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Uomini violenti e donne maltrattate possono essere bravi genitori? – I° parte

DiElena Buccoliero

Dic 22, 2014

Che genitori sono un uomo maltrattante o una donna maltrattata? O in altri termini: in che modo si è genitori in un contesto in cui la violenza è la modalità di relazione e di comunicazione?

Nicola Corazzari: Parlare di genitorialità mi mette in difficoltà. L’educazione non è qualcosa che noi facciamo su qualcuno ma è una relazione in cui le parti si modulano vicendevolmente, e vedremo quanto è importante e attivo il ruolo di un bambino che assiste a violenza. Ma per capire dove sbaglia un padre dobbiamo anche domandarci a che cosa serve, che funzione ha.

Giusto, a che cosa serve un padre?

Tendenzialmente svolge diverse funzioni, ma la prima è quella di essere il terzo nella coppia madre-bambino. Il padre ci fa capire che non possiamo avere una soddisfazione continua dei nostri bisogni. Separa il bambino dalla mamma e gli consente di aprirsi all’esplorazione del mondo.

Ci fai un esempio?

Un papà gioca col bambino a lanciarlo in aria. Il bambino ride, finché viene lanciato troppo in alto e il divertimento diventa angosciante. Il papà se ne accorge e smette immediatamente. Questo è ciò che avviene in una famiglia “normale”, dove non c’è violenza da parte dell’uomo. Il papà ti fa capire che puoi lasciarti andare perché c’è qualcuno che ti riprende, concetto che si ripresenterà per tutta l’adolescenza.

Il papà maltrattante invece…

In primo luogo decide lui quando fare il gioco, non aspetta i tempi del bambino: è lui al centro, le cose si fanno quando lo dice lui. In secondo luogo, non smette di fronte all’angoscia perché cerca quell’angoscia, per fargliela superare nell’unico modo che lui ha conosciuto, cioè esporlo al trauma.

Detta così, sembra che si parta da una buona intenzione.

Difatti l’intenzione non è malevola, ma è sicuramente patologica. Ma, fidati, è tipico di molti uomini, violenti e non, il fatto che quando si trovano di fronte a un problema lo devono affrontare con l’azione, non si permettono lo spazio per avere paura o inquietudine o dubbi, perché negli uomini non c’è spazio per le emozioni deboli. E questo per noi è un grosso problema.

Possiamo dire che un uomo violento non può essere un buon padre?

Se fa violenza e i bimbi assistono, non può essere un buon padre. Però il padre che usa violenza ha subito quel tipo di educazione, con situazioni traumatiche nella maggioranza dei casi.

Un uomo maltrattante è sempre il risultato di un bambino maltrattato?

È cresciuto con queste logiche, modelli interni ereditati a livello generazionale dal padre, dal nonno e sostenuti da madri, mogli, compagne. Modelli trasmessi di maschio in maschio e rinforzati socialmente. Anche se si propone di fare diversamente con la propria famiglia, quando la tensione sale con la moglie o i bambini ripeterà prima o poi ciò che ha vissuto.

Come dire che non si può sfuggire alla ripetizione della violenza appresa?

I comportamenti, così come si imparano, si può anche cercare di cambiarli, e nei Centri di ascolto per uomini maltrattanti lavoriamo proprio su questo. Interrompere la violenza è il primo obiettivo; il secondo è lavorare sui modelli di mascolinità.

E la donna maltrattata, quali modelli familiari ha appreso?

Gloria Soavi: Non è un assioma, ma in tantissime storie chi diventa una donna maltrattata ha nella sua storia personale elementi che la predispongono a sopportare il maltrattamento. Non necessariamente perché il padre la picchiava, o per aver assistito a maltrattamenti sulla madre; la violenza è molto complessa e subdola.

In quale direzione cercare?

Nei legami di attaccamento. Un bambino crea un buon legame se ha due genitori che gli danno una base sicura, che si prendono cura di lui dal profondo sin dalla nascita. Ogni interazione anche visiva, ogni gesto costruisce la relazione tra un bambino e i genitori.

Le donne che a fatica interrompono il ciclo della violenza non hanno avuto, nella loro storia, queste sicurezze. A volte hanno buone posizioni sociali – laureate, con professioni interessanti – ma nella relazione col partner vivono inferni quotidiani. Il fatto di non avere avuto legami che danno conferma del loro valore e supportano la loro identità porta ad una fragilità. Queste donne possono vivere accanto ad uomini autocentrati, che decidono tutto da soli senza chiedere mai alla partner “come stai?”, senza rendersene conto fino in fondo.

Se già l’insicurezza viene da lontano, la violenza del partner non migliora certo le cose…

Già Leonor Walker aveva delineato nel 1979 la sindrome della donna maltrattata. Provo a riassumerla.

La relazione tra i partner è altalenante. Compaiono inizialmente segnali che non sono vera e propria violenza agita ma prove di sudditanza che l’uomo mette in atto – per il suo background, perché autocentrato e perché maschera la sua insicurezza di fondo. Non c’è ancora violenza fisica. Lui si impone e la donna si adegua – e anche i bimbi, capiscono subito come ci si regola. Per evitare l’insulto lei fa in modo che la situazione rimanga tranquilla e in questo modo pensa di avere tutto sotto controllo.

Poi viene il momento in cui questo equilibrio patologico salta – basta un niente – e si arriva alla violenza fisica. Cui segue la “luna di miele”, i pentimenti, “scusa è stato un momento…”. La donna vuole credergli – e il ciclo ricomincia e nel tempo diventa sempre più violento.

Nicola Corazzari: Il fatto che si situi in una relazione di fiducia, rende la violenza di genere più difficile da riconoscere. Una donna percossa dall’uomo che si è scelta, nel rifugio che si è creata (la casa), all’interno della coppia che è il rifugio relazionale, difficilmente riconosce la violenza.

C’è il solito ritornello: “non lo farà più”, “lo aiuterò a cambiare”…

Nicola Corazzari: la donna legge la violenza come una manifestazione della sofferenza del maschio, e invece è esattamente il contrario: è il modo che l’uomo ha imparato per governare la relazione.

Gloria Soavi: Emerge in maniera patologica anche una sorta di spirito materno nei riguardi del partner; la donna vede in lui il bambino sofferente e crede di essere l’unica in grado di curarlo, non riuscendo a volte a vedere la sofferenza dei figli ma solo quella del marito. In aggiunta, tante donne quando chiedono aiuto alle loro famiglie trovano le porte chiuse e l’esortazione a “sopportare”!

Che madre è, una donna che vive questo?

È una donna sempre più traumatizzata, che non ha il controllo delle sue emozioni. Questi poi sono uomini che delegano apparentemente l’educazione dei figli alla donna ma allo stesso tempo squalificano costantemente la madre anche agli occhi dei figli. Questo è un problema, perché in adolescenza i figli possono addirittura arrivare a comportarsi come il padre nei confronti della madre.

Una donna che vive in allerta costante, col terrore che il partner rientri a casa arrabbiato, farà fatica a sintonizzarsi con i propri bambini, anche se cerca di proteggerli. In molti casi non riesce ad essere protettiva perché, in primis, non sa proteggere se stessa. Il suo occuparsi dei bambini è carente non perche sia incapace ma perché vive una situazione emotiva di trauma. È da mettere in conto una fase successiva di rielaborazione del senso di colpa quando comprende cosa i figli hanno provato. Fa star male accorgersi che non hai protetto tuo figlio perché non avevi le risorse emotive per prendertene cura.

Queste esperienze sono frequenti?

Guarda, nel 2011 Save the Children ha curato una ricerca in tre regioni pilota (nord, centro e sud Italia) proprio sulla presenza dei bambini nelle situazioni di violenza familiare. Secondo questa indagine, in tre regioni italiane ci sono stati 400mila bambini vittime di violenza assistita. È un dato che personalmente mi atterrisce per i bimbi, e perché significa che ci sono altrettante situazioni familiari estremamente gravi.

Immagine in evidenza tratta da mamma-forever.blogspot.com

Di Elena Buccoliero

Faccio parte del Movimento Nonviolento dalla fine degli anni Novanta e collaboro con la rivista Azione nonviolenta. La mia formazione sta tra la sociologia e la psicologia. Mi occupo da molti anni di bullismo scolastico, di violenza intrafamiliare e più in generale di diritti e tutela dei minori. Su questi temi svolgo attività di formazione, ricerca, divulgazione. Passione e professione sono strettamente intrecciate nell'ascoltare e raccontare storie. Sui temi che frequento maggiormente preparo racconti, fumetti o video didattici per i ragazzi, laboratori narrativi e letture teatrali per gli adulti. Ho prestato servizio come giudice onorario presso il Tribunale per i Minorenni di Bologna dal 2008 al 2019 e come direttrice della Fondazione emiliano-romagnola per le vittime dei reati dal 2014 al 2021. Svolgo una borsa di ricerca presso l’Università di Ferrara sulla storia del Movimento Nonviolento e collaboro come docente a contratto con l’Università di Parma, sulla violenza di genere e sulla gestione nonviolenta dei conflitti.

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