La nonviolenza “non vede il ladro, lo stupratore, l’assassino, ma la persona che ha rubato, violentato, ucciso, e la necessità di intervenire per alleviare la sofferenza inferta, per impedire che altra se ne produca, per aiutare anche il reo in un processo di liberazione”. La nonviolenza rifiuta in ogni caso la pena di morte, poiché è apertura alla vita. Di questo parlava Daniele Lugli nella prima parte dell’intervista su nonviolenza e carcere, nel 2008, a pochi mesi dalla nomina a Difensore civico della Regione Emilia-Romagna.
Il carcere così come lo stai tratteggiando ha un’impostazione decisamente nonviolenta.
È necessaria, se non si vogliono nascondere nelle carceri i risultati di processi sociali che portano all’emarginazione dei soggetti più esposti: immigrati, tossicodipendenti, prostitute. Faccio un solo esempio: in proporzione, oggi nel nostro Paese i maschi stranieri sono carcerati sei volte di più rispetto a quelli italiani, nonostante che i reati loro imputati siano meno gravi di quelli attribuiti agli italiani.
È evidente che il carcere in nessun modo affronta i problemi che hanno provocato condanne e detenzione. La riprova è che, appena usciti, in gran parte ci ricascano. L’imponente recidiva si contrappone al fatto che, quando si usano forme alternative e ben mirate, la recidiva scompare. È stato calcolato che, tra quanti beneficiano delle misure alternative, la commissione di reati è stata dello 0,26%. Ma se questo 0,26% produce titoloni sui giornali, le misure alternative sono screditate. Si alza minaccioso il grido “In galera!”, un tormentone di “Alto gradimento” negli anni Settanta.
Motivo per cui, anziché screditare il carcere che pure risulta inefficace al reinserimento del condannato, l’opinione pubblica chiede che il carcere sia di più, più duro e più lungo.
La crisi dello stato sociale, con l’insicurezza che produce, porta richieste repressive, punitive, carcerarie, anche se ne è dimostrata l’inutilità, i costi, la dannosità perfino sotto il profilo della sicurezza fuori dal carcere, oltre che delle disumane condizioni all’interno degli istituti. Questo contrasta con norme giuridiche che dovrebbero essere acquisite. Sembra talora che il tempo sia passato inutilmente, nonostante la nostra Costituzione, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, la Convenzione Europea che mira alla salvaguardia dei diritti con protocolli che particolarmente si riferiscono ai detenuti, le raccomandazioni europee sulle regole penitenziarie e sulle sanzioni e misure alternative, e le convenzioni europee che hanno lo stesso oggetto, e leggi nazionali che recepiscono questi principi tradotti anche in un regolamento penitenziario del 2000. Vi sono però provvedimenti legislativi che vanno in direzione opposta e, con il pretesto di garantire sicurezza, rendono nei fatti impossibile l’applicazione di giusti principi.
Cioè, leggi che riempiono le carceri.
Sono note con nomi e cognomi: Bossi-Fini, Cirielli, Fini-Giovanardi, Maroni. La Bossi-Fini è sugli immigrati, la Cirielli ha ridotto le possibilità per i recidivi, la Fini-Giovanardi aumenta la penalizzazione per gli stupefacenti e la Maroni, infine, è quel complesso di misure sulla sicurezza che ha richiamato l’attenzione dell’Unione Europea per aspetti critici rispetto alle norme internazionali prima ricordate.
L’indulto recente è stato commentato via via contando i rientri. La fiducia verso i provvedimenti che svuotano le carceri si assottiglia…
Le ricerche che si sono fatte indicano una recidiva per gli indultati comunque inferiore a quella degli scarcerati a fine pena. È del resto comprensibile che la recidiva ci sia: se sono stato in carcere per reati contro il patrimonio, ed è questo il solo modo con il quale anche una volta uscito posso procurarmi da vivere, sarà molto probabile che ricorra allo stesso sistema; così, se sono andato in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti e non ho intrapreso un percorso efficace di uscita dalla dipendenza, ovvero non vedo alternative all’attività di spaccio, sarà molto probabile che ci torni per le stesse ragioni. Di qui l’importanza, da più parti sottolineata, di un’attività rivolta a detenuti e a persone in misure alternative fondata su formazione e lavoro.
Capitini parlava di “contesto”…
Il carcere dovrebbe essere limitato alle situazioni per le quali non si vede, al momento, altro miglior trattamento. Dovrebbe pertanto essere un luogo nel quale soggetti particolarmente “difficili” ricevono tutta l’attenzione possibile per un loro recupero, e dunque un luogo caratterizzato da strutture, spazi, risorse, personale capace di affrontare questo difficile compito.
Come Difensore Civico della Regione Emilia-Romagna, una delle tue prime preoccupazioni è stata quella di occuparti dei detenuti. Cosa ti proponi di fare in questo ambito?
In primo luogo ho bisogno di acquisire una maggior conoscenza delle situazioni. Prezioso mi è già il rapporto con la Garante dei Detenuti del Comune di Bologna e con la rete di relazioni che a lei fanno capo. La Regione Emilia-Romagna nel 2008 ha fatto una legge per migliorare l’integrazione delle attività che si svolgono dentro e fuori dal carcere, prevedendo appunto anche la figura del Garante delle persone ristrette o private della libertà personale. In assenza della nomina di questa figura specializzata ritengo mio dovere tutelare, con tutti gli strumenti di cui potrò disporre, i diritti dei cittadini che si trovano in condizione di privazione o restrizione della libertà.
“Cittadini” con queste caratteristiche, per me, sono tutte le persone che nella regione in tali condizioni si trovano, perché in carcere, perché sottoposti a misure alternative, perché nei Centri ex Cpt, ora di identificazione ed espulsione, o perché in trattamenti psichiatrici.