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Italiana o marocchina? Cittadina meticcia!

DiRedazione

Ott 29, 2016

Quando le pratiche di convivenza sono costruite con la nonviolenza…Fouzia racconta la sua esperienza.

di Fouzia Tnatni

Presa dal quotidiano ritmo frenetico, difficilmente trovo il tempo di fermarmi a riflettere su come io sia arrivata a condurre la mia vita attuale. Non che io faccia qualcosa di particolarmente significativo rispetto a molti altri, ma credo che anche la normalità più banale richieda alcuni presupposti, che nella mia passata esperienza sono pesantemente mancati.  Per quanto mi sforzi di uscire dalla logica dicotomica normalità versus anormalità, riconosco di aver avuto un’infanzia peculiare; non migliore, non peggiore, ma semplicemente singolare rispetto a un canone che vorrebbe le famiglie come nuclei perfetti guidati da genitori eroi ai quali non si riconosce limite alcuno. Ringrazio, dunque, chi mi ha chiesto di scrivere questo breve articolo perché mi ha indirettamente concesso di riprendere fiato e a soffermarmi sulla mia esperienza che, nel bene e nel male, ha fatto sì che io diventassi la persona d’oggi.

Noi della seconda generazione

Sono la terza figlia più piccola di genitori emigrati dal Marocco più di trent’anni fa (mio padre precedette mia madre, la quale venne in Italia grazie all’istituto del ricongiungimento familiare). Considerando le teorie da manuale e la classificazione di Rumbaut, mia sorella Khadija ed io siamo seconda generazione 1.75, mentre mia sorella maggiore Zineb è una seconda generazione 1.5. Quando sono arrivata in Italia, avevo poco più di un anno e mezzo e probabilmente le uniche parole che io sapessi vagamente pronunciare erano mama (mamma) e baba (papà). Considerando il solo fattore linguistico, non ero assolutamente svantaggiata rispetto agli altri bambini…anzi; non avevo ancora acquisito nessun codice, ma da lì a poco mi sarei cimentata con due lingue molto diverse tra loro, l’italiano e il marocchino, diventando in futuro perfettamente bilingue. “Partendo da zero”, dunque, non ebbi nessun problema durante gli anni di prima scolarizzazione e non ho mai avuto bisogno di un sostegno specifico. Mia sorella Zineb, nonostante anche lei sia una seconda generazione, dovette affrontare una situazione molto diversa dalla mia. Arrivò in Italia all’età di dieci anni (qualche mese successivo a noi), dopo aver portato a termine quasi tutto il ciclo dell’istruzione elementare in Marocco. Si allontanò dagli affetti che l’avevano accompagnata per la prima decade della sua vita e si trovò catapultata in un mondo totalmente nuovo. I primi giorni di scuola, sentiva suoni ai quali non riusciva ad attribuire nessun significato. A differenza mia, lo shock per lei fu notevole e l’apprendimento della lingua italiana le richiese uno sforzo significativo (anche se per agevolarla venne fatta retrocedere di un anno e più precisamente alla quarta elementare). Mia sorella Khadija, in un certo qual senso, si posiziona nel mezzo di entrambe le situazioni. Era una bambina di quattro anni quando venne in Italia ed ebbe la possibilità di imparare la lingua italiana in un ambiente interattivo come quello della scuola dell’infanzia. Questo le permise di iniziare il ciclo elementare con qualche difficoltà in più rispetto a me, ma sicuramente in una condizione di meno stress emotivo e cognitivo rispetto a Zineb. Non è necessario che io aggiunga altro per mostrare il diverso spaccato di vita che può coinvolgere soggetti sui quali viene cucita (anche con i migliori intenti) l’etichetta di seconda generazione.

In che scuola vai? In quella buona!

Ricordo i miei anni scolastici con molta gioia. Fortunatamente non sono mai stata oggetto di atteggiamenti sprezzanti e razzisti; il mio carattere espansivo e a tratti naif mi portava (ieri come oggi) a essere sempre circondata di amici. Non ho mai sentito differenza o incolmabile distanza tra me e gli “altri”. Non mi percepivo un’adolescente marocchina o italiana, ma semplicemente un’adolescente. Nel mio percorso di costruzione identitaria, ho sempre avuto dalla mia parte due genitori (e una sorella maggiore) comprensivi e accondiscendenti. Su una cosa soltanto, si mostrarono di una fermezza irremovibile…la scuola e l’istruzione. Riconoscevano in quest’ultima l’unico e vero strumento per un progressivo riscatto sociale. Che fosse stata estrema o no come idea, erano certi che solo con l’impegno costante e il raggiungimento di importanti traguardi scolastici, sarebbe stato possibile per noi sviluppare e perseguire il sogno di una vita migliore, ambiziosa ma soprattutto lontana dal degrado e dalla povertà in cui la vita ci aveva spesso costretti. A trasmetterci tale motivazione furono proprio due genitori con un basso o assente livello d’istruzione; ambiziosi, ma evidentemente non stolti visionari. Grazie a numerosi e spesso estenuanti sacrifici, oggi Zineb è un avvocato, Khadija ( laureata in Antropologia) si è specializzata in studi sociali a Parigi, città nella quale vive e lavora stabilmente ed io sono laureata in Architettura (non pratico la professione), Scienze dell’Educazione e, attualmente, specializzanda in Scienze Pedagogiche.

Vorrei, innanzitutto, rivolgermi direttamente ai genitori o più in generale alle famiglie dei giovani e giovanissimi migranti (ma potrebbe valere anche per quelle autoctone). Non abbiate paura a coltivare sogni, neppure quelli che possono sembrare troppo grandi. Siate visionari e allungate lo sguardo all’orizzonte per intravedere quello che ancora non c’è ma un giorno potrebbe essere. Armate i vostri figli di motivazione e non abbiate timore a sottoporli a sacrifici se questo è funzionale alla loro crescita, poiché la vita non è uguale per tutti e non ci pone di fronte agli stessi ostacoli.

La motivazione intrafamiliare, tuttavia, è solo una faccia della medaglia. Credo sia di fondamentale importanza che i bambini / ragazzi migrati in Italia, esattamente come quelli nati in questo paese da genitori stranieri, possano contare su un sistema scolastico accogliente, che offra loro il massimo livello di inclusione. Un sistema scolastico che si impegna a diminuire gli effetti di eventuali svantaggi sociali, economici e culturali (di tutti, nessuno escluso) affinché il diritto all’istruzione non si traduca banalmente in un diritto all’accesso, ma rappresenti la possibilità di poter concorrere in un sistema equo, meritocratico e democratico. Ritengo, inoltre, che l’educazione e l’istruzione debbano tornare a essere travolte da un certo fermento pedagogico, linfa vitale per la democrazia. Oggi più che mai abbiamo bisogno di una scuola radicalmente antifascista, antirazzista, nonviolenta che cooperi con gli altri settori alla costruzione di quella che Aldo Capitini definiva realtà liberata nella quale la chiusura, l’odio e il disprezzo lasciano posto all’apertura, all’amore e all’accoglienza.

Italiana o marocchina? Cittadina meticcia!

La mia famiglia, nonostante alcuni limiti, non ha mai messo in atto atteggiamenti psicotici demonizzando il “nemico occidentale”. Ho dovuto negoziare su alcune cose, il ché non è stato sempre facile; ma oggi sono perfettamente integrata. Questo non significa che io abbia necessariamente abbandonato un modello culturale o che non mi senta più marocchina, ma semplicemente che soddisfo il bisogno di socialità (riconducibile a qualsiasi essere umano e animale presente sulla faccia della terra) e che mi riconosco come il prodotto di un sano e meraviglioso metissage che mi arricchisce e nulla mi nega.

La mia quotidianità si divide tra lavoro, studio universitario, amici e attività di volontariato. Quest’ultimo, nello specifico, mi ha consentito di considerarmi e vivermi come una cittadina italiana ancor prima che questo riconoscimento mi fosse garantito a livello giuridico. Penso di aver maturato una mente e una personalità civica (che va oltre qualsiasi etichetta culturale) che mi conducono a riconoscere il mio “peso specifico” all’interno della comunità, che per come la percepisco io, ha il dovere, grazie all’impegno di tutti i cittadini (stranieri e non), di organizzarsi come comunità solidale, che si fa carico dei problemi dei suoi membri.

Da qualche anno svolgo attività di volontariato all’interno del Movimento Nonviolento Italiano, attivo su più fronti nella promozione di una cultura di pace e nonviolenza. All’interno di questa realtà ho trovato la mia dimensione, poiché mi permette di agire e impegnarmi concretamente e coerentemente ai miei ideali etici e morali. Ho sempre creduto nella necessità di dover lavorare in maniera costante e perseverante nella promozione di un disarmo culturale, che come spiega Panikkar, è sì disarmo nucleare, militare ed economico, ma non solo. Più in generale è lo spoglio di qualsiasi logica egocentrica che finisce per asfissiare la libertà, la giustizia e l’armonia. Do libero sfogo alla mia sete di giustizia sociale anche cantando nel coro popolare di Carpi, i “Violenti Piovaschi”, “specializzato” in canti anarchici, socialisti, antimilitaristi e riconducibili alla lotta partigiana. Mi è capitato di incontrare persone piacevolmente stupite dal fatto che io, una marocchina, provassi gioia e orgoglio a intonare (o nel mio caso a stonare) un repertorio di questo tipo, “tutto italiano”. In realtà do sempre la stessa motivazione e cioè che credo non esista nessun angolo remoto al mondo che non abbia sperimentato il valore della resistenza e lo squilibrato rapporto oppresso / oppressore.

Religione si/Religione no…una dialettica soffocante

Nelle righe precedenti non ho mai fatto riferimento alla dimensione religiosa e non ho intenzione di farlo ora. Questo perché rivendico il diritto di uscire, di sganciarmi definitivamente da una logica e da una conseguente dialettica che considero oppressiva e soffocante. Le seconde generazioni, più nello specifico quelle che vengono da paesi di tradizione musulmana e, concedendomi un’ulteriore scrematura faccio riferimento alle ragazze, vengono messe continuamente sotto una lente che mira a svelare, a mio avviso in maniera arrogante e invadente, gli aspetti più intimi di quella che considero una dimensione privata. Questo atteggiamento, a mio avviso, contribuisce a enfatizzare una logica dicotomica. Anche laddove si faccia il nobile tentativo di far luce su vissuti profondamente differenti tra loro, il risultato, che io riconduco a una logica di tipo “in – out”, è estremamente semplificato se non banalizzato. Insistendo su questa logica, che io ritengo debba essere superata una volta per tutte, un soggetto ha due sole possibilità: identificarsi (anche semplicemente attraverso il suo abbigliamento) con un gruppo ed essere automaticamente vissuto come elemento disturbante dall’altro, o viceversa. Non riesco a immaginarmi una visione più miope di questa, che non lascia spazio ad altre prospettive meno statiche e assolutiste. Non verrebbe mai in mente a nessuno di chiedere a un ragazzo o a una ragazza italiana quante volte prega, l’ultima volta che si è confessata o che ha fatto la comunione durante la messa. In maniera analoga credo che non debba essere domandato a nessuno, neppure se questo è direttamente riconducibile al nobile tentativo di attenuare gli effetti deleteri di una crescente paura, vera e propria sclerosi, che purtroppo “altri” contribuiscono a legittimare.

Ho maturato tale visione perché in passato mi sono prestata anch’io a tale logica, pentendomene presto. Oggi desidero che le persone si approccino a me, stimolati da una curiosità che mira a scoprire cosa faccio nella vita, come agisco all’interno della società, al di fuori di qualsiasi etichettamento.

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