Le Monde Diplomatique del 5 aprile scorso torna a parlare di Agathe Habyarimana, da trent’anni sospettata, e mai processata, per complicità nel genocidio del Rwanda. Pochi giorni dopo l’inizio delle esecuzioni Agathe Habyarimana venne fatta evacuare in Francia, dove vive tuttora e dove forse rimarrà – Parigi ha rifiutato l’estradizione – pur non essendosi vista riconoscere il diritto d’asilo. È la vedova del presidente ruandese Juvénal Habyarimana, assassinato il 6 aprile 1994 insieme al presidente del Burundi Cyprien Ntaryamira. L’abbattimento dell’aereo su cui stanno viaggiando è l’episodio scatenante di un genocidio attentamente pianificato in precedenza. Cento giorni nei quali vengono uccise dalle 800.000 a un milione di persone, in massima parte tutsi ma anche hutu che si oppongono allo sterminio o persone appartenenti ad altre minoranze.
Di quei terribili 100 giorni – cui corrispondono quest’anno 100 giorni di commemorazione in Rwanda – e del successivo processo di pace sono protagoniste alcune figure femminili, nel male e nel bene.
Nel 2011, Pauline Nyiramasuhuko, ministro ruandese della Famiglia e dello Sviluppo delle donne all’epoca della tragedia, diventa la prima donna condannata per genocidio in un processo penale internazionale e la prima condannata per stupro come crimine contro l’umanità. In particolare Nyiramasuhuko viene accusata di avere guidato le azioni di polizia etnica nella parte meridionale del paese e di avere ideato l’utilizzo dello stupro come strumento di umiliazione per le donne catturate nella strage di Butare del 25 aprile 1994.
L’allora ministro della giustizia, Agnès Ntamabyaliro Rutagwera, viene condannata all’ergastolo nel 2009 per avere incitato e partecipato all’organizzazione del genocidio e per avere organizzato l’omicidio di Jean-Baptiste Habyalimana, un prefetto tutsi che resistette a quelle operazioni. Il ruolo di Ntamabyaliro Rutagwera è particolarmente controverso, essendo lei stessa figlia di un matrimonio misto tra hutu e tutsi. Rapita dalla sua casa in Zambia nel 1997, si occupò di lei Amnesty International per chiedere il suo ritrovamento che avvenne qualche anno dopo in un carcere ruandese.
Infine, tra le figure di donne responsabili ricordiamo Valérie Bemeriki, giornalista radiofonica di Radio Télévision Libre des Mille Collines, condannata per crimini di guerra. I sopravvissuti l’hanno ricordata come “la voce della morte”. Con inconsueto fervore incitava le aggressioni: «I tutsi sono il cancro del Ruanda, bisogna sradicarli!». Preferibilmente con il machete: «Non uccidete quegli scarafaggi con un proiettile, fateli a pezzi!». Oltretutto «la Vergine Maria è dalla nostra parte!». Valérie Bemeriki è stata poi processata e condannata all’ergastolo. In udienza si è difesa adducendo una scusa poco originale: l’obbedienza agli ordini del datore di lavoro.
La presenza di donne nell’uno e nell’altro versante ci aiuta a esercitare cautela rispetto a una certa retorica sul pacifismo innato di ogni potenziale madre. Mentre tutto questo avveniva, però, altre donne compivano scelte ad alto rischio perché l’orrore per la disumanità erano più grandi della paura di essere uccise e, dopo i massacri, proprio le donne ruandesi hanno guidato il processo di ricostruzione sociale ed economica del paese, come avremo modo di approfondire nel prossimo articolo.
Ricordiamo intanto Yolande Mukagasana, medico tutsi sopravvissuta allo sterminio, e Jacqueline Mukansonera che l’aveva conosciuta brevemente in una visita medica e che, trovandosela in casa, ha scelto di proteggerla. A loro è stato assegnato nel 1998 il Premio internazionale “Alexander Langer”. La loro storia si può leggere nel libro “La morte non mi ha voluta” di Yolande Mukagasana, pubblicato in Italia nel 1998 (ed. meridiana) e non più disponibile sul mercato.
Jaqueline, ospite a Città di Castello nello stesso anno alla “Fiera delle utopie concrete”, ha raccontato: «Quando mi sono trovata Yolande in casa, braccata come un animale, che mi chiedeva aiuto, mi sono attenuta al comandamento della Bibbia: “ama il tuo prossimo come te stessa”. Ho seguito quanto mi diceva la mia coscienza. L’ho nascosta sotto un lavandino, là dove tenevo il carbone e mi sono occupata di lei come se fosse un bambino. Essendo io in possesso della carta d’identità etnica hutu, sono stata la sua guardia del corpo e l’ho aiutata a salvarsi. Invito tutti a seguire la propria coscienza e a non dare retta ai dirigenti politici e religiosi, che potrebbero indurci a commettere il male. Questa esperienza mi ha insegnato ancor di più a non dare importanza all’appartenenza etnica o religiosa, perché coloro che si sono fidati e hanno ubbidito ai dirigenti politici e religiosi, hanno commesso il male. L’essere umano non è malvagio, ma può essere indotto al male come al bene. Per fare il bene occorre seguire la propria coscienza, sempre e subito, senza mai rimandare al domani le buone azioni».
Jacqueline ha salvato Yolande da morte sicura a rischio della propria vita ma, si legge nella motivazione del premio, “altri casi simili si sono certamente verificati nel Rwanda del 1994, così come durante altri genocidi. (Questo episodio) dimostra che anche nelle situazioni più brutali ed estreme, esistono spazi per le responsabilità e le iniziative individuali, e sia possibile perseguire valori come la tolleranza e la convivenza tra gli esseri umani”.
In Rwanda continuano a vivere insieme, tra mille difficoltà, hutu e tutsi, grazie a una giustizia internazionale e nazionale attenta e per l’impegno di associazioni e organizzazioni che non hanno mai smesso di ricercare forme di riconciliazione. Anche a questo daremo spazio in un prossimo articolo. È importante, si sottolineava già nella motivazione di quel Premio Langer, che il genocidio ruandese “non venga archiviato, nella nostra memoria europea, come uno dei tanti eventi drammatici che si svolgono in aree considerate lontane e periferiche del nostro pianeta. Soltanto mezzo secolo fa, nel cuore dell’Europa, ebrei e ariani (…) si sono trovati in situazioni non dissimili. E così, in questi ultimi anni, i croati, i bosniaci, i serbi e i kossovari, o, in un contesto diverso, gli stessi algerini”. Parole che risuonano ancora oggi mentre assistiamo ad altri massacri, ad altre uccisioni.