Daniele Lugli è stato a lungo segretario nazionale, e poi presidente, del Movimento Nonviolento. Per ogni congresso che ha presieduto in quegli anni ha preparato una relazione introduttiva meditata, nella quale confluivano il suo sguardo sul mondo e quello sul lavoro e le prospettive del Movimento, e uno dei suoi propositi rimasti incompiuti è proprio quello di riunire, in un unico libretto, tutte le sue relazioni. Un progetto aperto, che potremmo prendere in esame nel tempo a venire.
Quella che segue è la prima parte della relazione introduttiva di Daniele al congresso di Brescia (2010), intitolato “La nonviolenza per la città aperta”, l’ultimo cui ha partecipato come presidente. Neanche a dirlo, il testo continua a essere occasione per un confronto sull’attualità.
Il Congresso del Movimento vuole essere un invito a quanti collocano nella nonviolenza l’orientamento fondamentale per il loro agire nella società. Congresso, come altre volte ricordato, è un composto di gradi che significa avanzare, in particolare a piedi (gradatim: passo dopo passo) unito a cum: congresso è avanzare assieme. Può essere un’occasione importante di confronto per i partecipanti e di indirizzo alla attività del Movimento. Non è nuovo l’appello che in tal senso rivolgiamo ad amici che condividono, operando anche in gruppi diversi, nostre aspirazioni e iniziative.
Sono grato a chi ha accolto l’invito comprendendo i limiti della nostra preparazione e cogliendone l’apertura. Ci sembra che l’occasione offerta rivesta una importanza particolare in un momento di profonda crisi della vita sociale e culturale che investe le strutture stesse della democrazia. Lo dice bene Marco Revelli, che sentiamo molto vicino ma che raramente abbiamo con noi, in un ricordo di Bobbio (che mai ci ha fatto mancare il suo saluto e augurio). Nell’Ottanta, e Berlusconi era solo un avventuroso imprenditore, diceva caratteristico del tiranno l’ostentare comportamenti illegali e immorali perché a lui tutto era permesso. Cosa impossibile in un regime democratico per lo scandalo che avrebbe provocato il rigetto da parte della pubblica opinione. Bobbio ha avuto modo di vedere il passaggio e assieme la compresenza tra potere invisibile e democrazia dell’applauso in un Paese dominato da una minoranza di furbi con una forte presenza di servi. Provò vergogna fin dell’essere italiano, come ad altri allora è successo, di fronte all’assassinio di Falcone. L’essere italiano gli apparve comunque un valore di fronte alla povertà degli argomenti e alla volgarità del linguaggio dei cosiddetti leghisti. E a Bobbio la morte ha risparmiato il seguito.
(Abbiamo) la volontà di assumere la nonviolenza come risposta necessaria a questa crisi profonda e a molte dimensioni. Che di questo si tratti nessuno dubita. Un poeta lo aveva detto con particolare efficacia:
Muore ignominiosamente la repubblica. / Ignominiosamente la spiano / i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. / Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto. / Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani, / si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli. /Tutto accade ignominiosamente, tutto / meno la morte medesima – cerco di farmi intendere / dinanzi a non so che tribunale di che sognata equità. E l’udienza è tolta. (Mario Luzi, Muore ignominiosamente la Repubblica)
La poesia è degli anni Settanta. L’agonia è stata lunga, non priva di effetti nelle vite degli italiani. La sua storia è stata scritta in più modi e secondo diversi profili. Non starò a riprenderli. La situazione nella quale siamo è segnata dalla violenza agita, minacciata, temuta.
Dire nonviolenza è in primo luogo obiettare a un sistema strutturalmente, culturalmente e direttamente violento del quale siamo vittime e complici. Vuol dire anche pensare che dall’obiezione è necessario partire per costruire l’azione, come amava dire Danilo Dolci. Sarà perciò importante compiere un esame dello stato della nonviolenza che si vuole organizzata nel nostro Paese. (…) Questo rende tanto più necessario il confronto con quanti al pensiero e alla pratica nonviolenta cercano di ispirarsi. (…)
L’orientamento alla nonviolenza portato nei conflitti in corso e in quelli che si annunciano è un viatico al loro successo. Sappiamo per esperienza come l’avvitamento in spirali di violenza porti a un sicuro fallimento. In una situazione di impoverimento che va allargandosi anche nella nostra società, la perdita di lavoro per gli adulti e delle prospettive di occupazione per i giovani esaspera comprensibilmente le iniziative. In questa difficile condizione la Fiom, da più parti attaccata e descritta come irresponsabile antagonista, ha condotto un’azione che ha attratto altre componenti sociali evitando degenerazioni previste e forse auspicate. Anche per tale via viene in risalto la difficile difesa del “lavoratore globale” che sempre più è compito del sindacato affrontare.
Per consentire ai giovani di avere una speranza qualche idea generale per un futuro che non sia una corsa di topi bisogna averla. Sono i giovani a pagare il prezzo più pesante oggi. I precari non sono qualche migliaio ma qualche milione; la formazione, la tenuta morale, la libertà di questi milioni di ragazze e ragazzi sono un dovere per loro e per noi vecchi (Francesco Ciafaloni). “Non c’è alcun bisogno di speranza per intraprendere, né di successo per perseverare”, sosteneva Guglielmo d’Orange. Ma, dice un proverbio indiano, “La speranza è come una strada di campagna, che si forma perché la gente inizia a percorrerla”.