assistenza alla famiglia come previsto dalla legge. Criticano le autorità per la loro gestione della guerra. Presentano denunce secondo cui i soldati vengono mandati in combattimento senza addestramento ed equipaggiamento adeguati. Sottolineano che i soldati vengono tenuti in servizio di combattimento per troppo tempo, quando avrebbero bisogno di riposarsi e riprendersi”.

I conflitti con le altre associazioni e con la società civile

Da quanto si legge, Put’ Domoi ha suscitato conflitti in ogni direzione. Non piace al movimento russo per la pace, che rimprovera alle donne di non schierarsi nettamente contro la guerra e di pensare solo ai propri familiari, ma così facendo si allontana da coloro che maggiormente soffrono per la guerra in corso. Quanto a “Put’ Domoi”, è vero che contiene visioni diverse sulla guerra. Una delle leader naturali, ad esempio, ha affermato: “Se il governo vuole attaccare un paese più piccolo, faccia combattere l’esercito e lasci in pace i nostri uomini”. Ma il tempo induce a riflettere. “Putin ha mentito quando ha detto che i civili non sarebbero stati chiamati a combattere. Sta mentendo anche sulle ragioni per cui siamo in Ucraina?”. Maria Andreyeva, il cui marito e fratello sono al fronte, ha qualificato la guerra “una grande tragedia tra due popoli fratelli”.

Il contrasto c’è con la popolazione generale, a vario titolo. In una fase iniziale Put’ Domoi chiedeva una rotazione nell’arruolamento dei riservisti e questo non andava a genio a quanti rischiavano di essere richiamati e alle relative famiglie. Inoltre, gli uomini al fronte godono di stipendi triplicati rispetto alla media e le famiglie ricevono alcune agevolazioni (trasporti gratuiti per i bambini, esenzione nelle rette degli asili…), sicché alla fascia più povera della popolazione non pare lecito che le donne si lamentino per i rischi connessi a questi “privilegi”. Al proposito le attiviste rispondono: “Nessuna somma può colmare la mancanza di un uomo per la moglie che lo ama o per il figlio che ha bisogno di lui. Smettetela di presentarci offerte in denaro invece di riportare a casa gli uomini che amiamo”.

Un movimento indigesto al governo russo

Put’ Domoi non può essere ben visto dal governo che in questi mesi avrebbe tentato strategie diverse per placare le proteste: dall’offerta di denaro per garantirsi il silenzio, all’accusa di legami con l’Occidente; dall’enfasi su un movimento femminile di segno opposto, “Katyusha”, che secondo alcune testate online indipendenti sarebbe posticcio, fino alle minacce agli uomini al fronte, incaricati di inviare a casa video messaggi rassicuranti e di chiedere alle donne di fermarsi per evitare a loro un trattamento peggiore. Questa circostanza è stata riportata proprio dalle donne, che hanno commentato promettendo una “esposizione internazionale” se dovesse succedere qualcosa agli uomini lontani: “Tutti sapranno chi è stato. Porteremo l’attenzione internazionale sulle vostre atrocità. La vostra illusione di stabilità crollerà in un istante!”.

Put’ Domoi dimostra che la guerra è sbagliata riprendendo temi cari al governo, ad esempio la retorica sulla famiglia (“Di cosa state parlando? Avete distrutto migliaia di famiglie!”) o il calo demografico (“Sono pronta ad alzare il tasso di fertilità se mi riportate a casa mio marito”). Le donne parlano inoltre del trauma dei loro bambini che stanno crescendo senza il padre – in molti si richiudono nel mutismo o sviluppano altri problemi comportamentali – rendendo sempre più chiaro che la guerra non serve a difendere le famiglie.

Dal 15 al 17 marzo in Russia si tengono le elezioni presidenziali e poche settimane fa, in gennaio, uno dei candidati di opposizione, Boris Nadezhdin, che si oppone apertamente alla guerra in Ucraina, ha incontrato una rappresentanza di Put’ Domoi.

Le donne russe contro la guerra sono ancora al sicuro?

Open Democracy in agosto scriveva: “In un paese senza media indipendenti o altri sistemi efficaci di controllo governativo, e che ha politiche statali repressive nei confronti di tutti i tipi di attivismo della società civile, madri e mogli [dei riservisti] sono davvero le uniche critiche legittime nei confronti dell’esercito”.

In quanto familiari dei “patrioti”, le donne avrebbero una autorità morale che le renderebbe intoccabili anche quando muovono “critiche devastanti allo Stato per la sua condotta irresponsabile della guerra e per il suo impatto distruttivo su famiglie e comunità”.

Dopo i fermi di polizia del 3 febbraio, nei quali è stata coinvolta anche Maria Andreeva, è evidente che questa immunità è sempre meno vera. È augurabile che in Russia tutti i gruppi e le organizzazioni contrarie alla guerra si uniscano, e che le donne trovino l’appoggio dei movimenti femminili e femministi in altri paesi del mondo, come del più vasto movimento per la pace, in modo che il loro impegno sia conosciuto, si riducano i rischi che stanno affrontando e risulti più efficace la loro azione.

 

Le immagini sono riprese dai siti Open Democracy, The Moscow Times e Svoboda

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.