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Azione nonviolenta – Luglio 2006

DiFabio

Feb 2, 2006

Azione nonviolenta luglio 2006

– Alex Langer 11 anni dopo, sulle vie della nonviolenza, a cura del Circolo Acli “Aldo Capitini” di Pordenone
– Edmondo Marcucci, intellettuale pacifista europeo, bibliofilo. Una zattera per attraversare la vita, verso una civiltà di pace, a cura di Gabriele Cappella
– L’11 settembre 1906, a cura di Rocco Alteri
– Dal Convegno di Firenze, analisi proposte, iniziative. Il Movimento si confronta con la politica, i partiti e le istituzioni, con interventi di Michele Boato, Alberto L’Abate, Rocco Pompeo, Claudia Pallottino, Mao Valpiana, Gigi Ontanetti, Giovanna Providenti, Alfonso Navarra, Nanni Salio
– Una forza più potente: scheda 6: “Sud Africa 1985: libertà durante la nostra vita”, a cura di Luca Giusti

Le Rubriche

– Giovani. Educazione civica con la profe Menapace, a cura di Laura Corradini
– Educazione. Quando mi urli da vicino mi fai paura, a cura di Pasquale Pugliese
– Disarmo. Sicurezza non ha mai fatto rima con armi, a cura di Massimiliano Pilati
– Economia. Riccardo Petrella e l’acquedotto pugliese, a cura di Paolo Macina
– Per esempio. Quando le donne cantano i fucili tacciono, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Musica. Il mio banjo costringe l’odio alla resa, a cura di Paolo Predieri
– Cinema. Un vero successo nato dal basso, a cura di Flavia Rizzi
– Movimento. A ciascuno di fare qualcosa davanti al Forte Luserna, a cura della Redazione

Alex Langer 11 anni dopo sulle vie della nonviolenza

A cura del Circolo ACLI “Aldo Capitini” di Pordenone

Perché questo viaggio?
Viaggiare significa toccare con mano, sperimentare in prima persona, per comprendere più a fondo. E per capire la nonviolenza altra strada non c’è se non quella di andare in profondità, mettendosi direttamente in gioco e toccando con mano la complessità delle situazioni e delle relazioni tra le persone.
È questa la proposta che offriamo da quattro anni con Le Vie della Nonviolenza, un percorso che già nel suo nome richiama l’idea del cammino e delle tante direzioni possibili.
In questo nostro camminare ci siamo imbattuti in Alexander Langer, che pochi di noi conoscevano e che ci ha subito incuriositi, per l’estrema attualità del suo messaggio.
Molte le provocazioni, che abbiamo voluto rievocare già nel titolo del nostro viaggio: “Un tranquillo weekend di paure”. La paura è quella del diverso, persone, situazioni, idee che sentiamo altri da noi e per questo rigettiamo. È nell’apparente distanza del mondo da noi che nasce l’intima paura, negazione – ma anche origine – di un’indispensabile apertura. Un’apertura ben incarnata da Langer, un “costruttore di ponti” che sa vincere la paura del diverso e coglierne la bellezza. La sua vita ed esperienza aprono uno squarcio di paure spesso sentite come insostenibili, ma che sono sfida per un futuro possibile.
Uno degli insegnamenti di Alex è l’importanza di vedere e sperimentare in prima persona. Per questo abbiamo voluto creare un viaggio attorno alla sua figura, ad 11 anni dalla morte, che ci ha permesso di penetrare luoghi reali e simbolici della nonviolenza e vivere non più come spettatori ma da protagonisti del quotidiano.
L’iniziativa si è svolta il 27 e 28 maggio, toccando le città di Vipiteno (città natale di Langer), Bolzano (sede della Fondazione a lui dedicata) e Verona (sede del Movimento Nonviolento).
Le “vie alla nonviolenza” di Alexander Langer
È molto difficile definire la figura di Langer, proprio perché egli rifugge ogni gabbia, cerca sempre di andare oltre le posizioni raggiunte e gli schemi mentali. Per avvicinarsi al suo pensiero, abbiamo cercato di ripercorrere le sue “vie alla nonviolenza”, soffermandoci su tre tematiche a noi particolarmente care: la nonviolenza, l’interculturalità, l’ecologia.
Essere nonviolento
Langer non si dichiara mai apertamente “nonviolento”, ma lo è nel metodo e nel linguaggio. L’attenzione per l’uomo traspare dall’empatia che avvolge i suoi pensieri e le sue azioni. La propensione innata a dialogare lo porta alla difficile impresa di applicare la nonviolenza all’ambito della politica, sapendo anche cambiare idea, se necessario, pur mantenendo la coerenza nell’agire. Ne sono dimostrazione l’idea dei corpi civili di pace e la drammatica esperienza della guerra nella ex Jugoslavia.
Ma il 3 luglio 1995 Alex decide di interrompere la sua vita. Inevitabile una riflessione sul suicidio: perché un uomo della nonviolenza decide di compiere un gesto così violento nei confronti di se stesso? Alcuni suoi amici tentano una spiegazione: è morto per troppo amore. Il suo immenso amore per l’uomo e per il creato l’ha portato a caricarsi di troppi pesi, troppe responsabilità, fino a farsi schiacciare. Lo dice lui stesso nel biglietto di commiato: «I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili». Forse l’unico momento in cui Alex ha accettato i propri limiti e si è fermato.
Convivere, conoscere, comprendere per superare la paura del “diverso”
Nella questione interetnica, Langer parte dalla sua esperienza personale in Alto Adige e comprende la necessità di sperimentare la convivenza in concreto e nel piccolo, incontrandosi: «Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo». La componente politica e normativa è fondamentale per contribuire a creare un clima di serena convivenza, ma non è sufficiente. La convivenza si gioca nelle relazioni che si creano ogni giorno tra singoli e all’interno di piccoli gruppi. Sta a noi riuscire a “saltare i muri” e “costruire ponti”, riconoscendo e valorizzando tutte le «dimensioni della vita personale e comunitaria che non sono in prima linea a carattere etnico».
Ancora una volta Langer suggerisce profonde riflessioni e atteggiamenti pratici che tutti noi possiamo applicare nella quotidianità. Si potrebbe parlare di “conversione”, un cambiamento di mentalità che può riguardare ognuno di noi, se ci rendiamo conto che la nostra identità non può darsi senza l’altro, ma anzi si costruisce attraverso il costante confronto con l’altro.
«Tutti vogliono tornare alla natura, ma nessuno a piedi»
Oggi si sente parlare sempre più spesso della necessità di una decrescita, invertire il senso di marcia nella nostra corsa allo sviluppo, per evitare il collasso ambientale e umano. Ci ha colpito scoprire in Langer l’idea analoga di autolimitazione, che smaschera l’ipocrisia del concetto di “sviluppo sostenibile”. “Sviluppo” è sinonimo di “crescita”: più che «una reale correzione di rotta», questa espressione sembra piuttosto indicare «la propensione ad un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato ad usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di supervisione e tutela del Nord». La vera correzione di rotta implica una conversione ecologica, un cambiamento a tutti i livelli, personale, culturale, politico, nelle pratiche e negli stili di vita di ciascuno e di tutti. Langer non si limita ad un “ecologismo tecnico”: introduce la nonviolenza nelle tematiche ambientali ed approda ad una sorta di “ecologismo francescano”, basato sull’amore ed il rispetto di tutte le creature. Questo giocarsi in prima persona nella nostra vita di tutti i giorni è forse uno degli aspetti che ci ha più affascinato.
Lentius, profundius, suavius
Langer capovolge il motto olimpico “più veloce, più alto, più forte” nel motto “più lento, più profondo, più dolce”. “Più lento”, perché la velocità che domina tuttora nella società, lascia indietro chi non regge il ritmo e impedisce di prestare attenzione ai più deboli. “Più profondo”, per contrastare la disumana pretesa di essere superiori agli altri; per opporsi alla superficialità e andare all’essenziale. “Più dolce”, contro l’aggressività e la violenza del nostro rapportarci all’altro, per imparare a prenderci teneramente cura dell’altro.
Ci ha colpito in particolare il “lentius”, perché ci sentiamo sopraffatti dal fare, col rischio di lasciare poco tempo alla cura delle relazioni con gli altri e con noi stessi. Nel nostro procedere per le “vie della nonviolenza”, al termine di questo viaggio, reale e interiore, l’abbiamo preso come un impegno: andare più lenti, per poter essere più profondi e più dolci.

Tentativo di decalogo: Alexander Langer secondo noi
Consapevoli dei grandi limiti di ogni categorizzazione, specie quando si tratta di entrare nel pensiero e nella vita di una persona, abbiamo provato a esplicitare l’ “Alexander Langer secondo noi”, un piccolo decalogo che, attraverso 10 parole chiave, cerca di ripercorrere ciò che ci ha colpito della sua poliedrica figura. È il nostro piccolo omaggio a chi ci ha incuriosito con le sue idee e le sue azioni. Ma è anche un tentativo di cogliere l’attualità del suo pensiero, ciò che Langer dice oggi, ancora, a noi giovani.
1.Oltre. Oltre le barriere etniche e culturali, i confini tra gli Stati, le idee consolidate, alla ricerca di qualcosa di sempre nuovo, di cambi, anche radicali, di prospettiva. La sua sete di conoscenza, la curiosità, l’apertura, l’irrequietezza.
2.Attivismo. Carismatico, illuminante nelle idee e nel modo di comportarsi, sempre presente e vivo. L’impegno in tanti gruppi, associazioni e movimenti, in politica. Un attivismo che lascia in eredità agli amici, invitando tutti a “continuare in ciò che era giusto”.
3.Ponte. La straordinaria capacità di incontrare e far incontrare persone diverse, alla ricerca costante di compromessi e mediazioni, senza rinunciare all’identità etnica e culturale di ognuno, fanno pensare a lui come a un ponte lanciato verso un orizzonte di interculturalità oggi ancora possibile.
4.Conversione ecologica. La salvaguardia del creato e il rispetto per l’ambiente sono il sogno ecologico, ancora oggi irrealizzato. Eppure Langer traccia una strada possibile: un cambiamento deciso di rotta verso una “decrescita” che nasce dall’autolimitazione nei comportamenti quotidiani di tutti, non vissuta come una privazione, ma resa desiderabile, “felice”.
5.“Lentius”. Contro il mito occidentale della velocità e dell’agonismo diventati norma quotidiana e onnipresente, Langer propone come ideale l’andare “più lenti”, il richiamo alla sobrietà e all’equilibrio nello stile di vita, ma anche alla necessità di dare più tempo e spazio a relazioni più profonde tra le persone.
6.“Suavius”. Altruismo, generosità, gratuità appaiono caratteristiche peculiari della sua personalità. Il mettersi a totale disposizione degli altri, l’irriducibile spinta a farsi carico con passione di persone, situazioni, rapporti lo rendono “suavius”, “più dolce” agli occhi di chi incrocia il suo percorso.
7.Empatia. Intelligenza, preparazione culturale, chiarezza di pensiero non sono frutto di un semplice esercizio intellettuale. La sua è una conoscenza costruita insieme agli altri, e con gli altri sempre condivisa. Attraverso l’empatia, la vicinanza, l’amicizia, la capacità di coinvolgere le persone e di coinvolgersi nelle loro storie, Langer contribuisce alla creazione di un sapere partecipato.
8.Valori e fatti. Le verità e i valori forti in cui crede sono sempre accompagnati dal “fare”. Irriducibile programmatore di iniziative, cerca di tradurre i valori nella pratica quotidiana attraverso il metodo dialettico, la ricerca di compromesso, l’attenzione al contesto.
9.Responsabilità. Non sa dire di no, si fa carico dei bisogni di molti, e quei “pesi divenuti insopportabili” sono forse il segnale del limite che riconosce in se stesso e davanti al quale si ferma.
10.Umiltà. Come San Cristoforo, omone grande e forte che accetta l’umile servizio di barcaiolo, Langer, scegliendo una vita sobria e semplice, si fa “traghettatore” per mettere in relazione persone e gruppi, senza chiedere mai molto per sé.

Le “Vie della Nonviolenza” sono organizzate da:
Circolo ACLI “Aldo Capitini” di Pordenone ( capitini@acli.pn.it ; www.acli.pn.it)
Biblioteca Tematica “Pace Immigrazione Povertà” della Caritas Diocesana di Concordia-Pordenone ( bibliocaritas@diocesi.concordia-pordenone.it  ; www.caritaspordenone.com)
IPSIA (Istituto Pace Innovazione Sviluppo Acli) di Pordenone ( ipsia@acli.pn.it ; www.ipsia.acli.it

Edmondo Marcucci, intellettuale pacifista europeo, bibliofilo.
Una zattera per attraversare la vita, verso una civiltà di pace.

Se, ipoteticamente, si sbirciasse tra gli elenchi dei partecipanti alle molteplici iniziative nazionali e internazionali, fra l’inizio del XX° secolo e il 1963, su tematiche inerenti a pace, nonviolenza, dialogo interculturale e interreligioso, si troverebbe spesso, alla lettera “M”, il nome di Marcucci Edmondo.
“Poteva accadere nei nostri convegni a Roma, a Firenze, a Perugia e altrove di arrivare prima dell’inizio e trovare già nella sala un amico di media statura e di aspetto vigoroso che passeggiava su e giù, toccandosi i piccoli baffi che ricordavano un po’ l’800 e i primi decenni del secolo.
Nelle conversazioni l’amico aveva un evidente brusco accento marchigiano, ma quando prendeva la parola nella riunione mai precipitandosi e sempre con piglio modesto, usava un giro garbato e largo della frase proprio degli studiosi usi a comunicare elevatamente tra loro e a fare relazioni esatte e oggettive” (1)
Così “l’amico egregio” (2) Aldo Capitini lo dipinge in un passaggio del lungo discorso di commemorazione.
Nelle sue Memorie (2) Marcucci documenta tanti episodi che, messi assieme come pezzi d’uno stesso mosaico, costituiscono la storia del fermento pacifista nel periodo di cui ne è stato protagonista. La sua presenza attiva agli incontri gli permise di conoscere molti personaggi illustri e coltivarne, successivamente, l’amicizia. Tra i tanti nomi, oltre a Capitini, ricordiamo Ernesto Buonaiuti, di cui diviene “discepolo” e amico, Tatiana Sukhòtin Tolstoj, figlia dell’illustre Lev Nikolàevic, George Friedrich Nicolai, autore de “La biologia della guerra”, I coniugi Trocmé, rappresentanti del MIR, Eugen Relgis, Giovanni Pioli e altri ancora.
Significativo, per inquadrare il contesto in cui si svolgevano molti degli incontri, è il racconto di un convegno della Società Vegetariana (di cui Marcucci fu co-fondatore) tenutosi nell’agosto del 1954 nell’appartamento perugino della sig.ra Emma Thomas, già sede del C.O.R. (Centro di Orientamento Religioso). “..nell’abitazione di Miss Thomas, sempre sorridente e svelta (più che ottantenne!) e premurosa nell’offrire il tè anche ai poliziotti in borghese, che non mancavano alle riunioni in omaggio alle libertà democratiche (la questura di Perugia non vuole che a casa di Miss Thomas si parli di politica, quando la riunione è dichiarata pubblica…” (2). Fa riflettere come in una piccola dimora venissero affrontate tematiche di valenza universale alla presenza di ospiti internazionali. Nello specifico erano presenti il naturista franco-argentino prof Juan Estive-Dulin, il professore americano William Langebartel, e altri ancora.
In precedenza, con lo stesso sobrio stile, nel gennaio del 1952, ci fu un interessante “Convegno internazionale per la nonviolenza” nell’occasione dell’anniversario della morte di Gandhi. “..dalle 9 del mattino a mezzanotte, fu un denso lavoro” scrisse Marcucci e, verso la fine del puntuale racconto, aggiunse: “Dopo le molte discussioni, dopo la cena concentrammo proposte e decisioni per intensificare la lotta non-violenta. Fu redatto un appello ‘Ai governanti attuali e in modo speciale all’ONU’ contenente varie proposte (riconoscimento legale del diritto all’obbiezione di coscienza; costituzione in tutti gli stati di un organo per l’addestramento dei cittadini all’attiva resistenza nonviolenta verso un’eventuale invasione; costituzione di corpi volontari di ‘Servizio civile’ di composizione internazionale; costituzione di ampie zone di disarmo progressivo; ecc.)..” (2). Ai lettori la riflessione sulla lungimiranza di tali obbiettivi e sugli ostacoli culturali che ancora oggi ne impediscono il raggiungimento. Anche in questo caso, tra i presenti, figurarono nomi significativi; uno fra tutti l’indù Asha Devi Aryanayakan, collaboratrice di Gandhi e direttrice di una comunità che viveva dei principi gandhiani.
Edmondo Marcucci seguì da vicino anche la problematica dell’obiezione di coscienza. In tal direzione organizzò a Roma nel 1950, insieme ad altri, il “Convegno italiano per i problemi sull’obbiezione di coscienza” con l’intento di sollecitare l’allora progetto Calosso-Giordani per il riconoscimento legale dell’OdC e attirare l’attenzione sugli obiettori allora in carcere. Marcucci fu anche teste di difesa in vari processi, in giro per l’Italia, di altrettanti obiettori di coscienza (spesso testimoni di Jehova). Nelle sue Memorie (2) spicca il riferimento al caso Pinna dove, assieme a Capitini e all’on. Calosso fu, anche in quel caso, teste di difesa. Con Capitini e Pinna successivamente partecipò anche al congresso internazionale del W.R.I. (associazione internazionale dei resistenti alla guerra fondata in Olanda nel 1921 da Obiettori di Coscienza) tenutosi a Parigi.
Tra gli insegnanti di quello che l’intellettuale jesino definì il suo personale corso pacifista, un posto d’eccezione spetta a Tolstoj. Il meticoloso studio della figura del maestro Tolstoj lo portò a stringere una sincera amicizia con Tatiana Sukhòtin Tolstoj a cui fece visita diverse volte nella casa romana di quest’ultima. Marcucci ricorda l’emozione del primo incontro, i racconti che la donna faceva di suo padre e le riflessioni sul periodo storico che stavano vivendo. Fu la sig.ra Tatiana, tra l’altro, a dare l’impulso decisivo alla scelta vegetariana del professore. La donna apprezzò la preparazione di Marcucci sulla vita e sul pensiero del padre sino a stupirsi dell’esattezza dei dettagli ogni qual volta l’uomo faceva dei riferimenti topografici sulla casa di Jasnaja-Polijana o biografici sul padre.
Marcucci ebbe anche modo di conoscere Olga Biriukòf, figlia di Paolo, illustre discepolo, amico e bibliografo di Tolstoj, e intrecciare con lei una collaborativi amicizia.
Per Edmondo Marcucci il pacifismo era “seguendo l’etimologia della parola (“pacem facete”), quella consuetudine di azione che concorre a produrre la pace, ad allontanare le cause di odio e di guerra, che evita la collaborazione con ogni guerra e ogni cosa alla guerra connessa, che lotta soprattutto con mezzi non-violenti, con la resistenza passiva. Unitamente a quelle dottrine che studiano le cause delle guerre, che stabiliscono i fondamenti della pace con l’aiuto di tutte le scienze” (2). Alla causa dedicò gran parte della sua vita fatta anche di scelte coraggiose a partire dalla decisione di non iscriversi al partito nazionale fascista. Marcucci non esitò mai ad approfondire, con la lettura, le tematiche a lui care e, in una casa nel centro storico di Jesi, raccolse molti libri dei quali, gran parte, acquistati nei frequenti viaggi in giro per il mondo. Aldo Capitini, Camille Drevet, i coniugi Trocme, Fernando Tartaglia e molti altri ebbero modo e piacere di intrattenersi in questo luogo per apprezzare la preziosità di quei testi che Marcucci definiva la “zattera per attraversare la vita” (1).
Seppur nella velata amarezza di vedere spesso accantonata l’eredità intellettuale di grandi uomini di pace, come è stato Edmondo Marcucci, a 106 anni dalla sua nascita (13 Agosto 1900) e a 43 anni dalla sua prematura scomparsa (16 Agosto 1963 di ritorno da un convegno sulla nonviolenza) è piacevole ritrovare il suo pensiero tra le pagine della rivista fondata dal suo amico e collaboratore Aldo Capitini.
La certezza di camminare assieme per l’unica strada che porta ad una CIVILTA’ DI PACE la ritroviamo in queste parole conclusive dell’intellettuale jesino:
“..Ma anche se il lavoro per la pace serpeggia quasi nascosto, privo di successi appariscenti e definitivi, nelle vie della storia, esso tuttavia non ha mai cessato di essere un fattore – ripetiamo, artificiosamente lasciato nell’ombra – dell’evoluzione umana, un testimonio del dover essere che supera l’essere, perché tale è la natura dell’uomo – se vuole essere degno della sua qualifica di “homo sapiens” -, di superarsi sempre, di formare nuove realtà. E queste nuove realtà egli le desidera apportatrici di gioiosa energia di vita, di eliminazione del male e del dolore. Una CIVILTA’ DI PACE, in una parola. Non l’assenza della lotta, dello sforzo doloroso, del sacrificio: ma l’assenza delle guerre, cioè la cessazione delle lotte armate, con ogni mezzo indiscriminato di distruzione tra grandi masse umane disciplinate a quest’uso.” (2)
Note:
All’indirizzo internet http://italy.peacelink.org/marcucci è possibile trovare un approfondimento sulla vita, il pensiero, le amicizie e soprattutto l’eredità pacifista di Edmondo Marcucci.
L’intera biblioteca di Marcucci è stata donata al comune di Jesi ed è consultabile presso la Biblioteca Planettiana della città.
Bibliografia
(1)In Ricordo di Edmondo Marcucci. Commemorazione tenuta nella Sala maggiore del Palazzo della Signoria [Jesi] il 20 ottobre 1963, [Jesi, Amministrazione civica di Jesi, dopo 1963], pp. 16-25
(2)Sotto il Segno della Pace – Memorie – Edmondo MarcucciBiografia
Sigillo (PG) 13/8/1900: nasce Edmondo Marcucci.
Da Sigillo, nel 1916, la famiglia Marcucci, col giovane Edmondo, si trasferisce a Jesi (AN).
Dopo anni di studi presso la Regia Università di Roma, il 5 maggio del 1923 Edmondo consegue la laurea. Nel periodo universitario conosce Ernesto Buonaiuti diventandone amico e seguace. Nelle sue memorie definirà gli incontri con Buonaiuti come “oasi di liberà spirituale”.
Dopo gli studi inizia ad insegnare a Jesi. Nel contempo cura la sua biblioteca personale arricchendola di nuovi testi sul pacifismo, sulla storia delle religioni e sui due grandi ispiratori: Tolstoj e Verne.
Nel periodo fascista sceglie di non iscriversi al Partito Nazionale Fascista.
Nel 1930 pubblica il libro “Giulio Verne e la sua Opera”.
Tra il 1936 e il 1937 allaccia rapporti con Olga Biriukòf, figlia del noto biografo di Tolstoj (Paolo) e Tatiana Sukhòtin Tolstoj che lo introduce al vegetarianismo.
Nel 1941 inizia la collaborazione con l’amico Aldo Capitini. Nel 1945 affianca Capitini nella fondazione del Centro di Orientamento Sociale (C.O.S.) di Perugia, diffuso poi in altre città.
Nel 1949 assieme a Umberto Calosso e Aldo Capitini, Marcucci è teste di difesa al processo del primo obiettore di coscienza in Italia: Pietro Pinna.
Nel 1952 fonda con Aldo Capitini la Società Vegetariana Italiana. Sempre nel 1952 pubblica la versione italiana del libro “Tolstoj e l’Oriente” di Paolo Biriukòf.
Nel 1954 partecipa a Parigi al congresso internazionale del W.R.I.
Il 24 settembre 1961 partecipa alla prima marcia della pace Perugia-Assisi.
Edmondo Marcucci muore nel tragitto verso casa di ritorno da un convegno svoltosi a Perugia sulla nonviolenza il 16 agosto 1963.

” A te, che oggi sei davanti a noi come morto, porgiamo un saluto di gratitudine per tutto ciò che ci hai dato da vivo e per tutto ciò che continuerai a darci in eterno. La tua parte ci è sempre stata nella nostra vita e sempre ci sarà: sappi che ne abbiamo veramente bisogno. Tu hai incontrato il fatto della morte come tutti gli altri che morendo sono stati martiri, perché hanno testimoniato che esiste questo fatto. In ogni nostro dolore ti ricorderemo, e un giorno sarai visibile, non perché ritornerai nella lontananza ma perché finirà questa realtà, che impedisce di vedere come tu vai avanti in una via di sviluppo e di miglioramento. Intanto, attuando valori saremo insieme e sempre più uniti. Noi ti parliamo in nome di tutti, oltre ogni distinzione e gruppo particolare. La bellezza della luce, di ogni lume acceso, ci consola nel mondo e più saremo certi che tu, nella compresenza di tutti, ci dai un aiuto, più sarà per noi una festa “.
Tratto da Ricordo di Edmondo Marcucci. Commemorazione tenuta da Aldo Capitini nella Sala maggiore del Palazzo della Signoria [Jesi] il 20 ottobre 1963, [Jesi, Amministrazione civica di Jesi, dopo 1963], pag. 25

L’11 settembre 1906

Si svolgeva nel vecchio Teatro Imperiale di Johannesburg, convocata dal giovane avvocato Gandhi, una grande assemblea degli Indiani immigrati in Sud Africa. Essi decidevano di intraprendere una campagna di lotta e di disobbedienza civile contro leggi discriminatorie ed umilianti. Successivamente il Mahatma Gandhi riconobbe in quell’evento l’atto di nascita del Satya¯graha, cioè di un modo nuovo di lottare che sostituisce alla forza fisica il ricorso a una Forza più grande, che nasce dall’amore per gli altri e per la Verità.
Nell’avvicinarsi del centenario di quello storico evento, il Centro Gandhi di Pisa e i Quaderni Satya¯graha vogliono avviare una riflessione e una ricerca comune che indichino i percorsi attuali e ininterrotti del Satya¯graha di Gandhi. Di fronte alla grande confusione semantica e politica, all’uso spesso strumentale del termine “nonviolenza” e della stessa immagine di Gandhi, vogliamo ribadire che la sua nonviolenza non è passività, negatività, o scelta del male minore; è invece obiezione di coscienza alle strutture di dominio e scelta rivoluzionaria di trasformazione sociale per costruire il potere di tutti (la cosiddetta omnicrazia di Aldo Capitini) a partire dai piccoli gruppi.
Il mondo della politica sembra oggi ipnotizzato, incapace di rompere gli schemi retorici che tengono prigioniere le menti. L’abbattimento del muro di Berlino e la riunificazione europea attraverso l’azione nonviolenta dei popoli non è servita a immaginare un ruolo per l’Europa al di fuori delle ambizioni di “grande” potenza economica e militare. Adottando pratiche discriminatorie verso i migranti e accodandosi al richiamo di una “guerra di civiltà” il nostro sistema politico nasconde in realtà un’aggressione neocoloniale di sfruttamento dei paesi del Sud del mondo.
Su tutte le questioni cruciali della pace e della guerra, la lotta Satya¯graha indica una via di uscita radicale e globale, che va cioè alla radice dei problemi angoscianti e dei conflitti apparentemente irrisolvibili della modernità, rovesciando i modelli politici ed economici dominanti, costruendo alternative realistiche all’imperialismo economico e alla politica di aggressione militare, scegliendo nuovi stili di vita e un nuovo modello di sviluppo. Questo percorso non può prescindere dalla cooperazione con i movimenti indigeni degli altri continenti, che ci suggeriscono la possibilità di cambiare il mondo senza ricreare strutture di dominio, tessendo reti internazionali di cittadinanza attiva che valorizzino le identità locali.
Durante tre giorni di studio con tavole rotonde e intense discussioni, dalla sera dell’8 settembre all’11 settembre 2006, vogliamo ricordare un evento che non ha dato inizio alla strategia del terrore e della guerra preventiva, ma a un metodo rivoluzionario e nonviolento di liberazione sociale. Al termine del laboratorio di discussione, che si terrà in una struttura residenziale sul mare, ci sposteremo il giorno 11 settembre a Pisa per un evento pubblico di celebrazione del centenario e presentazione della via gandhiana alla pace e alla giustizia.
A tal fine convochiamo le amiche e gli amici italiani della nonviolenza, i lettori e gli abbonati ai Quaderni Satya¯graha per ridefinire un programma attuale per la rivoluzione nonviolenta sui temi cruciali dell’organizzazione del potere dal basso, dell’economia solidale e della parsimonia, della ridefinizione del rapporto pace-giustizia, del servizio civile e della difesa popolare nonviolenta, degli interventi civili e non-armati nelle situazioni di crisi, del disarmo atomico, della critica alla scienza dominante, della definizione di una bioetica, della laicità e della riforma di religione.
Attraverso un percorso di maggiore consapevolezza e di mutua chiarificazione vogliamo costruire una rete capace di agire in senso culturale e politico per far crescere l’alternativa nonviolenta.

Centro Gandhi
Redazione di Quaderni Satya¯grahaIl convegno si svolgerà presso il Regina Mundi (www.cifpisa.com), viale del Tirreno 62, a Calambrone (Pisa). E’ una struttura alberghiera affacciata sulla pineta e la spiaggia, dove i partecipanti ed i loro accompagnatori potranno alloggiare e consumare i pasti vegetariani.
Il programma completo è  pubblicato sul sito http://www.centrogandhi.it .
Iscrizione entro il 31 luglio:
email: 11settembre.nonviolenza@centrogandhi.it
fax: 178 22 05 126
cellulare: 335 58 61 242  (Leila)

Dal Convegno di Firenze, analisi, proposte, iniziative.
Il movimento si confronta con partiti e istituzioni.

Concludiamo il resoconto del Convegno organizzato dal Movimento Nonviolento su “Nonviolenza e politica” (Firenze, 5-7 maggio). Pubblichiamo alcuni degli interventi fatti, senza pretesa di completezza, ma solo per dare l’idea della ricchezza del dibattito. La trascrizione non è stata rivista dagli autori. La prima parte è apparsa nel numero di giugno.

Ecologia e nonviolenza
Michele Boato

Mi sono avvicinato alla nonviolenza dal 1972, quando, a 25 anni, ho cominciato a capire, durante un convegno nazionale semi-clandestino di Lotta Continua a Rimini, il suicidio umano e culturale della prospettiva della “guerra di popolo”, tipo Irlanda del Nord (IRA) o Paesi Baschi (ETA), che veniva proposta con sempre maggior insistenza da una buona parte del gruppo dirigente, forzando in senso insurrezionalista la lettura delle lotte di quegli anni (dai cortei della Fiat del 69, alle barricate delle imprese d’appalto di Marghera del 70, alle lotte dei carcerati e dei soldati, fino ai moti per reggio Calabria capoluogo di regione). Così LC tendeva ad assumere (ma per fortuna si è sciolta prima) i connotati di un partitino leninista, gerarchizzato, con un “servizio d’ordine” numeroso ed aggressivo, tradendo l’ispirazione anti-autoritaria e spontaneista (alla Rosa Luxemburg) con cui l’avevamo costruita anche a Venezia e Marghera nell’autunno del 1969.
Sono partito da questa vicenda personale, perché credo che, nella seconda metà del ‘900 in Italia si siano abbondantemente sprecate le due più importanti esperienze di rinnovamento “politico” nate dopo la stagione dei CLN del 1943-46: l’anti-autoritarismo del ’68 e l’ambientalismo degli anni ’80.
L’”Arcipelago verde” ha compiuto una parabola diversa da quella di LC, ma simile nella sostanza: è nato nel giugno 1981, come coordinamento di gruppi ed associazioni locali che (dalla fine degli anni ’70) agivano sui temi mobilità ciclabile, alimentazione sana e agricoltura biologica, nonviolenza e antimilitarismo, riduzione e riciclo dei rifiuti, difesa dei consumatori, animalismo, antinucleare e promozione delle energie e tecnologie “dolci” e, in generale, diffusione di una cultura ecologista e nonviolenta. Sono nate le prime Università Verdi (Università popolare di ecologia a Mestre nel 1982 e poi, dal 1983, altre decine), i primi Amici della Bicicletta (Firenze), le prime riviste ecologiste (Smog e dintorni a Venezia, Azione nonviolenta di Verona, AAM-Terra Nuova di Firenze, i Quaderni di Pistoia, la Malaerba a Pescara ecc.), le prime trasmissioni ambientali alle Radio libere (da Radio Cooperativa di Mestre a Radio Irene di Comiso, in Sicilia), i nuovi gruppi nonviolenti della LOC, quelli delle Tra la gente di Cesena e dintorni e così via. Si è dato vita anche ad una agenzia stampa quindicinale, si chiamava “Arcipelago verde”, appunto, ed era curata da ecologisti milanesi, con sede presso il WWF locale; ci si incontrava ogni due mesi circa a Bologna in sale dei Quartieri, e si decidevano assieme iniziative comuni. Senza rapporti gerarchici di alcun tipo; si trattava, insomma, di quella che oggi si chiamerebbe Rete.
Nel 1983 alcuni gruppi locali hanno presentato a Mantova, Trento, Viadana MN (dove volevano costruire una centrale nucleare) ecc. le prime Liste Verdi; l’esperienza era quasi sempre molto positiva, con forte partecipazione popolare, apertura delle istituzioni locali all’informazione pubblica, controllo degli eletti con frequenti assemblee, impegno alla rotazione negli incarichi.
Nel 1984 l’arcipelago verde ha convocato la prima assemblea nazionale a Firenze sull’ipotesi di presentare, l’anno successivo, Liste Verdi in molte città e regioni d’Italia. E subito si sono cominciate a vedere le prime manovre “romane”, per omologare, imbrigliare, gerarchizzare il movimento ancora in fase nascente. Arrivano le segreterie nazionali delle associazioni ambientaliste che si erano messe d’accordo per creare una dirigenza nazionale: Legambiente (Mattioli e Scalia), WWF (Amendola) e Amici della Terra (Signorino, Rosa Filippini e, dietro a loro, Pannella).
Il processo (nonostante la resistenza di Alex Langer, mia, di Mao Valpiana, di Giannozzo Pucci e di molti altri gruppi locali) è proseguito velocemente con la creazione della Federazione delle Liste Verdi in forma di “partito” nel 1987 e l’entrata organizzata, nel 1990, degli ex radicali (con Rutelli) ed ex demoproletari (con Ronchi), che si erano inventati i Verdi Arcobaleno alle elezioni europee del 1989 per contare di più e dare la definitiva svolta partitaria ai Verdi, ancora troppo spontaneisti. Dal 1991 in poi si può parlare di un partito quasi esclusivamente di consiglieri, assessori, parlamentari ed aspiranti tali.
Il modello partecipativo, permeabile ai movimenti e ai comitati locali, sopravviveva, a stento, solo in alcune esperienze locali.
Oggi, di fronte alla miseria del panorama politico ed alla asfissia di tutti i partiti politici (salvo rarissime esperienze locali), mi domando: c’è ancora spazio per la proposta di Capitini del “potere di tutti”, della democrazia vera, della partecipazione che è informazione diffusa, trasparenza dei processi decisionali, strumenti di democrazia diretta come i referendum comunali?
In che modo è possibile (come scrive Daniele Lugli su Azione Nonviolenta di marzo 2006) “accompagnare le istituzioni”, controllarle, far loro sentire il fiato della gente sul collo?
La risposta non è scontata; alla luce delle cocenti delusioni appena descritte, non basta il “rimbocchiamoci le maniche” dell’ottimismo della volontà. Provo a indicare alcuni possibili “paletti”:
a.Sostenere, valorizzare, collegare tra loro le esperienze di base, dal popolo dei ciclisti, a quello dei consumatori critici, dei riciclatori e anti-inceneritori o i tantissimi comitati contro l’elettrosmog.
b.A partire da queste esperienze, costruire strumenti di nuova democrazia, costringendo la politica istituzionale a fare i conti con l’iniziativa popolare, senza dover rincorrere continuamente i tempi assurdi, i minuetti dei partiti, molto più interessati agli assetti di potere che ai problemi reali.
c.Contemporaneamente moltiplicare i “ponti” con le istituzioni, fatti di persone elette nei vari organismi (dal Quartiere al Comune, fino al Parlamento) che, prima di rispondere alla propria parte politica, si mettono realmente al servizio delle lotte e delle iniziative ecologiste, nonviolente e solidali. Ho detto ponti e non spie o transfughi, perché non si tratta di contrapporre le iniziative di base (buone) alle istituzioni (cattive), ma di aprire varchi significativi in esse perché il potere cominci a diventare di tutti.
d.Essenziale comunque, sia per chi agisce fuori che per chi sta dentro le istituzioni, una forte coerenza tra le idee proclamate e il proprio stile di vita: non si può lottare contro l’elettrosmog ed essere perennemente attaccati al telefonino, così come non si fa la lotta all’inquinamento da traffico, viaggiando prevalentemente in auto in città e fuori. Così come i mezzi di lotta e di organizzazione vanno scelti esclusivamente alla luce della nonviolenza più assoluta. Solo una tale coerenza può permettere di cambiare le regole della politica e dei partiti.

Verso i Corpi Civili di Pace
Alberto L’Abate

È importante chiederci quale potrà essere il rapporto dell’area nonviolenta con il nuovo governo. Abbiamo una sinistra che dovrà governare, però purtroppo ci sembra che la coscienza antimilitarista o di comprensione dei temi che portiamo avanti sia piuttosto scarsa.
Nel programma dell’Unione ci sono due elementi che ci riguardano in particolare: non si parla di SCV obbligatorio ma si dice “per tutti, maschi e femmine”, risulta un SCV obbligatorio nei fatti; l’altro, i corpi civili di pace. All’interno della sinistra non si fa alcun cenno alla riduzione delle spese militari, anzi buona parte dell’area vorrebbe aumentarle per rispondere alle esigenze dei nostri militari. Noi abbiamo fatto i conti. Con un Eurofight in meno potremmo avere 7.000 ricercatori in più nelle nostre Università per fare ricerca sulla riconversione delle industrie belliche.
Le ricerche serie a livello mondiale dicono che con il 30% delle spese militari mondiali si potrebbero risolvere tutti i problemi di questo mondo: inquinamento ambientale, fame, analfabetismo, miseria… Ma su questo nessun accenno sul programma di governo, tranne credo nel programma dei Verdi la richiesta di portare allo 0,70% del PIL gli aiuti a livello internazionale, che è un minimo di nostra partecipazione al Millennium Project. Attualmente l’Italia dà lo 0,16%, quindici anni fa lo 0,36.
Il problema di fondo è contestare questa visione militarista e non limitarci a chiedere il ritiro dei militari ma cominciare una riconversione dei militari in interventi civili. Non si è speso nulla e non si spende nulla per prevenire i conflitti – vediamo un timido inizio a livello europeo – come per la ricostruzione successiva del tessuto sociale. Sono aspetti che potrebbero essere affidati a dei Corpi Civili di Pace ben organizzati e funzionanti, che però non possono essere né totalmente istituzionalizzati né esclusivamente delegati a organizzazioni di base come attualmente avviene.
L’attività per la formazione alla nonviolenza nella società civile irakena, ad esempio, non può essere fatta né solo dalle istituzioni né dai movimenti di base, quindi richiede delle forme di connessione tra istituzioni e movimenti che vanno organizzate e pensate.
Su questo, per portare avanti la presenza delle organizzazioni non governative che stanno lavorando molto all’estero, la rete CCP ha proposto una legge per assicurare, a chi vuole partecipare, almeno un permesso di lavoro come quello che viene dato per intervenire nelle emergenze, cioè una formula che permetta di non perdere il lavoro, l’assicurazione, e il minimo dei diritti delle persone che lavorano. Dobbiamo seguire e sostenere l’iter di questa legge.

Proposte di lavoro politico
Rocco Pompeo

È stata citata una frase di La Pira, “i veri materialisti siamo noi”. Quella lettera era indirizzata a don Alfredo Nesi. Io ho un particolare legame con l’esperienza fiorentina di quegli anni perché sono stato allievo, figliolo di don Nesi alla casa dello studente di Corea, a Livorno, dove ora ha sede la Fondazione don Nesi a Livorno e la sede livornese del MN.
Eravamo di casa a Barbiana con don Milani, abbiamo corretto le bozze di “Lettera a una professoressa”, accompagnato La Pira in lambretta perché non voleva l’auto blu. Per dire che i varchi della storia si preparano. I varchi, le svolte, si preparano attraverso un percorso che, per quanto ci riguarda molto più modestamente, Daniele Lugli ha indicato con precisione già nella introduzione. Percorso che il MN in questi ultimi anni ha ripreso, non ha inventato, ma ha ripreso con coerenza con la conclusione, ad oggi, del passaggio da “la nonviolenza è politica” alla formulazione “Nonviolenza e politica” di oggi.
Vorrei presentare una proposta al mondo della cultura e della politica. Prima di questo, però, desidero citare la convergenza operativa molto incisiva, tra la stagione forte del cattolicesimo fiorentino e la più grande tradizione laica della resistenza del dopoguerra: Capitini, Calamandrei, Agnolotti, Codignola, tutto un fiorire di personalità e di cultura, Borghi, Rossi…
I varchi non sono appartenenze o scommesse, sono la costruzione di un percorso. Il giovane Balducci osò attaccare Calamandrei e i laici che negli anni 50 andavano a Sicilia a difendere Danilo Dolci, dicendo che pure essendo laici dovevano cercare il santo per forza. Senza contrapposizioni, perché la vera laicità sta in una popolarità universale, la vera religiosità sta in una compresenza che supera gli stessi viventi per abbracciare anche chi non è più, come ci ha insegnato Capitini.
Vorrei addentrarmi nella definizione o nella precisazione di alcuni criteri del lavoro politico dei nonviolenti e del MN. Avremo modo di discuterne nelle commissioni del prossimo congresso, vorrei portare qui solo alcuni richiami molto schematici perché importanti per lavorare in futuro.
Noi saremo compatti, credo, nel referendum contro il disastro costituzionale che ci è stato propinato. Ma che questo debba significare non rivedere i meccanismi delle forme istituzionali del nostro Paese, non mi sta bene. Credo vadano rivisti, partendo da quelli semplici a quelli complessi. La tripartizione dei poteri per esempio, che noi indichiamo come modello della democrazia parlamentare, è una organizzazione monoclasse. La classe della borghesia, nella sua rivoluzione, ha indicato il sistema parlamentare e ha organizzato la ripartizione dei poteri per scongiurare il pericolo di dittature. Io non voglio dire che vada buttata via, ma cominciare a discuterne in un mondo in cui la complessità sociale aumenta e c’è il rischio che o si affermi una democrazia telecratica, o il modello craxiano che però per fortuna già non ha avuto fortuna.
Ho sempre pensato che gli alleati naturali degli amici della nonviolenza erano da una parte gli anarchici – che però ammettono la violenza e talvolta esaltano l’azione individuale -, dall’altra il mondo operaio, politico, sindacale, prevalentemente di sinistra perché, pur non richiamandosi direttamente alla nonviolenza, erano interlocutori privilegiati, solo con il limite dell’essere di parte.
Marx, nella sua dittatura comunista del ‘900, pensava che il volere della maggioranza potesse coincidere con la volontà generale. Questo invece è un tema su cui lavorare: come fare in modo che una democrazia partecipativa, inclusiva di tutti per quanto possibile, non accentui un carattere di esclusione.
I partiti sono una tradizione nobile, Capitini dice: “Sento parlare male dei partiti , e quante se ne dovrebbero dire!”, tuttavia “è il meglio che la storia ci ha consegnato”. Il sindacato ha ormai non pochi difetti. Sicuramente dobbiamo inventare nuovi strumenti. Capitini pensò ai COS, esperienza significativa del dopoguerra; noi dobbiamo costruire degli strumenti, partendo da ciò che altri sperimentano, per capire quelli che ci vanno o non ci vanno bene.
Il percorso attivato deve trovare a mio giudizio un punto di arrivo, forse nel congresso prossimo, in cui la nonviolenza presenti le proprie proposte. Abbiamo lavorato molto su questi temi nei quanrant’anni passati: su nonviolenza e politica, sulla scuola, sul mondo del lavoro, sul marxismo e sulla nonviolenza. Perché non cominciare a raccogliere in modo sistematico e serio i materiali, e aggiornarli con un pacchetto di proposte che il mondo nonviolento vuole portare come aggiunta al mondo della politica?

Sul servizio civile volontario
Claudia Pallottino

Mi occupo da alcuni anni di Servizio Civile Volontario (SCV), non mi sono mai occupata di obiettori di coscienza. Vorrei provare a dare una lettura del SCV di oggi come una nuova istituzione. Abbiamo a che fare con una recentissima istituzione che nasce nel 2001 e forse questo è un degli elementi di cui si parla di meno, quando ci si riferisce al SCV di oggi.
C’è da chiedersi cosa significa una “istituzione che nasce”, e cosa vuol dire, nella normativa che la crea, l’espressione “non militare”. Questa istituzione di fatto è una istituzione di pace, che espressamente si richiama ai principi di solidarietà sociale e costituzionale, alla cooperazione tra i popoli e all’educazione alla pace. È difficile viverla così, per la mia esperienza questo approccio è stato accolto con molta diffidenza. L’eredità arriva proprio dalla ultima generazione di obiettori di coscienza e dalla loro gestione, un grandioso autogol: l’esempio dei giovani sfruttati che a loro volta rispondevano sfruttando l’esperienza dell’obiezione di coscienza.
Ci sono interrogativi che a mio avviso il mondo della nonviolenza e della pace fa bene a porsi in relazione a questa esperienza, che oggi coinvolge concretamente circa 40.000 giovani all’anno, ma sarebbero molti di più se i finanziamenti fossero più ampi e si potesse dare forza a tutti i progetti che vengono presentati e approvati ogni anno. Per almeno 40.000 persone presenti nei progetti, altri 80.000 giovani se ne vedono negare la possibilità.
C’è il senso politico di questa istituzione. Lo Stato, nella organizzazione dell’Ufficio Nazionale di Servizio Civile (UNSCV), ha ricalcato quanto aveva predisposto nel 98 per la gestione degli obiettori di coscienza, il soggetto istituzionale è ancora lo stesso. Ha fatto questa scelta probabilmente perché molte altre risorse non c’erano per pensare a qualcosa di nuovo. Resta il fatto che il SCV è non ben definito, non ha un’identità concreta, ed è espressione diretta della Presidenza del Consiglio.
Una domanda per tutte: perché era importante che lo Stato creasse una istituzione civile nuova? Che senso aveva, che motivi c’erano? Dare un contentino alle associazioni che hanno visto andare via man mano gli obiettori con la prospettiva di vederli scomparire del tutto? Dare un’immagine rispetto all’Europa di uno Stato che si impegna e dà ai suoi cittadini la possibilità di impegnarsi davvero nelle proprie attività?
Forse questo senso politico c’è e non c’è, ma è da ricercare, da coscientizzare. Questa istituzione è nata nel 2001 e ha 5 anni di vita, ma dà una delega per progettare, chiede di essere attivi in questo. Non apre ad enti che dicano semplicemente: abbiamo bisogno di giovani, ma a enti che siano istituzioni pubbliche o associazioni e possano portare una proposta alla vita dei giovani. Ma allora chiediamoci come mai hanno bisogno di giovani forze, risorse umane non pagate da loro, pagate dallo Stato. Perché questa situazione nel settore del sociale, e che senso può dare la progettazione del SCV nel contatto con i giovani? Secondo me sono segnali da cogliere e su cui è importante lavorare.
Se guardiamo poi il SCV dalla parte dei giovani, il senso politico non è più nelle motivazioni che avvicinano i giovani al SCV, come si poteva fare nelle prime obiezioni di coscienza, o dovremmo dire che se non sono antimilitaristi o pacifisti, vuol dire che lo fanno per i soldi e allora non va bene. Questa conclusione non è scontata. Un grosso senso politico del SCV lo ricaviamo dalla loro esperienza concreta, 12 mesi della loro vita in cui per 30 ore alla settimana un giovane sceglie la via civile per stare nelle proprie realtà di cittadinanza o di associazionismo, comunque agisce un diritto di cittadinanza, che è da fare emergere. Anche perché 40.000 giovani non sono pochi, e se aggiungiamo gli altri in lista d’attesa il numero è ancora più imponente. Qualcosa dobbiamo dirci riguardo al fatto che il SCV ci mette in contatto con la realtà di giovani che non hanno l’etichetta di quelli che non hanno i valori, che stanno in famiglia finché possono, che sono incapaci di mantenere un impegno… Forse questi ragazzi ci vogliono dire che non è così bello stare parcheggiati, forse ci chiedono maggiore attenzione. Un senso politico possiamo trovarlo non nella motivazione ma nei fatti. Sono giovani che fanno i fatti e ci chiedono di farli con loro.
L’ultimo punto riguarda la Carta di impegno etico sul SCV scritta proprio per dare un segnale di continuità rispetto all’obiezione di coscienza, ma anche con la voglia di farlo diventare qualcosa di diverso.
Con il primo punto della Carta ogni ente di SCV si impegna a partecipare all’attuazione di una legge che ha tra le finalità la difesa della patria con mezzi non armati e non violenti, mediante servizi di utilità sociale, tesi a rafforzare i legami che sostanziano la società civile, a rendere vitali le relazioni, ad allargare l’accesso ai servizi alle categorie più deboli e svantaggiate… e tutto questo in ambito italiano ed internazionale.
Questa presa di consapevolezza sui percorsi di DPN all’interno della realtà di SCV è però da ricercare. Occorre trovare una via per evitare l’ennesimo autogol e perché questa sia un’esperienza che cambia davvero la vita dei giovani. Quanti ODC avevano voglia dall’inizio di fare obiezione, e quanti hanno cambiato poi i loro percorsi, le loro scelte di lavoro?
L’ultimo soggetto che manca, una grossa fetta di popolazione toccata dal SCV sono i destinatari. I giovani svolgono un servizio rivolto alla collettività. In alcuni casi, ad esempio nei progetti di assistenza alle persone, l’utente è chiaro. Se si fa un progetto di SCV in una biblioteca l’utente non riceve un aiuto di cura, però incontra una presenza amica che fa da tramite con le istituzioni. Ancora non si è fatto nulla sulla ricaduta del SCV sulla comunità in cui viene esplicato. Sarebbe bello chiedere agli utenti se tu che vai in biblioteca… tu che frequenti l’associazione… hai trovato persone disponibili ad orientarti, e che cosa vuol dire questo per te? C’è un valore aggiunto nella tua ricerca culturale o nella tua esperienza di aggregazione?
La proposta che ne scaturisce è quella di prendere contatto con i destinatari dei servizi, iniziare dei dialoghi, dei percorsi di coscientizzazione su quello che può essere il valore aggiunto del servizio civile, migliorare i rapporti nei contesti in cui il SCV è presente.

I nonviolenti e i partiti
Mao Valpiana

Vorrei declinare il tema “nonviolenza e politica” traducendolo più modestamente in “Movimento Nonviolento e partiti”, in base alla nostra concreta esperienza, alla nostra storia.
Il MN nasce nel 1961 e inizia subito il confronto con i partiti.
Capitini già nella preparazione della I° Marcia si è rapportato con il Pci e la Dc di perugia. Fu un rapporto tra pari, senza nessuna subalternità, ma non fu certamente facilissimo. Lo racconta lui stesso in “Italia nonviolenta”
Nel 1968 muore Capitini e resta Pietro Pinna alla conduzione del Movimento. Negli anni successivi c’è da registrare un rapporto diretto, con alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare, Lotta Continua in particolare, nelle marce antimilitariste in Friuli, e fu un rapporto alla pari.
Negli anni ‘70 inizia un rapporto con il Partito Radicale nella campagna per l’approvazione della legge sull’ obiezione di coscienza. E’ un rapporto per tanti aspetti positivo. Con il digiuno di Marco Pannella e Alberto Gardin si ottiene l’uscita degli obiettori dal carcere nel dicembre del ‘72. Il rapporto tra nonviolenti e radicali, che vede anche candidature di esponenti del Movimento nelle liste del Partito Radicale, si conclude con l’entrata in parlamento dei radicali e una posizione critica del MN conseguente la scelta tutta istituzionale che il PR compie di fatto dopo l’elezione dei primi quattro deputati radicali.
Negli anni ’80 si crea il rapporto con il movimento ambientalista. Prima con l’esperienza di “Arcipelago Verde” e poi la nascita delle prime Liste Verdi locali (elezioni amministrative del 1985), trasformate quindi in movimento nazionale. Il MN entrò a piene mani in questo processo. Molti dei primi consiglieri comunali verdi erano dell’area nonviolenta. La storia dei verdi la diamo per conosciuta, nel suo sviluppo, con molti aspetti positivi, e con la deludente conclusione della parabola verde di questi ultimi anni: trasformazione in partito e perdita della spinta ideale dell’inizio.
Recentemente è iniziato un rapporto con Rifondazione Comunista, a partire dall’attenzione del partito verso la nonviolenza, esplicitata al convegno di Venezia, al quale ci hanno chiesto di collaborare e partecipare. Il seguito è storia di questi giorni.
Qualche brevissima riflessione. Questi sono rapporti nei quali il MN ha sempre dato e non ha mai chiesto. Non abbiamo mai contrattato un posto. Niente. Noi abbiamo interesse che anche nelle culture di questi partiti cresca la nonviolenza, quella specifica, superando il generico pacifismo, perché questo può essere uno strumento in più per raggiungere certi obiettivi.
Oggi siamo in una fase in cui tutti questi partiti sono nella maggioranza di governo. Con questi partiti abbiamo fatto un pezzo di cammino insieme, lavorando in campagne comuni. Ora sono tre partiti determinanti nella maggioranza del governo del paese. Il MN è rimasto celibe e credo ci tenga rimanere single…, ma ci tiene anche a vedere i risultati della semina fatta: che frutti daranno questi partiti ora al governo? Radicali, Verdi, Rifondazione, hanno sempre protestato contro le spese militari. Ora come si comporteranno alla prossima finanziaria? Voteranno il bilancio del Ministero della Difesa? Ci aspettiamo un vero segnale di cambiamento.
Quello che abbiamo messo in campo in tanti ambiti ora ha una possibilità in più di arrivare a un qualche sbocco, perché le campagne culturali hanno un’importanza se poi danno un risultato. Capitini diceva, “vedo una realtà inadeguata e mi interessa cambiarla”. La possibilità di cambiamento passa che anche dalle istituzioni.
Affinché una proposta “per pochi” possa diventare “per tutti” c’è bisogno di uno snodo istituzionale. Una buona idea ha valore per il singolo. Una buona legge è per tutti.

Cultura militarista
Gigi Ontanetti

Noi viviamo tutti dentro a una cultura militarista. Ne siamo impregnati dalla punta dei capelli fino all’unghia dei piedi, tanto che il rischio che corriamo, ed è forte, è che a tutt’oggi noi releghiamo la pace agli eserciti. È il servizio, che dovrebbe essere garantito dallo Stato, agli anziani, ai bambini, a quelli che non hanno il coraggio di andare a fare i soldati. NO! Non ci sto in questa logica.
Credo sia un dovere – una parola che uso molto raramente – fare molta attenzione perché, legge o non legge, sta passando questa cultura. Il fatto che in prospettiva il servizio civile sia volontario o obbligatorio m’interessa poco, va nella direzione di dire che la pace la fanno i soldati. Quando fu assassinato Morelli la più grossa contestazione venne dal mondo pacifista. Allora credo sia importante che tutto il movimento pacifista, compreso il MN nella sua complessità, riavvicini il mondo della ricerca, il mondo teorico, che è indispensabile, a chi per tanti motivi non ha fatto parte di questa esperienza e vive nella strada.
L’unica cosa che siamo in grado di dire è ritiro di tutte le truppe dall’Iraq, e poi ci si ferma lì. Allora, chiediamo il ritiro delle truppe e in contemporanea una attività a tutti livelli, compreso quella commerciale, e la partecipazione della società civile italiana che progetta, propone e realizza esperienze di fraternizzazione con la società dell’Iraq.

Le pratiche del femminismo
Giovanna Providenti

Mi interessa molto sottolineare il discorso delle pratiche che il femminismo ci ha insegnato, nel senso che è il toccare la terra, lo stare a contatto con la realtà vera.
Credo dovremmo focalizzarci di più sulla trasformazione dell’individuo perché, attraverso le pratiche individuali e personali, può dare veramente un contributo alla trasformazione della società: il potere più forte che noi nonviolenti abbiamo.
Voglio riferirmi a Tic Nat Han, secondo me il maggiore teorico e pratico della nonviolenza ancora vivente. Lui parla di potere e il rapporto con il potere non è il fatto di stare dentro al potere istituzionale; il rapporto con il potere è il fatto di acquisire, cercare di valorizzare all’ interno di noi dei poteri che ci facciano stare all’interno della società con delle personalità nonviolente davvero stabili. Tic Nat Han parla del rapporto con i leader politici e dice che secondo lui la prima cosa che tutti quanti noi dovremmo fare è di tornare a se stessi. Lo collego moltissimo con il lavoro che le donne hanno fatto nel femminismo, con il lavoro di autocoscienza. Le donne si sono fermate e hanno detto: ma dove siamo?, e hanno iniziato un percorso di liberazione. Partire da sé è un percorso di liberazione. Io cosa sono, chi sono, cosa veramente voglio? E una volta ritrovato se stesso, si conquista una potenza fortissima perché significa aver fatto un lavoro di liberazione dai vari dogmi che ci vengono dalla società. Questo ci permetterà la possibilità di una relazione autentica, tema su cui le femministe hanno insistito tantissimo, scoperto con il lavoro di autocoscienza. Voi politici, andate in parlamento e cominciate a chiedere ai vostri compagni di partito, a chi vi ha votato, e verificare attraverso l’ ascolto profondo (se io mi sono ascoltato, posso ascoltare l’altro) dove sta il parlamento e dove sta la popolazione, la gente. Questo “accorgersi” è qualcosa su cui noi dobbiamo molto insistere come nonviolenti, proprio nel rapporto tra nonviolenza e politica. Perché quello che sta succedendo in questo momento è che la politica è sempre più lontana dalle persone in carne e ossa. Invece noi persone in carne e ossa abbiamo degli strumenti per ritrovarci con gli altri. Questo possiamo chiedere ai nostri politici: di accorgersi delle reali esigenze della popolazione.

Due campagne
Alfonso Navarra

Stiamo correndo il rischio di precipitarci in abissi senza ritorno. La proliferazione nucleare sta rompendo gli argini. Nella prosecuzione diretta di un’ormai unica guerra – formalmente una guerra preventiva contro il terrorismo per portare la democrazia, concretamente per il controllo in zone ritenute strategiche dal punto di vista politico ed economico – c’è il rischio che il prossimo intervento sia contro l’Iran e venga combattuto con le armi atomiche tattiche per bombardare i siti di arricchimento dell’uranio che si trovano nel sottosuolo.
Occorre che noi nonviolenti, che abbiamo coraggio, consapevolezza, libertà, ci facciamo uniti per promuovere due campagne su cui convergere tutti.
La prima, da attuare subito in Italia ma da ampliare poi, per l’attuazione del trattato di non proliferazione nucleare. Non dobbiamo accettare sul nostro territorio la presenza di armi atomiche di chicchessia. L’arma atomica deve essere resa tabù, non possiamo accettare giustificazioni.
Il secondo punto, il ritiro da tutte le operazioni di guerra neo-coloniale, la guerra unica, quella che stiamo combattendo in Afghanistan dove ancora ci sono dei morti, a testimoniare che non di missione di pace si tratta ma di missione offensiva sotto la copertura della comunità internazionale.

Di fronte all’emergenza
Nanni Salio

Disegnare una strategia politica significa individuare gli obiettivi generali e specifici, le linee di azione a cui rifarsi e gli strumenti operativi di tipo organizzativo e logistico che permettono di seguirle. In questo momento i movimenti sono ricchi di obiettivi, iniziative, priorità. Tutto va bene, ma la domanda che dobbiamo porci è se viviamo in tempi normali, se abbiamo a disposizione un tempo illimitato, o se ci sono priorità che richiederebbero di essere poste al primo punto di una agenda collettiva.
Purtroppo non viviamo tempi ordinari. Si sta prefigurando un grande conflitto globale che potrebbe fare impallidire il secolo scorso. Siamo entrando nel picco di produzione del petrolio e questa è la ragione oggettiva della crisi internazionale in corso, una ragione che non possiamo eludere con argomenti generici. Tutto il modello di vita e di economia che abbiamo conosciuto da un secolo a questa parte, con maggiore forza negli ultimi decenni, la stessa crescita delle potenze emergenti India e Cina è legata alla disponibilità di una fonte energetica attualmente non sostituibile, per la quale non c’è un ricambio immediato.
Pensate che cosa può essere una società che si trova improvvisamente di fronte ad un’estrema difficoltà a far funzionare tutto il sistema dei trasporti e tutto il sistema agroalimentare. Sarà, sarebbe una crisi dirompente. Questa possibilità dovrebbe stimolarci ad una operazione tempestiva, sia verso le istituzioni sia verso altri movimenti dal basso.
Eppure noi viviamo in una società del benessere in cui più o meno tutti siamo anestetizzati, in altre parole nella nostra società si sta relativamente bene. Questa è la condizione della maggior parte della gente. Le guerre ci preoccupano, sì, ma dove sono? A dodicimila chilometri da casa nostra. In confronto ai morti per incidente stradale cosa volete che sia? La guerra non ci colpisce. Sotto sotto pensiamo ancora che la macchina mondiale che ha messo in modo questo progresso, questo tipo di civiltà industriale, sia perfetta. Ma non esistono macchine molto perfette. Possono durare dieci, venti, trent’anni a dir molto. E se ignoriamo tutto questo e agiamo all’ultimo momento, sarà troppo tardi per prevenire il collasso del sistema, che può trascinare tutti quanti.
Se questa è l’analisi di sfondo, occorre avere delle priorità per un vero e proprio programma costruttivo, una parola magica un po’ smarrita, che preveda un programma molto, molto preciso. Un programma economico ed ecologico su scala mondiale.
Occorre prima di tutto progettare la transizione supponendo delle linee di azione. Teniamo presente che la nostra è una lotta asimmetrica e per questo ci lascia solo tre possibilità: subire, agire, oppure optare per la disobbedienza civile e per azioni dirette nonviolente. Nel momento in cui questo governo dovesse non rispettare quasi nessuna delle nostre richieste che cosa facciamo? Rimaniamo a consolarci, ci ripromettiamo di non votarli mai più, o organizziamo delle forme di disobbedienza civile?
Cito per tutti un esempio storico. È stato davvero molto bene che l’11 febbraio 2003 a Roma si siano ritrovate 3 milioni di persone per chiedere di non entrare in Iraq, ma ne sarebbero bastati 5.000 il giorno dopo a assediare il Parlamento per impedire l’invio delle truppe italiane. Senza forme di nonviolenza gandhiana, che porti la gente ad accettare di andare in carcere, le idee della nonviolenza rimangono delle pure e semplici testimonianze.
E poi dobbiamo organizzarci. Ci sono persone disposte a mettere da parte un euro al giorno in un salvadanaio collettivo? Abbiamo bisogno di creare delle strutture che possano camminare con le proprie gambe, strutture che attualmente non ci sono o, se sì, ancora troppo embrionali, piccole, non capaci per essere un riferimento certo, e la frammentazione non è ricchezza delle diversità, è frammentazione, è povertà.
Noi facciamo molte analisi ma prendiamo poche decisioni. Quando si tratta di passare alle azioni, ancora meno. Abbiamo la necessità di un istituto di ricerca che si impegni proprio a fare previsioni. Spesso i ricercatori falliscono in questo. Abbiamo scienziati imprenditori che tendono a mascherare il rischio, è vero, ma sono più pericolosi ancora gli scienziati negazionisti, quelli che negano la presenza di problematiche così pericolose. Negano ciò che prima o poi diventerà una verità – ma intanto svolgono una funzione di addormentamento delle coscienze, cosa di cui non abbiamo affatto bisogno.
Andiamo incontro a scadenze molto impegnative che richiede ai movimenti nonviolenti una capacità di presa di consapevolezza, di coscienza, che non ci faccia dormire. Noi non possiamo dormire dei sonni tranquilli. È vero che il bicchiere si può sempre vedere mezzo pieno e mezzo vuoto, ma oggi riconosciamo soprattutto la parte mezzo vuota perché le scadenza future possono essere travolgenti.
Spero che avremo la capacità di mettere insieme le nostre energie, poche singolarmente ma non collettivamente. Noi cercheremo nel nostro piccolo di dare una mano.

Sud Africa 1985: Libertà durante la nostra vita

a cura di Luca Giusti

Sesta ed ultima scheda della serie “Una forza più potente”, prodotta negli Stati Uniti dalla York Zimmerman e diffusa in versione italiana DVD dal Movimento Nonviolento. Le schede precedenti sono pubblicate sui numerica da gennaio a giugno.La situazione: La lotta di massa contro il sistema di discriminazione legalizzata noto come Apartheid vanta già una lunga e dolorosa storia. Nelson Mandela è in prigione da oltre un ventennio e un decennio è trascorso dalla rivolta della popolazione nera della township di Soweto. Da qualche mese la rabbia giovanile si è fatta rivolta negli agglomerati suburbani della Vaal Triangle. Il duro intervento delle forze dell’ordine ha innescato un’escalation. Ma giornali e televisioni, controllati dal governo, non passano l’ormai quotidiano bollettino di neri uccisi; la comunità bianca sembra non accorgersi di quel che accade nelle vicine township.
?Maggio – Alcune madri di famiglia di Port Elizabeth, Provincia Orientale del Capo di Buona Speranza, lanciano un boicottaggio delle merci bianche. Si propongono di portare il conflitto al di fuori dei sobborghi, ponendo la popolazione bianca di fronte alle loro responsabilità.
Dispongono di poche settimane per persuadere mezzo milione di persone a non acquistare in città ma solo nelle townships e per preparare i commercianti locali a soddisfare l’enorme domanda. Possono però contare sul lavoro fatto dell’United Democratic Front, organizzazione ombrello per oltre 600 rappresentanti di quartiere, associazioni ecclesiali, gruppi sportivi, circoli femminili.
Mikhuseli Jack: 27enne, attivista fin dall’adolescenza, lavora da tempo all’organizzazione di gruppi civici strada per strada ed è animatore instancabile del boicottaggio: “Andammo nelle chiese, nelle scuole, e parlammo con gli autisti dell’autobus, e con i tassisti per convincerli a non portare la gente in centro e sostenere così il boicottaggio”.
?15 luglio: sembra un mattino come tutti gli altri, ma alle dieci la differenza è evidente: le strade commerciali, solitamente affollate, sono deserte; l’adesione è del 100%. In 5 giorni il boicottaggio si propaga nel paese.
La reazione del potere
Il governo, ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale del 1953, proclama lo stato d’emergenza in alcune aree, tra le quali: Port Elizabeth, Uitenhage, Kirkwood, Adelaide, Bedford, Hankey, Bathurst, Jansenville e Pearston.
Colonnello Lourens du Plessis: fu tra i protagonisti della repressione del movimento in veste di ufficiale capo a Port Elizabeth dal ’67: “Che razza di crimine è non voler comprare? E’ un’azione di massa. E cosa si può fare? Non si può sparare a tutte quelle persone, non si può arrestarle tutte. E’ una strategia estremamente efficace. Gandhi fu il fondatore del movimento di resistenza non violenta”. Collaborò poi a far verità sui crimini di cui si era reso partecipe.
Il lavoro di chi, come du Plessis, cercava di indebolire questa insolita forma di resistenza civile era reso gravoso dalla struttura a rete, dal sostegno popolare diffuso e dall’alta intercambiabilità dei responsabili, sconosciuti al di fuori della zona di appartenenza e distribuiti in un gran numero di piccoli gruppi locali.
L’esercito rompe allora gli indugi: occupa le townships, limita gli spostamenti, impone il coprifuoco notturno e diurno, arresta centinaia di persone, infierendo su adolescenti.
Ma intimidazione e brutalità non fermano il boicottaggio, che inizia a incrina il blocco sociale dominante.
Janet Cherry: Segretaria generale dell’Unione nazionale degli studenti sudafricani dall’83, venne più volte incarcerata. “Il boicottaggio ebbe un forte impatto sulla comunità bianca e contribuì a far comprendere la necessità di un cambiamento. Molti capirono, furono convinti dalla forza del messaggio che riguardava uno degli aspetti che dividono la stessa classe dominante, se la si dovesse dividere in segmenti”.
La Camera di Commercio esce per prima dal coro muto: provvederà a soddisfare le richieste di sua competenza, invitando il governo ad attuare quelle che gli competono.
Il movimento prova a capitalizzare il successo dichiarando che interromperà il boicottaggio alle seguenti condizioni: township smilitarizzate, Mandela libero, strutture pubbliche e luoghi di lavoro ripuliti da discriminazioni.
Si risponde rafforzando la repressione
?2 agosto, arriva la risposta: 30.000 persone, tra cui Jack e altri leader vengono arrestati. Il rilancio della repressione sembra dare i primi frutti, scatenando rivolte giovanili che rischiano di offrire pretesti per una definitiva repressione.
Un ruolo chiave in questo passaggio critico è svolto da un importante uomo di chiesa, l’arcivescovo di Città del Capo.
Desmond Tutu è fra i più determinati ad ammonire del pericolo di un’involuzione violenta: “Ricordiamoci di non dargli pretesti per schiacciarci passando, magari per i distratti, anche dalla parte della ragione; ricordiamoci di fidarci solo di forze sane. Perché tradire la nostra causa usando metodi, gli stessi metodi che i bianchi usano con noi? Dobbiamo ricordarci, amici miei, che la nostra è una causa meravigliosa: è la causa della libertà, della giustizia, della bontà. E noi, tutti noi dobbiamo camminare a testa alta. Noi affermiamo che useremo solo quei metodi che passeranno al verdetto, all’alto verdetto della storia (…) non sono le armi quello che autocrati e tiranni devono temere di più, bensì la decisione della gente di essere libera; quando si arriva a tanto è un processo irrefrenabile””
?settembre: i negozianti sono disperati; in molti tra loro vogliono incontrare quelle persone che prima descrivevano come delinquenti. Jack è ora sostenuto da potenti alleati bianchi, ma il governo si oppone a liberazione e trattative, quasi attendesse un’involuzione del processo.
?novembre: i negozianti si impegnano a far pressione sulle autorità perché scarcerino i leader e ritirino le truppe. Il movimento accetta di interrompere il boicottaggio ma annuncia che lo ripristinerà se le richieste non saranno soddisfatte entro il 31 marzo.
La delegittimazione del regime è ormai consolidata presso l’opinione pubblica internazionale; l’ONU discute di sanzioni economiche e le multinazionali iniziano a fuggire.
?22 marzo: la corte suprema di giustizia revoca l’ordine restrittivo a carico di Jack, sentenziando che il governo non ha fornito sufficienti motivazioni.
Jack strappa l’ordinanza usando i festeggiamenti per rinsaldare l’unità di cui avranno assoluto bisogno nella settimana a venire: “il nostro potere d’acquisto sarà determinante per il nostro destino”.
?31 marzo: non tutte le richieste dell’accordo sono soddisfatte; come annunciato, il boicottaggio riprende più saldo che mai
Ultimi pretesti per la repressione
?12 giugno ore 1.00: col pretesto dei tumulti in occasione del decimo anniversario della rivolta cittadina le forze dell’ordine fanno irruzione nelle townships: migliaia di arresti, stato d’emergenza e legge marziale ripristinati. Il presidente Botha riferisce al Parlamento di avere sventato un complotto sovversivo di ANC e partito comunista. L’emergenza sarà rinnovata ogni anno per tre anni, costringendo le forze anti-Apartheid alla clandestinità. Ma gli occhi del mondo sono ormai puntati sul Sud Africa e il governo delegittimato: la fine è solo questione di tempo.
?1989: P.W. Botha si dimette e diventa presidente F.W. DeKlerk che ordina subito rilascio di Mandela e revoca del bando alle organizzazioni politiche.
?1993, 10 dicembre: Premio Nobel per la Pace a Mandela e Deklerk.
?1994, aprile: Mandela trionfa alle elezioni generali
Giorgio Barazza
(curatore anche della scheda precedente su Nashville)
Per approfondire
Mandela, Nelson. Il lungo cammino verso la libertà, autobiografia, Feltrinelli 1994.
Desmond Tutu, Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, 1999
Antonello Nociti, Guarire dall’odio: come costruire una pace multirazziale, lo straordinario insegnamento del Sud Africa, Franco Angeli
G. Caligaris e A. Tolosini, Boycott! Sud Africa banche italiane e d’intorni, EMI
Walter Wink, Violence and nonviolence in South Africa : Jesus’ third way, Philadelphia : New Society Publishers, 1987
A Cura di Marcello Flores, Verità senza vendetta, l’esperienza della commissione sudafricana per la verità e la riconciliazione, Manifestolibri 1999

GIOVANI
A cura di Laura Corradini
Educazione civica con la profe Menapace

I giovani dell’ITC Mossoti di Novara hanno incontrato Lidia Menapace e dibattuto sui valori di libertà, di pace, di democrazia, di giustizia, che sessant’anni fa alimentarono la ribellione al nazifascismo, e oggi disegnano, attraverso la Costituzione, l’identità della nostra Repubblica.

Art. 1 : “ L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”.
“L’Italia è un repubblica…”: per noi è palese questa affermazione, ma la modifica dell’ordinamento istituzionale risale solo al giugno 1946. L’idea repubblicana si sviluppò nelle formazioni partigiane, quando il re, dopo aver passato il potere da Mussolini a Badoglio e aver firmato una resa ambigua, scappò: “così, proprio in quelle formazioni ci si chiese che cosa farsene dei Savoia e nacque una grande discussione sulla repubblica. Dunque l’idea e la preparazione della repubblica italiana avvenne nell’antifasciscmo, nella Resistenza e nella lotta alla liberazione.”
“…democratica”. Durante il Fascismo, non si sapeva che cosa fosse la democrazia, si capiva forse attraverso le lezioni di storia greca e romana, ma non se ne conosceva il significato e quello che si sapeva veniva dai partiti politici di opposizione al Fascismo e dalle formazioni cattoliche. “Il primo grande sussulto democratico avvenne con l’entrata in vigore delle leggi razziali (1938) in quanto, con queste leggi, uno è colpevole per ciò che è e non per ciò che fa, una logica che, democraticamente parlando, è sbagliata”.
“…fondata sul lavoro”. Nell’Italia fascista i lavoratori erano oppressi e molto sfruttati in quanto il Fascismo distrusse i sindacati, arrestò coloro che partecipavano o avevano partecipato all’attività sindacale, e soprattutto mise fuori legge lo sciopero. Oggi è invece lo sciopero è un diritto fondamentale del lavoratore.
Art.3: “Tutti i cittadini italiani davanti alla legge sono uguali senza distinzione di razza, sesso o religione”. Le donne nel regime fascista erano molto sfavorite: non potevano insegnare, non potevano votare, erano solo spinte a fare molti figli perché Mussolini aveva bisogno di giovani per il suo esercito. La relatrice fa notare che l’articolo sulla parità ha le basi nella Resistenza in quanto, nella lotta di Liberazione, le donne erano alla pari degli uomini e parteciparvi significava crederci veramente: “Questa fu la prima straordinaria grande esperienza di autonomia personale dimostrata dalle donne nella storia del nostro paese”. Tuttavia il Fascismo durò a lungo nella cultura nazionale. Ne dà una conferma Lidia Menapace ricordando un’intervista che le venne fatta alcuni anni fa da una giornalista democratica della Rai. Questa giornalista, nel porle le domande per conoscere la sua esperienza partigiana, faceva riferimento allo “spirito di avventura” che animava le partigiane. Ciò fa capire che, a più di 50 anni dopo la decisione delle donne di partecipare alla Resistenza, c’era ancora chi non la considerava una scelta di autonomia personale. “La repubblica rimuove gli ostacoli e promuove le condizioni…”. E’ il fondamento del progetto democratico: “La democrazia non consiste nel votare, in quanto il voto è uno strumento, l’essenza della democrazia è un’azione volta a rimuovere gli ostacoli, cioè a mettere tutti il più possibile alla pari nelle scelte di vita, e a promuovere lo sviluppo delle persone come singoli individui”. Lidia Menapece teme la cancellazione di questo articolo che ritiene importantissimo per le persone che vengono a lavorare in Italia.
Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra”. Lidia Menepace sostiene che è un capolavoro di articolo della nostra Costituzione: “L’orrore della guerra che ti arriva direttamente in casa è enorme perché, con i bombardamenti aerei, il modello di guerra è totalmente distruttivo, colpisce la popolazione civile, vuole eliminare quella popolazione. L’Italia dunque la ripudia : la guerra per noi è fuori legge”.
Alla fine ricorda le sue azioni di staffetta partigiana, azioni che oggi si chiamerebbero nonviolente.
Conclude dicendo che nel Fascismo e nel Nazismo l’esaltazione della guerra era un veleno molto diffuso, ma non tra il popolo che, convinto che quella doveva essere l’ultima guerra del Mondo, si impegnava a lottare per l’idea della pace perché voleva vivere. “E’ dal popolo che nasce il ripudio della guerra in quanto non si fece corrompere dai fascisti, ma aiutò i partigiani ospitandoli senza mai denunciarli”. Lidia Menapace ha visto, invece, i nazifascisti scappare perché non potevano resistere ad un popolo che li ripudiava: “Erano più forti militarmente, ma sono stati sconfitti politicamente e moralmente ed è questa la sconfitta che conta”. Stefania Francioni, Roberta Gadeschi, Daniela Tua.
Classe VA Programmatori – Istituto Mossotti di Novara.

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Quando mi urli da vicino mi fai paura

Ci troviamo spesso in un ruolo educativo di fronte a situazioni di violenza: esperienza sempre difficile. Quella che racconto qui è legata alla mia professione, che proprio con l’educazione ha a che fare.
La cronaca, per suggestioni, parte da un conflitto “fra pari” e arriva ad uno “adulto-bambino”; il contesto, Comunità alloggio per minori.
Non propongo una modalità standard ideale di gestione del conflitto; semplicemente racconto risonanze, pensieri, relazione.
Cronaca di un conflitto
Laura, 12 anni, sta insultando Chiara, 11 anni. In breve assisto a un’escalation del conflitto, Laura malmena Chiara.
Intervengo duramente: il tono di voce è alto, mi frappongo fra le due, Chiara mi fugge alle spalle e si rifugia in camera. Tra me e Laura l’escalation continua, la mia arrabbiatura trasmette il messaggio “non ammetto che tu faccia violenza ad un’altra persona”, l’argomentazione è sul piano razional-morale; Laura risponde sul registro autonomistico-emotivo squisitamente pre-adolescenziale della serie “ma chi sei per venirmi a dire cosa devo fare: fatti i cazzi tuoi!… E non urlare… e non urlareee!”
“Urlo perché sono arrabbiato, non pretendere che riesca a parlarti con voce calma dopo quello che ho visto! Ma poi ti senti? Chi sta urlando di piùù?!!!”
“Non urlareeee!!”
Lo scontro è all’apice, mi rendo conto che quanto ho appena detto mi ha permesso di prendere contatto con le emozioni fortissime che sto provando… E mi spavento ancora di più. Figuriamoci Laura… Mi fermo. Mi allontano. Laura rimane lì, piange e impreca.
Servono due minuti di pausa. Quello che le dico poi suona più o meno così:
“Laura, adesso ci prendiamo il tempo che ci serve per calmarci, mi sembra che entrambi siamo parecchio agitati (attraverso le lacrime condivide); appena ce la sentiamo riprendiamo il discorso.
Passano 10 minuti circa, io bevo acqua, lei lacrima. Parliamo di quanto successo con Chiara.
Poi emerge una sensazione di incompiutezza, come se a Laura interessasse parlare d’altro…
“Cosa ti preme ora?”
“Voglio dirti che non devi urlare con me; in questo momento soffro molto di più per le tue urla che per altro…”
“Scusa Laura, come faccio a comunicare la mia arrabbiatura in altro modo? Ti aspetti che gli altri siano freddi e razionali anche di fronte alla violenza?”
“Quando mi urli da vicino mi fai paura… mi ricordi mio padre”
Segue un breve silenzio, ma ci serve: sottolinea l’apertura che Laura mi ha appena offerto.
“Mi dispiace di averti fatto paura.”
“E’ che non riesco più a ragionare quando ho paura…”
“Senti, facciamo un patto: prometto di non urlarti più così vicino, ho capito che è importante per te. (…) Dovremo trovare il modo per affrontare l’aggressività…”
Cronaca finita. Inutile aggiungere che ci stiamo ancora lavorando, malgrado siano trascorsi mesi. Ma qualcosa è cambiato dopo quello scontro-incontro…
Alcuni ancoraggi teorici…
– Spazio alle emozioni! Come afferma Marianella Sclavi, le emozioni sono importanti strumenti conoscitivi: informano non sui contenuti, ma sui processi in atto, su come si sta affrontando la situazione; ci dicono come stiamo vivendo una relazione.
– Facciamo un patto? L’intesa con l’adolescente sta alla base della legittimazione a intervenire, legittimazione mai data e sempre in via di contrattazione, da inseguire attraverso…
– Uno stile interrogativo. Parola a Dolci, Novara… L’importanza delle domande nella relazione, come strumento fondamentale di apertura all’altrui soggettività nella relazione, dialogo non controllante in quanto reciproco.
– “Mi dispiace”. Alice Miller sottolinea la consapevolezza dell’adulto nel momento in cui chiede scusa per aver perso il controllo. Lungi dal rinunciare al proprio ruolo educativo, un tale atteggiamento comunica potenti meta-messaggi: vissuti di reciproca comprensione, riflessione sul proprio agito, rispetto per l’altro, volontà di trovare insieme una soluzione. E spezza l’idea di educazione come processo unilaterale che vede il bambino come mero destinatario di messaggi e azioni predeterminati, immodificabili.
Tre libri, tre:
– Novara D., L’ascolto si impara – Domande legittime per una pedagogia dell’ascolto, Torino, Ed. Gruppo Abele, 1997;
– Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte. Ed. Bruno Mondatori, Milano, 2003;
– Miller A., L’infanzia rimossa, Garzanti, Milano, 1990.
Massimiliano Brignone

DISARMO
A cura di Massimiliano Pilati
Sicurezza non ha mai fatto rima con armi

Dopo anni di iniziative contro EXA, la mostra delle armi “sportive” più importante in Italia e la terza nel mondo, abbiamo avuto modo di osservare la forza di persuasione che ha, nella nostra società, la cultura delle armi. Il fascino che una pistola o un fucile sembrano esercitare sulle persone, ha sorpassato le nostre convinzioni. Decine di migliaia di visitatori per una mostra di armi che spesso di sportivo hanno ben poco. Il richiamo più forte è quello delle armi come strumento di difesa. La carta vincente dei nostri commercianti di armi (e non solo) è il tema della “sicurezza”. La sicurezza, ovvero la paura, fanno sicuramente vendere. Uomini, donne e bambini visitano gli stand come se si andasse a una festa. Gli sguardi sono gioiosamente curiosi, felici: toccare con mano la possibilità di sentirsi sicuri, onnipotenti. La nostra riflessione è partita da qui: le armi danno davvero la sicurezza che promettono? Forse val la pena di ricominciare a sfatare qualche tabù al riguardo.
In Italia ci sono 4 milioni 800mila permessi per possesso d’armi per un totale di circa 12 milioni di armi da fuoco in mano ai privati. Tra questi ci sono: oltre 1 milione 100mila autorizzazioni per portare l’arma anche all’esterno delle abitazioni, di cui: 845mila sono i cacciatori; 55mila le guardie giurate; 34mila permessi per difesa personale; 194 mila autorizzazioni per fucili per il tiro a volo.
Non passa giorno che non si abbia notizia di qualche delitto commesso con armi da fuoco legalmente possedute. Ma in compenso non esistono statistiche specifiche sulle conseguenze dell’uso “improprio” di queste armi da fuoco. Contrariamente a quanto si pensa, la stragrande maggioranza delle persone morte per armi da fuoco non è dovuta all’azione dei criminali.
In Brasile si calcola che solo il 10% degli omicidi è compiuto durante azioni criminali.
Negli Stati Uniti tra il 1976 e il 2000 solo il 15% degli omicidi con armi da fuoco è imputabile ad azioni criminali. Il resto sono delitti tra familiari, parenti e conoscenti.
Chi subisce un’aggressione con armi da fuoco, ha il 75% di probabilità di essere ucciso, mentre in un’aggressione all’arma bianca essa è del 36%.
Ogni dieci volte che un cittadino onesto afferra un’arma per difendersi, nove volte il criminale ne trae vantaggio.
Uno studio realizzato negli Stati Uniti dimostra che la presenza di un’arma da fuoco in casa aumenta del 41% il rischio che qualcuno in quel luogo sia assassinato; per le donne il rischio aumenta del 272%.
Le donne quasi mai comprano, possiedono o usano un’arma, ma sono le prime a subire le conseguenze dell’uso di armi da fuoco. La probabilità per una donna di morire assassinata con l’arma del marito o dell’amante è due volte maggiore della possibilità di essere uccisa da uno sconosciuto.
Quando, tra il 1995 e il 2003, il Canada inasprì le leggi sulle armi da fuoco, l’indice dell’uccisione delle donne cadde del 40%. In Australia, cinque anni dopo l’inasprimento delle leggi sulle armi da fuoco, il tasso dell’uccisione di donne è diminuito della metà.
La violenza dovuta alle armi da fuoco consuma, in america Latina, il 14% del Pil (il 10% in Brasile e il 25 % in Colombia).
Negli Stati Uniti, è stato calcolato che il possesso di un’arma da fuoco aumenta, per la donna, di cinque volte il rischio di suicidio e di tre il rischio di omicidio.
In Brasile, si calcola che un terzo (33%) delle armi usate per commettere crimini erano state acquisite legalmente e successivamente finite nelle mani della criminalità.
Giovanni Aliquò, direttore del Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, dichiara che in Italia i furti e gli smarrimenti di pistole e fucili sono il primo canale di approvvigionamento del crimine.
Come si vede da questi pochi dati, l’affermazione “più armi, più sicurezza” si rivela poco più di una trovata pubblicitaria. Ma funziona. Funziona anche perché non viene mai messa in discussione: è un assioma, un dogma. Come le affermazioni: “la guerra c’è sempre stata” (anche la prostituzione!), oppure “l’esercito serve a difendere la patria” (quando? L’otto settembre?). Ma contrastare un luogo comune è un lavoro lungo e faticoso. E’ questo che dobbiamo sapere, è qui che dobbiamo impegnarci. Dietro alla cultura della armi c’è sempre la preparazione e la giustificazione per la prossima guerra.
Adriano Moratto

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Riccardo Petrella e l’acquedotto pugliese

Gli hanno dato tre anni di tempo, ma uno è già passato. Il suo amico Nicky Vendola, appena eletto presidente della Regione Puglia, aveva pensato a lui per gestire la più grande azienda della regione, con ben 2150 dipendenti e 700 milioni di euro di ricavi: l’Acquedotto Pugliese (Aqp). Ora Riccardo Petrella, docente universitario nell’ateneo di Lovanio (Belgio), presidente italiano del Contratto Mondiale sull’acqua, impegnato da anni per difendere il bene acqua dalla privatizzazione, come presidente dell’acquedotto più colabrodo d’Italia (si stima che il 50% delle acque che passano nei suoi tubi si perdano per strada prima di arrivare ai rubinetti di casa) deve avere già chiara quale sia stata la sfida che ha accettato.
La gestione degli acquedotti è il servizio in cui la mano pubblica è più presente: il 71% della popolazione italiana è servito da società a capitale pubblico, contro per esempio il 59% nello smaltimento dei rifiuti, il 46% nei trasporti ed il 17% nelle farmacie (dati 2003). La materia prima nel nostro paese è presente in abbondanza: secondo il dossier di Legambiente “Siccità 2005” abbiamo una disponibilità teorica di 2700 metri cubi per abitante all’anno, e gli italiani sono i primi consumatori di acqua in Europa e terzi al mondo dopo USA e Canada. Ciononostante, un terzo dei nostri connazionali non ha un accesso regolare e sufficiente all’acqua potabile, e di conseguenza deteniamo il record mondiale di consumo di acqua minerale: in media 172 litri pro capite l’anno. La produzione italica, con 275 marchi, è invece di circa 11 miliardi di litri ed il risultato è l’utilizzo di un enorme quantità di bottiglie in plastica: circa 200 mila tonnellate. Manco a dirlo, il gruppo Nestlè con tre miliardi di bottiglie di minerale prodotte e 860 milioni di euro di fatturato è leader italiano con il 29% del mercato, e pesa per un sesto sul giro d’affari mondiale di Nestlè Waters.
Da diversi anni è in atto un processo generalizzato, incentivato dall’Unione Europea, che mira a raccorpare e privatizzare i maggiori gestori del settore, per poter attirare capitali privati utili ad affrontare le necessarie spese di ammodernamento. Abbiamo così assistito alla trasformazione in società per azioni (e quindi società di capitale che possono acquistare aziende, farsi acquistare o quotarsi in borsa) della maggior parte delle vecchie aziende municipalizzate. I promotori del Contratto Modiale dell’Acqua, di cui Riccardo Petrella è fondatore è promotore, sostengono invece la necessità di consolidare la mano pubblica su un bene così prezioso, perché non è possibile lucrare privatamente su un bene primario.
Petrella è piombato in una realtà dove non esisteva nemmeno un ufficio di progettazione interno, con un processo in corso per decine di assunzioni irregolari accertate ed una seria difficoltà ad utilizzare i fondi che l’Unione Europea destina per i miglioramenti necessari alla rete. Entro fine anno dovrebbero essere presentati progetti di spesa per 1 miliardo di euro: a fine 2005 i progetti impegnavano solo 46 milioni, con il rischio di perdere il rimanente. Intanto, le tariffe aumentano nonostante l’amica mano pubblica: del 10% nel 2004 e di un altro 7% nel 2005 (cui i Comuni si sono opposti), in parte giustificati con l’ammodernamento delle strutture.
«Stiamo lavorando – spiega Petrella – per investire in depuratori, in controlli sulla qualità, per l’ampliamento e la modernizzazione delle fogne, per l’eliminazione delle perdite, la promozione di tecniche di risparmio dei consumi idrici, accordi con i Comuni; per introdurre, ad esempio, i riduttori di flusso. Presto sarà pronto il piano operativo triennale e anche la nuova carta dei servizi». Nei 258 Comuni raggiunti dall’Aqp, solo 140 hanno un depuratore che funziona, con immaginabili impatti ambientali, contro una media nazionale del 74,8% (49% in Sicilia); mentre le malevoli voci di corridoio narrano di contrasti con l’amministratore delegato di Aqp, Scognamiglio, stimato professore della Sapienza di diritto del lavoro, il superesperto di acque si barcamena tra la burocrazia e la presenza a convegni e dibattiti per convincere gli amministratori locali a ripristinare il controllo pubblico nella gestione delle ex-municipalizzate, come recentemente avvenuto in Campania e ribadito nel Torinese grazie alle pressioni della campagna organizzata da Attac Italia (di cui Petrella è presidente onorario). I prossimi mesi diranno se l’utopia al potere può diventare realtà anche in un campo così cruciale.

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo

Quando le donne cantano i fucili tacciono

Ida vive a Bujumbura, la capitale del Burundi. E’ una piccola anziana signora di etnia Tutsi, una persona dinamica, che trasmette energia. E’ la presidente dell’Associazione delle vicine, che ha la propria sede nella periferia della città.
Nel 1993, Ida era una donna disperata e in pericolo. Più di 300.000 suoi connazionali erano già morti nella guerra civile. Moltissimi erano fuggiti e la comunità in cui Ida aveva sempre vissuto era spezzata in due. Prima dei massacri, l’Associazione delle vicine comprendeva donne Tutsi e donne Hutu, che coltivavano assieme la terra e condividevano i raccolti, ma nel 1993 le famiglie Hutu avevano passato il fiume, fuggendo per salvare le proprie vite, e l’Associazione cessò di esistere. Per otto lunghi anni, nessuno attraversò quel fiume in un senso o nell’altro.
Nel 2001, nacque a Bujumbura il Centro Pace delle donne. Era stato concepito come un luogo sicuro in cui le donne di qualsiasi gruppo etnico potevano entrare e partecipare alle attività, una delle quali era l’addestramento alla risoluzione nonviolenta dei conflitti. Ma forse il suo contributo più importante alla vita della comunità era il provvedere uno spazio in cui le donne potevano parlarsi apertamente ed esprimere la sofferenza che pativano a causa della guerra, intermittente eppure continua.
Dopo aver preso parte a diversi programmi del Centro, Ida decise di ritrovare le sue vecchie amiche e colleghe di lavoro. Era molto determinata: pensava che le donne di entrambi i gruppi etnici fossero sorelle, non nemiche, e che dovessero riunirsi. Durante un periodo di intensi combattimenti nello stesso quartiere in cui viveva, con case date alle fiamme e ulteriori esodi, Ida chiese al Centro Pace delle donne di aiutarla ad organizzare un incontro fra donne Hutu e donne Tutsi.
Ci voleva un bel coraggio, come dimostrarono i giorni seguenti: la sua stessa gente la accusò di tradimento, gli Hutu di essere al servizio di qualche complotto contro di loro. Ma il Centro la sostenne, e Ida dice oggi che sapeva bene come solo “il costruire ponti” avrebbe “fermato la follia”.
Dopo diversi inviti e approcci e scambi di messaggi, Ida raccolse attorno a sé un centinaio di donne Tutsi ed attraversò il fiume con loro, per incontrare circa lo stesso numero di donne Hutu. Entrambi i gruppi avevano le braccia cariche di doni, mentre entravano nel piccolo edificio che avrebbe ospitato l’incontro. Mentre le donne sedevano insieme, in cerchio, dall’esterno venivano i rumori di spari ed esplosioni. Molte dissero, commosse, che non avrebbero mai creduto di essere capaci di sedere di nuovo nella stessa stanza, con le madri, le moglie e le sorelle di coloro che avevano ucciso i loro figli.
Nonostante i rumori di guerra si facessero via via più forti e vicini, le donne tennero il loro consiglio, discussero, e si scambiarono i doni. La loro gioia era diventata così grande che cominciarono ad abbracciarsi e a danzare insieme. Infine presero a cantare: “Vogliamo la pace subito!”
Il suono delle loro voci, questo canto ripetuto, soverchiò i rumori dei fucili. Le donne continuarono a cantare. Le armi smisero di sparare. Non si era mai vista una cosa del genere prima, ma l’eco di quell’azione si sparse così rapidamente che numerosi incontri simili si tennero nei giorni seguenti. Dove le donne cantavano, i fucili finivano per tacere.
Ida è oggi una delle ispiratrici dei “Giorni della solidarietà”, incontri comunitari in cui membri delle due etnie si siedono insieme a discutere. “Durante la crisi, racconta Ida, la parola solidarietà significava soltanto essere leali al proprio gruppo etnico, non importava cosa questo facesse o che stesse succedendo. Per questo bisogna ridefinire la parola, riappropriarsene. Per me significa unità fra gli esseri umani, soprattutto.”

MUSICA
A cura di Paolo Predieri

Il mio banjo costringe l’odio alla resa

Una canzone del 1903 scritta da Charles Tindley di Philadelphia, conteneva il verso, ripetuto più volte, “I’ll overcome some day”; un gospel successivo conteneva i versi “Deep in my heart. I do believe/ I’ll overcome some day”. Quest’ultimo era fra i canti intonati dai dipendenti dell’American Tobacco di Charleston in Sud Carolina, durante gli scioperi del 1946, in maggior parte donne afro-americane. Una di loro, Lucille Simmons cambiò il testo in “We’ll overcome”. Zilphia Horton, moglie bianca di un fondatore della Highlander Folk School la imparò da lei e la insegnò a Pete Seeger che modificò la musica basandosi su uno spiritual negro del XIX secolo ( “No more auction block for me” = “Non mettetemi più all’asta”…), aggiunse alcuni versi e sostituì “We shall overcome” a “We will overcome”, probabilmente raccogliendo un’idea di Septima Clark e la insegnò al cantante californiano Frank Hamilton che, a sua volta, la insegnò a Guy Carawan che la riportò alla Highlander nel 1959. Da lì si iniziò una diffusione orale che la portò a diventare un inno dei sindacati afro-americani nel sud degli Usa e poi dell’attivismo per i diritti civili.
La storia di “We shall overcome” è lunga e ricca di avvenimenti e personaggi. Quella che è entrata di diritto nella tradizione come inno di dominio popolare, risale ad autori precisi che le hanno dato nel tempo la forma che conosciamo. Formalmente è depositata da Carawan, Horton, Hamilton e dall’artefice principale, Pete Seeger che racconta di aver registrato il copyright su consiglio del suo editore, per evitare che qualcun altro lo facesse: “All’epoca – dice – non conoscevamo il nome di Lucille Simmons”. I diritti sulla canzone vanno tutti al fondo “We shall overcome” che promuove espressioni culturali afro-americane nel sud degli Usa. Pete Seeger sostiene infatti che questa canzone “è uno stupendo esempio del costante scambio fra tradizioni musicali africane ed europee in terra americana”.
La forza di questa canzone è nella struttura semplice che ne fa un’opera “aperta”, che si presta a possibili e sempre nuove aggiunte o modifiche nel testo (che puntualmente sono avvenute in diversi momenti storici come, ad esempio: “We are not alone” e “We are not afraid/ today”) e in una parte musicale che innesca un coinvolgimento corale con possibilità di armonizzazioni a più voci semplici ma davvero trascinanti, come dimostra lo stesso Pete Seeger nelle sue registrazioni live. E’ evidente che la storia e le persone che hanno dato vita a questa composizione, l’hanno caricata di un’energia davvero unica.
Così, nel 1963 “We shall overcome” è diventata l’inno del movimento guidato da M.L.King e la versione registrata da Joan Baez, l’ha fatta conoscere in tutto il mondo, senza dimenticare la stupenda versione gospel-blues di Mahalia Jackson del 1966.
Da allora è diventata patrimonio di movimenti popolari e nonviolenti in giro per il mondo.
I lavoratori agricoli della California l’hanno cantata in spagnolo durante gli scioperi e i boicottaggi dell’uva alla fine degli anni sessanta; è stata poi utilizzata anche in Sud Africa durante gli ultimi anni del movimento anti-apartheid; in India esiste una traduzione letterale in hindi “Hum Honge Kaamyab/ Ek Din” molto popolare negli anni ottanta e cantata anche oggi.
Nel 1998 nel cd “Where have all the flowers gone: A Tribute to Pete Seeger” troviamo l’interpretazione di Bruce Springsteen, che pure contiene alcune varianti (“We shall brothers be” e “The truth shall make us free”). Da questa esperienza al “boss” è nata poi l’idea del cd di cui abbiamo dato notizia nel numero scorso.
Sul banjo di Pete Seeger c’è scritto: “Questo aggeggio circonda l’odio e lo costringe alla resa”. Un motivo in più per confermare la sua presenza nelle enciclopedie della nonviolenza.

WE SHALL OVERCOME NOI TRIONFEREMO
We shall overcome/ We shall overcome Noi trionferemo/ noi trionferemo
We shall overcome some day Noi trionferemo un giorno
Oh deep in my heart I do believe In fondo al cuore ci credo
We shall overcome some day Noi trionferemo un giorno
We shall live in peace Noi vivremo in pace

We’ll walk hand in hand Cammineremo mano nella mano
Black and white together Neri e bianchi insieme

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Un vero successo nato dal basso

Il vangelo secondo Precario
di Stefano Obino, Italia – 2005

Ontogenesi di (un) Precario. Al principio Precario era un sito. Un sito che lanciava una denuncia del tipo di quella che lanciarono oltre quarant’anni fa’ i “giovani turchi” della nouvelle vague francese contro il “cinema di papà”; un cinema italiano recente che « …lascia perplessi. In particolare viene da chiedersi se i problemi di un trentenne siano solo quelli della biondina che ci si vorrebbe fare e l’angoscia del dover/voler tradire la propria futura moglie. Di fronte a tale drammatico quesito ci chiediamo: “E l’affitto?”.» E che affermava con forza un “credo” che era anche una dichiarazione programmatica di intenti: «…Noi crediamo nelle storie urgenti, che debbano essere raccontate, in soggetti che riportino la vita vera sul grande schermo, con il linguaggio che ognuno ritiene proprio, ma con la forza della storia e del sottotesto che si fotografa. Noi crediamo nel cinema necessario.»
Quindi il progetto filmico “dal basso”; sul sito cominciano ad affluire tante piccole/grandi storie di varia precarietà, storie vere, quotidiane. Alcune di queste vengono scelte per la loro paradigmaticità e integrate con le esperienze dirette vissute degli attori (alle prese, a loro volta, con le prime esperienze lavorative) che nel frattempo erano stati selezionati; di qui il soggetto del lungometraggio in cui, nell’arco di ventiquattr’ore ore, si concatenano quattro “storie di ordinaria flessibilità”. Marta è alle prese con un’improbabile indagine Ixtat sul precariato giovanile; a Dora, stagista non retribuita alla ZenzeroTv da due anni, viene nuovamente rubata un’idea innovativa da una sua collega senza scrupoli; Franco, agente finanziario, riceve una proposta per la pubblicazione del suo libro “Tutti i Frutti” ma non potrà dirsi un uomo felice, in quanto dovrà versare un contributo di tasca sua per vedere la sua opera pubblicata; Mario, avvocato in attesa di diventare socio dello studio, scopre quanto costi oggi far parte dell’altra metà della mela, “quelli che comandano”. Sopra le loro teste, Sandro Precario, un pugile che, morto per sbaglio prima del tempo, viene incaricato da San Pietro di archiviare le preghiere dei precari che giungono ogni giorno in cielo.
Una felice anomalia produttiva e distributiva. La realizzazione del film, alla fine, è costata circa 40.000 euro. Una cifra estremamente bassa rispetto al vasto panorama delle produzioni nazionali “canoniche”, anche di quelle a “low budget”. E in questo, le nuove tecnologie digitali di riproduzione del reale hanno giocato certamente un ruolo decisivo.
E anche la distribuzione si è rivelata alternativa rispetto alle formule collaudate: sono state organizzate proiezioni ad hoc partendo dai cinecircoli e dai centri sociali fino ad arrivare alla sala cinematografica vera e propria, luogo deputato canonico e tradizionale di fruizione dell’oggetto filmico.
Grazie a questa strategia il film ha ottenuto risultati considerevoli e allo stesso tempo sorprendenti, raggiungendo una platea molto vasta di spettatori, tale da collocarlo nella top ten cinematografica nazionale per la stagione 2005/2006, segno che quando c’è un’impellenza creativa e una necessità di espressione e comunicazione si possono ottenere buoni risultati economici anche partendo da mezzi limitati.
Il film: spunti di riflessione: Le quattro vicende narrate risultano molto efficaci nel delineare quel disegno di una condizione allucinata e spaesante, quasi kafkiana, all’interno del quale “boccheggiano” i giovani oggi alla ricerca di una prima vera e concreta attività lavorativa. Illuminante e straordinariamente vera anche la citazione conclusiva che, il regista Stefano Obino attribuisce a suo padre: «Il lavoro ti vincola, perderlo non ti libera», una considerazione figlia della saggezza popolare dei nostri “padri”, che hanno lottato in passato di certo non per vedere i propri figli ridotti a un tale stato di abbandono e incertezza, senza nessuna garanzia e nessun “paracadute” nel caso di incidenti, malattie e quant’altro.
Forse delle sottotrame svolte quella più fragile pare essere la “cornice” di San(dro) Precario, morto prima del tempo e quindi vagante a cavallo tra il cielo e la terra nel tentativo di aiutare, consolare, intercedere per Dora, Marta, Franco e Maria. Più un espediente che una reale e stringente necessità narrativa.
Il film appare, comunque, nel complesso ottimamente scritto e girato, con un buona attenzione a tutti gli elementi della messa in scena: una fotografia corretta e funzionale, nonostante l’ “handicap” di partenza del digitale; attori, professionisti e non motivati e ben diretti; la macchina da presa utilizzata con discrezione e misura dal giovane e promettente Stefano Obino.
Gianluca Casadei
Il dvd del film può essere acquistato on line sul sito www.ilvangelosecondoprecario.org

MOVIMENTO
A cura della Redazione

A ciascuno di fare qualcosa davanti al Forte Lucerna

2° Camminata per la Pace “Ricordando Aldo Capitini”

Il 28 maggio 1915 (quinto giorno di guerra) l’altura sovrastante l’abitato di Luserna, dove si erge Forte Luserna, era già stata colpita da circa 5.000 proiettili, in gran parte di grosso calibro (280 mm), provenienti dai cannoni italiani di Forte Verena, Forte Campolongo e da Porta Manazzo. Il comandante del forte, il boemo Emanuel Nebesar, radunò il Consiglio di Guerra e decise la resa.
Gli italiani smisero di bombardare Forte Luserna e i soldati austriaci poterono finalmente tirare un sospiro di sollievo. Ma durò ben poco dato che, con loro grande sorpresa, il bombardamento ricominciò ancora più feroce, ma questa volta erano i forti con la loro stessa bandiera che li colpivano, ritenendo la scelta di sventolare la bandiera bianca una grave colpa da lavare con il sangue.
Arrestato il comandante, nell’arco di poche decine di ore il forte riprese la propria operatività e, con essa, ripresero anche i bombardamenti italiani…
Questo breve spaccato di storia ci è stato raccontato davanti ai resti di Forte Luserna, domenica 21 maggio, durante la 2° Camminata per la Pace “Ricordando Aldo Capitini”, lungo l’attuale Sentiero della Pace che, in Trentino, ripercorre il fronte di guerra che ha visto contrapposti austroungarici e italiani. Duecento persone hanno percorso i dieci chilometri che separano Passo Vezzena da Luserna.
Davanti ai resti del Forte Luserna abbiamo colto l’orrore e la barbarie di una guerra che vede i soldati di uno stesso colore sparare sui loro compagni perché ritenevano poco gloriosa la resa.
E’in questi posti che ci si rende conto che sono inutili le tante parole che cercano di dare una giustificazione alla guerra. La guerra non ha giustificazioni, mai.
Ma non basta dire NO ALLA GUERRA, dobbiamo cercare le alternative possibili, ed è per questo che, assieme agli amici del Forum Trentino per la Pace, abbiamo cominciato un percorso per far conoscere la figura di Aldo Capitini: letture significative di suoi scritti durante le soste della camminata. Fa uno strano effetto leggere le sue parole, ricche di amore e di speranza nei confronti dell’umanità e nella risposta nonviolenta ai conflitti, davanti ad un cimitero di guerra, ad una trincea o ad un forte. E’ molto suggestivo, ma è anche un messaggio di speranza, è voglia di portare pace dove c’è stato strazio, di portare amore dove è regnato l’odio, di dire MAI PIU’ e di porsi interrogativi su quali possibili alternative ci siano alle guerre… C’è poi molta voglia di portare un po’ di tutto questo nel cuore di ognuno, durante la nostra quotidianità. E’ cercare di rendersi conto che la guerra finirà solo se sarà ciascuno a volerlo realmente. Ecco perché domenica 21 maggio ci siamo salutati con lo sprono di Capitini: “A ciascuno di fare qualcosa”.
Massimiliano Pilati
Movimento Nonviolento – Trento

Di Fabio