Azione nonviolenta giugno 2007
– La mafia teme la forza della nonviolenza perche’ le toglie il potere sulle persone, di Mao Valpiana
– E’ possibile battere la mafia con la nonviolenza? Uscire dai sistemi mafiosi usando coscienza e legalita’, di Enzo Sanfilippo
– Comunita’ libere: un esperimento di difesa popolare nonviolenta contro il dominio mafioso in Calabria, per la democrazia e la liberta’, di Pasquale Pugliese
– L’abbraccio tentacolare di Mamma Mafia, che recluta i piu’ giovani nell’organizzazione, di Elena Buccoliero
– I bambini della mafia sono vittime e i mafiosi adulti sono stati bambini, di Rita Borsellino
– Nonviolenza e politica: puri e impotenti o sporchi e potenti?, di Beppe Marasso
Le rubriche:
– Cinema. Nella cultura mafiosa un fascino difficile da dire, intervista a Goffredo Fofi
– Educazione. Gli altri siamo noi, sulle tracce della pace e dintorni, a cura di Pasquale Pugliese
– Economia. Dai diamanti non nasce niente ma sono il frutto della guerra, a cura di Paolo Macina
– Giovani. Pop, punk, metal, dance, techno, ogni momento e’ quello giusto, a cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
– Per esempio. Giocare per la pace nei luoghi di conflitto, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Servizio civile. Dialogo aperto fra enti, Ufficio nazionale e volontari, a cura di Claudia Pallottino
– Musica. Fratelli d’Italia, cambiamo l’inno?, a cura di Paolo Predieri
– Movimento. Un seminario in Sardegna e un convegno nelle Marche
– Euromediterranea e premio Langer per il Sudafrica contro l’aids, a cura della redazione
– Lettere. Capire le idee dei ragazzi dalle pagine di “Azione nonviolenta”, a cura della redazione
La mafia teme la forza della nonviolenza perché le toglie il potere sulle persone
Mao Valpiana
Studiare, capire, lottare, costruire, credere. Sono questi i cinque imperativi che emergono dal lavoro su “mafia e nonviolenza” che pubblichiamo nella parte monografica del presente numero di Azione nonviolenta.
Studiare il fenomeno mafioso, documentarsi, leggere, ricercare anche nelle origini storiche, imparare ad interpretare la realtà sociologica ed economica delle zone controllate della mafia.
Capire come oggi si è trasformata la mafia, come agisce, quali sono gli ambiti in cui opera, dal traffico di droga alla gestione dei rifiuti, dalla prostituzione al commercio d’armi, comprendere i meccanismi anche psicologici attraverso i quali sottomette e controlla le persone, smascherare le commistioni tra potere politico e potere mafioso.
Lottare direttamente contro la violenza mafiosa, denunciando i soprusi, i ricatti, le prepotenze, ma anche indirettamente per superare il degrado, la disoccupazione, l’abbandono e la lontananza delle istituzioni.
Costruire un’alternativa al sistema mafia, creare reti di solidarietà, aprire spazi nuovi, inventare posti di lavoro, organizzare la scolarizzazione, sostenere le cooperative libere, tutelare chi è nel mirino della mafia.
Credere che solo con la nonviolenza si può vincere sulla violenza, che solo moltiplicando esperienze positive di persone e luoghi liberati sarà possibile battere il sistema mafia. Credere che la forza per annullare il potere mafioso ci verrà dalle storie luminose delle vittime di mafia, da chi non avuto paura di testimoniare che l’onestà, la legalità, la democrazia, la cultura, l’informazione sono valori superiori al disvalore mafioso. Credere che la nonviolenza è già in atto.
Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace di Viterbo” (che contro l’infiltrazione criminale e mafiosa nel suo territorio si impegnò con rigoroso metodo nonviolento, e per questo fu accusato dal potere politico di diffamazione, fu processato e fu assolto) ha scritto alcune tesi su lotta alla mafia e nonviolenza, che qui riteniamo utile riprodurre in sintesi.
La nonviolenza è già il cuore della lotta contro la mafia, poiché nella storia dei movimenti che contro la mafia si sono battuti e si battono la scelta della nonviolenza, le tecniche della nonviolenza, il progetto della nonviolenza, sono stati in vario modo e misura sempre e decisivamente presenti e operanti. Ed è naturale che sia così, poiché sistema di potere mafioso e azione nonviolenta sono del tutto antitetici, e quindi ogni progresso della riflessione e dell’azione nonviolenta è uno scacco per il sistema di potere mafioso.
La nonviolenza sostiene senza esitazioni l’impegno delle istituzioni nella lotta contro la mafia: la nonviolenza invera la legalità in quanto essa è – e sempre dovrebbe essere – difesa dell’oppresso dalla violenza del potente; la nonviolenza sostiene lo stato di diritto contro la guerra di tutti contro tutti, l’ordinamento giuridico contro la barbarie, il sistema democratico contro ogni totalitarismo; la gestione pubblicamente condivisa di ciò che è bene di tutti contro la rapina privata che per l’appunto altri priva di beni essenziali che devono essere comuni. La nonviolenza rafforza con la sua azione anche le istituzioni: sia fornendo alle istituzioni valori, strumenti, risorse, esempi; sia criticando e contrastando ciò che nel corpus legislativo e negli assetti istituzionali non fosse accettabile alla luce della dignità umana; sia lottando per avere leggi ed istituzioni migliori, per cancellare ogni abuso e ogni arbitrio, per realizzare il potere di tutti, perché a tutti gli esseri umani siano riconosciuti tutti i diritti umani.
La nonviolenza contrasta il sistema di potere mafioso già anche nell’affermare valori e metodi intesi alla più vasta solidarietà, la coerenza tra mezzi e fini, la consapevolezza che una e la stessa è la lotta contro il patriarcato, lo sfruttamento, l’inquinamento, la guerra, il corrompere, il terrorizzare e l’uccidere. La nonviolenza afferma il nesso che lega un modello di sviluppo equo e solidale, con tecnologie appropriate e rispettoso della biosfera, la democrazia estesa a tutti gli esseri umani, la costruzione della pace intesa come relazioni di giustizia e di solidarietà fra tutte e tutti, l’umanizzazione dei conflitti, la scelta della convivenza e della sicurezza per tutte e tutti.
La lotta contro il sistema di potere mafioso è impegnativa e ardua. E quante persone impegnate contro la mafia sono state dalla mafia assassinate: il loro numero è così grande che a dire solo qualche nome non riesci. E tuttavia insieme è scelta semplice e spontanea – come spiegò una volta per sempre Paolo Borsellino, come spiegò una volta per sempre Libero Grassi – se ascolti ciò che ti detta la voce che dal cuore ti chiede di spezzare le catene e conoscere il fiore vivo.
E’ possibile battere la mafia con la nonviolenza?
Uscire dai sistemi mafiosi, usando coscienza e legalità.
di Enzo Sanfilippo
Nelle analisi correnti sul fenomeno mafioso è ben chiara la divisione tra la mafia e chi la vuole studiare e combattere. Questi due soggetti sono posti su piani nettamente separati: noi (cittadini impegnati, studiosi, intellettuali, politici, preti, insegnanti, “società civile”) e loro (“cosa nostra”, la “cultura mafiosa”, le “donne della mafia”, i mafiosi …).
Il laboratorio Percorsi nonviolenti per il superamento del sistema mafioso, costituito a Palermo nel dicembre 2003, sta cercando di elaborare una nuova prospettiva partendo da un filone di pensiero e di azione che si rifà alla nonviolenza.
Esperimenti di nonviolenza contro la mafia
Nel laboratorio si confrontano persone di orientamenti culturali diversi, in cui la stessa direzione nonviolenta è assunta con vari gradi di adesione e/o criticità. L’intento comune è stimolare la ricerca sociologica sul fenomeno mafioso (delle università, dei centri studi e dei singoli ricercatori e analisti) a collocarsi in una posizione più interna: non si tratta solo di conoscere una realtà criminale ma di far evolvere un sistema di cui anche il ricercatore fa parte. Contemporaneamente si vorrebbe far emergere la valenza scientifica, oltre che sociale, del lavoro delle associazioni, dei movimenti, delle comunità, per comprendere le singole azioni in una prospettiva di trasformazione storica e culturale complessiva.
La nonviolenza non è soltanto un metodo ma anche un modo di concepire la realtà sociale, un organismo in cui le parti cosiddette “cattive” sono intrecciate profondamente con quelle “sane”. Questa visione rimanda alla impossibilità di estirpare, di annientare violentemente una parte della società umana per quanto essa possa essere a ragione giudicata “malata”, poiché ogni malattia lascia tracce in tutto l’organismo, pronte a ricostituirsi velocemente.
Questa visione era ben chiara al giudice Giovanni Falcone quando, in Cose di cosa nostra, affermava: “La tendenza del mondo occidentale, europeo in particolare, è quella di esorcizzare il male proiettandolo su etnie e su comportamenti che ci appaiono diversi dal nostri. Ma se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia.”
E ancora: “La mafia, lo ripeto ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione”.
La mafia come sistema sociale
Proprio a partire da queste intuizioni molti di noi parlano di “sistema sociale mafioso”. Penso che, sul piano dell’azione per il cambiamento, la nonviolenza sia la risposta più coerente con questa visione. Essa ci ricorda che l’unico rimedio possibile alla violenza – sia essa fisica, culturale o strutturale – sta nella trasformazione dell’intero insieme. Per far questo bisogna porre in comunicazione conflittuale le parti del sistema, sia quelle persuase di trovarsi in conflitto sia le altre che sembrano restarsene fuori.
Questa ricerca passa attraverso processi che Gandhi definisce di auto-purificazione: l’avversario, nel nostro caso il mafioso (incluso chi non delinque ma riconosce la mafia come una cosa buona), non mi comprende perché, dal suo punto di vista, io sono un nemico. C’è qualche cosa nella mia storia, nella cultura mia o delle persone e delle istituzioni a cui egli mi associa che, forse a ragione, sono ritenute cattive o “ingiuste”.
Dietro questa visione per alcuni disturbante non c’è “buonismo”. Non si intende che tutti gli uomini sono buoni, poiché tutti gli uomini sono in diversa misura buoni e cattivi. C’è piuttosto una fede – non importa se religiosa o laica – nelle possibilità evolutive dell’uomo e della società umana. Quando, laicamente, Giovanni Falcone affermava che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”, egli non aveva alcun fondamento scientifico. In ogni caso possiamo partire da questa aspettativa-speranza che ognuno può rinsaldare nel suo intimo con i propri fondamenti, spirituali, filosofici o religiosi che siano.
Sono personalmente convinto che questo potrebbe costituire un nuovo paradigma nel processo storico di conoscenza e di contrasto alla mafia, da articolare secondo diversi percorsi.
L’approccio della prova dei fatti
Gandhi ci ha trasmesso una grande fiducia nella prova dei fatti, infatti parlava di “esperimenti con la Verità”. La sua fede nella Verità, nella Giustizia, nell’Unità del genere umano lo portava a pensare che un’azione purificata non può produrre che frutti positivi. Quando ciò non avviene dobbiamo riprovare o trovare strade alternative, senza dare nulla per scontato. Perfino l’uso della forza non è per lui un tabù assoluto, anche se – proprio in forza delle sue esperienze – era solito affermare che in tutte le situazione in cui si era trovato ad agire, sempre la violenza si era potuta evitare o si sarebbe potuta evitare, nel senso che a posteriori egli aveva potuto scorgere risposte nonviolente per niente ingenue o banali.
Di fronte al fenomeno mafioso l’approccio della prova dei fatti ci invita ad alcune riflessioni radicali, certamente un po’ fuori dal coro sia dei soggetti istituzionali che di quelli “di movimento”.
Con quali strumenti si è cercato e si cerca di combattere la mafia? Possiamo indicare tre grandi aree: la repressione, l’educazione e la lotta al sottosviluppo economico. Tuttavia la mafia continua ad esistere e ad espandersi.
Potremmo chiederci se questo dipenda da una insufficienza quantitativa: poca repressione, poca educazione, scarsi interventi sull’economia? O una combinazione squilibrata tra i tre tipi di azione?
Domande legittime che dobbiamo continuare a farci. A mio avviso però alcuni nodi risiedono nel nostro approccio. Perché, a ben pensare, repressione, educazione e sviluppo sono azioni conseguenti ad una rappresentazione della realtà mafiosa come cancro in un corpo sano. Questa visione ci porta a reprimere, dare valori, cultura, risorse economiche a chi ne è privo…
La nonviolenza porta ad assumere un pensiero diverso, creativo ed evolutivo nel senso che porta a soluzioni inedite, a “pensieri non pensati”. Non si pone come alternativa assoluta ma, come diceva Capitini, è una aggiunta che può aprire ad una realtà liberata.
Il richiamo della coscienza
La nonviolenza porta ad agire sulla e con la coscienza dell’avversario, nella consapevolezza dell’umanità di cui ciascuno è portatore. Secondo Lanza del Vasto il nonviolento è “colui che mira alla coscienza”. Non esiste azione nonviolenta che possa prescindere da questo obiettivo.
Quest’approccio implica un riconoscimento dell’umanità dell’avversario, un chiamarlo per nome in modo diretto, anche in modo aggressivo o provocatorio, ma che appunto lo riconosca nella sua umanità e nella sua potenziale capacità di risposta. Questo tipo di relazione comunicativa ha avuto luogo anche nella storia della mafia, in verità non molto frequentemente.
La mafia provoca dolore, sofferenza, collera, ma al contempo cerca di sopravvivere congelando i conflitti, frenando ogni possibile evoluzione significativa poiché essa insegna a soffocare il dolore, a restare muti, a non piangere, a non urlare. La chiave della nonviolenza consiste invece nella forza di comunicare la propria sofferenza, di comunicarla al proprio avversario e alle terze parti, con coraggio e senza pudore. Solo in questa prospettiva essa ci purifica e diventa “offerta”, nel linguaggio gandhiano tapasya.
Nel 1989 Angela Casella si reca nella Locride dove suo figlio Cesare è stato rapito dalla ‘ndrangheta. Lì compie un vero e proprio pellegrinaggio nelle piazze e nelle chiese di San Luca, Platì, Locri, Ciminà. In ogni città la Casella si incatena come immagina sia in quel momento legato suo figlio e si rivolge soprattutto alle donne: “Aiutatemi a cercare mio figlio. Ve lo chiedo come può chiederlo una mamma”. Alcune di queste donne si uniscono a lei in una spontanea manifestazione che si conclude in un blocco stradale. Un vecchio boss addirittura fa un appello ai rapitori dalle pagine di Repubblica.
Ai mafiosi, assassini del marito si rivolse in chiesa Rosaria Schifani, moglie di uno degli agenti della scorta di Giovanni Falcone nel giorno dei funerali. Ai mafiosi si rivolse in alcune omelie Don Pino Puglisi. Ai mafiosi si rivolge in una lettera ripresa dal Giornale di Sicilia Libero Grassi, in modo molto provocatorio, dopo le prime richieste di pizzo.
Le azioni creative e di spiazzamento.
Nella comunicazione come nelle azioni i gesti di spiazzamento sono le risposte non previste. Nella cultura mafiosa anche il solo rispondere è uno spiazzamento. Anche la vittima del sopruso o dell’omicidio di un congiunto si adegua a questo codice spesso per paura, ma più in generale perché non coglie l’utilità di fare diversamente. In questo senso lo slogan dei giovani della Locride “Adesso ammazzateci tutti” usa questa tecnica comunicativa. Non “adesso dovrebbero ammazzarvi tutti”, come pure si sarebbe potuto urlare, ma una frase che evidenzia in modo paradossale l’illogicità della violenza in quanto pone fuori dal futuro l’intera comunità, che ha nei giovani la sua sopravvivenza.
Così come spiazzante sul piano dell’azione è la volontà del Vescovo di Locri, Monsignor Giancarlo Bregantini, di inserire nelle cooperative sociali ex detenuti passati probabilmente dalle file della ‘ndrangheta. Chi non percepisce certamente la pericolosità di una tale operazione? Ma essa si pone in un’ottica di superamento della contrapposizione ed è spiazzante, poiché afferma che la comunità non vuole annientare l’avversario ma, per riprendere una frase biblica del profeta Ezechiele, che “si converta e viva”. (Ez. 33,11)
La responsabilità di tutti
Se la mafia è sistema sociale, nel gioco delle interrelazioni tra i vari soggetti e i vari sottosistemi anch’io, che mi oppongo alla mafia come cultura o come sistema di potere, certamente le offrirò una qualche collaborazione, anche non intenzionale. Un consenso inconsapevole e diffuso è veicolato ad esempio dai nostri acquisti.
L’iniziativa di un nutrito gruppo di ragazzi di Palermo che ha per nome “Addio Pizzo” ha centrato questo punto essenziale. Siamo tutti complici e bisogna che ne prendiamo consapevolezza pensando alle strategie di fuoriuscita. Nei miei viaggi faccio il biglietto aereo da Palermo presso una della agenzie che non paga il pizzo alla mafia e che ragazzi di “Addio Pizzo” hanno reso pubbliche. Ho così onorato un impegno preso alcuni anni fa quando, con alcune migliaia di cittadini palermitani, ho sottoscritto il manifesto contro il racket promettendo di sostenere i negozi che se ne tiravano fuori. Tutto ciò non ha per ora rilevanza economica ma essenzialmente culturale, relazionale. Quando mai prima d’ora avrei potuto chiedere all’agenzia di viaggi: “Scusi, ma lei paga il pizzo?” Invece oggi grazie a questa campagna cominciamo a rompere quel silenzio malefico su cui la mafia è vissuta fino ad oggi.
Sull’aspetto economico dovremmo anche rompere un certo tabù sulle droghe, anche leggere, poiché finché sono illegali il loro uso e quindi il loro acquisto finanzia le mafie. Su questo non ho una soluzione facile, ma dobbiamo cercarla.
Le prospettive di riconciliazione
In tutti i grandi processi di cambiamento sociale in cui si pone fine a un conflitto violento si devono fare i conti con le persone che si sono macchiate di omicidi o sono state complici dirette di situazioni di ingiustizia.
Parlando di mafia si pensa a esponenti come Bernardo Provenzano e mai a quella miriade di persone che gli ruota attorno. Oggi molti uomini e donne del sud Italia sostengono il sistema mafioso perché è quello che li ha allevati e li sostiene, oltre ad essere l’unico che hanno potuto sperimentare. Il cambiamento sarà possibile se costoro potranno immaginare di vivere in una nuova situazione. Certo, è difficile pensare al “mostro” Provenzano che si converte (per quanto a mio avviso dovremmo poterlo immaginare) ma se solo ci allontaniamo di un passo e pensiamo ai suoi figli, ecco che la cosa può sembrare plausibile – come ha fatto il fratello di Peppino Impastato che si è rivolto ai mafiosi ricordando come il padre di Peppino e Giovanni fosse un uomo della mafia.
Un problema di questo tipo è stato affrontato in una situazione altrettanto violenta anche se diversa. Mi riferisco al Sudafrica di Nelson Mandela e Desmod Tutu. Spesso la riconciliazione induce scetticismo, eppure in quella situazione ugualmente intrisa di violenza, torture e complicità di regime è stata possibile quella grande esperienza storica che è stata la Commissione per la Verità e la Riconciliazione dove tutta la nazione ha assistito per radio e per televisione alla ricostruzione della verità e, a partire da questa, a reali episodi di pentimento e perdono. È questa la prospettiva della “giustizia rigenerativa”, una nuova frontiera nel campo dell’amministrazione della giustizia in cui non la legge, ma il danno arrecato alle persone e la relazione tra vittima e autore del reato, giocano un ruolo centrale per la risoluzione del conflitto anche negli aspetti di danno sociale.
Nell’estate 2006 abbiamo incontrato in Sicilia Marinetta Cannito (American University di Washingthon), che sta studiando una applicazione della giustizia rigenerativa applicata ai reati di criminalità organizzata. Poiché ancora una volta vorrei ricordare che la sofferenza e il dolore che la mafia ha seminato in tutti questi anni è grandissimo. Da quando mi occupo di queste tematiche due persone hanno sentito il bisogno di raccontarmi che in un caso il padre, nell’altro il fratello sono scomparsi per lupara bianca. È lo stesso dolore dei familiari dei desaparecidos che non sanno dove e come sono morti i loro cari, un dolore straziante e infinito. E grande è la solitudine dei testimoni di giustizia…
Dobbiamo capire il senso di questa sofferenza. Essa non è certamente inutile. Io penso che possiamo ancora darle un senso se sapremo ricostruire la verità di questi lunghi anni e se allo stesso tempo possiamo guardare senza paura al futuro. Ricostruzione della verità e costruzione del futuro possono nascere da un lavoro collettivo in cui tutti i membri di una comunità si sentano in qualche misura responsabili e protagonisti, capaci di reale pentimento e altrettanto capaci di perdono.
Lo Stato e la legalità
Non disgiunta da tutto questo è l’esigenza di superare alcune parole d’ordine del movimento antimafia, prima fra tutti l’educazione alla legalità.
Ho una profonda gratitudine verso don Luigi Ciotti per il suo impegno prezioso nella nostra terra, un impegno che lo espone personalmente, che ha dato opportunità di riscatto a tante persone e che richiama costantemente il nostro torpore rispetto al problema mafia. Voglio tuttavia avanzare l’idea che oggi ci è richiesto un ulteriore passo in avanti.
Troppo forte sentiamo in alcune aree del sud il retaggio di una diffidenza forse ancora legittima nei confronti dello Stato. È una diffidenza che purtroppo non è dei mafiosi, ma della gente. Da qui dobbiamo ancora partire per costruire una comunità civile. Dobbiamo costruire una comunità, ovvero aggregazioni in cui ognuno si riconosca profondamente (e questo non è un problema solo meridionale); giustizia nell’ottica di don Milani, come sistema di garanzie dei più deboli e non mero e formale rispetto delle leggi; società, intesa come sistema di organizzazioni che migliorino le relazioni e non le appesantiscano; responsabilità, ossia senso di appartenenza personale alla comunità e ai problemi. Ci vogliono parole nuove che significhino immediatamente tutto questo.
La parola legalità richiama purtroppo soltanto al rispetto delle leggi vigenti in uno Stato. Uno Stato che troppe scuole ha intitolato a Don Milani senza elaborare un progetto educativo che potenziasse i presidi scolastici dal punto di vista quantitativo e qualitativo, anzi che proprio a spese di questo settore vuol fare quadrare i suoi bilanci.
Oggi, in un quadro di generale legalizzazione dell’illegalità, appare più opportuno coniare termini che ci conducano alla costruzione di leggi che ancora non esistono o all’obiezione a quelle che non rispecchino chiaramente la giustizia e la pace – ma che ancor prima facciano riferimento a valori che ogni cittadino del sud sente ancora dentro il proprio cuore.
Tutto ciò non è disgiunto neanche dalla necessità di ripensare, Stato e Terzo Settore insieme, la legge sulla confisca dei beni mafiosi. Il Presidente di una Cooperativa di Partinico ha riferito commosso che la processione della Madonna del Borgo, dove la Cooperativa ha ottenuto l’uso di un terreno confiscato impegnando dei soggetti svantaggiati del paese, si ferma proprio in quel terreno, a significare una saldatura tra aspetti religiosi della comunità e un progetto di riscatto sociale, con la partecipazione quindi di una parte significativa degli abitanti. Penso che questi aspetti simbolici di riappropriazione e di “restituzione” siano importanti tanto quanto la pur necessaria efficienza burocratica. Anzi laddove essi non siano possibili può essere in qualche caso utile desistere dall’assumere un carico di impegno economico e imprenditoriale che non lasci contemporaneamente il segno nel cuore della comunità.
E perché non puntare a una restituzione spontanea di beni e terreni? Da parte di chi? Di ex mafiosi, di vedove della mafia, ma anche di persone normali, e consentitemi, della Chiesa e degli ordini religiosi proprietari di conventi in disuso, di terreni e fabbricati che potrebbero essere messi a disposizione per progetti di sviluppo di comunità. La nonviolenza si costruisce anche con la testimonianza, più credibile di ogni appello alla restituzione.
In India i seguaci di Vinoba proseguono ancora oggi il loro impegno contro le multinazionali chiedendo porta a porta ai grossi proprietari terrieri un acro di terra per i paria. Il dono della terra da parte di alcuni potenti raja indiani (potenti soprattutto dal punto di vista religioso) diede vita ad un movimento di redistribuzione della terra e alla costruzione di centinaia, forse migliaia di villaggi.
Per maggiori informazioni sulle esperienze citate:
Libera – Associazioni Nomi Numeri contro le Mafie – http://www.libera.it
Addiopizzo – http://www.addiopizzo.org
E adesso ammazzateci tutti – http://www.ammazzatecitutti.org/
Comunità Libere: un esperimento di difesa popolare nonviolenta
contro il dominio mafioso in Calabria, per la democrazia e la libertà
Nostra intervista a Vincenzo Linarello
a cura di Pasquale Pugliese
Dal Manifesto programmatico di Comunità Libere
Movimento di difesa popolare nonviolenta per la democrazia e la libertà in Calabria
(…)
10. Le nostre problematiche non sono dunque determinate solo da un certo tipo di cultura o di mentalità ma da precisi sistemi di potere o – per dirla cristianamente – da strutture di peccato, che assoggettano la gente servendosi delle esigenze di sopravvivenza quotidiana.
11. Questo sistema non è casuale. È un sistema di potere scientificamente pensato e strutturato per compiere una manutenzione sistematica della precarietà della gente. Le organizzazioni che governano questo sistema, pur con modalità differenti sono la ‘ndrangheta e le massonerie
(…)
23. Gli obiettivi di Comunità Libere sono:
la DIFESA, TUTELA e PROTEZIONE di persone, famiglie, imprese, organizzazioni e istituzioni che vengano attaccati da ogni potere forte, antidemocratico e/o violento;
la DENUNCIA di ogni tipo di violenza e ingiustizia economica,
la DIFESA e la TUTELA delle libertà, della democrazia e della libertà di mercato in Calabria
24. innanzitutto Comunità Libere difende prontamente chi sia ingiustamente vittima degli attacchi di ogni forma di potere. A tale scopo viene predisposta una rete di reazione nonviolenta capace di mobilitarsi in modo organizzato e rapido di fronte a qualsiasi minaccia si presenti.
(…)
25. Comunità Libere vuole combattere e “demolire” le strutture di potere antidemocratiche e/o violente. Nello stesso tempo, però, accoglie e cerca di far crescere le persone che ne fanno parte, restituendo loro dignità.
(…)
30. Comunità Libere infine crede nei valori di gratuità, apertura, trasparenza. Non difende solo i propri membri ma tutti coloro che non hanno la possibilità di difendersi da soli, senza nulla chiedere in cambio.
www.comunitalibere.org
Vincenzo Linarello è il giovane presidente del Consorzio di cooperative sociali Goel e animatore dell’esperienza di Comunità Libere. Vado a trovarlo nella sua bella casa-comunità di Gioiosa Jonica, la “comunità di liberazione”, dove vive insieme alla sua famiglia e a diversi compagni di strada. Linarello è l’infaticabile promotore di un importante esperimento che cerca di saldare i principi e il metodo della nonviolenza con la difficile lotta contro la potentissima mafia calabrese, la ‘ndrangheta. Quella che i magistrati hanno definito “la mafia perfetta”, cioè quell’organizzazione criminale che ha costruito il più chiuso e impermeabile sistema di violenza, che dalla Calabria espande i suoi tentacoli sul piano internazionale, in un continuo rimando tra violenza locale e affari globali.
Prima e dopo il delitto Fortugno
Allora, Vincenzo, quando inizia la vostra storia?
Tutto parte nell’89 da un gruppo nonviolento di Gioiosa Jonica, il Gruppo Akatistos che nella Locride ha promosso, tra le altre cose, l’obiezione di coscienza e l’obiezione alle spese militari. Con l’arrivo di mons. Bregantini in questa diocesi, circa 13 anni fa, il gruppo fu coinvolto in un progetto di lotta alla disoccupazione giovanile che portò alla nascita delle prime cooperative e poi alla creazione del Consorzio Goel.
Perché Goel? Cosa significa questo nome?
Goel è il riscattatore, colui che nell’Antico Testamento, pur non avendo legami di sangue con chi non saldava i propri debiti ed era per questo diventato schiavo, pagava il prezzo del riscatto rendendolo cittadino libero.
Il consorzio Goel nasce con due obiettivi: rafforzare le attività delle cooperative e creare un’organizzazione per il cambiamento capace di far fronte al sistema di potere che in Calabria controlla tutta la regione. Perché è nostra convinzione che il cambiamento non si produce nel tempo libero, o in maniera episodica o disorganizzata. Insomma, il cambiamento non si produce semplicemente attraverso le buone intenzioni.
Soprattutto in un contesto come quello calabrese…
Infatti, parallelamente maturava una lettura sempre più consapevole del nostro territorio, drammaticamente confermata dall’omicidio di Franco Fortugno nell’ottobre del 2005. L’evoluzione della ‘ndrangheta in Calabria inizia 30 anni fa quando furono istituiti all’interno del percorso iniziatico i gradi supremi di santista e di vangelo, con la missione specifica di entrare in tutte le logge massoniche in cui era loro consentito. Il passaggio successivo è stato reinvestire l’immenso patrimonio accumulato dai traffici di droga ed armi nell’economia legale e negli investimenti finanziari. A questo punto i capi decidono di mandare i figli a studiare all’Università: si comincia ad avere i ‘ndranghetisi in giacca e cravatta ed alcuni si candidano alle elezioni amministrative. È un passaggio storico perché si passa dai politici collusi ai politici affiliati. La loro affiliazione garantisce un’affidabilità totale nella gestione di un immenso patrimonio di denaro.
In che periodo si colloca questo passaggio?
Tra gli anni ’80 e ’90. Nasce così una nuova formula di scambio con la politica: dapprima i voti della ‘ndrangheta venivano ripagati con appalti, poi con più posti di responsabilità e di governo diretto della cosa pubblica. Tutto questo viene reso pubblico e formalizzato attraverso l’omicidio Fortugno, il quale, secondo la nostra lettura, non è legato alla persona ma è un omicidio politico che ha voluto mettere sul tavolo della politica regionale e nazionale, appunto, la pistola della ‘ndrangheta.
E siamo ai giorni nostri…
Di fronte a tutto ciò il Consorzio Goel prende una posizione forte e chiara: in un momento pubblico – a Roccella Jonica il 7 novembre del 2005 – denunciamo apertamente queste cose e raccontiamo l’inquietante dato evolutivo della mafia in Calabria. Quando ciò accade veniamo ferocemente attaccati da tutti i capi delle più potenti massonerie italiane, anche quelle legali, e dopo qualche mese avviene il primo serio attentato alle nostre cooperative: vengono avvelenate tutte le piantine di frutti di bosco. Le circostanze di questo attentato e quanto accaduto prima e dopo, in particolare la campagna diffamatoria svolta da alcuni giornalisti contro il vescovo Bregantini, ci fanno capire che dietro quell’attentato non ci stava solo la ‘ndrangheta ma anche le massonerie deviate. Insomma maturiamo la lucida consapevolezza che ci troviamo di fronte ad un sistema di morte molto più pervasivo di quello che avevamo finora compreso e immaginato.
O stai dentro questo sistema o vai via dalla Calabria
Per cui decidete che il consorzio, da solo, non è più sufficiente
Partiamo da un’analisi del sistema attuale: noi pensiamo si mantenga attraverso un “circolo di morte” nel quale la ‘ndrangheta e le massonerie deviate si situano, direttamente o attraverso persone controllabili, dovunque la gente deve rivolgersi per soddisfare i propri bisogni quotidiani fondamentali, dal lavoro alla sanità, dalla pubblica amministrazione all’apertura di un’attività commerciale… Insomma la gente è presa per il collo: o stai dentro questo sistema o vai via dalla Calabria. La moneta principale con cui la gente ricambia questi centri di potere è il consenso, ossia il voto. ‘Ndrangheta e massoneria accumulano pacchetti enormi di voti che poi rivendono ai partiti, i quali a loro volta pagano in due modi: facendo spazio all’interno del partito e dei luoghi di governo a uomini che provengono da questi centri di potere, o cedendo loro ulteriori posti nella pubblica amministrazione, posti di responsabilità e di dirigenza. E il circolo ricomincia. In questa logica costruire un’alternativa sul piano culturale e politico è praticamente impossibile.
Questo spiega anche il trasformismo del personale politico in Calabria.
Infatti in Calabria i partiti non esistono, tranne qualche militante che continua a crederci. Pertanto implorare dallo Stato un intervento risolutivo significherebbe chiedere ai partiti di sputare nel piatto dove mangiano: qualcosa la si fa ma mai in maniera risolutiva o efficace, perché far ciò significherebbe mettere in crisi il sistema di scambio dei voti. Pensa cosa significa un milione e mezzo di voti calabresi in un momento in cui in Italia si vince o si perde per qualche migliaio. In questo contesto è inefficace, ed anche ingiusto, l’appello al cambiamento culturale della gente. La gente in Calabria non manca di valori, ma quotidianamente deve scegliere tra la sopravvivenza propria e della propria famiglia e la coerenza e, naturalmente, molta gente sceglie la sopravvivenza. Quindi non c’è solo il danno ma anche la beffa: non solo non viene garantita alla nostra gente la possibilità di scegliere ma deve anche assistere a pressioni fortissime su un preteso eroismo che sostanzialmente lascerebbe immutata la situazione.
E allora come si esce da una situazione che appare bloccata da tutti i punti di vista?
Noi vediamo una sola possibilità: intervenire nei luoghi di scambio tra i bisogni delle persone e i centri di potere occulto. La parola chiave è “alternativa”: o si riesce a dare realmente alla gente la possibilità di avere un’alternativa o non se ne esce più. Ciò significa organizzarci per dare risposte alternative a quelle che danno questi centri di potere. Il primo bisogno fondamentale a cui bisogna dare risposta è la sicurezza. La sicurezza oggi in Calabria non viene garantita dallo Stato, perché lo Stato non risponde proporzionalmente alla gravità dei fatti criminosi che avvengono, ma proporzionalmente all’importanza della vittima che viene colpita. Dall’altro lato chi ha il coraggio di dire no di fatto viene punito sia dallo Stato che dall’ambiente in cui vive. La faccenda tristissima dei “testimoni di giustizia” è eloquente: i testimoni di giustizia sono quelli che hanno avuto il coraggio di dire no, avendo visto delle cose, ed oggi vivono una vita d’inferno nell’isolamento sia da parte dello Stato e che da parte della società.
Organizzare un sistema alternativo
È sul bisogno di sicurezza che intervengono Comunità Libere?
Sì, e ovviamente scegliamo gli strumenti della nonviolenza. L’idea è di organizzarsi in modo che, nel momento in cui qualcuno viene minacciato, attaccato, colpito dalla ‘ndrangheta, si possa reagire simultaneamente, in modo sincronizzato, a sua difesa. Si tratta di tessere una rete di persone, famiglie, organizzazioni sociali, imprese che, nel momento in cui entrano in Comunità Libere, dicano che cosa concretamente possano mettere a disposizione. L’obiettivo è creare in tutta la Calabria dei coordinamenti locali di Comunità Libere i quali ci danno l’o.k. per l’entrata di nuovi soggetti nell’organizzazione e ci danno anche le indicazioni su dove intervenire e dove no, perché le situazioni non sono tutte semplici, trasparenti e lineari. A questo punto si mette in moto il coordinamento regionale e ciascuno fa il suo pezzo.
Naturalmente maggiore è la reazione più efficace è il meccanismo…
Certo, e adesso siamo in piena campagna adesioni. Finora siamo intervenuti solo in alcune situazioni che ci hanno riguardato direttamente e soprattutto con una metodologia di tipo tradizionale: per esempio attraverso i comunicati stampa di denuncia delle violenze. È una scelta di prudenza, perché se la gente rischia la propria pelle nel dir di no, anche sulla base di una nostra vicinanza, e quindi conta su di noi, noi dobbiamo poter contare su un’organizzazione forte. Questo è un elemento cruciale, e di responsabilità, della nostra strategia: se diciamo a chi è in difficoltà “resisti perché c’è un movimento che ti dà una mano”, però poi la reazione non è forte, non è efficace, non è all’altezza, rischiamo davvero di lasciare isolate le persone. Il primo passo quindi è il successo di una forte campagna di adesioni – dentro e fuori la Calabria – in maniera che la reazione di volta in volta attivata possa essere davvero pesante.
Il secondo è far nascere i coordinamenti locali. I primi saranno a Catanzaro e nella Locride, mentre è già attivo quello regionale.
Che tipo di disponibilità chiedete a chi entra in questa rete di difesa nonviolenta?
Di qualunque tipo, in base alle caratteristiche e alle possibilità degli aderenti: scrivere sul giornalino parrocchiale, organizzare un sit-in, attivarsi con la posta elettronica, organizzare azioni dirette… Qualunque disponibilità, anche piccola, purché garantita. Più di tutto chiediamo serietà e affidabilità. Oltre naturalmente all’adesione al nostro manifesto che contiene due elementi di fondo, radicalmente antagonistici al sistema di violenza: l’attenzione ai mezzi e la difesa di tutti, non solo degli affiliati, come fanno mafia e massoneria. Inoltre è importante ciò che può fare chi è fuori dalla Calabria, perché se questa lotta difficilissima sarà vinta non lo faremo da soli. È necessario che molti fuori dalla Calabria dicano: “quelli là ci interessano”, in maniera che i poteri radicati sul territorio sappiano che non debbono vedersela solo e unicamente con noi.
Siete consapevoli che con questa strategia alzerete il livello del conflitto, e questo avrà una reazione.
La reazione c’è, c’è già stata, ci sarà ancora: io mi aspetto tempi molto duri… Del resto, noi intendiamo distruggere queste organizzazioni violente, la ‘ndangheta e la massoneria, ma abbiamo la chiara consapevolezza che le persone non debbono mai diventare nemiche. Ciò non solo per adesione alla nonviolenza, ma perché ci dobbiamo misurare con il meccanismo dell’appartenenza. In Calabria non vali per ciò che sei, o per ciò che dimostri di valere, ma per l’appartenenza che riesci ad esibire: ad una famiglia forte, alla massoneria, alla ‘ndrangheta. In questo contesto la classe sociale popolare è fatta di gente senza appartenenze da esibire, e lì la ndrangheta pesca i suoi affiliati, dando in cambio un’identità forte. Nella ‘ndrangheta non si entra prevalentemente per soldi, ma per un’ideologia distorta di rispetto, perché nel momento in cui ci entri diventi qualcuno, sei riconosciuto, rispettato e non devi più avere un atteggiamento da suddito. Perciò il problema dell’alternativa è molto serio.
Il programma costruttivo
E questo mi sembra, gandhianamente, il vostro programma costruttivo.
Proprio così. Una delle esperienze più significative del Consorzio Goel, la coop. Valle del Bonamico nasce esattamente a questo scopo: opera nel territorio di Platì e Bovalino con l’obiettivo di dare un’alternativa a persone a forte rischio di coinvolgimento mafioso. Con l’idea che queste persone non vanno emarginate ma coinvolte in percorsi positivi, di protagonismo, integrazione e lavoro, dando loro anche l’opportunità di guadagnare adeguatamente ma attraverso un lavoro onesto. Anche perché, tutto sommato, la proposta che noi facciamo è competitiva: la ‘ndrangheta fa un’offerta falsa, in cui sono pochi a vincere e tanti a perdere perché si rischia di venire ucciso, perché se non si è un potente si va in carcere e i soldi “guadagnati” si spendono in processi e vertenze legali, perché non ci si gode la famiglia e si vive costantemente con la paura…è una vita a perdere, una vita fallimentare, insomma un grande imbroglio.
Tutto ciò in una regione dove il problema del lavoro è un elemento strutturale.
Infatti, oltre al bisogno di sicurezza ce ne sono altri da cui dipendono i possibili cambiamenti. Il principale è proprio il lavoro: in Calabria lo stato sociale di fatto è controllato direttamente o indirettamente da certi poteri, quindi ogni qual volta riceviamo risposte, di fatto le negoziamo con quelli. Inoltre c’è la tendenza generale volta allo smantellamento dello stato sociale. Ci siamo chiesti se dal basso possiamo organizzarci per dare risposte alternative, per rifondare il pubblico attraverso una gestione democratica, coinvolgendo le comunità locali, la gente che si mette insieme per dare risposte sul lavoro, sui servizi sociali, sulla previdenza, sulla sanità ecc. Il modello di riferimento è quello delle società di mutuo soccorso da cui è nata la cooperazione in Italia, quando non esisteva lo stato sociale e per dare alcune risposte era necessario mettersi insieme. In Calabria dobbiamo ripartire da qui, creando percorsi di mutualismo allargato. Per questo abbiamo costruito un consorzio regionale di 3° livello che si chiama Calabria Welfare in cui entrano i diversi consorzi sociali calabresi.
La descrizione che fai del sistema di dominio mafioso in Calabria mi sembra da manuale: è fondato sulla violenza diretta, la violenza strutturale, la violenza culturale…
È proprio così, perciò è importante agire a tutti i livelli, anche su quello culturale: dobbiamo destrutturare tutto l’apparato ideologico che sostiene questa organizzazione. Walter Wink nel libro “Rigenerare i poteri” dice che ogni organizzazione umana ha una sua spiritualità, negativa o positiva che sia, perché non c’è nessuna organizzazione di potere che pretenda di avere la fedeltà dei suoi membri, che non si fondi su un apparato ideologico”. Per cui prima di combattere frontalmente queste organizzazioni è necessario destrutturare il loro apparato ideologico, destrutturare quelle giustificazioni simboliche che sostanzialmente producono obbedienza, offrendo una sorta di presunzione di innocenza a molti mafiosi e massoni. Sono convinto che tanta gente è entrata in buona fede, ritenendo giusto ciò che fa la ndrangheta: il punto è quello di destrutturare questa mistificazione ideologica, questo imbroglio. Questo è il lavoro più efficace, ma lo si può fare in un meccanismo di dialogo con le persone, perché le organizzazioni vanno combattute ma con le persone si dialoga… Infine, bisogna ridicolizzare alcuni assunti mitici della ‘ndrangheta, questa è un’azione urgente e necessaria, perciò abbiamo fatto anche un appello a molti artisti per aiutarci…
Caro Vincenzo, non posso lasciarti senza un’ultima domanda: qual è il vostro rapporto con la paura?
La paura c’è, ma abbiamo la consapevolezza che prima della paura c’è la dignità. Certo poi ci sono anche i sensi di colpa e la responsabilità rispetto alla propria famiglia… Personalmente mi aggrappo alla fede in Dio: credo che questo percorso non sia nato da noi, credo che Dio ci stia conducendo in un percorso di liberazione, ed affido a lui tutto quanto. Del resto questo aspetto della spiritualità per alcuni di noi è così importante che abbiamo messo su un piccolo movimento di preghiera che si chiama “Magnificat Calabria, movimento di preghiera per il cambiamento”, per cui le nostre azioni sono supportate da tante persone che ci seguono con la preghiera.
Insomma, non vi fate mancare niente…
…Siamo o non siamo nell’epoca della complessità?
2 Vice-presidente del consiglio regionale calabrese, ucciso dalla ‘ndrangheta il 16 ottobre 2005 a Locri di fronte al seggio delle elezioni primarie dell’Unione. Dal suo omicidio prende il via il movimento dei “ragazzi di Locri” che oggi si riunisce intorno al sito www.ammazzatecitutti.org (ndr).
L’abbraccio tentacolare di Mamma Mafia, che recluta i più giovani nell’organizzazione
di Elena Buccoliero
I fatti di violenza tra i minori, dentro e fuori dalla scuola, hanno ormai invaso le cronache dei media locali e nazionali. Ma che cosa significa l’azione violenta in luoghi già segnati dalla criminalità organizzata? Ne parliamo con Saverio Abruzzese, psicoterapeuta e criminologo clinico, impegnato come psicologo scolastico in diverse scuole pugliesi. Saverio Abruzzese è stato anche giudice onorario al Tribunale per i minorenni di Bari. Sui centri di ascolto in particolare è autore di un libro bellissimo, “Un posto per parlare”, ed. la meridiana 2006, da cui sono stati tratti questi frammenti.
Da che cosa deriva la forte aggressività che riscontriamo nei ragazzi?
“Una chiave interpretativa potrebbe essere quella comportamentista, che presuppone una forte connessione tra frustrazione e aggressività, ampiamente studiata. L’aggressività può prendere due vie: quella interna e quella esterna. Nel primo caso osserveremo condotte che vanno dalle varie forme di depressione alle dipendenze da droghe o alcol, all’autolesionismo, ai tentativi suicidari e suicidi consumati. Nel secondo caso si osservano condotte eteroaggressive, dalla violenza verbale a quella fisica, alla devianza, alla criminalità, al terrorismo, eccetera”.
Si direbbe allora che non ci fosse troppa differenza tra chi fa e chi subisce azioni aggressive. Ma in che modo questo si combina con l’esperienza della criminalità diffusa?
“Se al carico di frustrazioni dell’adolescenza aggiungiamo un modello familiare deviante, con genitori inseriti nella criminalità organizzata, con codici di comportamento tipici di quella cultura, allora quella condotta da bullo si rafforza e diventa un’identità da difendere.
Questi ragazzi diventano figli della mafia, una madre forte e severa, con delle regole ferree, che non ammette disobbedienza. Ma anche una madre premurosa, che non ti fa mancare nulla, che ti dà rispetto, identità, denaro. Esattamente ciò di cui hanno bisogno questi ragazzi, sempre più numerosi, attratti da queste “sicurezze”, che nessun altro è in grado di offrire.
Una madre attenta ai bisogni dei propri figli, soprattutto di quelli che non hanno altro modo di vederli soddisfatti. Ragazzi che vivono nella marginalità e di cui non si occupa nessuno, spesso nemmeno i genitori. Il reclutamento nella famiglia mafiosa è una valida alternativa per trovare una “base sicura”. Il mafioso sta diventando una figura di riferimento in cui identificarsi e a cui affidarsi”.
L’incontro con la violenza come modo per risolvere le incertezze dell’età?
“Sì, ma non è possibile restringere tutto alla violenza. Questi ragazzi sono riconoscibili da un codice di comportamento peculiare, basato sì su prevaricazione, silenzio, violenza, mancanza di scrupoli, ma anche generosità, disponibilità, solidarietà. Insomma, aspetti negativi, ma anche valori positivi.
Lo spirito di corpo, il sostegno e l’aiuto reciproco sono caratteristiche ricercate in età adolescenziale, ed è per questo che il modello mafioso ha successo con i ragazzi.
Un ragazzino reclutato si sente – finalmente – qualcuno e può contare sulla protezione del clan. Il senso di appartenenza è garantito: anche questo è un bisogno caratteristico della criminalità organizzata, ma anche dell’adolescente”.
Un’identità esigente a cui poi rimanere fedeli.
“La criminalità organizzata offre ai ragazzi una serie di vantaggi che, in molti casi, non hanno la possibilità di trovare altrove. “Te li compri con un caffè”, disse un pentito riferendosi alla facilità con cui si possono reclutare questi ragazzini. “E ti rimangono fedeli”, aggiunse”.
In che modo si guarda alla giustizia?
“La giustizia vera è quella realizzata dalla mafia, anche perché la punizione mafiosa è più rapida e più certa di quella del sistema della legalità. Pertanto la “giustizia mafiosa” è più efficace, perché garantisce la “certezza della pena”. Raccoglie consensi. Come a Napoli, dove le donne hanno ostacolato le forze dell’ordine che avevano osato penetrare nel loro territorio per catturare il boss.
È successo anche a Bari in più di un’occasione, e c’erano anche bambini che osservavano incuriositi. Così si diffonde sempre di più quel senso di appartenenza tipico dei gruppi che subiscono le “ingiustizie” della legalità, come accade per le minoranze, o come accadeva per i seguaci di Robin Hood nella foresta di Sherwood o nei moti carbonari o nella Resistenza”.
Il boss mafioso trasformato in un eroe romantico…
“Già, tutto molto suggestivo, con la differenza che questi nuovi eroi, che godono di un incredibile sostegno popolare, sono spesso criminali responsabili di diversi omicidi. La criminalità organizzata pesca nella crisi di identità dei nostri giovani. E i ragazzi abboccano perché non hanno altre fonti a cui abbeverarsi. La mafia sta diventando un movimento popolare che conta sull’appoggio del territorio. E così il suo richiamo diventa sempre più forte, si sente nel sangue, perché ormai fa parte del nostro modo di vivere, della nostra cultura, a tutti i livelli e in tutti i ceti”.
Secondo questa descrizione la penetrazione mafiosa avviene tra i ragazzi dei ceti popolari. È proprio così?
“No, la situazione è complessa. Tra i figli della mafia non ci sono soltanto quelli che provengono dalla marginalità, ultimamente anche i figli e le figlie di papà. Ragazzi e ragazze per bene, insospettabili, annoiati, abituati ad avere tutto – forse troppo –, alla ricerca di un’emozione in più.
Nella vita di questi ragazzi non solo è difficile individuare un evento frustrante come causa dell’aggressività, ma è anche assente un modello aggressivo da imitare. I genitori sono brave persone, che non litigano mai e si preoccupano di non fornire occasioni di frustrazione ai loro figli. Ma anche in queste famiglie c’è qualcosa che non va.
Spesso all’interno di questi contesti familiari si utilizzano modalità comunicative incongrue, paradossali: i genitori non litigano fra di loro, ma litigano attraverso i figli, cercando di stabilire una coalizione con il figlio contro l’altro genitore. Il conflitto, in casi simili, non appare nella sua drammaticità ma cova sotto le ceneri. Tutto questo diventa particolarmente evidente se i genitori sono separati. Dal punto di vista relazionale è la situazione più patogena per un bambino”.
In questi casi quale vantaggio dà l’introdursi in un sistema illegale?
“Di fronte alle loro famiglie disfunzionali accade che molti ragazzi si rivolgano ad un’altra madre attenta a soddisfare questo bisogno di trasgressione, a fornire emozioni forti e materiale da sballo per vincere il cosiddetto “malessere del benessere”. E così ci troviamo ragazzini sorpresi a rubare, a spacciare, a commettere ogni tipo di violenza con il beneplacito di una madre mafiosa molto tollerante, ma solo finché si seguono certe regole, una in particolare: il silenzio omertoso”.
È impressionante questa continua metafora della mafia come madre…
“La cultura mafiosa è una cultura familiare, non è un caso se si parla di affiliazione, di padrino, di mammasantissima, di battesimo… La mafia-madre non è un esercizio retorico, ma l’amara realtà che stiamo vivendo. Il dibattito sulla prevenzione e sulla repressione deve fare i conti con questa dimensione familiare del sistema mafioso. Cercare di reprimere un legame di sangue può rinforzare questo legame: la prevenzione dovrebbe offrire una valida alternativa, una presenza sul territorio altrettanto attenta, scrupolosa, pronta. Largo al terzo settore e al volontariato, dunque, ma soprattutto tanti assistenti sociali e tanti insegnanti pronti a cogliere il disagio.
Soprattutto è necessario che questi operatori non abbiano paura e non lascino il territorio alla mercé dei mafiosi, perché loro sono sempre pronti ad occuparlo, come ogni madre premurosa”.
Come si può fare educazione alla legalità in questi contesti?
“Certo, diventa sempre più difficile proporre un intervento efficace. Bisogna affrontare la questione all’origine, laddove c’è una percezione distorta della legalità e del vivere civile. Ma attenzione! Siamo noi che la consideriamo “distorta”; per questi ragazzi non c’è una realtà deformata.
Provate a chiedere ai ragazzi che cosa farebbero se gli rubassero il telefonino. Quasi tutti aspetterebbero che qualcuno gli chieda dei soldi per restituirglielo. Se provate a spiegare che così facendo commettono il reato di ricettazione, non ci credono. Per loro è assolutamente normale pagare per avere ciò che gli hanno rubato, anzi è una fortuna.
Ma di fronte alla considerazione che la ricettazione è il modo migliore per alimentare il furto, allora incominciano a capire come funziona il sistema della legalità”.
Il conflitto è aperto tra legalità e illegalità. Difficile per un ragazzo riuscire ad orientarsi…
“La devianza minorile è il prodotto di un conflitto tra cultura della legalità e sub-cultura della illegalità, ma sarebbe più corretto affermare che è semplicemente il prodotto del conflitto fra due culture, di cui il minore è vittima. Non possiamo pretendere che sia lui a discriminare fra cultura e sub-cultura, possiamo – questo sì – aiutarlo a fare una scelta, offrendogli dei modelli di riferimento alternativi. Inoltre dobbiamo sempre avere in mente che, nel momento in cui offriamo un’alternativa, stiamo provocando un conflitto di lealtà al nostro ragazzo; infatti, se si schiera con noi tradisce le sue radici, ma se rimane ancorato a queste sue radici, tradisce le nostre aspettative. Tradisce, comunque. Questo conflitto è alla base del suo disagio.
E così spesso accade che questi minori, che non sono in grado di discriminare, siano discriminati, designati, additati, isolati e via discorrendo. Li rendiamo ancora più vittime. Li rendiamo bulli”.
E qui siamo alle responsabilità della scuola, oltre che della famiglia.
“È necessaria una nuova pedagogia che si liberi di vecchi modelli di riferimento, che sia in grado di parlare un linguaggio comprensibile per questi ragazzi, che si adatti alle loro regole, prima di proporne altre nuove. Molti insegnanti continuano a credere che l’alunno debba adattarsi alle regole della scuola, non rendendosi conto che questo significa chiedergli di tradire le sue regole familiari. Il processo dovrebbe essere inverso: sono gli insegnanti che devono adattarsi agli alunni, entrare nel loro mondo, parlare la loro lingua. Solo così potrà nascere un proficuo dialogo educativo, si potrà provare un percorso pedagogico che recuperi una dimensione di legalità, si potrà ex ducere, cioè condurre il minore da un sistema di riferimento ad un altro: il significato dell’educazione è questo. Ma non si può condurre fuori rimanendo fuori. Bisogna entrarci!”
I bambini della mafia sono vittime e i mafiosi adulti sono stati bambini
da un incontro con Rita Borsellino
“Venga a parlare nella mia classe. È una seconda elementare. Dopo la morte di suo fratello Paolo i bambini vivono nel suo quartiere, hanno vissuto la paura. Con l’esplosione le loro case sono state danneggiate. Sono solo spaventati. Vorrei che li aiutassimo a elaborare quello che è accaduto per trasformarlo e proiettarlo come speranza nel futuro”.
Devono essere state più o meno queste le parole con cui, dopo quel terribile 19 luglio del 1992, una giovane insegnante si è rivolta a me proponendomi per la prima volta di tenere un incontro in una scuola. E io, che non avevo mai parlato in pubblico né pensato di poterlo fare, io che sono da sempre una persona molto riservata e poi ero piegata dal dolore per la morte di mio fratello, ho sentito prevalere in me l’istinto materno e ho detto sì senza pensare.
Subito ho cominciato a chiedermi: cosa posso dire a dei bambini di 7 anni? Ho visto i loro occhioni spalancati su questa grande violenza, incomprensibile. Mi sono detta: se parlo di Paolo come di un grande magistrato avranno ancora più paura. Ho parlato di lui come di una figura amica: la nostra infanzia insieme, i giochi, il suo carattere, e crescendo la voglia di occuparsi di giustizia e perché. Noi in fondo vivevamo da privilegiati, eravamo figli di farmacisti, non ci mancava nulla. Paolo si guardava attorno e continuava a dire: “Non è giusto!” Scopriva la vita del quartiere, la sperequazione, i bambini che a scuola non ci andavano perché dovevano lavorare oppure si addormentavano sui banchi per la stanchezza, o perché avevano poco da mangiare… Paolo li portava a casa nostra dopo la partita che giocavano insieme con un pallone di stracci. Sentiva il desiderio di dedicare tutto se stesso perché tutti avessero gli stessi diritti.
E poi Paolo adulto, Paolo papà, il suo amore per la vita, e mentre io parlavo la paura dei bambini passava perché ora lo conoscevano come persona. Ricordo che un bimbo mi chiese: “Posso chiamarlo zio Paolo?” Mi hanno domandato quali erano i suoi piatti preferiti, se aveva un cane, come giocava quando era bambino. Avevano imparato a conoscerlo e gli volevano bene. Da allora parlo così di mio fratello, come di una persona da condividere con gli altri.Il figlio del mafioso con il figlio del magistrato
Paolo amava rivolgersi ai ragazzi delle scuole. Poco dopo la morte di Giovanni Falcone, nonostante il grande dolore, accettò di incontrare gli studenti di una scuola media perché credeva nel rapporto coi piccoli. La scuola è un luogo dove passano tutti i bambini, anche i figli dei mafiosi. C’è la possibilità di offrire a tutti la stessa chiave di lettura. A scuola non c’è differenza tra il figlio del mafioso e il figlio del magistrato. Per alcuni bambini potrebbe essere lì l’unica occasione per sentir parlare di legalità.
Totò Riina ha tre figli, due maschi e una femmina. Sua moglie fa la maestra. Durante i primi anni di latitanza (durata in tutto 25 anni) i figli hanno studiato con la mamma, poi sono entrati in una scuola pubblica. Quando la figlia Concetta frequentava il liceo classico ci furono non poche polemiche perché era stata eletta rappresentante d’istituto. Fu una vera e propria violenza nei suoi confronti. Difendendosi diede una risposta stupefacente: “Per me mio padre è una persona da amare e da rispettare” – e nessuno le aveva chiesto di fare il contrario, – “ci ha educati al rispetto degli altri”. Per me è difficile che un uomo possa educare al rispetto con le parole, quando poi nei fatti distrugge tutto quello che ha seminato. In effetti i suoi figli maschi sono stati uno condannato all’ergastolo, l’altro ha avuto una condanna per associazione mafiosa.
Dobbiamo chiederci in che modo due ragazzi arrivano a fare una esperienza così forte in seguito all’eredità del padre. Come Paolo quando interrogava persone che avevano commesso delitti terribili ed erano stati suoi compagni di scuola, e si domandava: “Quando li ho persi di vista? Perché non mi sono preso cura di loro?”
Allora io mi domando, come società ci facciamo carico di questi bambini? Anche solo per non trovarceli contro domani. Che precauzioni prendiamo perché non seguano la strada dei loro genitori? Abbiamo una grande responsabilità come società, ci prendiamo non abbastanza cura di chi nasce in un ambiente deviante.
Oggi la situazione si sta evolvendo grazie al lavoro che si fa nelle scuole. In molti casi i collaboratori di giustizia iniziano a parlare perché spinti dai figli, più che dalle loro compagne. Le donne di mafia… è una favola che non siano responsabili. La donna tiene insieme il nucleo familiare, educa i figli, conserva i valori di riferimento, perpetua di fatto la cultura mafiosa.
Negli ultimi anni anche la donna di mafia si è emancipata: prende il diploma, ha una visione diversa della vita e dell’educazione e spesso sogna per i figli un futuro migliore. Questo lo dobbiamo anche grazie all’inasprimento delle pene.
Un mafioso oggi ha più possibilità che in passato di finire in carcere, in più la confisca dei patrimoni è un danno anche per i figli. Se questi figli frequentano la scuola e hanno la possibilità di incontrare dei valori veri, portano nella famiglia la dualità della loro doppia matrice culturale e spesso cercano di indurre i genitori a collaborare. Di recente alcune donne di mafia che avevano amministrato il capitale mentre i loro mariti erano in carcere hanno deciso di parlare perché non sopportavano più la lontananza dai loro figli.
L’istituzione è la divisa che separa dal padre
In certe zone come i quartieri Brancaccio o Zen, a Palermo, i bambini conoscono quella normalità, la respirano. Crescono in fretta, a 11 anni sono già adulti. Cosa possono pensare di una società che li priva dei loro diritti fondamentali? Nelle loro case rubano la luce dall’illuminazione pubblica, i genitori non hanno il lavoro, il papà è in carcere, la mamma spesso si prostituisce o i due genitori inducono i figli alla prostituzione. Non conoscono quei valori che parrebbero naturali. Per loro i diversi siamo noi, siamo noi gli strani. Contrastano e trasgrediscono su tutto perché sentono di avere contro un mondo ostile, che li ha emarginati.
Brancaccio è un piccolo universo, i bambini che ci abitano conoscono soltanto quello. Pasquale Puglisi non era un eroe, ha solo tentato un’opera di civilizzazione, come del resto hanno fatto Giovanni Falcone o Paolo Borsellino. È un’operazione che la mafia non consente.
Brancaccio è vicino al centro, conta 30.000 abitanti. Ognuno per sopravvivere deve violare la legge, vista soltanto come repressiva. Don Pino Puglisi si batte e muore per la mancanza di una scuola media in questo quartiere. (La scuola è arrivata anni dopo e gli autobus per arrivare lì sono rarissimi).
Questi bambini sono abituati ad arrangiarsi. Per loro l’istituzione è la divisa dei Carabinieri che entra nelle loro case per portare via i papà, per arrestare il fratello. Come possiamo parlare con loro di questo? Certo, ci si rivoltano contro e ci chiedono il conto.
In quartieri come questo però non crescono soltanto dei delinquenti – Agostino Catalano, caposcorta di Paolo, veniva dallo Zen – ma è più facile che si sbagli strada. Qui la mafia pesca a piene mani. Ha bisogno di adepti, di manovalanza per il controllo del territorio attraverso la riscossione del pizzo e lo spaccio di droga. Molti picciotti in queste sacche soddisfano così i loro bisogni primari, che è poi il bisogno di vivere. La tentazione di vivere di espedienti è grande. E la mafia sceglie il meglio, non un debole, un ragazzo che si lascia intimorire. Vuole ragazzi svegli, che sappiano come comportarsi. E i ragazzi lo sanno che devono farsi furbi, mostrarsi adatti. Si allenano all’illegalità fin da piccoli per mostrarsi nel provino.
Il legame tra la mafia e le istituzioni
Ci si scandalizza per come la mafia utilizza i bambini ma la mafia non nasce lì, è ben altro. È grottesco come sia stata esaltata la cattura di Provenzano. Si è dato molto risalto al fatto che vivesse in una stalla, o che mangiasse cicoria. Era il capo di una mafia in estinzione?
No, tutt’altro. Era a capo di una mafia pericolosissima. O meglio ci sono due mafie che sono la stessa cosa, hanno l’una bisogno dell’altra. Da un lato quella dei politici-colletti bianchi, dall’altra Provenzano. Sono elementi diversi di una stessa realtà, e guai a volerli separare!
Dopo la cattura di Provenzano non ci sono state guerre tra famiglie perché c’era già il successore. Cosa c’entrano con questo i bambini? Tutto questo condiziona pesantemente la loro esistenza, in luoghi dove la mafia appare necessaria ed è voluta, tollerata, permessa dalle istituzioni. Manca la volontà di intervenire. Quante vite a perdere! Generazioni intere sono state abbandonate a se stesse.
Comprendere la mafia e spiegarla ai bambini
Poi ci sono i bambini cosiddetti “normali”. Che conoscenza hanno di tutto questo? Spesso proviamo a difenderli e non pensiamo che la salvezza sta nella commistione, non nella esclusione di una parte della società. Con i bambini possiamo parlare di tutto. Anche i bambini di 7 anni possono capire se siamo in grado di parlare il loro linguaggio.
Abbiamo la responsabilità enorme non soltanto di difenderci ma di imparare a conoscere questa realtà che è davvero complessa, anche per poterla decifrare ai più piccoli.
Ho letto il libro intervista a Giovanni Brusca, che aveva rapito il figlioccio di dieci anni, lo aveva tenuto segregato per un anno e poi sciolto nell’acido. In seguito è diventato collaboratore di giustizia perché aveva un bimbo di cinque anni e non sopportava la lontananza da lui. Ho letto questo libro con enorme ripugnanza, ho sofferto profondamente ma mi sono imposta di proseguire per capire in che modo queste persone operano. Agiscono quasi si sentissero investite da un compito e svolgono azioni criminose sentendosi dalla parte della ragione. Possiamo capirlo solo se ci siamo sforzati di conoscere Brancaccio, Zen…
E paradossalmente loro fanno la stessa difficoltà a capire noi. A scuola se si comportano in modo violento vengono espulsi e messi ai margini. L’unica realtà che dia loro una identità, un ruolo, un senso di fiducia è l’organizzazione mafiosa. Ho imparato da mio fratello l’importanza di capire le ragioni dell’altro anche quando sono sbagliate, il valore di riconoscersi un debito di solidarietà che non abbiamo pagato e forse nemmeno avevamo pensato di avere.
I bambini della mafia sono vittime. Se riusciamo a concepire questo poi guarderemo anche gli adulti in un modo diverso, perché sono bambini cresciuti.
Trascrizione a cura di Elena Buccoliero
Nonviolenza e politica
Puri e impotenti, o sporchi e potenti?
La questione, che sempre mi afferra con mano d’acciaio, della prospettiva di una politica nonviolenta specifica, si pone di fronte a due grandi difficoltà:
1 – La nonviolenza in profondità è tensione volta alla trasmutazione, alla conversione e non solo alla transizione. Vuole un mondo nuovo non solo come risultato futuro dell’agire politico ma come imperiosa novità nel presente. Nel presente della mia/nostra vita. Ecco perché è così affine e comprensibile alla/dalla esperienza religiosa e assai meno comprensibile ai “politici” anche puliti e buoni. Questa tensione che invoca e vive la escatologia nel presente riduce, quasi annulla, lo spazio della politica che è appunto il tempo intermedio tra il presente e la Parusia. Ecco perché, a mio parere, il nonviolento si trova stretto, a volte a disagio, nell’agire politico. Gandhi fu prestato alla politica, lui attore sociale-religioso, da forti e circoscritte circostanze storiche. Vinoba, suo successore, fu solo attore socio-religioso. Lo stesso vale per i nostri maestri, quelli che abbiamo amato e conosciuto di persona, come Domenico Sereno Regis, Tullio Vinay, Sirio Politi, ecc…
2 – L’agire socio-politico che la nonviolenza suggerisce è fondamentalmente legittimato dalla interiore persuasione. Questa legittimazione interiore è insieme la nostra forza e la nostra debolezza. Siamo forti perché non attendiamo da nessuno, da nessuna esteriorità, lo stimolo ad agire e infatti siamo militanti imperterriti per decenni. Siamo deboli perché non sottoponiamo a nessuno, in nessuna sede, il nostro “programma”. L’agire politico-istituzionale è invece forte del consenso socialmente espresso attraverso le elezioni.
Noi, con un “Partito per la Nonviolenza” saremmo forti in proporzione ai voti raccolti. Questo consenso, questa fiducia sarebbe una grande forza. Ma qui sta l’aspetto diabolico: la possibilità di un agire legittimato (e ben retribuito), potente e visibile (quanto narcisismo, quanto gonfiore dell’io, nel vedere il mio volto sui manifesti, il mio nome sui giornali…) attrae anche chi non ha alcuna motivazione interiore… diciamo attrae per il possibile cadreghino.
E da questo tipo di presenza quale drammatico, mortale inquinamento!
Sicché l’uscita dal dilemma: puri, millenaristi, impotenti – sporchi, politici, potenti, non è per nulla facile. La santità è la purezza potente? Forse dobbiamo indagare nella vita e nel pensiero di uomini come La Pira. Qual è il segreto attraverso il quale Ignazio da Loyola o Francesco d’Assisi o don Bosco hanno segnato la storia?
Rimango finché avrò vita a disposizione del progetto nonviolento, sia nella forma dell’aggiunta, sia nella forma della politica nonviolenta, che meno pudicamente dovremmo chiamare Partito per la Nonviolenza, (ma non ce ne sono già diversi?).
Beppe Marasso
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Un fascino difficile da dire
Goffredo Fofi è tra gli intellettuali più attivi e provocatori della cultura italiana. Interessato soprattutto alla realtà sociale e alla sua rappresentazione nell’arte, ha partecipato alla nascita di riviste come I Quaderni Piacentini, La Terra vista dalla Luna, Ombre rosse, Linea d’ombra, e una grande quantità di interventi e articoli su vari giornali e riviste. È un fine critico cinematografico. Scrive per Internazionale e dirige la rivista Lo Straniero.
Della lotta nonviolenta contro la mafia ha un’esperienza diretta per aver collaborato per alcuni anni fianco a fianco con Danilo Dolci, a Partinico.
Come valuti i film sulla mafia?
“Mi sembrano falsi. Mitizzazioni costruite da sceneggiatori ottimamente intenzionati, persone serie e di sinistra, che però guardano alla mafia con un occhio talmente esterno da produrre dei puri falsi. I loro film sono costruiti a tavolino. Lo stesso, grandissimo Sciascia, ebbe il torto vero di affidare al cinema i suoi libri, serissimi. Un personaggio come Totò Riina meriterrebbe una interpretazione di Orson Welles, una sceneggiatura shakespeariana. Ricordiamolo davanti al processo: “Signor Presidente, la prego, questa è la legge. La giustizia è un’altra cosa”.
Quali pellicole salveresti?
“I film che a mio avviso meglio riescono a raccontare che cos’è la mafia sono “Tano da morire” e “Placido Rizzotto”. Il primo è quasi un comico e ha dato fastidio, al contrario dei soliti film che alla mafia sono sempre piaciuti perché ci guadagna. Vengono girati in Sicilia, c’è bisogno di comparse, di servizi… È la mafia stessa ad offrirsi. Ne escono commedie all’italiana con un rapporto irrigidito con la realtà. Mai che si faccia un’inchiesta, un tentativo di capire. Si prendono così come sono i documenti ufficiali, i rapporti di polizia, gli articoli dei giornali… si assumono posizioni moralistiche. In questi anni di criminalità internazionale, possiamo ancora rappresentarci il mafioso con la lupara?”
E tra i film stranieri?
“Sono buoni i film italoamericani, per una semplice ragione: Scorsese c’è nato dentro, come del resto Coppola, Ferrara, Cimino. I loro genitori migranti, di questa cultura mafiosa erano imbevuti, anche se non ne erano direttamente parte. “Fratelli” di Abel Ferrara è straordinario. “Il Padrino” è un’esaltazione della cultura mafiosa ma riesce a spiegarne il fascino. Nella filmografia italiana questo fascino scompare, pare immorale rappresentarlo. Ma sarebbe anche molto realistico provare a spiegare che cos’è questa nuova mafia pulita”.
Che cosa significa?
“Che la criminalità organizzata è in un continuo periodo di cambiamento. Vivevo a Napoli nei primi anni Settanta e mi è successo di partecipare ai funerali di un grande capo camorra, in quanto ero stato testimone di nozze al matrimonio di sua nipote. Ho incontrato i camorristi in doppiopetto, quelli che provengono da classi sociali alte, mandano i figli a studiare nelle migliori università inglesi e vivono in un mondo diverso da quello raccontato. Difatti, dopo la mafia che uccide, ora ne conosciamo un’altra, meno cruenta, che ha bisogno di continuare indisturbata a controllare l’economia”.
Che cosa pensi dell’educazione alla legalità nelle scuole?
“Di incontri nelle scuole su questi temi ne tengo parecchi io stesso. Ne ricordo in particolare uno a Brindisi, dove mi sembrava di parlare a vanvera. Dopo una prima diffidenza che non riuscivo a “bucare” ho cambiato tono e ho detto: Molte di voi probabilmente avranno un ragazzo legato alla malavita, per far fronte alle difficoltà di trovare un lavoro regolare. Un po’ alla volta la situazione ha cominciato a scongelarsi. Ho ascoltato storie strazianti, contraddittorie, di grande sofferenza…
In genere sono diffidente verso i programmi di educazione alla legalità dove andiamo a spiegare agli altri come devono comportarsi. “Panza chiena non crede ai digiuni”, si dice. Con che faccia tosta chiediamo a chi muore di fame, a chi non trova lavoro o un’assistenza sanitaria decente, di essere onesti? Probabilmente stiamo riversando i nostri valori su di loro, senza chiederci se sono condivisi”.
Allora quali interventi sono possibili per incidere realmente?
“Le cose da fare sono moltissime. Quelle che attualmente mi convincono di più sono alcune realtà dove l’analisi e l’azione si alimentano continuamente, stando dentro alle situazioni, insieme alla gente. A Napoli nel quartiere Scampia per esempio è nata una cooperativa che lavora soprattutto con i minori e con le donne. Ecco, questo è un esempio convincente di lotta contro la mafia. Lo stesso vale per la campagna contro le discariche, dove abbiamo il forte impegno di Alex Zanotelli”.
Intervista a cura di Elena Buccoliero
EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Gli altri siamo noi, sulle tracce della pace e dintorni
L’associazione Pace e Dintorni – nei “dintorni” è compreso tutto quello che ha a che vedere con la pace – è nata a Milano nel 1989, da un gruppo studenti universitari che sentivano la necessità di investire le proprie energie nel campo dell’educazione alla pace ed alla nonviolenza. Dopo qualche anno insieme ad altre associazioni e gruppi nonviolenti ha partecipato alla fondazione della “Casa per la Pace di Milano”, luogo di riferimento per tutti coloro che cercano corsi di formazione , informazione e proposta di azioni sui temi della pace e della nonviolenza.
I membri di Pace e Dintorni lavorano come volontari nel campo dell’educazione alla pace offrendo progetti di formazione a scuole (insegnanti, studenti, genitori) e ad organizzazioni sociali (associazioni, cooperative, ONG, comunità….), su temi diversi quali la gestione e la risoluzione dei conflitti, l’intercultura, la legalità, la nonviolenza, il lavoro cooperativo e così via. L’associazione è inoltre autrice proprietaria di una mostra interattiva itinerante intitolata “Gli altri siamo noi” che illustra temi quali i pregiudizi, gli stereotipi, la discriminazione, i capri espiatori. La mostra, indirizzata a ragazzi dai 10 ai 14 anni è stata esposta non soltanto a Milano, ma in diverse città d’Italia, dal Veneto alla Sicilia ed ha acquistato una rilevanza particolare negli ultimi anni con l’allargarsi del fenomeno dell’immigrazione e la sempre più numerosa presenza nelle classi di ragazzi provenienti da paesi lontani.
Il lavoro di ricerca e lo studio nel campo dell’educazione e l’esperienza acquisita in lunghi anni di interventi a diversi livelli, hanno portato alla compilazione di un piccolo manuale dal titolo “…..sulle tracce di Gandhi, unità didattica per la scuole superiori sulla nonviolenza nel cambiamento sociale” (stampato in proprio) e, qualche hanno più tardi alla stesura del volume “Violenza, zero in condotta” , pubblicato nel 2002 dalle Edizioni La Meridiana e tradotto in spagnolo con il titolo: Educar en la Noviolencia (Ed. PPC). Le due pubblicazioni sono frutto di un lavoro collettivo dei membri dell’associazione Pace e Dintorni che figura come autore. I due testi sono un valido aiuto per chi desidera organizzare dei percorsi educativi nelle scuole: in essi infatti esposti in modo chiaro proposte didattiche per educare alla nonviolenza, casi storici di difesa e lotta nonviolenta, brevi biografie di combattenti disarmati – da Gandhi a Rigoberta Menchù e Aung San Suu Kyi –, esperienze ed organizzazioni di “costruttori di pace”. Pace e dintorni ha inoltre partecipato alla stesura del volume dell’UNICEF “Io non vinco, tu non perdi”, uscito nel 2004.
Dallo scorso anno scolastico Pace e Dintorni partecipa al progetto “Accademia della Pace”, dell’Assessorato all’Istruzione della Provincia di Milano che con la partecipazione attiva di oltre venti associazioni pacifiste, sta portando all’interno delle scuole superiori di Milano e provincia iniziative sulla pace e i diritti umani. Protagonisti sono studenti e docenti che possono avvalersi del sostegno delle associazioni per la stesura e la realizzazione di progetti in qualche modo collegato con l’educazione alla pace ed alla nonviolenza.
In questa cornice Pace e Dintorni sta conducendo percorsi su “Gestione nonviolenta dei conflitti”, “Educazione all’interculturalità”, “Violenza, nonviolenza, partecipazione e cambiamento sociale” e sta utilizzando in alcune classi il gioco di ruolo “La mia storia, la tua storia, il nostro futuro” di Angela Dogliatti Marasso e Maria Chiara Tropea, edito da EGA, per mettere i ragazzi di fronte alla realtà del conflitto israelo – palestinese. Pace e Dintorni conduce anche percorsi sull’educazione alla convivenza in scuole medie inferiori
Il metodo proposto in questi percorsi è attivo, socio-emotivo, esperienziale. Si avvale prevalentemente del lavoro di gruppo, sia grande che piccolo, facilitato dagli adulti oppure autogestito. Le tecniche comprendono giochi, simulazioni, discussioni facilitate.
Gli operatori hanno il ruolo di facilitatori dell’espressione individuale, del confronto e dell’elaborazione collettiva, garantendo un atteggiamento non giudicante. La finalità è suscitare interrogativi e attivare i gruppi in un percorso di ricerca di risposte collettive, passando attraverso esperienze capaci di costruire nuove consapevolezze su di sé e gli altri e indicare possibili strategie di soluzione dei problemi. Gli strumenti e le attività proposte cercano tanto di favorire l’analisi e la consapevolezza critica quanto di facilitare la ricerca di soluzioni per il cambiamento.
Altre info:
www.casaperlapacemilano.it
www.pacedintorni.it
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Dai diamanti non nasce niente ma sono il frutto della guerra
Probabilmente anche i più appassionati risolutori di giochi matematici ignoreranno il nome di Marcel Tolkowsky. A differenza di Fermat, Eulero ed Euclide, lo scienziato di origine russa è ricordato da generazioni di donne ed uomini per il perfezionamento (nel 1919) della tecnica di intaglio che, con abile maestria, permette alla luce di entrare nel vile carbonio cristallizzato e farlo splendere come fosse dotato di luce propria: è la tecnica del taglio dei diamanti che porta alla creazione dei brillanti.
Molti invece hanno imparato a conoscere la De Beers, conglomerato sudafricano leader nella produzione di diamanti e principale beneficiario delle scoperte di Tolkowsky. Gli incauti fratelli De Beers vendettero il terreno sul quale fu rinvenuta la prima miniera africana in Rhodesia, ai confini del deserto del Kalahari, per 6.300 sterline (lo avevano acquistato 10 anni prima a 50); il consorzio di cercatori che lo aveva rilevato, e che mantenne il loro nome, ha estratto finora gemme per un valore di 600 milioni di sterline, e la miniera non è ancora esaurita. Dopo essere stata rilevata da Cecil Rhodes, la società passò agli inizi del ‘900 nelle mani della famiglia Oppenheimer proprietaria della Anglo American. Con i soldi delle banche Rothschild e J.P. Morgan, l’industriale di origine ebrea ma convertito alla religione anglicana costruì in breve tempo un monopolio grazie alle miniere possedute in Namibia, Congo Belga, Rhodesia e Sudafrica.
Il capostipite Ernest, sindaco di Kimberley (la città dove la miniera è diventata un buco di 5 km con un cratere di 1.200 metri di diametro visibile anche dalla luna), lasciò nel 1957 l’impero al figlio Harry, il quale ebbe la fortuna di scoprire i giacimenti del Botswana e riuscì ad assicurarsi la commercializzazione della produzione dell’intero paese. Ora il nipote Nicky si trova a dover fare i conti con la legge, voluta dal nuovo governo sudafricano, che impone alle società minerarie di cedere il 26% a persone africane.
Attraverso 10 aste annuali nelle quali vengono espressamente invitati solo i mercanti più vicini alla società, nella sede situata nel cuore di Londra la De Beers vende ancora il 60% dei diamanti trovati in giro per il mondo (era l’80% negli anni ’90). Fino alla fine degli anni ‘90 i dirigenti De Beers non poterono permettersi di percorrere agevolmente gli Stati Uniti a causa di una condanna del Dipartimento di Giustizia per violazione delle leggi antitrust.
Intorno a questo mercato si muovono, ogni anno, 50 miliardi di dollari in gran parte legati alla produzione e commercializzazione di gioielli, mentre la domanda di pietre grezze è pari a circa 6 miliardi di dollari. Solo di pubblicità, De Beers spende circa 200 milioni di dollari l’anno (lo slogan “un diamante è per sempre” risale al 1948). Molto commercio avviene in nero per ovvi motivi: la sola Liberia, grazie ai confini in comune con la Sierra Leone, esporta ufficialmente 200 mila carati l’anno, quando tutti gli esperti sono concordi nel valutare, nel migliore dei casi, la sua produzione a 6 milioni di carati. In Sierra Leone infatti, la guerra civile è sostenuta dal commercio di pietre preziose e, nonostante la presenza del contingente ONU più grande e costoso della storia (17.500 soldati di 31 paesi che sono costati nel solo 2001 ben 612 milioni di dollari), la vita media è di circa 45 anni (cfr. “Diamanti di sangue”, G. Campbell, ed. Carocci). I bambini soldato coinvolti sono 10 mila secondo le stime Unicef.
In quel disgraziato paese, nel ’97 l’esercito di mercenari della Executive Outcomes, con 85 uomini ben equipaggiati, ci mise solo tre giorni a riprendere il controllo della miniera di diamanti di Kono, da anni abbandonata al saccheggio. L’anno dopo il banchiere thailandese Saxena, proprietario di alcuni siti minerari, spese un milione e mezzo di dollari per ripristinare il potere del presidente Kabbah grazie all’esercito di prezzolati capitanato dall’ex colonnello delle forze speciali britanniche, Tim Spicer. Ma anche in Angola avvengono episodi simili: lo stesso esercito irregolare conquistò nel ’96 con gli stessi metodi le miniere di Cafunfo, e in quel caso il presidente Dos Santos dovette sborsare 60 milioni di dollari per il disturbo. Nulla, rispetto ai 2,1 miliardi di dollari che i suoi avversari, l’Unita, avevano guadagnato nei quattro anni precedenti grazie al commercio illegale dei diamanti provenienti dalla miniera riconquistata.
GIOVANI
A cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
Pop, punk, metal, dance, techno, ogni momento è quello giusto
“Musica? Ogni momento è quello giusto.” Questa affermazione è valida almeno per gli adolescenti italiani che, in classifica di importanza, collocano l’esperienza musicale al terzo posto, dietro solo a famiglia e amicizia. Lo rivela un’indagine condotta nelle maggiori città italiane. I motivi sono molteplici, ma uno dei maggiori è sicuramente la versatilità di questo mezzo comunicativo. La musica, con i suoi vari generi e testi, si adatta perfettamente allo stato d’animo di chi l’ascolta. Potendo scegliere la canzone o la melodia che meglio si adatta al nostro umore, ogni momento diventa davvero quello giusto e la musica una compagnia a cui è impossibile rinunciare. I ragazzi più giovani che spesso hanno difficoltà a esprimere i propri sentimenti, le emozioni e i pensieri più profondi la utilizzano per comunicare fra di loro e a volte con gli adulti. Per questo motivo il genere preferito diventa sempre più spesso identificativo di un gruppo con convinzioni e obbiettivi comuni, un modo per ritrovarsi e per stare insieme. La musica, come affermato in precedenza, rispecchia vari stati d’animo: a partire dall’allegro disimpegno del pop fatto di melodie orecchiabili e testi vivaci, passando per gli ideali ribelli del punk spesso politicamente e socialmente impegnato, le atmosfere cupe ed evanescenti del metal, l’intimismo della canzone d’autore, fino alla dance e alla techno nate per essere ballate e poco altro. Proprio per la sua versatilità nessuno riesce a farne a meno e spesso i cantanti, coloro che creano e danno voce alla musica, diventano simboli e icone e con il loro stile di vita e i loro ideali influenzano gli ascoltatori più giovani e più facilmente condizionabili.
Talvolta nei fatti di cronaca si sente parlare di giovani che, condizionati dall’ascolto di musica metal, hanno compiuto atroci delitti legati a sette e riti satanici. Il problema in realtà non sta nel tipo di musica che viene preferita, ma nella mente di chi l’ascolta. L’idea, ormai largamente diffusa, che il genere metal inneggi a Satana risale ai tardi anni Settanta, quando i rapporti con i temi dell’occulto e del demonismo di artisti come Ozzy Osbourne hanno portato all’accusa di influenze sataniche da parte delle chiese cristiane, tanto in Europa quanto negli U.S.A. Giornali e opinionisti trattarono questo tema e molti, come spesso accade, senza essere ferrati sull’argomento: un’opinione comune all’epoca fu che quegli album heavy metal contenessero messaggi nascosti che spingevano chi li ascoltava ad adorare il diavolo o a suicidarsi o a compiere atti sanguinari. Sicuramente fin dagli albori alcuni sottogeneri del metal (quali thrash metal, death metal e black metal) sono stati generi fortemente legati alla sfera dell’occulto, del satanico e dell’anticristiano, ma probabilmente non c’è nessuna volontà di influenzare le giovani menti. Quindi gli avvenimenti violenti che sono accaduti non sono da imputare alla musica ascoltata o ai messaggi da essa trasmessi, ma alla fragile mente di alcuni giovani che, non trovando aiuto o supporto dal mondo degli adulti, non hanno modo di comprendere la società e il mondo in cui vivono e di conseguenza la realtà viene vista in modo distorto.
La musica rimane semplicemente una valvola di sfogo, un modo di comunicare e di esprimere le proprie emozioni, portatrice di ideali ed esperienze.
PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Giocare per la pace nei luoghi dei conflitti
Devono essere pazzi. Da più di 10 anni vanno in luoghi attraversati da conflitti di ogni genere, in Guatemala, India, Irlanda del Nord, Vietnam, Sudafrica… e cominciano a giocare a “palla di stracci” con i ragazzini e le ragazzine del posto.
“Usiamo il gioco per promuovere relazioni fra le persone le cui comunità soffrono a causa di lunghe storie di tensioni fra gruppi diversi. Il gioco è uno dei modi principali in cui gli esseri umani imparano. In questo modo diamo l’avvio ad un processo di costruzione di relazioni. Non siamo un evento, un programma, qualcosa che si esaurisce in un tempo dato: favoriamo la creazione di un ambiente che permette ad ogni persona, liberamente, di stabilire relazioni a lungo termine con gli altri.” Sono gli attivisti e le attiviste di “Play for Peace” (Giocare per la pace), gruppo nato attorno ad un’idea di Daniel Botkin: “Negli anni ’80 facevo volontariato in America Centrale, come muratore ed “emissario di pace”. Giocare con le palle di stracci era uno dei miei passatempi. Ad un certo punto mi chiesi se non poteva essere usato anch’esso per promuovere la nonviolenza e la tolleranza fra etnie. E così cominciò l’avventura. All’inizio eravamo in sei, e volevamo dimostrare che i comuni cittadini potevano trovare modi creativi per essere “politici” ed operare cambiamenti. La cosa si diffuse a macchia d’olio: all’inizio erano i bimbi, ma subito dopo vennero giovani e vecchi, sportivi e non, bianchi e neri… tutti che danzavano nelle strade, insieme, attorno ad una palla di stracci! E poi si rideva e scherzava, ci si sedeva in cerchi di pace a discutere, si fabbricavano nuovi palloni. Nell’allegria le paure si dissolvevano; l’atmosfera del gioco incoraggiava le persone a connettersi direttamente l’una all’altra, superando i reciproci pregiudizi: dopotutto, facevano parte della stessa squadra! E le attitudini cambiavano a poco a poco e persone che si erano chiamate “nemici” sino al mese prima si aprirono ad amicizie che avevano considerato impossibili. Torniamo regolarmente in Guatemala, ed abbiamo girato un video sulla storia, ma ormai la cosa va avanti da sola.”
Una giocatrice dell’Irlanda del Nord, Patti Giggans, creò invece fra una partita e l’altra quella che è divenuta “L’Invocazione della palla di stracci”, che oggi viene recitata in ogni angolo del mondo in cui gli attivisti di “Play for Peace” decidono di dar inizio alle danze:
“Sono le pistole, ed è l’odio, ed è la paura, ed è la rabbia. E’ l’omofobia, e la violenza domestica, e l’abbandono, e l’abuso sessuale. Sono le droghe, l’alcool, il denaro: sono il “io ti compro” e il “tu mi vendi” ed è la solitudine, e sono gli stupri. E’ il dominio su qualcuno, su chiunque. E’ la gelosia, ed è ciò che non conosci, ed è il buio, e quello che non capiamo e quello che non vogliamo capire. Sono i nostri limiti e il “non posso aver fiducia in te perché sei differente da me”. E’ il “non c’è posto per me” e la sensazione di essere perduti. Sono i bambini che crescono privi di adulti che siano loro alleati ed amici. E’ il non ascoltare. E’ intessuto nelle nostre storie, nei nostri paesi, ed è qualcosa che dobbiamo cambiare, con i nostri figli e per i nostri figli.”
La nostra attività è un seme, dicono a “Play for Peace”, forse una cornice, un modo per insegnarci reciprocamente qualcosa: “Gli esseri umani ricordano meglio le esperienze legate ad emozioni profonde. La carica emotiva del gioco, legata ad un clima di incontri positivi, incoraggia la formazione di memorie forti, che poi si tradurranno in atteggiamenti diversi. Noi lo abbiamo visto accadere con i ragazzini e le ragazzine che giocavano a palla di stracci assieme a persone “diverse”, persone che era stato insegnato loro a temere, odiare o schernire, e che sono divenute per loro amici, adulti significativi.”
A leggere i messaggi che riempiono scrivanie e tasche degli attivisti non c’è da dubitare che l’idea funzioni. Ne scelgo uno per tutti: “Grazie per essere venuti a costruire i palloni con noi. Mi piace giocare perché è bello fare la pace così. Anche alla mia mamma è piaciuto, e adesso con i nostri vicini ci parliamo di nuovo e giochiamo ogni giorno. La canzone che ci avete insegnato la ricordo ancora. A voi sono piaciuti i dolci della festa? A me tantissimo.” Noah, bambino africano, anni otto.
SERVIZIO CIVILE
A cura di Claudia Pallottino
Nostra intervista ad Emanuele Pizzo, rappresentate nazionale dei volontari in servizio civile
Qual è il tuo ruolo attuale?
Partecipo alla Consulta, un tavolo di confronto sui passaggi importanti del Servizio Civile dove si trovano a discutere insieme gli enti principali, l’Ufficio Nazionale e i rappresentanti dei volontari.
Con mio stupore ho riscontrato che è un organo che funziona, infatti può essere considerato l’orecchio dell’Ufficio Nazionale sul mondo attraverso il quale vengono ascoltate proposte dai volontari. L’ultima avanzata è di fare dal prossimo anno un Vademecum per i volontari contenente tutte le regole, i diritti e doveri di questi ultimi. Così da avere una normativa chiara ed organica che aiuti i volontari ad orientarsi tutto l’anno. In questo Vademecum volevamo inserire anche una bibliografia e sitografia sulla nonviolenza, così da proporre a tutti non solo un qualcosa di tecnico ma anche di significato politico.
Altre proposte portate avanti in questi anni dai rappresentanti sono: ispezioni più frequenti a campione (non solo su richiesta del volontario); Agibilità del monte orario; permessi cioè conferire al volontario la possibilità di sostenere gli esami universitari senza dover usufruire dei pochi permessi a sua disposizione; Promozione da parte della regione di incontri frequenti tra i delegati regionali ed i volontari e che questi ultimi possano usufruire di una banca dati dove inserire il proprio curriculum per un futuro percorso lavorativo; ultimo ma non per importanza l’inserimento del concetto e sistema di rappresentanza dei volontari come parte integrante della formazione generale.
Com’è stato essere rappresentate nazionale in questo primo anno?
E’ stata dura perchè la Consulta è una forma di rappresentanza giovane. Noi rappresentanti siamo poco conosciuti, manca una adeguata pubblicità anche nel periodo elettorale; siamo legati ai tempi e modi dell’Ufficio Nazionale; per esempio sono stato eletto a Marzo e ci avevano promesso un incontro di bilancio dopo sei mesi. Invece abbiamo dovuto lottare per poter trovarci in coda alla giornata nazionale del Servizio Civile di dicembre.
Una della cose utili per portare avanti il nostro lavoro è il sito nazionale, che per quanto limitato ci consente di tenerci in contatto tra delegati regionali, rappresentanti nazionali e volontari.
Noi rappresentanti molte volte siamo percepiti come rivendicatori sindacali, cioè come se il nostro lavoro non avesse nessuna prospettiva per il futuro ma si fermasse alle questioni puramente pratiche. La questione è che noi rappresentiamo un gruppo che sente nel lavoro di ogni giorno delle esigenze “primarie” concrete, per questo noi cerchiamo di migliorare le condizioni lavorative dei volontari.
Quanto i volontari di oggi conoscono la storia del Servizio Civile?
E’ un disastro! In realtà molti pochi sanno che il Servizio Civile ha le sue fondamenta nell’obiezione di coscienza. Credo che la formazione generale debba dare basi e significati forti anche se molte volte i volontari chiedono dalla formazione nozioni tecniche e professionali che li aiutino nel lavoro di tutti i giorni. Infatti i contenuti proposti vengono percepiti come qualcosa di imposto e datato anche perché a mio parere in molti enti la formazione viene svolta in maniera non adeguata. Quello che ho visto in questi anni è che la maggior parte dei volontari senta, solo alla fine del Servizio, l’importanza ed il valore dei contenuti appresi durante l’anno. Purtroppo in molti casi ho sentito dai volontari che la pace e la nonviolenza non sono più considerate come i valori fondamentali del Servizio Civile, portandomi a pensare che il servizio civile sia visto come cosa ben diversa dall’obbiezione di coscienza.
Io darei, invece, un significato più politico al Servizio Civile in molti modi, sostenendo per esempio la proposta fatta dall’ARCI di costituire un registro nel quale i volontari si dichiarano obbiettori di coscienza.
Come viene visto il volontario oggi?
Io lo vedo come qualcosa di specifico che può portare al volontariato o avvicinare al mondo del lavoro, infatti dà capacità e competenze specifiche ma è qualcosa di diverso: qualcosa di peculiare come “la difesa nonviolenta della patria”. Il problema è che è poco chiaro cosa si intenda con queste parole, finchè questa questione non si risolve il Servizio Civile verrà visto sempre più come forma di precariato. Infatti ho notato come al Sud venga letto come opportunità di lavoro anche perché viene presentato dagli enti sotto questa ottica.
Invece la filosofia del Servizio Civile è che il volontario offra dei servizi che altrimenti l’ente non potrebbe offrire; questo per evitare che il volontario vada a prendere il posto della manodopera mancante. Spero che in futuro si rifletta un po’ di più su questa questione.
David, Ludmila, Francesca
in servizio civile al Movimento Nonviolento di Verona
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Fratelli d’Italia, cambiamo l’inno?
“L’inno nazionale è l’anima di un popolo. Visto che amiamo la Francia, abbiamo l’ambizione che possa avere un inno in armonia coi suoi ideali di liberté, égalité e fraternité”. Così l’abbé Pierre, a partire dal 1990, cominciò a proporre a più riprese il cambiamento delle parole della “Marsigliese”. Théodore Monod chiese al Presidente “una festa nazionale senza militari e una Marsigliese ripulita da espressioni sanguinolente”. Jean Toulat raccolse in un libro opinioni vecchie e nuove di numerose personalità circa la modifica della Marsigliese: scrittori come Victor Hugo e Dominique Lapierre, cantautori come Brassens e Aznavour, sportivi come Jeanine Longo e Yannick Noah e poi missionarie e missionari, studiosi, musicisti e docenti universitari (1). “La Marsigliese”, scritta nel 1792 da Claude Joseph Rouget de Lisle come “Canto di guerra dell’Armata del Reno” è piena di braccia vendicatrici, stendardi sanguinanti, figli sgozzati e nemici definiti schiavi, traditori e re congiurati. E’ così nata la campagna “Una Marsigliese per i bambini” (“http://www.geocities.com/marseillaiseenfants”www.geocities.com/marseillaiseenfants), concorso rivolto a scuole, associazioni e centri di aggregazione giovanile, per avere un nuovo testo da poter aggiungere a quello esistente, capace di esprimere meglio gli ideali e i valori della nazione. Un testo da poter cantare dopo il testo ufficiale dando ai Francesi la possibilità di scegliere quello più appropriato a seconda delle occasioni. Ad oggi sono già pervenute più di 400 versioni e sarà interessante conoscere il testo prescelto e verificare che diffusione potrà avere.
Da noi l’inno di Mameli e Novaro vive stagioni alterne. Più volte è stato messo in discussione e giudicato bruttino dal punto di vista musicale e con parole discutibili, difficili e in gran parte sconosciute, esclusa la prima strofa che normalmente viene cantata: ad esempio chi sa che a un certo punto si dice “I figli d’Italia si chiaman Balilla”…? Viene rivalutato e torna di moda grazie alle vittorie sportive magari della nazionale di calcio. Nei momenti di svalutazione c’è chi ha pensato al “Va pensiero” di Giuseppe Verdi come possibile inno nazionale e sono nate anche iniziative di un certo interesse. A Reggio Emilia, città che ha ideato il tricolore, si è tenuto il “Festival della canzone patriottica”, dove hanno gareggiato duecento nuove canzoni. Sempre in duecento hanno risposto a Giorgio Moroder, autore fra l’altro dell’ inno per le Olimpiadi del 1994, che ha diffuso una musica-proposta chiedendo, a chi se la sentisse, di scrivere le parole per un nuovo inno nazionale; fra questi ha scelto sei testi poi sottoposti a personaggi della cultura, della stampa e della comunicazione per arrivare a una scelta. Nel frattempo, con versi provvisori, il brano di Moroder ha cominciato ad essere eseguito in pubblico.
L’importanza di un inno nazionale è evidente. In una panoramica mondiale è possibile trovare esempi sia in positivo che in negativo, anche se sugli oltre 400 inni nazionali esistenti, pare che solo una decina abbiano caratteristiche esplicitamente bellicose, sanguinarie e/o razziste. Fra i migliori va segnalato quello del Sud Africa che, dal 1997 è il risultato della combinazione del vecchio inno nazionale del 1927 con un canto popolare africano adottato dai movimenti anti-apartheid. L’unione dei due inni si è dimostrata molto apprezzata dai Sudafricani, e ha giocato un ruolo molto importante nel processo di riconciliazione nazionale.Nota:
1): Jean Toulat, Pour une Marseillaise de la Fraternité , ed.Axel NOEL, Parigi 1992
Seminario alla Casa per la Pace di Ghilarza (Sardegna)
Dal 13 al 15 luglio 2007
Il (con)senso della nonviolenza
La radice della parola pace, etimologicamente, vuol dire patto, accordo (pactum). E infatti è esperienza comune come un buon accordo porti la pace nella relazione. L’accordo implica dunque un processo, in cui, all’inizio, ci sono diversità non compatibili che, ad un certo punto, in virtù di quel processo, si integrano in una forma che le parti coinvolte chiamano appunto accordo. Vi sono decisioni sulle quali le parti sono pienamente d’accordo, e in quel caso ha senso dichiarare l’accordo unanime, o unanimità. E in mezzo, cosa c’è? Per tutta quella miriade di situazioni in cui sulla decisione non c’è un pieno accordo eppure alla fine si può dire “va bene”, serve un concetto diverso. Consenso, appunto, l’accordo nel disaccordo. Una parola piena di tatto e di saggezza, dove si avverte la presenza viva del corpo e tutta la forza della relazione. La forza della nonviolenza.
Attraverso attività di vario genere, si rifletterà sull’esperienza della relazione che caratterizza la vita dei gruppi di cui si è parte (nella coppia, nella famiglia, ecc.), per scoprire/inventare quali forme della comunicazione (a partire dall’ascolto) ci aiutano a discutere, decidere, agire e a (de)crescere – come persone, gruppi, società – in modo nonviolento.
Conducono Roberto Tecchio e Stefania Lepore.
Roberto si occupa di gestione di processi decisionali partecipativi e di processi formativi orientati alla nonviolenza. Stefania insegna francese e per diletto si occupa di musica: canta, suona, compone e conduce da oltre dieci anni gruppi di danze sacre.
Gli orari di massima del laboratorio sono: mattino ore 9-12,30; pomeriggio ore 16-19,30 (serate danzanti e aperte alla creatività dei partecipanti)
Per quanto riguarda gli aspetti di vita quotidiana (cucina e pulizie) il campo sarà autogestito dai partecipanti residenti. Quote approssimative: residenti 110 euro, non residenti 65 euro
PER ISCRIZIONI E INFO:
Agata e Marino tel 070-287789 corneliacornelia@tiscali.it
Pina e Raffaele tel 0785-53384 giuseppi.sanna@tiscali.it
Convegno Nazionale a Pienza, 5/6/7 ottobre 2007
La pedagogia di Aldo Capitini tra profezia e liberazione
Anche in Italia in questi ultimi anni si sono registrati interessi diffusi ed adesioni pubbliche alla nonviolenza. Hanno sicuramente contribuito a tale attenzione gli studi e le pubblicazioni su Aldo Capitini, fondatore e padre della nonviolenza in Italia.
L’ Associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini ed il Movimento Nonviolento intendono portare un ulteriore contributo promuovendo un Convegno su un aspetto della riflessione e dell’impegno di Aldo Capitini fino ad oggi non adeguatamente affrontato ed indagato: la riflessione e l’impegno per l’educazione aperta.
Ad oggi possiamo annoverare tra i relatori:
Mario Martini Prof. dell’università Di Perugia, facoltà di filosofia: “La persona ed il pensiero di Aldo Capitini”,
F. Cambi, Prof. Ordinario Università di Firenze: Aldo Capitini e la pedagogia della comunicazione
L. Santelli, Prof. Ordinario Università di Bari: Non solo parole. La pedagogia dell’impegno di Aldo Capitini (titolo provvisorio)
M. Pomi, pedagogo, dirigente scolastico, ass.re Cultura della Pace: L’educazione aperta di Aldo Capitini. Un progetto pedagogico di tramutazione nonviolenta
T. Pironi, Prof. Associato Università di Bologna: La proposta educativa di Aldo Capitini nella società italiana del secondo dopoguerra
M. Soccio, L’educazione di se stessi in Aldo Capitini
R. Pompeo, Mov.to Nonviolento/Centro Studi e doc.ne per la N.V.: L’impegno e l’opera di Aldo Capitini per una scuola pubblica, laica, aperta, nonviolenta
Adriana Croci, universitaria allieva di Aldo Capitini, poi dirigente scolastica: L’integrazione scolastica dei diversamente abili attraverso il contributo di aperturta religiosa di Aldo Capitini.
G. Moscati, Dottore di ricerca in filosofia, Perugia – Una realtà da liberare. Radici coevolutive di etica e politica in Aldo Capitini
G. Falcicchio, Ricercatrice in Pedagogia, Università di Bari- Il fanciullo è il figlio della festa. La relazione educativa in Aldo Capitini
C. Foppa Pedretti, Docente Pedagogia, Univ.tà Catt.ca Sacro Cuore, Milano – Il contributo di Aldo Capitini al dialogo interreligioso nella prospettiva dell’incontro tra Oriente e Occidente
M. Catarci, ricercatore, Univ.tà degli Studi Roma III – Educazione alla cittadinanza e scuola aperta in Aldo Capitini
F. Curzi, autrice del volume “Vivere la nv.- la filosofia di A.Capitini – Imparare l’amore. Il cuore filosofico della pedagogia capitiniana
A. Tortoreto, Dottore di ricerca in filosofia,Perugia – L’arte come liberazione e il suo valore educativo nella riflessione capitiniana
Conduce la sessione delle relazioni il Dott. Lanfranco Mencaroni.
La segreteria scientifica del convegno è affidata alla Prof.ssa Gabriella Falcicchio.
Per notizie logistiche o prenotazioni:
Uff turismo Comune di Pienza
0578 749905
Zackie Achmat, Sudafrica, premio internazionale Alexander Langer 2007
Il Comitato Scientifico della Fondazione, ha deciso di attribuire il premio internazionale Alexander Langer 2007 a Zackie Achmat, direttore della ONG Sudafricana “Treatment Action Campaign – TAC”
L’Aids è una malattia globale, che riguarda tutto il mondo e sta devastando soprattutto le società e comunità più vulnerabili, quelle che devono subire il peso di una crescente povertà, emarginazione e disuguaglianza.
Zackie Achmat e l’organizzazione non governativa TAC (Treatment Action Campaign) lottano in Sudafrica contro la diffusione del virus Hiv e per il riconoscimento di un pieno diritto alle cure per i malati di Aids.
A tale scopo hanno promosso forme di lotta fondate nello stesso tempo sull’azione giudiziaria, la mobilitazione internazionale e la disobbedienza civile, ispirandosi alle esperienze che anni prima avevano portato alla vittoria sull’apartheid.
La TAC si rivolge con varie forme di protesta nonviolenta al governo sudafricano e alle industrie farmaceutiche, presentando a ogni passo i suoi argomenti alle Corti di giustizia, e nel contempo denunciando e intervenendo contro ogni forma di discriminazione nei luoghi di lavoro, nelle scuole, negli ospedali. La rete realizzata dalla TAC riunisce la comunità scientifica e gli uomini e le donne, soprattutto delle aree e comunità più povere, sviluppando un vasto spazio di rivendicazione della promessa di una “cittadinanza sociale” ovvero il diritto di accesso alle cure sanitarie per tutti sancito dalla costituzione.
Durante le lunghe campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica Zacke Achmat, lui stesso sieropositivo, ha rifiutato per un lungo periodo di assumere le necessarie medicine antivirali, dichiarando di voler riprendere le cure solo quando il governo avesse garantito analoga possibilità a tutti i sudafricani malati di Aids.
Contemporeamente la TAC iniziò ad acquistare farmaci “generici”, utilizzati per il trattamento dell’infezione, da altri paesi, come la Thailandia, in cui le rispettive discipline legislative consentono la produzione di tali farmaci. Zackie Achmat ha portato di persona in Sudafrica un considerevole quantitativo di tali farmaci.
Nel 1998 alcune multinazionali farmaceutiche, proprietarie dei brevetti, denunciarono davanti al Tribunale di Pretoria il governo Sudafricano per la decisione di ridurre i costi delle medicine antivirali, ma una campagna di sensibilizzazione internazionale le convinsero a ritirare la denuncia e a concludere con il governo una trattativa per una riduzione consistente del prezzo di acquisto.
Zackie Achmat, nato nel 1962, di origine indiana, tra il 1976 ed il 1980 è stato arrestato più volte e incarcerato tre mesi per azioni di protesta contro l’apartheit e la repressione della rivolta di Soweto. Nel 1998 fonda la TAC.
Per il suo impegno di lotta all’AIDS, affrontata in modo concreto e innovativo, Zackie Achmat ha ottenuto nel suo paese alcuni prestigiosi riconoscimenti, tra i quali nel 2003 il premio “Nelson Mandela”.
Ulteriori notizie sul suo lavoro si trovano nel sito dell’associazione TAC http://www.tac.org.za.
Ingrid Facchinelli
Presidente della Fondazione Alexander Langer
Euromediterranea 2007 – Bolzano, 29 giugno – 1 luglio
“Sudafrica – Aids”
Sede: sala di rappresentanza del Comune di Bolzano – vicolo Gumer
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Venerdì 29 giugno, ore 17.30 – 20.00
ore 17.30: cerimonia di conferimento del premio Alexander Langer 2007
ore 18.30: tavola rotonda
HIV/AIDS: un crimine contro l’umanità?
introduce: Zackie Achmat, Treatment Action Campaign – TAC
Sabato 30 giugno, ore 9.30 – 13.00, seminario di approfondimento sullo stesso tema
con la partecipazione di alcuni esperti locali e nazionali.
Iscrizione obbligatoria.
ore 15.00-17.00: assemblea annuale della Fondazione Alexander Langer Stiftung, aperta agli interessati. Presentazione del progetto “Adopt Srebrenica”
ore 17.30 – 20.00: tavola rotonda
Sudafrica: dalla riconciliazione ai diritti di cittadinanza
introduce: prof. Albie Sachs, Giudice della Corte costituzionale Sudafricana
Domenica 1 luglio, ore 9.30 – 12.30: seminario di approfondimento sullo stesso tema con la partecipazione di esperti locali e nazionali. Iscrizione obbligatoria.
Contributo spese per ogni seminario: 10 euro
ore 13.00 – 17.00: Ökoinstitut, via Talvera 2
Festa conclusiva di Euromediterranea
via Latemar 3 – 39100 BOLZANO
Tel. + Fax 0471/977.691
E-mail: info@alexanderlanger.org
LETTERE
A cura della Redazione
Caro Direttore,
sono da poco abbonato, e la tua rivista sta diventando la mia rivista. Inoltre una gamba ingessata mi ha regalato ore e giorni inaspettati: per leggere, rileggere, meditare.
Cara “figlia di genitori non violenti” (vedi Azione nonviolenta di gennaio-febbraio pag 32, NdR)– vera o frutto di redazione che tu sia, poco importa – sembri in età adolescenziale e alla tua età E’ NORMALE preoccuparsi, del naso a patata o dei capelli ricci, di essere diversa dagli altri o di non essere come vorresti. Mia figlia aveva sedici anni e mi accusava per il non schierarmi come gli altri genitori (a sinistra, come lei avrebbe voluto). Ora che ne ha trentuno mi ringrazia per averla cresciuta nella libertà di pensare con mente libera.
Conobbi Albert Van Ghy nel 1986, fuggitivo da un Vietnam insanguinato dalla guerra. Ci insegnava le leggi dell’alimentazione naturale. Contemporaneamente scandalizzava i suoi “padroni di casa” macrobiotici, lasciando che i suoi figli mangiassero panini con la mortadella. Ma nelle sue notti insonni ci raccontava, lacrime trattenute in due occhi indimenticabili, come avesse visto un padre uccidersi con un colpo di pistola, disperato perchè i suoi figli morivano di fame.
Cara ragazza, gli esseri umani ricercano ininterrottamente la felicità e l’assenza di dolore. Chi vive nei massacri, veri come nelle guerre o virtuali come in mille pellicole, esorcizza ed anestetizza le proprie angosce.
Se mangiare la bistecca ti toglie un dolore esistenziale, mangia pure la tua bistecca. Se pensi che il tuo dolore sia superiore a quello del manzo a cui hanno sparato un colpo in testa per farne bistecche, mangia pure la tua bistecca. Anestetizza pure il tuo dolore. È un tuo diritto. In alternativa puoi crescere, accettare i diritti degli altri, sperimentare la tolleranza come fonte di gioia interiore e di benessere. Magari insegnarla ai tuoi futuri figli.
Caro Direttore, scusa se ti ho rubato un po’ di tempo, ma è incredibile scoprire che ci sono tante persone belle nel mondo.
Ennio Cavalli
cavalli.ennio@gmail.com
Caro Giuseppe Rosari,
sul numero di Maggio di Azione nonviolenta, alle pagine 6 e 7, la lettera di Maria G. Di Rienzo mi ha commosso, ma la tua mi fatto piangere (lettera “Non picchio i compagni e amo la scuola, non sarò mica un tipo strano?” NdR), nonostante la mia età: 70 anni! Forse perchè d’un tratto mi son visto ragazzino, a 10 anni, quando persi mia madre e le condizioni familiari peggiorarono, per cui io fui costretto a lasciare la scuola – che tanto amavo – per andare a lavorare.
Alla mia epoca non si parlava di bullismo, ma i ragazzi più deboli erano ugualmente costretti dai più forti, che facevano squadra, a sottomettersi. Non sono mai stato picchiato, solo perchè riuscivo a fuggire prima che mi prendessero. Ero un codardo? Un senza fegato? Spesso, per sfuggire alla ‘squadra’ mi offrivo di spingere la bici del nostro insegnante, che dal mio paese (nel salernitano)doveva affrontare una salita ripida (di 3 km circa) per raggiungere il suo. Da lì, passato il pericolo, andavo direttamente da mio padre, contadino, in campagna, anche se allora odiassi il lavoro dei campi. Ero anch’io un tipo strano? Credo di no, come sono convinto che neanche tu lo sia. Se qualcuno dovesse mai considerarti tale, non preoccuparti, anzi… Continua sulla tua strada, caro Giuseppe, te lo consiglia qualcuno che, forse, potrebbe essere tuo nonno, benchè attualmente svolga il ruolo di papà… con una figlia di appena 6 mesi.
Un abbraccio,
Franco Perna