• 22 Novembre 2024 23:28

Tortura di stato

DiNicola Canestrini

Mar 3, 2015

stop_tortureQuale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, e’ non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati“, scriveva Cesare Beccaria nel suo celeberrimo “Dei delitti e delle pene” pubblicato nel 1764 a proposito della tortura.

Nella prima Magna Carta (1225) c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese».

La tortura, anche sul seguito di quel che scriveva l’illuminato Beccaria, è da tempo oggetto di generale e incondizionata condanna in tutti i documenti internazionali sui diritti umani: si ricordi, ad esempio, l’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, e art. 3 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’ uomo e delle libertà fondamentali del 1950, ma anche l’art. 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, .. per citare solo quelli più rilevanti.

Successivamente, nel 1984, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvava la Convenzione per la prevenzione specifica della tortura e dei trattamenti disumani, crudeli e degradanti e, nel 1987, gli Stati membri del Consiglio d’Europa adottavano la Convenzione europea per una eguale prevenzione mediante i meccanismi di controllo, sopralluoghi del Comitato europeo ad hoc intesi a verificare il trattamento delle persone in stato di detenzione al fine di rafforzare la loro protezione dalla tortura e da trattamenti crudeli.

Ora, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (firmata a New York il 10 dicembre 1984) in vigore dal 26 giugno 1987, vige per la Repubblica italiana dall’11 febbraio 1989, dopo il deposito dello strumento di ratifica del 12 gennaio di quell’anno.

La ratifica era preceduta dalla legge di autorizzazione del 3 novembre 1988: e quella stessa legge conteneva l’ordine di esecuzione d’uso per le norme della Convenzione già esaustive, così direttamente introdotte nell’ordinamento italiano.

L’ordine di esecuzione era peraltro insufficiente – pur introducendolo come principio nel nostro ordinamento – al rispetto dell’obbligo convenzionale, anzi del suo “nucleo” essenziale della Convenzione (art.1 e art.4 in combinato disposto): cioè l’obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura (come pure il tentativo di praticare la tortura o qualunque complicità o partecipazione a tale atto) fosse espressamente e immediatamente contemplato come reato nel diritto penale interno, conformemente alla definizione di tortura prevista all’art.1 della Convenzione.

Nonostante la nostra Costituzione (1947) all´articolo 13 preveda che “La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà» resta il fatto che di norme italiane che vietino la tortura non v’è tuttora traccia nel diritto penale italiano.

Va detto che lo sforzo sarebbe davvero minimo, dato che la Convenzione, all’art. 1, già definisce puntualmente la nozione di tortura rilevante ai sensi e per i fini della Convenzione.

Il termine “tortura” indica infatti “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione” qualora – sottolinea la Convenzione – “tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito“.

Inoltre, per l’art.2, il divieto di tortura così menzionata è assoluto: nessuna circostanza eccezionale, quale essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altra situazione eccezionale, può essere invocata per giustificare la tortura escludendosene dunque qualunque limitazione.

Ora, se questo è il quadro convenzionale, è evidente che per i fini del rispetto dell’obbligo internazionale (art.4, in combinato con l’art.1 della Convenzione di New York) s’imponeva senza possibilità di alternative l’emanazione di norme penali interne non potendo bastare, per i fini del rispetto della Convenzione, quelle “coperture” penali non specificamente volte alla repressione della tortura.

S’imponeva, dunque, l’emanazione di una nuova fattispecie criminosa definita con le parole dell’art.1 della Convenzione medesima e la fissazione di pene adeguate alla sua gravità, senza esimenti.

Ciò non è sinora avvenuto.

Ancora oggi – a distanza di 250 anni da Beccaria e quasi 30 dalla ratifica della Convenzione contro la tortura – l’introduzione del reato specifico di tortura nel codice penale italiano è processo ancora da compiere, e insufficienti paiono i timidi passi compiuti, dato che negano o cercano perlomeno di ridimensionare la peculiarità del reato, cioè quella di colpire i comportamenti delittuosi posti in essere dai pubblici ufficiali.

Il fatto è che si continua (impunemente) a torturare, in Italia come all’estero.

In Italia gli esempi non mancano, anche dopo l’adozione della nostra Costituzione: basti ricordare che nel dopoguerra che fu addirittura istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sui casi di tortura da parte delle forze di polizia in Italia, il cui Presidente, Adone Zoli, nel 1957 trasmise una relazione finale al ministro di Grazia e Giustizia che – non potendo negare i fatti – brilla per il tentativo di ridimensionarli (enfasi aggiunta).

La lievissima percentuale di casi in cui siffatto fenomeno è stato positivamente constatato in rapporto al numero di processi celebrati durante lultimo decennioconsente comunque di escludere che labuso abbia mai assunto limportanza e la gravità di un vero e proprio sistema, come tale imputabile ad iniziativa e direttive di organi centrali e periferici.

Trattasi invero di casi fortunatamente isolati, consistenti nella maggior parte in percosse, e quindi dovuti alla intemperanza dei singoli, la quale può trovare la sua spiegazione nellambiente e nel carattere individuale oltre che nella inadeguata preparazione di alcuni degli elementi cui sono affidate funzioni così importanti e delicate, esercitate a volte senza possibilità di immediato ed efficace controllo (..) 

Giova inoltre rilevare che il fenomeno non è esclusivamente italianoma affligge anche altri Paesi di alta civiltà giuridica e di consolidate tradizioni liberali“.

Vediamo dunque di citarne alcuni di eclatanti, di questi casi “fortunatamente isolati“, che avvengono solo una “lievissima percentuale” (!)  dei processi, e senza pretesa di completezza: pensiamo agli arresti dopo «Feuernacht», la notte dei fuochi dell’ 11 giugno del 1961, laddove oltre 40 irredentisti sudtirolesi denunciarono poliziotti e carabinieri per pestaggi e torture.

19 agenti, mandati a processo, furono peraltro scagionati a Trento nel 1963, e puntualmente ottennero encomi e riconoscimenti dal governo italiano. L’Austria peraltro protestò ufficialmente per l’esito processuale a carico dei carabinieri, accusati di aver torturato irredentisti sudtirolesi “in modo inumano … Il procuratore della repubblica, rappresentante dello Stato”, affermava il Primo Ministro Kreisky, “ha pronunciato piuttosto una difesa in favore dei torturatori anziché una requisitoria, e ciò nonostante prove irrefutabili“, accusando lo Stato di violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

La verità processuale a proposito stride ancora con quella storica, e va segnalata la esternazione di chi – autoproclamandosi “giovane liberal – conservatore” – ancora nel 2011 afferma che le “torture” di cui sono stati vittime gli attivisti sudtirolesi, “se mai vi siano state, sono state poco e sempre troppo poco” (!).

Impossibile non pensare, per continuare nella macabra quanto incompleta lista, al “Professor De Tormentis», come veniva chiamato Nicola Ciocia, ex funzionario dell’Ucigos (poi diventato .. avvocato!) che a capo di una speciale squadretta addetta alle sevizie (“quelli dell’Ave Maria”), in particolare alla tecnica del waterboarding (soffocamento con acqua e sale), tra la fine degli anni ‘70 e i primissimi anni ’80 si muoveva tra questure e caserme d’Italia per estorcere informazioni  ai militanti, o supposti tali, delle Brigate rosse (si legga a proposito Nicola Rao, Colpo al cuore. Dai pentiti ai “metodi speciali”: come lo Stato uccise le Br. La storia mai raccontata,  Sperling&Kupfer). 

Le sevizie praticate sono state denunciate non solo dalle vittime, ma anche da Salvatore Genova, uno dei protagonisti dell’antiterrorismo dei primi anni ’80, che confermò che succedeva esattamente quello che i terroristi avevano raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale. Per le donne erano previste le sevizie più sadiche, di tipo sessuale.

Sulla scia delle rivelazioni successive, la Corte d’appello di Perugia con sentenza n. 1130/13 del 15 ottobre 2013, ha accolto l’istanza di revisione della condanna per calunnia che il cd. tipografo delle BR aveva rimediato per aver ritrattato le precedenti confessioni e denunciato le torture subite, denunciando in  particolare “che verso le 23.30 del 17 maggio 1978 era stato fatto salire su un furgone in cui si trovavano due uomini con casco e giubbotto, era stato bendato e fatto scendere dopo avere percorso sul furgone un certo tratto, infine era stato denudato e legato su un tavolo: a questo punto mentre qualcuno gli tappava il naso qualcun altro gli aveva versato in bocca acqua in cui era stata gettata una polverina dal sapore indecifrabile; contestualmente era stato incitato a parlare“.

Lo stesso De Tormentis non nega il ricorso a “metodi forti” che anzi incredibilmente giustifica (forte del fatto che oramai è tutto prescritto): «Ammesso, e assolutamente non concesso, che ci si debba arrivare, la tortura – se così si può definire – è l’unico modo, soprattutto quando ricevi pressioni per risolvere il caso, costi quel che costi. Se ci sei dentro non ti puoi fermare, come un chirurgo che ha iniziato un’operazione devi andare fino in fondo. Quelli dell’Ave Maria esistevano, erano miei fedelissimi che sapevano usare tecniche “particolari” d’interrogatorio, a dir poco vitali in certi momenti» (grassetto mio).

Ancora, impossibile non ricordare la tragica condanna di Giuseppe Gulotta, definitivamente annullata con sentenza 37261/14 della Cassazione, basata sulla (finta) confessione estorta a furia di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola dal tenenete colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (aiutato dal suo fido maresciallo Giuseppe Scibilia, finito poi nel Ros ..).

Ma, per arrivare ai giorni nostri, e non senza pensare ad altri innumerevoli casi “singoli” come quello di Federico Aldrovandi, si pensi a  quanto statuito dalla Corte europea dei diritti umani, con la sentenza nel caso Torreggiani e altri c. Italia in materia di trattamento inumano o degradante a danno di detenuti, assistita anche dagli standard in materia elaborati dal Comitato per le prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa: la Corte conclude che i ricorrenti sono stati oggetto di una violazione, da parte dell’Italia, dell’art. 3 CEDU che vieta appunto i trattamenti inumani e degradanti.

Ma è impossibile non pensare a quanto avvenuto a Genova durante il G8 del 2001 a Bolzaneto, laddove la sentenza della Corte di Appello di Genova del 5 marzo 2010 riconosce che i pubblici ufficiali (fra i quali anche personale medico, per non far mancare nulla all’enormità dell’orrore) erano colpevoli di “insulti e percosse all’arrivo degli arrestati”, “l’imposizione di ‘posizioni vessatorie’”, “il passaggio tra due ali di agenti che percuotevano con schiaffi e calci, ingiuriavano e sputavano”, accertando il fatto che avevano costretti gli arrestati “a stare in ginocchio con il viso alla parete per 10,18 o 20 ore”, anche se feriti, accertando le “percosse al corpo compresi i genitali, con le mani coperte da pesanti guanti di pelle , o con i manganelli…”, “l’uso di “sostanze urticanti nelle celle”, gli “insulti a sfondo sessuale, o razzista o le minacce di percosse o di morte o di stupro”,  “la costrizione a pronunciare frasi lesive della propria dignità inni al fascismo, al nazismo e alla dittatura di Pinochet”.

Gli ‘elenchi’ che motivano la condanna non hanno nulla da invidiare ai nostri peggiori incubi: «Richiamarsi platealmente al nazismo e al fascismo, al programma sterminatore degli ebrei, alla sopraffazione dell’individuo e alla sua umiliazione – scrive il giudice relatore – proprio mentre vengono commessi i reati contestati o nei momenti che li precedono e li seguono, esprime il massimo del disonore di cui può macchiarsi la condotta del pubblico ufficiale».

Il malcostume – come esattamente rivelava il rapporto già nel 1957 – non era e purtroppo non è neppure oggi solo italiano: impossibile non citare, da ultimo, il rapporto della Commissione Intelligence del Senato Usa reso pubblico nel mese di dicembre 2014 che ha indagato 5 anni sui metodi utilizzati dalla Cia con i terroristi catturati dopo l’11 settembre, e che rivela, tra l’altro, come il personale medico dell’agenzia a un certo punto abbia lamentato il fatto che i cosiddetti waterboarding (quelli della polizia italiana all’epoca del Prof. De Tormentis, per intenderci!) fossero diventati una «serie di annegamenti» quasi veri e propri.

E che venivano compiute violenze e torture “regolamentate”,  fra le quali, oltre a soffocamento con acqua: costrizioni a restare in piedi in posizioni innaturali, come ad esempio a mani alzate, per più giorni consecutivi, umiliazioni corporali, punizioni fisiche come essere scagliati ripetutamente contro un muro, applicazioni di collari di contenimento, confinamento in box che costringeva a stare accucciati, con introduzione di insetti, nudità prolungata, privazione del sonno, esposizione a temperature fredde con secchiate di acqua fredda, minacce (di venire infettati con malattie, di sodomia, di violenza sessuale anche nei confronti dei familiari,  di morte, ..), rasature forzate, ..

A riprova che una volta oltrepassato il punto di non ritorno non è possibile dare dei limiti, il rapporto USA menziona torture che non erano mai state approvate, come privazioni del sonno per 180 ore (!) o costrizione all’idratazione rettale senza alcuna motivazione medica; ancora, si menzionano (e anche qui il pensiero va all’Inquisizione) prigioni segrete, dove i detenuti erano tenuti in totale oscurità, chiusi in celle isolate, ..

Il documento si concentra ancora su diversi casi di tortura utilizzati dalla Cia nei confronti di almeno 119 detenuti. Tra gli episodi citati quello di Khalid Sheikh Mohammed, una delle menti dell’11 settembre, che fu sottoposto al waterboarding per 183 volte. Nonostante fosse divenuto più collaborativo, a detta della stessa Agency, la tecnica fu usata su di lui per dieci giorni consecutivi. E questo perché non confermava l’esistenza di un complotto .. che la Cia rivelò poi essere una truffa.

E tra le vittime che avrebbero subito torture, una su cinque era tenuta in stato di detenzione per sbaglio («per un errore di identità o a causa di cattive informazioni di intelligence»), come implacabilmente documenta il rapporto del Senato.

Il tutto con la complicità con molti stati dell’Unione europea, aderenti al Consiglio d’Europa, come accerta una condanna della Polonia della Corte europea dei diritti dell’Uomo divenuta irrevocabile lo scorso 16.2.2015 (HUSAYN ABU ZUBAYDAH v. POLAND, n. 7511/13) proprio per complicità nell’aver offerto sostegno alla Cia per le operazioni di arresto, trasferimento e detenzione illegale sul proprio territorio di sospetti terroristi.

Con una risoluzione sulla relazione del Senato USA sul ricorso alla tortura da parte della CIA il Parlamento europeo lo scorso 11 febbraio 2015 ha riaperto le indagini sulle “accuse secondo cui alcuni Stati membri dell’UE, le loro autorità, nonché funzionari e agenti dei loro servizi di sicurezza e intelligence sarebbero stati complici nel programma di detenzioni segrete e consegne straordinarie della CIA, talvolta mediante pratiche di corruzione basate sull’offerta di ingenti somme di denaro da parte della CIA in cambio della loro collaborazione“; del resto, la condanna italiana per i funzionari della CIA (ma anche il verdetto della Corte di Cassazione 20447 del febbraio 2014 che annullava la sentenza di condanna contro gli agenti dei servizi italiani poiché l’azione penale non poteva essere proseguita per l’esistenza del segreto di stato) per il rapimento di Abu Omar testimonia la complicità anche dell’Italia in pratiche (illegali) di rendition, complicità resa ancor più amara per quanto osservato dalla Cassazione nella richiamata sentenza 20447, cioè la “compressione del dovere di accertamento dei reati da parte dell’autorità giudiziaria che inevitabilmente finisce per essere rimessa alla discrezionalità dell’autorità politica – il che non può non indurre ampie e profonde riflessioni che vanno al di là del caso singolo“.

Sono passati secoli, ieri come oggi si continua a utilizzare / praticare la tortura anche in casa nostra, con l’avvallo della politica, inerme da decenni rispetto agli obblighi internazionali: dobbiamo limitarci a sperare nella giustizia divina come ha scritto un ignoto carcerato nelle prigioni dell’Inquisizione del Palazzo Chiaramonte-Steri a Palermo: “innocens noli te culpare; si culpasti, noli te excusare. Verum deterge et in Domino confida”? 

 

 

 

 

Approfondimenti:

– Cristiana Fioravanti, Divieto di tortura, ordinamento italiano e obblighi internazionali, in www.studiperlapace.it

– la sentenza della Corte di Appello di Perugia 1130/13

–  La sentenza della Corte di Appello di Genova 678/11 (Bolzaneto)

– la relazione della Commissione Intelligence del Senato americano sull’uso della tortura

– l’Inquisizione in Sicilia: Palazzo Steri

Risoluzione del Parlamento Europeo del febbraio 2011

– sentenza Corte Europea diritti dell’Uomo HUSAYN ABU ZUBAYDAH v. POLAND, n. 7511/13o

– sentenza della Corte di Cassazione n. 20447/2014 sulla rendition di Abu Omar a carico dei servizi segreti italiani

– sentenza della Corte di Cassazione n. 37261/134 Gullotta

– Charlie Barnao e Pietro Saitta, Costruire guerrieri. Autoritarismo e personalità fasciste nelle forze armate italiane, in www.canestrinilex.com (tratto da “La violenza normalizzata Omofobie e transfobie negli scenari contemporanei”, a cura di Cirus Rinaldi, Kaplan 2013).

Di Nicola Canestrini

Avv. Nicola Canestrini Laureato summa cum laude con una tesi di laurea sul nesso tra diritto e democrazia, difende diritti dentro e fuori dalle aule. Figlio di Sandro Canestrini, storico avvocato difensore degli obiettori di Coscienza al servizio militare e amico del Movimento Nonviolento, è titolare dello studio canestriniLex :: avvocati www.canestrinilex.com. IMPORTANTE: quanto pubblicato in questa rubrica va riportato al solo pensiero personalissimo dell'autore.

1 commento su “Tortura di stato”
  1. Il difficile cammino dell’attuazione dell’art. 13 Cost.: anche questa potrebbe non essere la legislazione giusta per l’introduzione (aggiornamento giugno 2015)

    Anche questa potrebbe non essere la legislatura giusta. Al secondo giro di boa il disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura ha maturato una tale quantità di opposizioni divergenti che neanche lo scandalo della condanna Cedu sul caso Cestaro e l’autorevole tweet del Presidente del Consiglio («quello che dobbiamo dire – sulla condanna Cedu, ndr – lo dobbiamo dire in parlamento con il reato di tortura. Questa è la risposta di chi rappresenta un Paese») potrebbero essere sufficienti a dare finalmente attuazione all’articolo 13, comma 4, della Costituzione, secondo cui “è punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. Vediamo dunque come è maturata questa tempesta perfetta, quali le cause e gli effetti possibili.
    La discussione parlamentare inizia in Senato, dove vengono accorpati sei disegni di legge in materia, primo fra i quali quello a firma Manconi e altri, che riproduce fedelmente la definizione Onu contenuta nella Convenzione del 1984, ratificata dall’Italia nel 1989. C’è anche la proposta “ufficiale” del Pd che ricalca il compromesso incompiuto della legislatura precedente.
    Primo scoglio, rappresentato plasticamente da queste due proposte, è la qualità del reato: proprio, del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, o generico? Generico, si decide, con una larga maggioranza che lascia soli Manconi, Sel e poco altro. Ufficialmente perché non può escludersi la tortura da parte degli irregolari o, peggio, da parte delle organizzazioni criminali, sostanzialmente perché il reato proprio espliciterebbe che trattasi di reato da pubblici ufficiali e, segnatamente, di un reato tipico delle forze di polizia, cosa che alle autorità politiche, amministrative e sindacali del settore non piace che sia detta.
    Reato generico, dunque, seppure con le inevitabili aggravanti se a commetterlo sia un pubblico ufficiale: chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero mediante trattamenti inumani o degradanti la dignità umana, cagiona acute sofferenza fisiche o psichiche a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia o autorità o potestà o cura o assistenza ovvero che si trovi in una condizione di minorata difesa, è punito con la reclusione da tre a dieci anni.
    Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle sue funzioni ovvero da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio del servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Le pene sono aumentate se dal fatto deriva una lesione, sono aumentate di un terzo se la lesione è grave, della metà in caso di lesioni gravissime. Trent’anni se la vittima muore, ergastolo se la morte è perseguita deliberatamente dal torturatore.
    Questa formulazione del reato viene approvata dal Senato il 5 marzo del 2014 all’unanimità dei gruppi parlamentari, con 231 voti a favore e tre astenuti sui 235 presenti.
    Un testo comunque non esente da critiche, come quelle avanzate – tra gli altri – da Luciano Eusebi e Michele Passione che, in un contributo a quattro mani, chiedono alla Camera la riformulazione del testo, non solo sulla questione del potenziale autore di reato (il pubblico ufficiale e l’incaricato di pubblico servizio o chiunque?), ma anche sulla indeterminatezza delle condotte, sulla mancanza di intenzionalità e sulla fissità e la dismisura delle previsioni penali.
    Così, d’altra parte, anche altri contributi dottrinari proposti in audizione alla Commissione giustizia della Camera hanno sottolineato incongruenze e possibili difficoltà applicative del testo. Ne è seguita una scelta politica di piena libertà della Camera nella revisione del testo il cui risultato è una nuova formulazione del reato secondo cui il dolo specifico (cagionare acute sofferenze fisiche o psichiche al fine di ottenere dalla vittima o da una terza persona informazioni o dichiarazioni, ovvero di infliggerle una punizione o di vincerne la resistenza o per ragioni discriminatorie) circoscrive una fattispecie che peraltro si amplia fino alla violazione degli “obblighi di protezione, di cura o di assistenza” su persone comunque sottoposte alla propria autorità, vigilanza o custodia.
    Sull’onda del clamore della condanna europea, il 9 aprile scorso la Camera approva il nuovo testo con 244 voti a favore, 50 astenuti, 14 contrari e 50 presenti non votanti. Nel passaggio dal Senato alla Camera, si sfilano con motivazioni diverse il Movimento 5 stelle e le opposizioni di destra (Forza Italia e Lega danno indicazione di votare contro, mentre Fratelli d’Italia sceglie di non partecipare al voto, trascinando con sé molti deputati delle prime due). A dispetto dell’unanime sdegno per la condanna dell’Italia a Strasburgo, solo due giorni dopo la proposta di introduzione del reato di tortura approvata all’unanimità in Senato alla Camera è sostenuta convintamente solo dalla maggioranza di governo e con molti mal di pancia da Sel.
    Inizia così, il 21 aprile, il nuovo esame al Senato. E la strada si fa subito in salita. Il primo intervento in commissione giustizia dopo la relazione del senatore Buemi è del Presidente Nitto Palma: Forza Italia conferma la sua opposizione al testo della Camera. Segue Giovanardi, e la maggioranza della Camera (e quella di governo) già non c’è più. Il 12 maggio arrivano in audizione i capi delle forze di polizia e il disegno di legge subisce un ultimo affondo: con la configurazione del reato adottata alla Camera, dice il Prefetto Pansa, «le denunce potrebbero causare danni potenziali sull’ordinario sistema di prevenzione e sicurezza». «Le forze dell’ordine temono denunce strumentali», traduce il senatore Buccarella (M5S), le loro preoccupazioni sarebbero «legittime» secondo il relatore Buemi e dunque – conclude Giovanardi – «il testo così come è stato modificato dalla Camera è irricevibile».
    Si manifesta così, plasticamente, la tesi di Luigi Manconi, secondo cui «l’Italia … non ha ancora introdotto nell’ordinamento il reato di tortura … perché la società italiana nel suo complesso – classe politica compresa – ha paura della polizia. … Resiste nel paese, e nei suoi gruppi dirigenti, una forma diffusa di preoccupazione non per ciò che le polizie, in nome e in forza della legge, possono compiere, ma per ciò che possono compiere contro la legge. È come se la classe politica, in particolare, non si fidasse della lealtà delle polizie, dubitasse della loro dipendenza in via esclusiva dalla legge, ne temesse le reazioni incontrollate. Da qui, una sorta di complesso di inferiorità e di sudditanza psicologica che pone come prioritario l’obiettivo della stabilità e della compattezza delle stesse forze dell’ordine, anche quando ciò vada a discapito della correttezza e della piena legalità del loro agire. Si tratta di un meccanismo micidiale che alimenta lo spirito di corpo e impedisce la trasparenza, che rafforza le tendenze all’omertà e ostacola qualunque processo di seria autoriforma».
    A dispetto dello scandalo suscitato dalla condanna Cedu, dunque, siamo a un passo dall’affossamento del disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura e allora tutte le parole spese sulla sua configurazione e sulle possibilità della sua applicazione ai casi acclarati di tortura in Italia (Diaz, Bolzaneto, ma anche Asti e altri) saranno state lasciate al vento e l’impunità avrà guadagnato un altro giro di giostra.
    26 giugno 2015, S. Anastasia
    http://www.questionegiustizia.it/articolo/reato-di-tortura_per-ora-un-nulla-di-fatto_26-06-2015.php

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