Cosa rimane della Perugia-Assisi 55 anni dopo la Marcia di Aldo Capitini?
Il 24 settembre di 55 anni fa si svolgeva in Italia, per volere di Aldo Capitini, il primo esperimento di “tecnica nonviolenta collettiva”, la “Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli” da Perugia ad Assisi, di cui il filosofo di Perugia racconterà l’anno dopo nel volume “In cammino per la pace” (Einaudi). Era una marcia alla quale Capitini pensava e lavorava da anni, che passò alla fase organizzativa nella drammatica estate del 1961, mentre a Berlino veniva tirato su il muro tra l’Est e l’Ovest. Capitini comprese che, di fronte al pericolo incombente di una guerra nucleare tra i due blocchi contrapposti era necessaria un’azione dal basso che avesse quattro caratteristiche:
1. che l’iniziativa partisse da un nucleo indipendente e pacifista integrale;
2. che destasse la consapevolezza della pace in pericolo nelle persone più periferiche;
3. che fosse l’occasione per lanciare il “metodo nonviolento”
4. che richiamasse il santo italiano della nonviolenza.
La Marcia – concepita come azione nonviolenta popolare e dirompente – ebbe molta più partecipazione di quella che gli organizzatori si aspettavano ed al termine di essa, dalla Rocca di Assisi, Capitini lesse la “Mozione del popolo della pace“, testimoniando così l’ingresso sulla scena politica del Paese di un soggetto autonomo, svincolato dalla logiche di appartenenza partitica, capace di parlare con voce propria.
La Mozione del popolo della pace affermava cinque principi e, per ciascuno di essi, le rispettive applicazioni concrete. Rileggiamo questi principi che aprono un orizzonte differente, che è anche il nostro qui ed ora:
“Primo – Nell’idea di “fratellanza dei popoli” si riassumono i problemi urgenti di questo tempo: il superamento dell’imperialismo, del razzismo, del colonialismo, dello sfruttamento; l’incontro dell’Occidente con l’Oriente asiatico e con i popoli africani che aspirano con impetuoso dinamismo all’indipendenza; la fratellanza degli europei con le popolazioni di colore; l’impianto di giganteschi piani di collaborazione culturale, tecnica, economica.
Secondo – Per preparare la pace durante la pace e’ necessario diffondere nell’educazione e nei rapporti con tutti a tutti i livelli, una capacita’ di dialogo, una sincera apertura alla coesistenza ed alla pacifica competizione di ideologie e di vari sistemi politici e sociali, nel comune sviluppo civile, ed affermare il lavoro come elemento costruttivo fondamentale.
Terzo – La pace e’ troppo importante perché possa essere lasciata nelle mani dei soli governanti; e’ perciò urgente che in ogni nazione tutto il popolo abbia il modo di continuamente e liberamente informarsi, e sia convocato frequentemente ad esprimere il proprio parere.
Quarto – Nel pericolo che la pace sia spezzata da una guerra immane, e’ urgente l’unione di tutti coloro che nel mondo sono disposti a resistere alla guerra.
Quinto – L’umanità e’ giunta al punto che e’ in grado di apprezzare altamente un tipo di educazione aperta, rinnovatrice delle strutture legate a privilegi e pregiudizi, una educazione eroicamente nonviolenta”
Cinque principi, densi di conseguenze operative, nei quali si esprime un’altra idea di civiltà – tanto nei fini quanto nei mezzi per raggiungerla – fondata sulla strenua resistenza alla guerra attraverso la nonviolenza. Capitini, durante la sua vita non realizzò una seconda edizione di quell’esperimento nonviolento. Toccò al Movimento Nonviolento – nato come conseguenza diretta della Marcia, per volere di Capitini, per dare al “popolo della pace” uno strumento di organizzazione autonoma – proporne una seconda edizione molti anni dopo: nel 1978, per il decennale della morte del fondatore. Fu Pietro Pinna a prenderne in mano il testimone, proponendone altre due edizioni come strumento di azione del movimento per la pace con precisi obiettivi politici: nel 1981 contro l’installazione dei missili nucleari, nel 1985 per il blocco delle spese militari. Poi la Marcia è stata fatta propria dagli Enti locali umbri e da un “comitato promotore” permanente, che l’ha resa periodica, convocandola ogni due anni. Ne sono state realizzate 16 edizioni, più o meno partecipate, con o senza obiettivi specifici, ma raccogliendo sempre la volontà di partecipazione di tanta parte dell’associazionismo organizzato o di singole persone. La Marcia negli anni è divenuta patrimonio comune, un appuntamento importante, ma con il rischio della ritualità e della genericità.
Da circa un anno sappiamo che il “comitato promotore” ne ha annunciato un’altra che si svolgerà il 9 ottobre. Per la seconda volta – dopo quella del cinquantesimo anniversario della prima – anche quest’anno non parteciperò. Le ragioni sono quelle espresse nella nota del Movimento fondato da Capitini:
“Noi pensiamo che non sia utile convocare una Marcia (è stata annunciata più di un anno fa) indipendentemente dal contesto internazionale nella quale viene a “cadere” e dai percorsi di elaborazione politica collettiva del “popolo della pace”. L’Appello non affronta quanto di drammatico e disastroso sta accadendo oggi in Siria, in Iraq, in Libia, in Afghanistan e in decine di altre zone del mondo, con una comunità internazionale impotente o complice, dentro una nuova corsa agli armamenti. Gli attentati del terrorismo internazionale anche nel cuore dell’Europa e la risposta bellica che anche il nostro governo avalla, richiedono analisi, iniziative, proposte (che pure il movimento per la pace, nelle sue varie articolazioni, ha elaborato) ben più complesse di quanto contenuto nei generici appelli della Marcia. Ne risulterà, per l’opinione pubblica, un movimento per la pace inadeguato, autoreferenziale, inconcludente, non all’altezza delle sfide quotidiane. Da parte nostra assecondare questi equivoci e ambiguità non ci sembrerebbe un buon servizio alla causa comune. Farlo sarebbe un errore politico.
Riteniamo che oggi il movimento per la pace non debba essere riportato alla genericità degli slogan retorici, buoni per ogni stagione, ma che non spostano in avanti il processo di disarmo e di costruzione delle alternative alla guerra, alle armi ed agli eserciti, strumenti che l’alimentano e la rendono possibile. La Marcia, come scriveva Aldo Capitini, non può essere “fine a se stessa”; la Marcia è un mezzo nonviolento di azione: tra i requisiti fondamentali vi è quello di dover proporre obiettivi politici specifici e chiari, “onde che vanno lontano”, che impegnino responsabilmente ciascuno dei marciatori. Ad esempio noi pensiamo che la Campagna “Un’altra difesa è possibile”, con la proposta dell’approvazione di una Legge che riconosca e renda istituzionalmente operativa la difesa civile non armata e nonviolenta, avrebbe potuto essere un obiettivo politico importante e qualificante della Marcia, sui cui le associazioni e i singoli marciatori avrebbero potuto essere chiamati ad impegnarsi. Ma così non è stato. Dopo più di 50 anni, sarebbe il momento di fare una valutazione collettiva ed anche ripensare ai modi di comunicazione e di espressione del più vasto movimento. Marciare in corteo da Perugia ad Assisi nel 1961 era un fatto assolutamente innovativo e rivoluzionario; continuando a farlo ogni due anni si corre il rischio della ripetitività ed assuefazione”
Gli impegni quotidiani per costruire la pace con mezzi pacifici, per realizzare la mozione del “popolo della pace”, sono tanti. In molti – ma ancora in pochi – marciamo per la pace tutti i giorni dell’anno. Chi volesse farlo insieme a noi – magari al ritorno da Assisi – è naturalmente il benvenuto.