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Après Charlie. Alcune note per provare a com/prendere

DiPasquale Pugliese

Gen 18, 2015
(foto di Antonella Iovino)

Notre émotion ne doit pas paralyser notre raison,
comme notre raison ne doit pasatténuer notre émotion.
Edgar Morin

Comprendere significa letteralmente – secondo il Dizionario etimologico – “prendere con, prendere insieme”, che vuol dire sia abbracciare con la mente, intendere appieno, che apprendere come compito sociale, apprendere reciprocamente. Il contrario di ogni tentativo di conoscenza che tenti di semplificare ciò che è complesso, di ridurre a banale ciò che ha ragioni profonde.  A caldo, subito dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, Edgar Morin ha scritto su Le Monde un articolo (non tradotto in italiano) nel quale parla del “trionfo del pensiero riduzionista. Non solo i fanatici assassini credono combattere i crociati ed i loro alleati ebrei (che i crociati hanno massacrato), ma gli islamofobi riducono gli arabi alla loro supposta credenza, l’islam, riducono l’islamico in islamista, l’islamista in integralista, l’integralista in terrorista”, Contro questo riduzionismo violento ho cercato di mettere insieme alcuni pensieri che mi aiutassero a com/prendere.

Tra le cose più interessanti circolate in rete in seguito alla strage di Charlie-Hebdo c’è la lettera di quattro insegnanti di Seine Saint-Denis – banileu parigina dove vivono molti cittadini francesi immigrati di prima, seconda e terza generazione, come i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly – che di fronte alla chiamata alla guerra di religione, hanno provato a cambiare punto di vista, assumendo quello dei loro studenti. “Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia – scrivono gli insegnanti – Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili.” Al senso di responsabilità aggiungono il “provare vergogna”: “nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio”. “Nous sommes Charlie” – concludono -, possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.

Sono le questioni che pone anche il sociologo delle religioni Malek Chebel in un’intervista a il manifesto Malek Chebel, ricostruendo il percorso che ha portato giovani francesi a rivoltarsi contro il proprio Paese: “Fino a che punto sono andati a scuola? Come sono stati accolti? Hanno soddisfatto le loro ambizioni? Sono passati all’atto, tragicamente. Ma se non facciamo niente, se la sola alternativa che viene proposta loro è o di vivere come dei poveracci in una banleue, di essere disoccupati o di farsi sedurre dai fanatici, avremo un fenomeno destinato ad accelerarsi con la crisi economica”. E’ il tema della costruzione della convivenza. Un tema decisivo per l’Europa: anche i quattro attentatori suicidi di Londra del luglio 2005, che causarono 56 morti, erano figli di pakistani immigrati in Inghilterra. Oggi pare si contino a migliaia i giovani combattenti jihadisti arruolati nelle file dell’Isis, ma nati e cresciuti nei paesi europei. Giovani musulmani delle periferie, di seconda o terza generazione, che abbracciano la dottrina jihadista spesso in solitudine, attraverso i social network, per unirsi alla “guerra santa” contro l’odiato Occidente, in Siria ed in Iraq. Invece di indagare le cause di questa sorta di fuga e rivolta contro l’Occidente per provare a rimuoverle e spezzare la catena della violenza è stato tirato fuori – ancora una volta, dopo un attentato di questo tipo – il dogma dell’identità e il feticcio dello “scontro di civiltà”, una profezia che si autoavvera.

Non solo le spiegazioni riduzionistiche non aiutano a comprendere questioni complesse, ma alimentano la legittimazione alla violenza, alla guerra del noi contro loro. Invece “la realtà del nostro tempo non è semplice” – scrive Ilvo Diamanti, nelle sue “bussole” su la Repubblica – “Ma è attraversata da appartenenze diverse. Talora, multiple. Talora ambigue. Tanto più per un maghrebino o un africano di seconda generazione. Figlio di immigrati. Sospeso a metà fra l’identità d’origine dei genitori. E quella del Paese dove è nato e risiede oggi. Turbato da un’identità ambivalente e confusa. Quindi, perlopiù, senza identità”. Ma anche tirare fuori l’identità ad ogni piè sospinto – come ha fatto Renzi, parlando di “attentato all’identità d’Europa” – è la riduzione dei fatti ad un modello di spiegazione che non aiuta a comprendere, ma indica già la risposta difensiva contro un nemico interno che si sarebbe alleato a quello esterno. E’ opportuno rileggere gli studi di Francesco Remotti su L’ossessione identitaria che decostruiscono questa parola dogmatica che rappresenta il grande mito del nostro tempo, “perché promette ciò che non c’è, ci illude su ciò che non siamo, perché fa passare per reale ciò che è una finzione o, al massimo, un’aspirazione”. L’identità è una “parola avvelenata” perché, mentre alza barriere culturali e razziste tra chi è dentro e chi è fuori, impedisce di operare per il legittimo riconoscimento dei bisogni di tutti, fondamento costruttivo della convivenza. Come ben sanno i quattro insegnanti francesi.

Nel suo articolo anti-riduzionista Morin ricorda che l’irruzione, nel cuore della Francia, della guerra del Medio-Oriente è anche una conseguenza della “radicalizzazione e decomposizione della guerra in Iraq e Siria”. Nel cuore della Francia e nel cuore del’Europa. Non a caso il Movimento Nonviolento, nel suo comunicato stampa, ha scritto: “E’ necessario spezzare tutti i fucili: i loro kalashnikov e le “nostre” bombe che insanguinano la Siria, la Libia, l’Iraq e molti altri Paesi del mondo. Stiamo dalla parte delle vittime, che oggi sono giornalisti e poliziotti. Ma sono anche i civili dei Paesi dove è stata esportata la “guerra al terrorismo”, che invece il terrorismo sta alimentando. Contro la spirale guerra/terrorismo/guerra/terrorismo la ‪nonviolenza‬ è l’unica risposta efficace.” Tanto sul piano internazionale quanto sul piano interno. E’ la possibilà di com/prendere la situazione attuale e di trasformarla. “Il conoscere il mondo è connesso con il volerlo cambiare”, scriveva Aldo Capitini in Educazione aperta. Senza riduzionismi.

Di Pasquale Pugliese

Pasquale Pugliese, nato a Tropea, vive e lavora a Reggio Emilia. Di formazione filosofica, si occupa di educazione, formazione e politiche giovanili. Impegnato per il disarmo, militare e culturale, è stato segretario nazionale del Movimento Nonviolento fino al 2019. Cura diversi blog ed è autore di “Introduzione alla filosofia della nonviolenza di Aldo Capitini” e "Disarmare il virus della violenza" (entrambi per le edizioni goWare, ordinabili in libreria oppure acquistabili sulle piattaforme on line).

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