Riceviamo oggi un’intervista a Daniele Lugli raccolta nel 2004 in occasione di una tesi di laurea. La studentessa era Giovanna Tonioli, ferrarese, che oggi è educatrice, psicoterapeuta, arteterapeuta. Nelle sue affermazioni Daniele ci consegna elementi rilevanti sullo specifico della nonviolenza e su come tendere alla formazione di cittadini e non sudditi, per riprendere una espressione che amava. Per questo, a dispetto del tempo, la proponiamo.
L’intervista prende le mosse da un’esperienza ben precisa: in quegli anni a Ferrara, come Movimento Nonviolento abbiamo chiesto a Luciano Capitini di formarci sulla mediazione dei conflitti secondo il modello umanistico di Jacqueline Morineau e abbozzato l’avvio di un Centro di mediazione gestito da volontari formati che intitolammo “Il primo passo”. Il progetto fece poca strada, l’Amministrazione Locale diede vita a un Centro di mediazione a guida istituzionale e le cose presero un altro corso.
Sei stato tra i promotori del centro di mediazione dei conflitti «il Primo Passo». Come è nata questa idea e con quali intenti?
Nasce dalla riflessione tra operatori del Centro per i Servizi del Volontariato e iscritti al Movimento Nonviolento sul tema dei problemi sociali, che si presentano, e dei conflitti, che ne derivano. Si è pensato di partire da quelli che si verificano tra singole persone, spesso a livello condominiale o di vicinato, per giungere a quelli che coinvolgono interi gruppi. Per cominciare è sembrato perciò interessante avvalersi della preparazione e dell’esperienza sul campo, come mediatore di conflitti, di Luciano Capitini, esponente del Movimento Nonviolento. Dai due seminari tenuti a Ferrara si è consolidato un piccolo gruppo, interessato alla pratica di questo tipo di mediazione, che si è dato il nome di Il Primo Passo.
Come si inserisce, se si inserisce, questo progetto nella cultura e nella pratica della nonviolenza?
La questione dei conflitti, da quelli grandi a quelli piccoli, è al centro della riflessione e della pratica ispirata alla nonviolenza. L’amico della nonviolenza (Aldo Capitini ci raccomandava di non dirci nonviolenti, io comunque non lo potrei) può trovarsi nel conflitto sia come attore che come mediatore. Come attore perché viene coinvolto o addirittura perché lo provoca, ritenendolo necessario, in quella precisa situazione, per promuovere esistenza, libertà e sviluppo di ogni essere. È questa promozione (per me, ma non solo per me), unita alla ricerca di mezzi il più possibile coerenti col fine, il carattere essenziale della nonviolenza.
Si può anche immettere nel conflitto come mediatore, giacchè i veri solutori del conflitto non possono essere, alla fin fine, che le parti confliggenti. Una soluzione imposta da fuori dura quanto dura la forza di chi l’ha imposta. Può essere necessario però accompagnare le parti a proporsi tra loro la soluzione migliore. È questo lo spazio della mediazione. Nel nostro caso si tratta di fornire un’occasione di incontro tra le parti, in terreno neutrale, con un ascolto empatico da parte di due mediatori. Per tale via si migliora, o addirittura si ristabilisce, la comunicazione tra le parti, si assicura che le rispettive «ragioni» abbiano uno spazio di esposizione e di ascolto, si incoraggia l’individuazione di una possibiltà di cooperazione, e quindi di accordo, che resta nell’esclusiva disponibilità delle parti.
Il Comune di Ferrara, all’interno del progetto speciale «Ferrara città solidale e sicura», proprio in questi mesi sta deliberando per ottenere finanziamenti per degli interventi di mediazione sociale e dei conflitti. Cosa ne pensi?
Penso che una maggiore attenzione, approfondimento e diffusione alla cultura della gestione dei conflitti sia una cosa buona e necessaria. La pratica di lavoro sociale ci fa consapevoli della straordinaria complessità che accompagna ogni problema che si presenta. Una maggior competenza nell’affrontare costruttivamente i conflitti che sorgono è necessaria sia dal lato degli operatori professionali che dei cittadini. I nostri seminari muovevano anche da questa convinzione ed hanno contribuito a portare l’attenzione sul tema. Vi sono in giro per l’Italia alcuni esempi che mi dicono buoni. Spero che il progetto tenga conto delle pratiche che meglio hanno mostrato di poter funzionare.
Come si intersecano queste due realtà, istituzionale da un lato, e di volontariato dall’altro?
L’istituzione ha il vantaggio della durata, dell’esserci sempre, di essere composta da persone che per professione, per elezione, si occupano dei problemi della collettività, secondo modalità programmate. Il volontario c’è perché l’ha deciso lui, ma c’è quando c’è e nelle modalità in cui c’è. Che volontariato e istituzioni dispongano di strumenti più aggiornati per affrontare i molteplici conflitti che si presentano è un bene, meglio ancora se le modalità sono condivise. Istituzioni attive e cittadinanza attiva possono istituire un circolo virtuoso. Di solito questo è più rappresentato che reale. Le istituzioni si dicono democratiche e competenti, la società ama definirsi civile. Sono aggettivi se non abusivi, esagerati. Il confronto e l’intersecarsi di esperienze può però contribuire a renderli più appropriati.
Che ruolo e che specificità (quale aggiunta diresti tu) potrà avere “il Primo Passo” se collocata all’interno del progetto del Comune?
Penso che una possibilità di collaborazione sia da cogliere. Il Primo Passo può alludere sia all’avvio di un processo di soluzione del conflitto concreto e di trasformazione della relazione tra litiganti che, come si era pensato nella proposta iniziale, al fatto che altri passi devono seguire nella competenza ad affrontare conflitti di crescente complessità, sia come mediatori che attori. Anche in tal modo si può contribuire a che vi siano più cittadini impegnati ad essere tali, competenti nel collaborare ad assumere decisioni che li riguardano, non solo sfiduciati elettori, distratti destinatari di sondaggi, reattivi oppositori, quando vengono “minacciati” dalla localizzazione di una discarica o di un canpo nomadi. Il Primo Passo potrà dare un contributo se potrà procedere, con convinzione e con piacere, nella competenza nella gestione dei conflitti. Non mi dimentico che il primo nome proposto per il gruppo, e forse il suo nome segreto, è “il terzo gode”: a vedere trasformati in modo positivo, anche grazie al suo contributo, i conflitti, naturalmente.