• 24 Novembre 2024 13:53

Azione nonviolenta – Ottobre 2006

DiFabio

Feb 2, 2006

Azione nonviolenta ottobre 2006

– Costruiamo l’arca prima che cominci il diluvio. Analisi e proposte del movimento per la pace, di Nanni Salio
– Diagnosi, prognosi e terapia per la questione Iran, di Johan Galtung
– L’esperienza dell’Unione Europea per una pace sostenibile in Medio Oriente, di Johan Galtung
– L’acqua è un bene pubblico, non privatizzabile, un diritto umano universale. Per tutti, di Simone Grillo
– Riflessioni e proposte dopo il referendum costituzionale, di Luigi De Carlini
– Impressioni (personali) dal convegno di Calambrone, di Rainer Girardi
– L’attualità di Danilo Dolci e la progettazione dal basso trent’anni dopo la scuola sperimentale di Mirto in Sicilia, di Lorenzo Porta
– Didattica con i video di “Una forza più potente”, di Giorgio Barazza

LE RUBRICHE

– Educazione. Il teatro dell’oppresso come strumento di educazione alla pace, a cura di Pasquale Pugliese
– Disarmo. Santa Beretta proteggici tu!, a cura di Massimiliano Pilati
– Economia. La vera storia del canale di Panama, a cura di Paolo Macina
– Giovani. Qui le aquile imparano a volare e i sogni a cavalcare le stelle, a cura di Laura Corradini
– Per esempio. Dare voce ai bambini vittime della guerra civile, a cura di Maria G. Di Rienzo
– Cinema. Storia di un immigrato fra delusioni e violenze, a cura di Flavia Rizzi

Costruiamo l’Arca, primi che cominci il diluvio
Analisi e proposte del movimento per la pace

Di Nanni Salio

Il pacifismo è sempre vivo e sempre morto
Guardando il grafico elaborato da Nigel Young, ci rendiamo facilmente conto che, in una prospettiva storica, il pacifismo è sempre stato vivo e morto al tempo stesso.(Tratto da: G. Salio, Il potere della nonviolenza, EGA, Torino 1995, p.138. Il grafico si ferma alla fine degli anni ’70, ma ciò che è avvenuto dopo è sostanzialmente identico, anche se il picco del 15 febbraio 2003 è il più alto in assoluto.) Le grandi mobilitazioni contro le guerre, incipienti o in corso, non sono quasi mai riuscite a impedirle. Di certo non hanno impedito le più disastrose, anche se esistono alcuni esempi di interposizione, soprattutto di gruppi di donne, che hanno evitato scontri violenti tra fazioni opposte. Al più, come in Vietnam, ne hanno accelerato la fine, dopo che il prezzo pagato in termini di vite umane, risorse distrutte e danni economici ha raggiunto livelli non più sostenibili. Secondo alcuni commentatori, la protesta contro la guerra in Vietnam ha avuto successo quando “Wall Street è scesa in piazza”.
Siamo tutti pacifisti e “passifiste” come dicono i francesi, cioè passivi. Tutti vorremmo una pace che non richiede impegno, che viene da sé, vorremmo essere “lasciati in pace”.
E’ un’aspirazione comprensibile e persino condivisibile, ma purtroppo il mondo non è così. Bastano piccole minoranze al potere e piccole minoranze armate, per mettere a ferro e a fuoco intere regioni e in prospettiva il mondo intero. Queste minoranze, questi bulli, hanno una ideologia militarista che li sprona, sono determinati, hanno un’agenda politica precisa, che intendono realizzare costi quel che costi. Di fronte a simili avversari il puro e semplice pacifismo non basta. E tanto meno la retorica della pace e le mobilitazioni su larga scala, da “seconda potenza mondiale”, che si limitano a fare il primo passo dell’azione, quella della protesta generica di massa.
L’azione nonviolenta
Come dovrebbe essere ormai ben noto, il XX secolo non è stato solo il più violento della storia, ma anche quello nel corso del quale si sono sviluppate grandiose lotte nonviolente coronate da successo. Il progetto A force more powerful, curato dal centro di ricerca che fa capo a Gene Sharp è un utilissimo strumento per far conoscere questa storia spesso dimenticata e occultata e per trarne la debita lezione, che si applica anche ai giorni nostri (si vedano i numeri di Azione Nonviolenta, da gennaio a luglio 2006). Per sintetizzare, come sostiene Michael Nagler:
“la guerra talvolta funziona, ma non è mai efficace”
”la nonviolenza talvolta funziona, ma è sempre efficace”.
(Michael Nagler, Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Firenze 2005).
E’ di qui che dobbiamo iniziare, se non vogliamo cadere nelle faticose e spesso inconcludenti polemiche che hanno caratterizzato il dibattito sul voto pro o contro l’intervento in Afghanistan e la questione dello stato di salute del movimento per la pace.
La lezione che si può trarre dalle lotte nonviolente guidate dai grandi maestri (Gandhi, King, Mandela, Capitini) è che “ci sono alternative!”. Ma queste alternative vanno preparate per tempo, non si possono improvvisare, richiedono impegno, determinazione, chiarezza di obiettivi, risorse.
Una politica dell’azione nonviolenta
Paradossalmente, è stato meno difficile, storicamente, “abbattere un dittatore” con una lotta nonviolenta che far cambiare politica economica e militare a un governo eletto democraticamente. (Si veda a tale proposito il documentario Bringing Down A Dictator , che completa la serie di video del progetto A force more Powerful, sull’azione del movimento Otpor che ha portato alla caduta del governo Milosevic in Jugoslavia: Questione complessa e controversa, per le accuse di sostegno se non di connivenza con gruppi USA finanziati non solo da Soros ma anche dalla CIA, ma che merita comunque attenzione.) Nel primo caso l’obiettivo è chiaro, ben individuato, l’oppressione colpisce direttamente larghi settori della popolazione e pertanto favorisce la crescita di un ampio movimento di opposizione, come è avvenuto nelle lotte contro l’apartheid in Sudafrica e negli USA, o per la liberazione dell’India dal dominio inglese.
Per cambiare una politica economica o militare bisogna invece procedere per singoli obiettivi, che possono apparire minimi e non sempre raccolgono un grande consenso. Nel corso della lotta, pochi sono disposti a passare alla disobbedienza civile, pagando il prezzo che essa comporta, carcere compreso. Le bombe che cadono in Afghanistan, in Palestina, in Iraq o in Libano sono lontane da noi. Ne siamo colpiti moralmente ma non materialmente. La nostra indignazione non basta: possiamo andare tranquillamente al mare e l’azione di generica protesta verrà posticipata a dopo le vacanze.
Ben vengano comunque le grandi manifestazioni di tre milioni di persone (Roma, 15 febbraio 2003), purché poi non ci si limiti a congratularsi e ad andare “tutti a casa”. E non basta neppure esporre la bandiera della pace da tutti i balconi. Occorre alzare il livello della lotta, passando, se necessario, alla disobbedienza civile. Se i tifosi di quello squallido mercato sportivo chiamato calcio sono capaci di bloccare le linee ferroviarie in cinquantamila, senza pagare alcun prezzo e impedendo di fatto qualsiasi intervento della polizia, perché mai il movimento per la pace non è stato capace di attivarsi assediando il parlamento per impedire di inviare i nostri militari in Iraq, in spregio a qualsiasi diritto costituzionale e internazionale? Ma ci sono riusciti in Turchia, paese che non brilla certo in quanto a democrazia.
Il pacifismo e la nonviolenza “della domenica” non impediranno mai alla colossale macchina della guerra, che funziona ventiquattrore al giorno, con i nostri soldi, di entrare in azione quando un manipolo di politici e/o di militari lo decida.
Senza una chiara e condivisa politica della nonviolenza, il movimento per la pace è destinato a restare intrappolato negli happening delle manifestazioni più o meno grandi e degli slogan più o meno d’effetto. Come sostiene Galtung, il movimento per la pace, soprattutto italiano, è un movimento “estetizzante”. Può essere una bella cosa, ma non basta.
Progettare la transizione
Il movimento per la pace è un “movimento che non c’è” o, se vogliamo essere generosi, che “non c’è ancora”. Esiste invece una serie di molteplici gruppi, associazioni, comitati, che procedono in ordine sparso, promuovendo anche iniziative egregie che tuttavia non riescono a incidere a livello di decisioni politiche collettive. Qualcuno sa indicare qual è il programma del movimento per la pace, quali i suoi obiettivi concreti, non generici, sottoscritti da chi e come?
I punti nodali, intrecciati e inseparabili, sono il modello di difesa e il modello di sviluppo. Entrambi debbono essere modificati, se si vuole incidere sulle cause profonde che alimentano le guerre in corso e creano le condizioni per quelle future. Per far ciò occorre progettare sia la transizione da uno sviluppo centrato sulla crescita e su un sistema energetico non sostenibile a un modello di economia nonviolenta, equo e sostenibile, per le popolazioni odierne quanto per quelle future, basato su fonti energetiche rinnovabili, sia la transizione dall’attuale modello di difesa offensivo a un modello esclusivamente difensivo (transarmo) che consenta di sviluppare man mano la difesa popolare nonviolenta sino alla completa sostituzione del modello militare.
Ma per costruire queste alternative occorre individuare obiettivi specifici e predisporre il sistema logistico per conseguirli, ovvero passare dallo spontaneismo a una politica dal basso, partecipata, organizzata, indipendente da tutte quelle forze politiche che invece inseguono i falsi e pericolosi miti di una modernità decadente.
Concretamente, tutto ciò significa che il movimento dovrebbe concentrare le proprie modeste energie per condurre delle campagne mirate a ottenere alcuni primi obiettivi intermedi. Per esempio: riduzione delle spese militari del 5% all’anno e utilizzo dei fondi per la costruzione dei Corpi Civili di Pace, promuovendoli sia a livello italiano, sia europeo e delle Nazioni Unite. Ma i CCP non nascono da soli: richiedono scuole, corsi di formazioni, centri di ricerca. L’esperienza fallimentare del “Comitato consultivo per la difesa civile e non armata” insegna, tra le altre cose, che questi obiettivi sono scarsamente condivisi nell’ambito dei movimenti di base, compreso quello per la pace. C’è poca consapevolezza dell’importanza di una transizione a un modello alternativo. Nel dibattito parlamentare sulla questione Afghanistan quasi nessuno ha sollevato questo punto. E anche qui, molto concretamente, per rispondere a coloro che ritengono sprezzantemente che i “pacifisti”dicano solo delle “sciocchezze” occorre ribadire che per costruire una alternativa bisogna “mettere mano al portafoglio”. Bene, voi inviate i militari in Afghanistan, ma contemporaneamente vi chiediamo di stanziare 100 milioni di euro (questa sì una “sciocchezza” per il bilancio dello stato e rispetto al bilancio delle spese militari) per costruire qui e ora e non domani, dopodomani, mai, i Corpi Civili di Pace con tutti gli annessi e connessi. Altrimenti, le “sciocchezze” continuiamo a raccontarcele a vicenda.
E la stessa cosa si può dire per il modello di sviluppo. Coloro che continuano a parlare di crescita economica hanno l’obbligo morale e scientifico di dimostrare che essa è compatibile con i limiti di un pianeta finito e con l’esigenza di equità verso tutti gli esseri viventi e intergenerazionale. L’attuale sistema energetico, basato sui combustibili fossili, è arrivato al capolinea. Volenti o nolenti dobbiamo programmare al più presto una efficace transizione se non vogliamo che il sistema ci crolli addosso con una implosione catastrofica. I progetti, i centri di ricerca, le idee non mancano di certo e sono di patrimonio molto più diffuso rispetto alla questione militare che sembra bloccata sul piano mentale e ideativo. Oltre all’esempio concreto ed efficace di paesi virtuosi come la Germania e la Danimarca, si possono segnalare il progetto di legge 784 presentato l’11 luglio scorso (primo firmatario Ronchi) e più in generale la campagna per un “Contratto mondiale sull’energia e il clima”, che richiama quella lanciata anni fa per l’acqua. (Si veda il bel libricino Energia, rinnovabilità, democrazia, Edizioni Punto Rosso, Milano 2005.)
Il bicchiere è sempre mezzo pieno e mezzo vuoto. Ogni tanto è utile vedere la parte vuota per fare autocritica e individuare nuove linee di azione, ma poi occorre anche fare l’inventario delle moltissime cose che riempiono l’altra metà. E allora ci si accorge che esistono anche i militari che disobbediscono agli ordini, per ragioni di coscienza (dai refusnik israeliani agli obiettori statunitensi, vedi Courage to Resist, newsletter di sostegno degli obiettori militari, tra i quali spicca il caso del luogotenente Ehren Watada, http://www.thankyoult.org/ ); le donne come Cindy Sheenan che assediano il ranch di Bush; i ploughshares che, interpretando alla lettera la profezia di Isaia 2,4: “Muteranno le loro spade in zappe [o aratri] e le loro lance in falci; una nazione non alzerà la spada contro un’altra, e non praticheranno più la guerra”, entrano nelle basi militari per distruggere e manomettere le autentiche armi di distruzione di massa (dal nostro Tury Vaccaio ai preti e alle suore statunitensi, sulla scia dei fratelli Berrigan): la rete già esistente di Corpi Civili di Pace (www.reteccp.org ) e le molteplici lotte contro l’attuale modello distruttivo, dai no-TAV alle donne indiane del movimento contro le dighe del Narmada, a tanti altri. E ritorna la speranza, unita alla necessità di un impegno quotidiano, costruttivo, per creare fiducia, organizzazione, capacità di lottare serenamente, senza cadere nella sindrome autodistruttiva del burn out.
Conflitti
Operativamente, la nonviolenza è l’arte di trasformare costruttivamente i conflitti, dal micro al macro, intesi non come sinonimo di violenza, né tanto meno di guerra, ma come occasioni che si ripresentano incessantemente nella nostra vita, individuale e collettiva, che ci pongono di fronte a un bivio: da un lato l’opportunità di una crescita costruttiva, dall’altra la deriva verso la distruttività
Ma come tutte le arti, come tutte le buone pratiche, anche questa non viene spontaneamente da sé: bisogna coltivarla, giorno dopo giorno, passo dopo passo, rialzandosi dopo le cadute. E gli attivisti dei movimenti debbono imparare ad affrontare costruttivamente anche i conflitti interni alle proprie organizzazioni e tra le organizzazioni, oltre ai conflitti interiori, dentro ognuno di noi. Non ci sono solo avversari esterni, ma la lotta è dentro di noi. La nostra debolezza deriva anche da questa scarsa capacità di lavorare su di noi, individualmente e collettivamente. Abbiamo accumulato molta esperienza, ma non ne facciamo tesoro e continuiamo a comportarci da dilettanti, oppure ci limitiamo alle dispute filosofiche, importanti ma insufficienti.
Forse ci sono molti “scienziati per la pace”, molti “generali”, e pochi “ingegneri per la pace”, pochi “operatori per la pace”. C’è bisogno di un lavoro quotidiano, tutti i giorni, tutto il giorno, dentro strutture autogestite, che possano essere uno stimolo continuo per fare ricerca, formazione, educazione e progettare/attuare l’azione diretta nonviolenta. Ce n’è quanto basta per impegnare seriamente e concretamente tutta quanta la nostra vita, senza perderci nelle nostre nevrosi da impotenza.
Il tempo stringe
Da un lato, dobbiamo continuare a fare i “profeti di sventura”, consapevoli di quanto ci suggerisce Gunther Anders in una bella parabola:
“Noè era stanco di fare il profeta di sventura e di annunciare incessantemente una catastrofe che non arrivava e che nessuno prendeva sul serio. Un giorno, si vestì di un vecchio sacco e si sparse della cenere sul capo. Questo gesto era consentito solo a chi piangeva il proprio figlio diletto o la sposa. Vestito dell’abito della verità, attore del dolore, ritornò in città, deciso a volgere a proprio vantaggio la curiosità, la cattiveria e la superstizione degli abitanti. Ben presto ebbe radunato attorno a sé una piccola folla curiosa e le domande cominciarono ad affiorare. Gli venne chiesto se qualcuno era morto e chi era il morto. Noè rispose che erano morti in molti e, con gran divertimento di quanti lo ascoltavano, che quei morti erano loro. Quando gli fu chiesto quando si era verificata la catastrofe, egli rispose: domani. Approfittando quindi dell’attenzione e dello sgomento, Noè si erse in tutta la sua altezza e prese a parlare: dopodomani il diluvio sarà una cosa che sarà stata. E quando il diluvio sarà stato, non sarà mai esistito. Quando il diluvio avrà trascinato via tutto ciò che c’è, tutto ciò che sarà stato, sarà troppo tardi per ricordarsene, perché non ci sarà più nessuno. Allora, non ci saranno più differenze tra i morti e coloro che li piangono. Se sono venuto davanti a voi, è per invertire i tempi, è per piangere oggi i morti di domani. Dopodomani sarà troppo tardi. Dopo di che se ne tornò a casa, si sbarazzò del suo abito, della cenere che gli ricopriva il capo e andò nel suo laboratorio. A sera, un carpentiere bussò alla sua porta e gli disse: lascia che ti aiuti a costruire l’arca, perché quello che hai detto diventi falso. Più tardi, un copritetto si aggiunse ai due dicendo: piove sulle montagne, lasciate che vi aiuti, perché quello che hai detto diventi falso”.
(Citato da Jean-Pierre Dupuy, Piccola metafisica degli tsunami. Male e responsabilità nelle catastrofi del nostro tempo, Donzelli, Roma 2006, pp. 8-9.)
Ma al tempo stesso non dobbiamo lasciarci travolgere dall’ansia che, negli ultimi tempi della sua vita, ha contagiato lo stesso Anders, secondo il quale “la risposta nonviolenta è obsoleta, è inefficace perché sono fiacchissime le sue azioni rispetto alla terrificante capacità di portar morte che ha la sua controparte…” (in: Goffredo Fofi, Da pochi a pochi, Elèuthera, Milano 2006, p. 137).
Il tempo stringe e grande è la nostra responsabilità per non lasciar che le profezie negative si autoavverino. La strada da percorrere ci è stata indicata dai grandi maestri che ci hanno preceduto e dagli innumerevoli testimoni e attivisti che anche oggi operano quotidianamente nei movimenti di base. Sta a noi accelerare il passo per realizzare l’arca prima che cominci il diluvio.

Diagnosi, prognosi e terapia per la questione IRAN

Di Johan Galtung

1.Diagnosi
Vi sono ovvie analogie con la questione USA/GB verso l’Iraq, ma forse questa volta è meno ovvio che la GB interverrà o svolgerà un ruolo importante (“The Downing Street Memorandum”)
Gli scopi degli USA sembrano essere diversi, come questi nove:
cambio di regime, come nel 1953, possibilmente anche con il ristabilimento della famiglia dello Scià, sempre che gli iraniani lo accettino;
controllo politico del Medio Oriente, per paura che il controllo passi da USA/Israele a Iran- Hamas e all’Islam radicale sciita;
vendetta per i 52 ostaggi e i 444 giorni di umiliazione;
eliminare ogni minaccia iraniana al progetto politico USA/GB in Iraq;
eliminare ogni minaccia iraniana a Israele, nucleare o meno, stando alle affermazioni del presidente Ahmadinejad;
assicurarsi il flusso del petrolio iraniano a prezzi convenienti;
proteggere l’uso del dollaro contro l’euro nel mercato petrolifero;
espandere ulteriormente le basi militari per accerchiare Russia e Cina;
eliminare qualsiasi capacità nucleare iraniana.
L’ultimo obiettivo è quello ufficiale, gli altri sono nascosti. Tale obiettivo può anche essere un pretesto, ad uso dell’opinione pubblica – come la connessione armi di distruzione di massa/Al Qaeda nel caso dell’Iraq – privo di fondamento.
L’obiettivo dichiarato dell’Iran è il diritto riconosciuto dal TNP (trattato di non proliferazione) di arricchire l’uranio per scopi industriali, per esempio per diversificare le fonti energetiche. Gli obiettivi nascosti comprendono:
mai più un 1953! Sovranità, mai più umiliazione/intervento esterno;
circondato da tre potenze nucleari e altre tre, USA/Israele/Francia, che lo minacciano, è comprensibile che cerchi di dotarsi dell’opzione nucleare;
con il dollaro in caduta è comprensibile l’opzione per l’euro;
solidarietà tra sciiti e islam in un mondo diviso dall’Occidente;
un dialogo tra civilizzazioni aperto, ad alto livello con l’Occidente.
2.Prognosi
Vi è materia sufficiente per scatenare una guerra, se lo si vuole, con incursioni aeree senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza (le sanzioni economiche sono meno probabili perché colpirebbero l’Occidente più che l’Iran). Ma Bush può fare questa scelta economicamente e Blair politicamente? La risposta è probabilmente no. E le incursioni aeree possono portare a degli attacchi sul suolo USA/GB con potenti ordigni confezionati in loco e fatti esplodere a distanza. Un attacco via terra comporterebbe una resistenza tale da far apparire quella in Iraq come una festicciola; un’opportunità che qualcuno desidererebbe. La chiusura dello Stretto di Hormutz sarebbe una risposta minima.
3.Terapia
Le chiavi per vie d’uscita accettabili e sostenibili si trovano negli obiettivi nascosti, non in quelli dichiarati. Per quanto riguarda l’arricchimento dell’uranio, le ispezioni dell’IAEA potrebbero essere utili. Ma è difficile che l’Iran le accetti, quando Israele e l’India hanno effettuato l’arricchimento per scopi militari senza alcuna ispezione. A meno che gli USA invertano la loro politica nei confronti di Israele e dell’India, come fecero durante la crisi di Cuba del 1962 con la politica del “tit-for-tat” (colpo su colpo) quando ritirarono i missili dalla Turchia.
E’ indice della povertà spirituale dell’Occidente che l’ovvia via di uscita non sia percorsa: Bush-Blair che chiedono scusa per il colpo di stato compiuto da CIA-M16 nei confronti del primo ministro Mossadegh, legalmente eletto, e il sostegno durato 25 anni all’autocrazia dello Scià; e insieme costituiscono una commissione d’inchiesta per far luce su quanto avvenuto. E Bush-Blair accettano l’invito dall’ex presidente, Khatami, a un dialogo aperto, ad alto livello, utilizzando anche a tale scopo l’Alleanza delle Civilizzazioni tra Spagna-Turchia-ONU. Non è necessario sottolineare che un minimo di verità è necessaria per far luce sul passato, prima di passare pragmaticamente e apertamente a cooperare per un futuro pacifico.
Fatto questo, quasi certamente si aprirà la strada per il negoziato, compreso quale stato di Israele potrebbe essere accettato dall’Iran, come, per esempio, l’Israele del 4 giugno 1967? (Ma non l’Israele attuale).
L’onere sta all’Occidente. Solo i deboli non ammettono gli errori del passato.
Gli anglo-americani sono sufficientemente forti? O sono talmente dipendenti dalla belligeranza che preferiscono un errore ancora più grande?Titolo originale: USA & UK versus Iran: A Transcend perspective,
http://www.transnational.org/forum/meet/2006/Galtung_Iran.html
Traduzione a cura del Centro Studi Sereno Regis

L’esperienza dell’Unione Europea per una pace sostenibile in Medio Oriente

Di Johan Galtung

L’indicibile tragedia che si sta svolgendo in questa sesta guerra tra Israele e il mondo arabo dovrebbe obbligarci a focalizzare la nostra attenzione su come potrebbe essere realizzata la pace in quest’area. I punti principali sono chiari, ma sono minacciati in particolare da coloro che smettono di pensare proprio quando ve ne sarebbe più bisogno. Questi punti sono:
1.Le risoluzioni 194 e 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che chiedono il ritorno dei palestinesi e il ritiro di Israele ai confini del 1967 (prima della guerra del giugno di quell’anno).
2.La risoluzione del Consiglio Nazionale della Palestina del 15 novembre 1988, che accetta la soluzione dei due stati.
3.La proposta avanzata dall’Arabia Saudita nel 2002 che Israele si ritiri entro i confini del 1967 in cambio del riconoscimento di tutti gli stati arabi.
Applicando questi punti si otterrebbero due stati tra loro confinanti, con Gerusalemme Est e la Cisgiordania (West Bank) che ritornano alla Palestina (Israele si è già ritirata da Gaza), le alture del Golan restituite alla Siria, e qualche problema minore di confine da risolvere, talvolta attraverso aggiustamenti creativi. Nessuna grande rivoluzione, solo buon senso.
Ma ci sono anche richieste minime e massime da entrambe le parti.
La Palestina ha tre richieste minime, non negoziabili:
uno stato palestinese secondo i punti 1 e 2 precedenti, con
Gerusalemme Est capitale, e
il diritto al ritorno, inteso come diritto ma negoziabile nella quantità.
Israele ha due richieste minime, non negoziabili:
riconoscimento dello stato ebraico di Israele
entro confini sicuri.
Tutti i cinque punti sono legittimi, e compatibili. La legittimità palestinese si basa sulla continua permanenza, e quella ebrea sull’attaccamento al territorio nella loro narrazione culturale e sulla residenza nel passato. Essa non si basa sulla loro sofferenza causata per mano della Germania e dell’Europa. Ogni richiesta territoriale su questa base dovrebbe essere risolta a scapito della Germania.
Le richieste sono compatibili perché possono essere soddisfatte dalla soluzione dei due stati entro i confini del 1967, come precisato più avanti.
Ma ci sono anche degli obiettivi massimi: una Grande Israele (Eretz Israel) definita dalla Genesi, tra i due fiumi Nilo ed Eufrate (o qualcosa del genere), e da parte palestinese/musulmana/araba nessuna Israele del tutto, cancellata dalla mappa. La loro incompatibilità è ovvia. Ma sono anche illegittime. C’è più che una base di fatto per l’esistenza di una stato ebraico, anche non con tale estensione.
Quanto sono forti le richieste massime? Una delle principali conseguenze tragiche di questa guerra è che essa rafforza i massimalisti, non solo l’”odio”. Da parte israeliana alcuni considereranno i confini sicuri solo se saranno sufficientemente lontani, almeno per quanto riguarda il disarmo di chiunque sia ostile a Israele. E il loro numero cresce per ogni giorno, settimana, mese (?) di guerra. Da parte araba/musulmana alcuni penseranno che la soluzione con Israele è nessuna Israele del tutto; non c’è dubbio che anche il loro numero sta crescendo.
Le due posizioni massimaliste sono emotivamente e intellettualmente soddisfacenti, essendo semplici, facili da comprendere. E non significano altro che una guerra senza fine. Gli Arabi debbono accettare in QUALCHE modo lo stato di Israele, ma non il sovraesteso, belligerante mostro di oggi. E gli Ebrei debbono capire che il colonialismo degli insediamenti E l’occupazione E la continua espansione non porteranno mai a confini sicuri.
La strada per la sicurezza passa attraverso la pace. Non c’è una strada per la pace che passa attraverso la sicurezza nel senso di eliminare il sostegno popolare degli Hezbollah e Hamas, eletto democraticamente. Quello che forse potrebbe funzionare contro dei piccoli gruppi meno profondamente radicati non funzionerà mai oggi.
Ci saranno nuovi gruppi emergenti ogni volta. I governi possono essere comprati o minacciati sino a renderli consenzienti, ma le popolazioni no. Dietro Israele vi sono dei governi sempre più indisponibili, anche dietro il colonialismo degli insediamenti: USA, GB, Australia. Dietro la Palestina c’è il mondo Arabo e Musulmano, considerevolmente più ampio: circa 1,3 miliardi, in crescita, contro 0,3 miliardi, in diminuzione.
La posizione di pace intermedia tra le due parti dev’essere resa altrettanto affascinante. C’è il possibile punto di incontro del 1967 con piccole revisioni secondarie e l’idea di due stati con capitali in Gerusalemme, che quindi diventerebbe una confederazione di due città, Est e Ovest.
Ma ci sono ancora due richieste a cui rispondere: il bisogno di sicurezza di Israele e il diritto dei palestinesi per una qualche forma di ritorno, limitato.
Il riconoscimento dell’Arabia Saudita è una condizione necessaria ma non sufficiente per una pace positiva. Gli stati sovrani possono riconoscersi tra loro e ciononostante entrare ancora in guerra. Devono essere interconnessi tra loro in una rete di interdipendenza positiva che renda la pace sostenibile desiderabile a entrambi.
Poiché Israele vuole dei confini sicuri, perché non focalizzarsi sui paesi confinanti: Libano, Siria, la Palestina riconosciuta, Giordania ed Egitto? Immaginiamo che i cinque paesi confinanti aggiungano al riconoscimento la disponibilità a prendere in considerazione l’idea di una Comunità del Medio Oriente, sulle linee della Comunità Europea, come strumento principale per una pace sostenibile nella regione. La formula che ha funzionato per la Germania può funzionare anche per Israele.
Ci sarebbe ancora il problema del ritorno dei palestinesi, mezzo milione soltanto in Libano. E c’è il problema di alcuni settori della Cisgiordania che fanno parte della narrazione del passato di Israele. Allora, perché non scambiare gli uni con gli altri? Alcuni cantoni ebrei nella Cisgiordania sotto la sovranità palestinese in cambio di alcuni cantoni arabi sotto la sovranità israeliana? Entrambi gli stati potrebbero diventare delle federazioni invece che stati unitari che comunque sono relitti del passato.
Gli accordi non governativi di Ginevra non sono un punto di partenza perché inadeguati sui tre punti principali:
Gerusalemme Est come capitale e il diritto al ritorno non sono negoziabili;
I confini possono diventare ragionevolmente sicuri solo in una comunità di pace, come l’Unione dei Paesi Nordici, l’Unione Europea, l’ASEAN.
La soluzione di pace è affascinante per essere così ovvia.
Ma non è così ovvia per i leader occidentali e di Israele che si stanno incamminando lungo la strada del Vietnam, con Israele : Libano = USA : Vietnam. Gli USA non vinsero e si ritirarono. Lo stesso succederà a Israele. Ancora più giù, lungo la stessa strada di folle stupidità, dove ci attendono l’ 11 settembre e l’Iraq.
C’è l’idea di un Libano diviso in due parti, con forze internazionali che pacifichino un sud isolato da due mali esterni, Siria e Iran. Destinata a fallire come in Vietnam. Hezbollah è parte del Libano come i “vietcong” in Vietnam. E le armi sono facilmente disponibili.
C’è l’uccisione indiscriminata dei civili, in linea con i due punti dichiarati dal capo dell’esercito israeliano, generale Dan Halutz: bombardare dieci palazzi nel quartiere sciita di Beirut per ogni missile katyusha lanciato contro Israele, e “bombardare il Libano per riportarlo vent’anni indietro” (El Pais 28/7, Haaretz e Jerusalem Post; gli USA hanno detto: indietro all’età della pietra).
Anche Hezbollah uccide civili, ma il rapporto è di almeno 10:1. Il rapporto finale può essere vicino al famoso ordine di Hitler del 1941 di uccidere 50 civili per ogni soldato tedesco ucciso dai “terroristi” (usavano questo termine): Ridice nella Repubblica Ceca, Oradur-sur Gane in Francia, Kortelisy in Ucraina. Oggi gran parte del Libano è usato per una punizione collettiva. E per Israele le vite degli ebrei valgono molto di più di quelle arabe.
C’è l’idea ingenua che la violenza scomparirà se Hezbollah verrà disarmato, secondo le indicazioni della risoluzione 1559 dell’UNSC. Ma questa risoluzione non ha alcun senso senza la 194 e la 242. Israele non può scegliere la risoluzione che vuole, affidandosi agli USA per controllare per sempre l’ONU. E gli Hezbollah rinasceranno.
C’E’ UN CONFLITTO, IL CONFLITTO URLA PER UNA SOLUZIONE, LA SOLUZIONE E’ A PORTATA DI MANO E UN GIORNO SARA’ COSI’ OVVIA COME LA CE/UE.
Ognuno deve lavorare per una pace reale come complemento politico di un immediato cessate il fuoco umanitario. Aiutare Israele a impantanarsi nella strada del Vietnam è cieca solidarietà, non un atto di amicizia.
Gli europei debbono mettere a disposizione il talento e l’esperienza della Comunità/Unione Europea per una pace sostenibile, non per una guerra infinita e crescente. Questo è un atto di dovuta amicizia.
E Israele stessa? La prossima generazione dovrà pur mettere in discussione la saggezza del maggiore ideologo sionista, Vladimir Yabotinsky, ispiratore di Begin, Netanyahu, Sharon e ora Olmert. Per Yabotinsky c’erano solo due opzioni, in alternativa “auto-sacrificio impotente, umiliante oppure un furore militante invincibile” (Jacqueline Rose, “The Zionist imagination”, in The Nation, 26 giugno 2006, p.34).
Per Yabotinsky, gli ebrei sono stati umiliati, disonorati con la violenza, e la risposta è la militanza, la violenza. Questa visione, oltre a fare della violenza la pietra angolare dell’esistenza umana, non tiene conto della terza possibilità: negoziato, accordo, pace.
E gli Arabi, i Musulmani? Qualcosa di analogo. Ma l’Islam comprende una terza possibilità: non solo dar-al-Islam, ma anche dar-al-Harb, la Casa della Pace, la Casa della guerra, ma c’è anche dar-al-Ahd, la coesistenza con gli infedeli, possibilmente in una comunità, non troppo vicina, non troppo distante. Forse anche una Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Medio Oriente. L’attuale generazione dovrà anche elaborare quest’idea più in dettaglio, oggi.
Quando verranno queste generazioni, dove ci troveremo? Difficile dirlo. I tre punti principali per la pace sono presenti da qualche tempo, ma nulla sembra accettabile per Israele.
Non sono mai stati presenti nella mente collettiva, nello spazio pubblico. La pressione esterna non fa che confermare la rigida dicotomia di Yabotinsky. Se Israele vuole la sicurezza, la maggior parte di Israele deve volere la pace.
Questo ci lascia con i massimalisti. Il loro argomento più forte contro i moderati è “la vostra proposta non funziona”. E il contro-argomento più forte, come per l’ETA e per l’IRA, è di dimostrare che sbagliano.
(Titolo originale: “The Middle East and the EU Model as a solution”)
www.Transnational.org/forum /meet/2006/Galtung_ME.html
Traduzione a cura del Centro Studi Sereno Regis di Torino)

L’acqua è un bene pubblico, non privatizzabile, un diritto umano universale. Per tutti.

Di Simone Grillo

Il dibattito sulla dimensione dei diritti umani appassiona studenti, studiosi, attivisti e pubblica opinione da lungo tempo. La globalizzazione e l’interdipendenza hanno creato una realtà in cui le preoccupazioni dell’angolo più remoto della terra ci appaiono vicini, alle volte ci coinvolgono.
Gli strumenti a tutela dei diritti dell’uomo sono nati proprio da questa volontà di dare risposte serie ai problemi della tortura, della schiavitù, delle violenze su donne e bambini, al dramma della guerra, dalla volontà di dare una risposta a problemi globali.
Certamente, la dimensione dei diritti individuali ha ricevuto maggiori attenzioni e tutele rispetto a quella dei diritti collettivi.
Tuttavia oggi, anche nel mondo occidentale, si riscontra una sperequazione molto forte tra i diversi componenti della società: la precarietà del lavoro, la condizione dei migranti, la povertà e l’impossibilità a pagare servizi essenziali.
Quella sui diritti economici, sociali e culturali rappresenta una nuova sfida per la cultura dei diritti umani, che rischia di scontrarsi contro le scelte di politica economica e sociale dei governi, anche in quei paesi che in linea di massima rispettano i diritti civili.
Tuttavia l’ONU ha lanciato la sua sfida in materia dal 1966, anno in cui è stato proclamato il Patto sui diritti economici sociali e culturali, assieme al corrispettivo Patto sui diritti civili e politici .
Uno strumento di particolare significato, dato che il Patto giuridicamente vincola non solo tra loro gli Stati che lo firmano, ma anche il singolo Stato firmatario rispetto ai propri cittadini.
Nel complesso sistema dei diritti economici merita un’attenzione particolare il diritto umano all’acqua.
Questo diritto umano ci può apparire implicitamente già esistente, dato che nessun diritto umano può essere garantito senza questo elemento essenziale alla vita stessa di ogni uomo.
In realtà non esiste nessuno strumento internazionale di diritto cogente (cioè vincolante) che definisca il diritto all’acqua in quanto tale, preso singolarmente.
Certamente, esistono Convenzioni che hanno riconosciuto esplicitamente questo diritto (l’art. 14 della Convenzione contro ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne e l’art. 24 della Convenzione sui diritti del Fanciullo), e questi strumenti sono un contributo importantissimo, specie per il loro riferirsi a due categorie che ovunque nel mondo subiscono violenze e discriminazioni.
Oltre a ciò il diritto all’accesso a risorse idriche sufficienti è presente nelle Convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri e sui civili in tempo di guerra.
Inoltre, riconosciamo implicitamente il diritto all’acqua in una quantità si strumenti di diritto cogente, rappresentato dal diritto alla vita (articolo 6 Patto sui diritti civili) e il diritto a una quantità sufficiente di cibo (art. 11 e 12 Patto sui diritti economici).
Questi brevi cenni di diritto internazionale dei diritti umani, servono a indicare come nel tempo la questione idrica si sia fatta terribilmente seria: specie perché a tutte queste definizioni non è seguita una seria azione globale atta a garantire questo diritto.
Ovunque nel mondo l’accesso alle risorse in quantità sufficienti (l’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di 50 litri pro-capite) non è garantito, in particolare a donne e bambini. Non si sono sviluppate tecniche di irrigazione corrette (e oggi registriamo la crisi di alcune regioni dell’India, dove il dramma dello scarso raccolto spingono al suicidio molti contadini), non si riesce a rispondere con servizi opportuni alla crisi dell’inurbamento che avviene in tutto il mondo (specie in paesi come la Cina, che intanto riscontrano l’avanzare delle aree desertiche).
L’Europa non è esclusa dal problema, dato che vive la difficile stagione della privatizzazione, che in alcuni paesi ha già portato alla creazione di posizioni di dominanza sul mercato (si veda il caso di Gran Bretagna e Francia in cui sono nate le più grandi multinazionali nel settore); un rischio denunciato da più parti appare quello degli accordi tra i governi e la WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) che vanno verso la proposta di liberalizzazione del settore idrico.
La presenza delle multinazionali non ha portato giovamento in nessuna area del mondo in cui ha operato: Dal Sud Africa, al Ghana, dalla Bolivia all’India, si sono sviluppati gravi fenomeni di inquinamento delle falde, aumenti delle tariffe cui si sono accompagnati tagli alla manutenzione e licenziamenti.
Il sud del mondo ha mostrato grande maturità, con risposte della società civile caratterizzate da grande spessore democratico : in Uruguay è stato indetto un Referendum che ha sancito la volontà popolare di mantenere pubbliche le risorse idriche; in India le organizzazioni di mutuo soccorso create dalle donne hanno portato davanti alla Corte Suprema la Coca Cola che ha dovuto chiudere gli stabilimenti nel Kerala a causa dello sfruttamento insostenibile della falda. Il caso più conosciuto rimane ovviamente quello di Cochabamba, in Bolivia, dove la popolazione è arrivata a gestire autonomamente le risorse idriche sfiduciando il governo e i suoi accordi unilaterali con la WTO.
Una vittoria etica riconfermata dalla scelta della Multinazionale Bechtel di ritirare la denuncia presso gli arbitri della WTO per la disattenzione all’accordo del governo boliviano.
In Italia, la società civile ha ottenuto una vittoria altrettanto importante evitando la privatizzazione dell’ATO 2 di Napoli, portando il Consiglio Regionale a rivedere la sua scelta in materia di gestione idrica.
Questa casistica mostra una società civile estremamente matura, capace di vincere le sue battaglie in sedi istituzionali, grazie a Referendum, denuncie ai tribunali competenti, pressioni sugli ambienti governativi.
Un messaggio arrivato oggi alle massime istituzioni sopranazionali: pensiamo alla risoluzione del Parlamento Europeo del marzo scorso, in cui all’unanimità si è chiesto alla delegazione europea al World Water Forum di sancire l’acqua come bene pubblico non privatizzabile, diritto umano universale da gestire localmente ma con la supervisione ONU, che deve unificare le agenzie oggi esistenti e scrivere un Trattato ad hoc che preveda meccanismi di tutela dei diritti dei consumatori.
Altra importante presa di posizione è stata quella della Germania, paese neo eletto presso lo Human Rights Council (l’istituzione ONU di monitoraggio e tutela dei diritti umani che ha sostituito la Commissione diritti umani), che ha proposto un’azione per la promozione del diritto umano all’acqua nel 2006.
Notiamo quindi come il diritto all’acqua si stia affermando nelle scelte politiche nazionali: il governo italiano ha confermato, per bocca del ministro delle politiche sociali Ferrero, l’approvazione di una legge delega che lascia integralmente pubbliche le reti e la gestione idrica e fa slittare al 31 dicembre 2007 il termine per l’obbligo della messa a gara per la gestione del servizio).
L’ONU attraverso il General Comment n°15 del Comitato sui diritti economici, sociali e culturali (strumento che viene utilizzato con effetti persuasivi nei confronti degli stati) ha sancito per la prima volta l’esistenza di un diritto umano all’acqua.
Ecco che un utopia diventa un progetto politico e giuridico molto chiaro e delineato, coerente nel suo manifestarsi in ogni parte del mondo.
A tutto questo nessuno può più restare indifferente: la battaglia per il diritto all’acqua ha dimostrato di essere vincente, perché ritenuta da tutti come essenziale e giusta.
Un confronto che però non è ancora finito e che deve confrontarsi con le scelte del mercato, che tende a considerare quello idrico un mercato “appetibile”: l’Italia è il primo paese in Europa per consumo di acqua minerale, grazie soprattutto a una forte campagna pubblicitaria sulle sue qualità peraltro non sempre scientificamente dimostrate. Inoltre, gli esperti hanno calcolato che le dieci più importanti imprese nel settore idrico hanno conseguito un rendimento del 35% contro il 29% ottenuto dalle imprese impegnate nel settore petrolifero ed al 27% delle imprese impegnate nel settore dei “materiali di base” (rame, carta, alluminio, acciaio). Un risultato molto importante, che sembra aprire un nuovo mercato, per ora partecipato solo da poche Multinazionali.
La società civile globale deve continuare a monitorare la situazione e denunciare gli abusi. Sono ormai universalmente riconosciute alla società civile capacità politiche oltre che gestionali, quindi il loro contributo può e deve essere rilevante per una gestione sostenibile delle risorse.
La causa del diritto umano all’acqua ha già ottenuto importanti riconoscimenti: il problema resta la sua implementazione.

Riflessioni e proposte dopo il Referendum costituzionale
Cultura ed educazione contro lo strapotere mediatico

Di Luigi De Carlini

La vicenda
Indicare i valori comuni alla grande maggioranza della popolazione, i principi e le finalità principali da perseguire – valore della persona, rispetto della vita, fondamento sul lavoro, riequilibrio delle ricchezze, ripudio della guerra… – le grandi linee dell’organizzazione dello Stato, le competenze dei diversi poteri e i contropoteri per evitare che un potere prenda il sopravvento sugli altri e si cada in nuove forme di autoritarismo: questo il contenuto qualificante della nostra carta costituzionale. In genere è preferibile che una costituzione si limiti ai grandi principi, riservando i dettagli alla legge ordinaria; questi pertanto sarebbero facilmente modificabili, mentre invece una costituzione dovrebbe durare nel tempo ed essere cambiata soltanto attraverso una procedura complessa, con il consenso anche delle minoranze. Essa è infatti diversa dalle altre leggi, è la legge delle leggi, quella che detta le regole del gioco, la base della convivenza civile e del perseguimento del bene comune. Queste regole di base non sono state osservate nella complessa revisione costituzionale elaborata dal centro-destra e bocciata dal referendum costituzionale del giugno 2006.
Destava sospetti già la procedura seguita. Anche nella vicina Svizzera, patria della democrazia diretta, vige la regola di sottoporre a giudizio popolare soltanto un quesito per volta, singolo, specifico, semplice. Se i quesiti sono complessi i cittadini possono trovare difficoltà a rispondere; se molteplici, potrebbero essere favorevoli ad alcuni e contrari ad altri. Nel referendum italiano, che prevedeva la revisione di più di 50 articoli della costituzione, c’era certamente qualche aspetto positivo, ma forse usato come specchio d’allodole per nasconderne altri problematici. In ogni caso dovevano essere accettati o respinti in blocco: prendere o lasciare. Cosa in realtà interessava far passare? Anzitutto il premierato forte, sulla base di principi di efficienza aziendalistica. Oltre al potere di scegliere e cambiare i ministri a suo arbitrio, al premier veniva conferito anche quello di sciogliere le camere: una concentrazione di poteri che, oltre ad essere fonte di servilismo, cortigianeria, qualunquismo, aggressività, subordina il potere legislativo a quello esecutivo, violando il principio fondamentale della divisione dei poteri. Pure confusa, probabile fonte di infinite controversie e blocco di attività, era la divisione di competenze legislative, oggi inesistente, tra i due rami del parlamento, a loro volta intersecate con le competenze delle regioni. La legge Biagi ad es. avrebbe dovuto essere “spacchettata” in tre tronconi, ciascuno sottoposto ad un diverso procedimento di approvazione. Un’altra modifica profondamente scorretta riguarda la composizione della Corte Costituzionale, che veniva in pratica asservita alla maggioranza. Infine veniva facilitata la procedura di modifica della costituzione, in modo che ogni maggioranza avrebbe potuto confezionarla in base ai propri interessi.Esigenze di cambiamento
Quali modifiche sociali, intervenute nel sessantennio dalla sua promulgazione, possono richiedere una revisione della nostra costituzione repubblicana? È superfluo ricordare l’impatto socio politico e culturale della televisione, introdotta nei primi decenni del periodo: ha portato una spettacolarizzazione della vita, con l’esaltazione di ciò e di chi vi appare; di contro si ha il sostanziale oblio di quanto difficilmente vi trova spazio: riflessione, tradizioni, saggezza… Attraverso i film passano dalla tv importanti messaggi di ordine etico e politico, oltre che di comportamento nei confronti dei consumi. Presto imprenditori “furbi” hanno compreso l’importanza di potersi appropriare del controllo sulle reti televisive e la potenza di convinzione che vi poteva acquisire la pubblicità. Questa potenza, per inciso, è anche all’origine del degrado culturale della televisione: trasmette sempre più in funzione della pubblicità che può contenere e della massima audience di persone che la possano recepire. Così i contenuti sono sempre più frivoli e diseducativi, in un circolo vizioso. Si comprese inoltre che pubblicizzare un dentifricio o lanciare un candidato alle elezioni era la stessa cosa: bisogna tempestare la gente con quel nome, esso tornerà alla mente di chi è nella cabina elettorale e alla fine vincerà. Nella pubblicità vige anche il principio che una menzogna ripetuta 100 volte diventa verità, ripetuta 1000 volte diventa un dogma. Ecco dunque come si apre la via per una subordinazione della politica all’economia, o meglio al denaro: solo chi dispone di sostanziosi finanziamenti per intraprendere capillari campagne pubblicitarie può essere eletto. Nello stesso modo i politici devono spasmodicamente mettersi alla ricerca di finanziatori, che, ovviamente richiederanno una contropartita nell’attività politica. È evidente il rischio di una deriva plutocratica della democrazia.
Emergenza lavoro. La globalizzazione dell’economia è un’altra importante modifica, intervenuta negli ultimi decenni, che ha ulteriormente moltiplicato il potere dell’economia sulla politica. I progressi elettronici nelle comunicazioni, come internet, hanno quasi annullato le distanze geografiche. Le imprese possono rapidamente spostare i capitali per investire dove trovano maggiore convenienza, condizionando poteri politici e lavoratori col ricatto della “delocalizzazione”. Si diffondono così la disoccupazione e la precarizzazione del lavoro, alimentate anche da un altro importante fattore: la “finanziarizzazione” dell’economia: se con la speculazione finanziaria è possibile guadagnare rapidamente molti soldi, perché mai si dovrebbe investire, assumere dipendenti e impegnarsi faticosamente nelle attività produttive? Le scorciatoie dei “furbetti” hanno un importante impatto etico: danno un esempio negativo a chi invece sarebbe disposto ad impegnarsi in oneste attività tradizionali. Se davvero il nostro paese fosse “una repubblica basata sul lavoro” ben altre preoccupazioni avrebbe riservato a questa nuova emergenza sociale: un lavoro sempre più scarso e precario.
Emergenza clima. Il modello di sviluppo seguito dall’occidente è fortemente consumista, specie di energia fossile. Esso è stato adottato in tutto il mondo e di recente colossi come la Cina e l’India lo stanno percorrendo con tassi elevatissimi di crescita. Il CO2 e gli altri gas serra furono sottratti dall’atmosfera nel corso dei milioni di anni delle ere geologiche e conservati nel sottosuolo, perché il mondo diventasse abitabile per l’uomo. Oggi i fossili che li contengono vengono estratti, bruciati e i gas serra rigettati nell’atmosfera, che rischia di ritornare al clima dei dinosauri. Il rischio di raggiungere il punto di non ritorno, sempre più spesso paventato dagli scienziati, viene continuamente minimizzato da quei politici, come il presidente Bush, eletto grazie ai finanziamenti dei petrolieri. I loro interessi particolari infatti spingono ad opporsi sia a misure di contenimento, previste dal protocollo di Kyoto, sia allo sviluppo delle fonti alternative.
Emergenza etica. I brevi cenni precedenti sui problemi del lavoro e del clima lasciano intendere una paurosa carenza di etica pubblica. Un vertice di questa carenza può essere indicato quando il presidente Berlusconi si è permesso di insultare (col volgare epiteto di coglione) chi non si preoccupa soltanto dei propri interessi egoistici. Di solito quando si parla di etica si pensa subito all’etica privata, individuale: sesso, famiglia, procreazione… L’etica pubblica è quasi scomparsa dal nostro linguaggio. Non era così per i padri costituenti, appena usciti dagli orrori della guerra e della tirannia: erano animati da una forte tensione ideale, spesso maturata nella resistenza, per superare le divisioni e accingersi alla ricostruzione. Per questo la nostra costituzione è ricca di richiami ideali e preoccupazione per il bene comune. Ma come mai si è avuta questa involuzione, questo rifugiarsi nel privato? Il benessere raggiunto può essere una parziale ma insufficiente spiegazione. Bisogna rifarsi anche a modelli sociologici, economici, mediatici. Ad es. il modello del Far West, esportato in tutto il mondo dai film americani, presumeva un’indefinita disponibilità di risorse da privatizzare (terra, acqua, energia…), un uso individuale della violenza ecc. Sul piano della teoria economica, dopo il crollo del socialismo reale, si è affermata sempre più, fino ad essere considerata l’unica via possibile, l’idea liberista secondo cui il bene comune deriva automaticamente dalla ricerca del bene privato, sommata alla convinzione che quest’ultimo coincide col massimo profitto. Pertanto non si dovrebbe prestare alcuna preoccupazione per il bene comune. Ben diversa è stata nella storia la posizione di chi ha iniziato a riflettere sui problemi economici. Tra questi si può ricordare nel nostro paese la scuola dei seguaci di Francesco d’Assisi. Studiando come conciliare la povertà evangelica e l’incipiente sviluppo mercantile, teorizzarono come soluzione la “circolazione” del denaro al posto della diffusa tesaurizzazione e appunto la tensione verso il bene comune delle attività produttive (si parlava di economia civile). Anche per il bene comune viene teorizzata una sorta di circolazione, nel senso che con le attività economiche si deve dare il buon esempio di etica pubblica: esattamente il contrario di quello che avviene oggi con la speculazione e le altre attività che inquinano la convivenza civile. Anche la chiesa italiana non sembra preoccupata di questa carenza di etica pubblica, degli effetti disastrosi che in Italia e nel mondo derivano dall’appropriazione privatistica di beni comuni (acqua, aria, risorse genetiche, tradizioni…) e dall’idolatria liberista del denaro: sembra accontentarsi del “piatto di lenticchie” del finanziamento alla scuola privata e rinunciare alla funzione profetica di denunciare i grandi mali dell’umanità, come fece Francesco agli albori del capitalismo.
In definitiva da questa rapidissima analisi dei cambiamenti intervenuti durante il sessantennio della costituzione repubblicana, sembra dover anzitutto rammentare la profonda modifica negli assetti di potere. Sembra innegabile che accanto ai tre tradizionali poteri in cui si può articolare uno stato – legislativo, esecutivo e giudiziario – il sessantennio trascorso abbia visto il sorgere prepotente di un quarto super potere: quello economico-mediatico, capace, di fatto, di interferire su ogni altro potere. Può influire infatti non soltanto sui comportamenti elettorali e di consumo, ma persino sulla cultura e sull’etica corrente: la spaventosa carenza di etica pubblica, ad es., non piove dal cielo, ma è la conseguenza dell’azione capillare di questo super potere, dei modelli di vita che propone. Così vanno affrontati con priorità i problemi della prevaricazione degli interessi particolari su quelli generali, l’appropriazione o privatizzazione di beni comuni (la stessa costituzione è un bene comune e qualcuno sembra aver voluto appropriarsene), la cancellazione di ogni manifestazione o esempio di etica pubblica. Vanno affrontate le tre emergenze sopra indicate, del lavoro, del clima e soprattutto di ciò che sta alla base, cioè l’etica pubblica.Rischio persistente
Torniamo alla vicenda del tentativo di modificare la costituzione, per tracciarne un giudizio e trarne un insegnamento. I quanto meno improvvisati riformatori costituzionali del centro-destra si sono mossi in una direzione lontana, se non opposta, a quelle sopra indicate. Per quanto riguarda il problema del potere, della sua divisione, della creazione di contropoteri, la direzione è totalmente opposta. Già da tempo era stata segnalata una anomala e pericolosa concentrazione del potere nelle mani del presidente Berlusconi: il potere esecutivo, il potere legislativo, il potere mediatico e, per fortuna, soltanto parte del potere economico e di quello giudiziario. Se avesse vinto le elezioni e fossero passate le sue modifiche costituzionali – cioè se avesse potuto “investire” una quantità maggiore di risorse finanziarie e fisiche nel marketing elettorale – oggi ci troveremmo col parlamento e la Corte costituzionale totalmente al suo servizio: una vera e propria nuova forma di dittatura mediatica e plutocratica. Quello che è importante sottolineare è che quanto per fortuna non è accaduto potrebbe ripetersi presto perché permangono tutte le condizioni che già hanno portato all’orlo di questa deriva.
Che fare? Già mezzo secolo fa il filosofo Romano Guardini aveva diagnosticato nel mondo moderno la crescita sproporzionata del potere (in senso generale: sulla natura e sugli altri uomini), sostenendo che l’unica difesa radicale è la crescita dell’educazione e della cultura. Diventa estremamente necessaria una forte spinta in questa direzione, magari indicandola tra le nuove priorità costituzionali. Una maggiore educazione e cultura, infatti avrebbe anche essenziali ricadute positive in quasi tutti i settori: economia, salute, competitività, consumi, ambiente… Inoltre una nuova costituzione dovrebbe predisporre o potenziare organismi di controllo per sanzionare ogni forma di comportamento – ovunque si possa manifestare – contrario al bene comune, agli ideali e agli obiettivi della costituzione. Dovrebbe essere garantito il pluralismo culturale e una sostanziale par condicio delle diverse posizioni ideologiche. Un rigido controllo e una fortissima tassazione dovrebbero essere introdotti nella pubblicità, non appena ci si renda conto del potenziale eversivo e di violenza che contiene. Quello che timidamente si è iniziato per la pubblicità sul fumo, dovrebbe essere esteso e potenziato anche per quei consumi superflui che comportano sprechi di energia, inquinamento, effetto serra. Si dirà che simili misure ledono la libertà: ma quando si comprenderà che una libertà che viola l’interesse generale è arbitrio?

Impressioni dal Convegno di Calambrone
100 anni di Satyagraha – la forza della nonviolenza

Un secolo fa, l’11 settembre 1906, Gandhi “inventava” in Sudafrica il Satyagraha, cioè il metodo di lotta nonviolenta tramite la disobbedienza civile a una serie di leggi discriminanti nei confronti di neri e indiani immigrati.
In questa occasione il Centro Gandhi di Pisa ha invitato tutte le organizzazioni dell’area pacifista e della nonviolenza a un seminario di riflessione a Calabrone. Oltre alla data anche il luogo forse era inconsapevolmente simbolico per un seminario su pace, nonviolenza e prevenzione dei conflitti, dato che si svolgeva tra Pisa e Livorno (città storicamente rivali), a pochissimi chilometri dalla base militare statunitense di Camp Darby oltre che a pochi metri (sic!) dalla base della Folgore, le forze speciali militari di paracadutisti tra le più lontane dal mondo pacifista.
Il programma del seminario era molto ricco: si è parlato, in varie tavole rotonde, di
Bioetica e nonviolenza
Nonviolenza delle donne
Difesa popolare nonviolenta, Servizio civile e Corpi Civili di Pace
Organizzazione del potere dal basso ed economia solidale
Nonviolenza e riforma delle religioni
Giustizia, pace e verità
Future edizioni dei quaderni Satyagraha
Tra i relatori c’era la crème de la crème della nonviolenza italiana: il prof. Alberto L’Abate, Antonino Drago, padre Alex Zanotelli, il buon Rocco Altieri, Enrico Peyretti, Nanni Salio del Centro Sereno Regis, il nostro Gianni Tamino, l’on. Paolo Cacciari, il primo obiettore di coscienza Alberto Trevisan, Mao Valpiana, oltre a rappresentanti dei Berretti Bianchi, del Centro Gandhi chiaramente, redattori dei quaderni Satyagraha e tanti altri. In tutto c’erano più di 250 persone, un gran bel successo.
Io ho deciso di concentrarmi sul tema dei Corpi Civili di Pace per scoprire a che punto si era con la loro istituzione. I relatori presenti a Calambrone rappresentavano infatti una buona parte del mondo associativo che porterà avanti l’idea dei CCP, quindi l’esito del dibattito poteva essere considerato molto significativo. Il risultato è stato però piuttosto scoraggiante. Il quadro che ne è uscito è sostanzialmente di grande confusione, di una situazione in cui moltissime organizzazioni fanno azioni poco coordinate tra di loro e senza unità di intenti. Questa divisione si riflette inevitabilmente sulla forza in cui l’associazionismo dell’area pacifista e nonviolenta riesce ad incidere sul dibattito politico per l’istituzione dei CCP.
Il lato positivo è che le associazioni presenti hanno dimostrato di continuare mostrare interesse verso il dialogo interno e hanno riconosciuto la necessità – o meglio, l’estrema urgenza – di ripensare il modo di procedere per arrivare a mettere da parte molte divisioni ed agire in maniera più unita. Ma la strada da percorrere è ancora molta, moltissima, e la mia impressione è stata che si fosse sostanzialmente ancora in alto mare. A posteriori non mi meraviglia che nel dibattito sulla missione italiana in Libano non si sia fatta mai menzione a livello politico nazionale dell’eventualità di un intervento altro rispetto a quello militare tradizionale.
Ho anche avuto l’impressione che il dibattito sui CCP si svolgesse in un clima fortemente antimilitarista. Molti storcono il naso – per usare un eufemismo – appena cade la parola “militari”, cosa che considero un grave pregiudizio che limita le possibilità di azione dei futuri CCP, se nascono in questo clima. In questo senso il fatto che – come Salvatore ha illustrato – il corso per Operatori di Pace di Bolzano fosse organizzato anche in collaborazione con gli Alpini deve aver fatto correre un brivido di schifo lungo la schiena a più di un presente.
In sintesi è stato un seminario molto interessante se l’obiettivo era di trovarsi e di riflettere sulla situazione del movimento nonviolento italiano. Un’ottima occasione di ritrovo e di conoscenza reciproca, anche se forse il livello dei vari dibattiti a volte è stato un po’ da iniziati, svolti con un gergo difficilmente comprensibile a chi non fosse del ramo. A mio avviso un limite su cui il mondo pacifista e nonviolento deve riflettere se vuole evitare di fossilizzarsi sui “soliti noti” e aprirsi invece ad un dibattito più ampio, capace di coinvolgere e motivare anche la sciura casalinga di Voghera (per Sebastian: la persona comune).
Purtroppo l’incontro si è concluso senza che si riuscisse ad arrivare ad un documento programmatico comune, una sorta di sintesi sui prossimi passi da fare che dimostrasse che l’incontro è concretamente servito a chiarire le idee, soprattutto per quanto riguarda la strategia futura da seguire per i Corpi Civili di Pace. La sensazione, quindi, è stata di un fine settimana in cui si è parlato molto ma “stretto” poco.
Nota organizzativa: mi è piaciuta molto al formula seguita. Due tavole rotonde al mattino (tempi sforati ma pazienza, siamo in Italia del resto e i retorici abbondano) con 3-4 relatori sul palco e brevissimo dibattito col pubblico. I due temi venivano poi approfonditi separatamente nel pomeriggio in gruppi di lavoro tematici. Come contorno un “laboratorio maieutico” al giorno (non chiedetemi cos’è, credo una sorta di gruppo di dialogo). Addirittura una sessione di meditazione, facoltativa, la sera. Programma del sabato sera: danze popolari. Avutone sentore, Gabriel e il sottoscritto hanno seguito l’istinto e se la sono squagliata in direzione di Pisa dopo cena, evitando di essere “costretti” a insegnare balli tipici tirolesi ai presenti.

L’ attualità di Danilo Dolci e la progettazione dal basso
trent’anni dopo la Scuola sperimentale di Mirto in Sicilia

di Lorenzo Porta

La lunga esperienza di lavoro e attività che si è sviluppata attorno al Centro Studi ed Iniziative di Partinico, fondato nel 1958 da Danilo Dolci con il contributo di persone del luogo e di collaboratori sparsi in tutti i continenti era l’approdo organizzativo di una intensa stagione di lotta, cominciata nella Sicilia occidentale a Trappeto nel 1952, quel 14 ottobre in cui egli con altri comincia un digiuno nel letto di un bimbo che era appena morto per denutrizione. Fu quello un momento forte di denuncia che sollevò le coscienze e costrinse le istituzioni a muoversi per la spinta che cresceva dal basso tra i pescatori, i contadini, le donne del luogo. Il digiuno fu l’azione che diede amplificazione alle vitali esigenze di quella gente che si saldarono con la partecipazione di intellettuali critici e non proni di fronte all’apparato, personalità della società civile, qualcuno delle istituzioni, provenienti da molte parti del mondo. E così, a seguire, i digiuni che facevano emergere le condizioni dei “bassi di Palermo”, Cortile Cascino nel 1955, con la partecipazione di Alberto L’Abate e Goffredo Fofi e la crescente partecipazione di giovani intellettuali, sociologi in erba che venivano ad imparare come è possibile dotarsi di strumenti di lettura della realtà per impostare una ricerca-azione volta alla sua trasformazione partecipata. Erano gli anni della documentazione raccolta sul campo di Fare presto e bene perché si muore ( 1954), delle inchieste che danno voce ai senza voce di Banditi a Partinico (1955) e Inchiesta a Palermo ( 1957) fino agli Atti del congresso sulle iniziative nazionali e locali per la piena occupazione (1958) , cui parteciparono politici, sindacalisti, economisti, architetti di diverso orientamento.
Denunce e progetto costruttivo: diritto all’acqua e alla cultura
La caratteristica fondamentale dell’intervento di Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Franco Alasia e delle donne e gli uomini del gruppo di lavoro del Centro Studi è quella di far convivere la denuncia forte dello sfruttamento e dell’ingiustizia con la progettualità costruttiva. Il lavoro di progettazione dal basso, basato sulla lettura dei bisogni dei singoli nella collettività, e sull’organizzazione dei bisogni per la trasformazione sociale, il metodo maieutico reciproco, appunto, ha dato vita a numerose iniziative, due delle quali ancora ben visibili nella realtà della Sicilia occidentale. La progettazione della diga sul fiume Jato, un invaso di 72 milioni di metri cubi di acqua, che ha permesso l’inizio dell’irrigazione di novemila ettari irrigabili nel 1971 dopo anni di impegno dal basso e di pressione sulle istituzioni regionali e nazionali: uno dei pochi esempi del buon uso della Cassa del Mezzogiorno. Attorno a questa realizzazione si formarono numerose cooperative di piccoli coltivatori e lavoratori, ancora oggi attive, che hanno ridotto il potere ricattatorio della mafia nella distribuzione dell’acqua e del lavoro e nella riduzione in schiavitù culturale e materiale delle popolazioni locali. Queste iniziative hanno attraversato il dramma del terremoto del Belice, zona dove il Centro studi aveva già realizzato progetti di promozione sociale e culturale. Durante il terremoto Lorenzo Barbera, che proveniva da quelle zone, assunse anche in posizione autonoma dal Centro Studi di Partinico la responsabilità della conduzione delle lotte per l’utilizzo dei fondi alle zone terremotate nel corso degli anni ’70, che ebbero momenti di fortissima mobilitazione a livello nazionale.
L’altro esempio è la fondazione a Mirto (1976) nella campagna di Partinico di un Centro educativo sperimentale, che nella terminologia tradizionale corrisponde ad una scuola. Ed a trentanni dalla sua fondazione sono stato invitato a Palermo e Partinico insieme ad altri convenuti a riflettere sull’attualità della proposta educativa di Danilo Dolci. Nella scuola, divenuta statale dai primi anni ’90, il gruppo musicale coordinato da Chiara Dolci e da Amico Dolci, composto da bambini di Palermo e dintorni ci ha proposto brani musicali classici, canti corali, motivi popolari molto coivolgenti, che hanno suscitato curiosità e domande da parte dei bambini di Mirto.
Mirto è una scuola in aperta campagna, costruita con criteri innovativi nel corso della prima parte degli anni ’70. Da quella postazione vieni attratto dal punto di fuga nell’orizzonte marino del Golfo di Castellamare e capisci quanto la cura nella scelta di un luogo infonda energia a chi vi opera. La scuola voleva rispondere inizialmente al bisogno delle famiglie di contadini di affidare ad educatori i loro figli in età da nido e scuola materna. Gli educatori hanno progressivamente cercato di coinvolgere i genitori nelle scelte del Centro nel tentativo di superare la delega educativa compatibilmente con i loro tempi di lavoro e di vita.
I criteri architettonici di costruzione delle scuola si fondano sul rapporto continuo tra gli ambienti interni e la natura circostante. Infatti le aule hanno porte in uscita verso il giardino e le finestre sono all’altezza del bimbo seduto al banco proprio per stimolarlo a guardare fuori, come momento importante dell’esplorazione, l’esatto contrario della tradizionale distrazione. Anche i banchi sono costruiti per essere collegati tra loro a cerchio o ad esagono.
E’ stato costruito un anfiteatro nella roccia con una capienza di 600 posti, un’ottima acustica per spettacoli musicali e teatrali. E’ ancora lì presente, incastonato nella montagna che protegge la scuola verso nord ovest, ma non è agibile, ora, perché non ancora omologato alle vigenti leggi sulla sicurezza. Ai piccoli di età prescolare si sono aggiunti nel tempo i bimbi delle elementari e delle medie fino ai 14 anni e per lungo tempo è stata praticata l’educazione tra pari a partire dagli interessi vivi dei bambini e dei ragazzi con l’educatore che fa emergere gli interessi, collega i discorsi, aiuta a ricercare. La storia dell’esperienza di Mirto è raccontata nel libro il Ponte screpolato, (1979, Ed. Stampatori, Torino). Screpolato, il ponte, perché per arrivare alla scuola di Mirto con il pulmino bisogna attraversare un ponticino pericolante al punto che un giorno rischiano di cadere 21 bambini del Centro, due educatori e l’autista. Era il 22 marzo 1977.
Mirto chiude e riaprirà dopo un anno. E in quell’anno è un susseguirsi incessante di lotte, digiuni, petizioni, costruzioni di progetti di rifacimento della strada e del ponte, realizzati con il tradizionale metodo maieutico reciproco da tutti i membri del Centro e presentati alle autorità istituzionali. Non c’è niente da fare a Montegrano?
Se leggete nel libro la cronistoria delle iniziative messe in atto dalle famiglie per smuovere dal torpore e dalla protervia le istituzioni, per sventare le provocazioni, provenienti da componenti clerico-fasciste, appoggiate dalla mafia per gettar fango sull’iniziativa, vi domanderete dove è andato a finire lì il presunto familismo amorale, che il noto sociologo e antropologo Edward Banfield attribuiva alle classi subalterne meridionali, a partire dalla sua ricerca sul campo nella metà degli anni ’50 a Montegrano, nome fittizio che stava per Chiaromonte, un paese della Lucania. Nell’edizione del 1976, corredata di commenti a più voci, del suo libro, Le basi morali di una società arretrata ( Il Mulino, 1976) proprio Danilo Dolci, citato da Domenico De Masi nell’introduzione, ribalta le conclusioni di Banfield. Egli sostiene che non è vero che non c’è niente da fare a Montegrano e nelle tante Montegrano del sud, non è vero che c’è una immodificabile repulsione alla vità associativa. In realtà c’è molto da fare a Montegrano e lo dimostrano le risposte che hanno saputo dare le persone coinvolte nella Sicilia dove ha operato Danilo a partire da quegli anni.
Ma già Carlo Levi, ( Cristo si è fermato ad Eboli, 1946 e successive edizioni) grande sostenitore delle iniziative dolciane, (Le parole sono pietre, ed Einaudi, 1955) aveva capito nel periodo più fosco della dittatura fascista che, se quelle masse subalterne percepiscono una possibilità alternativa concreta alla vita, a cui sono condannate dall’ordine costituito, allora si accendono le energie creative e trasformative. Quando al confino di Gagliano in Lucania si era avvicinato con forte empatia ad un contadino morente per cercare di salvarlo, lui, medico che non esercitava da tempo, subito si accorge che donne e uomini del paese percepiscono nel suo sguardo una distanza abissale dallo quello sprezzante e stigmatizzante con cui i due medici del luogo e i notabili tutti li guardavano. La realtà che vediamo non è una realtà data una volta per tutte. Essa è frutto di una e molteplici interazioni. Una ricerca critica diventa azione proprio nel momento in cui il ricercatore sa di interagire con gli “oggetti” della ricerca e sottopone a riflessione il suo sguardo osservatore. Quello sguardo può essere espressione di una consapevole ricerca di un contesto mutualmente accettabile, ispirato ad obiettivi che possono avvicinare il ricercatore e le persone coinvolte. Oggi: le iniziative del Centro per lo sviluppo creativo
Come dicevo Mirto è oggi una scuola statale, nei primi anni ’90 Danilo Dolci, dopo molti anni di sperimentazione e di autogestione ( il Centro Studi ed iniziative si è trasformato intanto nell’attuale Centro per lo sviluppo creativo) decide di vendere gli edifici al Comune e di affidare l’insegnamento alla Pubblica istruzione. In questo passaggio alcune caratteristiche logistiche qualificanti della scuola e lo spirito propulsivo della fase sperimentale si sono un po’ trasformati di fronte alle contingenze. Tuttavia alcuni insegnanti del periodo autogestito sono ancora in attività.
Da quegli anni lo sforzo del nuovo Centro, fondato con la collaboratrice José Martinetti, è stato quello di diffondere nelle scuole di diverse parti del mondo, nei luoghi di lavoro, nelle università e sul territorio il metodo maieutico reciproco di costruzione progettuale dal basso. Il Centro si avvale della collaborazione di volontari in servizio civile. Con il Centro collabora il CE.S.I.E. che coinvolge giovani di molti paesi dell’Europa e dei paesi del Vicino Oriente e Nord Africa che si affacciano sul Mediterraneo in progetti di scambio culturale. Nel confronto con gli altri convenuti ci siamo chiesti come unire i nostri lavori, che avevano avuto un momento di coagulo già nel convegno pisano del febbraio–marzo scorso: “Danilo Dolci: Progettare il futuro”, in un andamento corale come le musiche che i bambini di Chiara ci hanno fatto ascoltare. Giuseppe Barone, autore di una bellissima bio-bibliografia di Dolci e su Dolci (La Forza della nonviolenza, Ed. Libreria Dante e Descartes, Napoli, 2000) ha coordinato i nostri incontri con gli studenti del Liceo-classico “Garibaldi” di Palermo, che da anni svolgono laboratori maieutici. Poi abbiamo avuto momenti di confronto con le volontarie e i volontari internazionali e nazionali che collaborano con il Centro, alla presenza del sindaco e di alcuni assessori del Comune di Partinico. Molto interessante è stata la relazione di Pasquale Beneduce dell’Università di Cassino che ci ha illustrato i rapporti di polizia su Dolci, nel corso degli anni ’50, fino alle relazioni giunte negli uffici dell’allora Ministro degli Interni, Scelba, quando era primo ministro Tambroni. Da quelle informative emerge quanto fosse grande il desiderio che Dolci si schierasse esplicitamente con i comunisti, poiché dalle sue posizioni autonome, di libero religioso, attuava programmi di socialismo sostanziale. Il meccanismo dell’etichettamento stigmatizzante non funziona e allora viene accentuato il profilo di un Dolci, più santone che uomo, strano nella scelta delle sue pratiche, i digiuni, vicino ad ambienti protestanti ( Tullio Vinay), vincitore del premio “Stalin”, ( era il premio Lenin). Elemento catalizzatore di persone e personalità da molte parti del mondo aveva favorito nel Centro quel clima di “promiscuità” con chiara allusione ai costumi sessuali. Nel processo per la pubblicazione di Banditi a Partinico verranno incriminate quelle testimonianze biografiche di giovani che comunicano le loro attività sessuali. Insomma era buona norma enfatizzare quest’aura di stranezza e ambiguità attorno al personaggio per depotenziarne il messaggio e ridurne fortemente la diffusione. La televisione entrava allora nelle case degli italiani.
Rocco Altieri, docente al Corso di Laurea di Scienze per la Pace dell’Università di Pisa ha fornito spunti sulle esperienze di scuola critica e di costruzione di pratiche non autoritarie nell’apprendimento e ha sottolineato l’attualità di Dolci soprattutto a partire dal suo metodo della partecipazione attiva e del progetto costruttivo. L’analisi del rapporto tra Aldo Capitini e Dolci troverà spazio nel suo intervento scritto che oguno dei convenuti si è impegnato a realizzare al più presto. Egli ha colto questa occasione per lanciare un’iniziativa a vasto raggio per l’11 settembre 2006, data in cui ricorre il centenario del lancio della prima campagna di disobbedienza civile organizzata da Gandhi in Sudafrica secondo linee nonviolente ( satyagraha, ovvero forza della verità, verità in azione). Tre giorni di incontro a Pisa per costruire una rete capace di far crescere l’alternativa nonviolenta.
Quanto a me ho già accennato in queste righe ai temi della ricerca-azione confrontata con la ricerca tradizionale, allo studio di Banfield e al concetto di familismo amorale. Ho presentato il lavoro che svolgo da anni con i giovani delle scuole superiori di scrittura autobiografica, ispirato al metodo maieutico reciproco. Ho cercato di mettere a fuoco analogie e differenze tra gruppi intenzionali che si pongono sul terreno della progettazione maieutica e il lavoro nelle scuole istituzionalizzate, dove la progettazione maieutica può diventare il punto di arrivo di un percorso che dal momento della scrittura individuale, riservato e svincolato da qualsiasi valutazione, giunge all’analisi dei condizionamenti principali e alle vie di trasformazione di tali condizionamenti.
Fornisco qui solo alcuni dati descrittivi sui quali ci siamo ripromessi di tornare per meglio impostare un processo di trasformazione. Evidenti sono i cambiamenti strutturali nella composizione sociale della realtà del Sud: contrazione della forza lavoro agricola negli ultimi trentanni, (dal 20% al 4,9% a livello nazionale, al Sud gli occupati nel settore sono all’8,5%, Istat, 1971-2003), aumento del terziario e riduzione dell’industria, forte presenza dei migranti stagionali in agricoltura, a tempo determinato e in situazione clandestina. Il tasso di inoccupazione (diverso dalla disoccupazione) che vede l’Italia ai livelli più alti nell’UE interessa maggiormente le donne ed è più alto al Sud. La Sicilia ha anche una presenza di aziende ad agricoltura biologica tra le più alte in Italia, ma anche una percentuale di riciclaggio dei rifiuti tra le più basse d’Italia, con affari illeciti sullo smaltimento ( ecomafie).
Sul versante scolastico è importante sottolineare al centro-sud un livello di scolarizzazione femminile in crescita e sensibilmente più alto di quello maschile, dalla fine degli anni ’90 ( per quanto riguarda l’Università) con risultati migliori sul versante femminile, ( nelle scuole superiori) ma una forte penalizzazione di queste ultime sul piano dell’entrata nel mondo del lavoro. La Sicilia è tra le ultime Regioni per allievi e per corsi di istruzione professionale nel triennio 2003-2006, mentre ha una presenza forte nei programmi avviati di alternanza scuola-lavoro nel ciclo di istruzione superiore, anche se le iniziative coinvolgono un ristretto numero di studenti ( 20.000 in tutta Italia). Forte è la richiesta di formazione tra gli adulti, al cui interno è cospicua la presenza di immigrati, la Sicilia e il Sud complessivamente vedono una presenza di corsi e di iscritti elevata quanto il Nord est dell’Italia, a cui non corrisponde una proporzionale entrata nel mercato del lavoro. Ancora alto è il tasso di bocciature al Sud e di abbandono dei percorsi scolastici.
Dai dati Eurostat (2002-2004) si evince che il 23,5 % dei ragazzi italiani tra i 18-24 anni non ha conseguito un diploma e non ha seguito corsi di studi alternativi (UE 25). Il 24 % dei ragazzi italiani di 15 anni ha problemi di lettura, un dato tra i più alti dell’Europa ( Fonte: Program for International Student Assessment, UE 11, 2003).
Danilo Dolci diceva che lo sforzo per il miglioramento dell’ambito educativo nella società è importante come lo studio della cura dei tumori.
Ci siamo anche chiesti se questa creazione di reti sociali per l’estensione della pratica maieutica nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nelle università non siano fondamentali per la ripresa di una democrazia sostanziale, che è raramente praticata nelle diverse articolazioni della società civile, anche se sale una richiesta di partecipazione da molti giovani che si vogliono riappropriare di una memoria storica attraverso esperienze concrete di incontro e di attività diretta. Le più moderne tecniche di comunicazione possono servire a rafforzare tali esperienze senza forme illusorie di partecipazione virtuale, mediatica. Ci siamo chiesti anche se questa creazione di reti sociali di porzioni di società civile organizzata, internazionalmente collegate, non abbiano in sé quei requisiti necessari per poter giungere a realizzare quell’aggiunta fondamentale di sperimentazione di forme di difesa non armata, così importanti in questo nostro tempo.
* sociologia dell’educazione alla pace – Univ. di Firenze.
Siti utili per conoscere le attività animate da D. Dolci:
www.danilodolci.toscana.it www.Danilodolci.net
Per la produzione filmica sulle attività di Dolci e del Centro: www.koinefilm.it

Una forza piu’ potente – Scheda didattica

Didattica con i video di “Una forza più potente”

Un’esperienza di apprendimento cooperativo a partire dai video sulle lotte nonviolente del ‘900
a cura di Luca Giusti
Chi ha avuto modo di leggere negli scorsi numeri della rivista gli articoli sulla serie video “Una forza più potente”, avrà forse notato alcuni tratti comuni:
la scansione temporale riportata a lato
il contesto spaziale sintetizzato in una cartina
le parole chiave ricorrenti grassettate
Tale omogeneità di impaginazione si proponeva di evidenziare i tratti comuni dietro a casi di successo, tanto più significativi alla luce della grande varietà dei contesti e dei differenti gradi di consapevolezza nell’adesione al metodo nonviolento.
India-Inghilterra
(Colonialismo)
INVASIONI
STRANIERE
Danimarca-Germania
(nazismo)
Polonia
(governo filo sovietico)
GOVERNI
AUTORITARI
Cile
(dittatura militare)
Nashville – USA
(segregazione)
DIRITTI
CIVILI
Porth Elizabeth –Sud Africa
(apartheid)
Tav. 1 Varietà di contesti…
Rimandando all’elenco di libri sul retro di copertina chi desiderasse verificare come molte delle suddette parole-chiave si trovino nei testi che hanno provato a schematizzare queste prassi, ve ne proponiamo alcune tra quelle rilevate come ricorrenti nei nostri casi:
progetto costruttivo, non cooperazione, disobbedienza civile, costruire alleanze, capacita di negoziare, rompere il fronte degli avversari, spiazzare gli avversari, mantenere l’iniziativa, costruire la comunità che resiste, mobilitazione mediatica, protezione delle vittime, consapevolezza dello sfruttamento, forme di organizzazione della lotta, leadership diffusa, preparazione personale e lavoro su di sè (formazione), pedagogia della lotta nonviolenta, disciplina nella lotta, l’organizzazione del gruppo di azione diretta nonviolenta, istruzioni per chi lotta, preparare la lotta, una west point della nonviolenza, darsi una piattaforma, governare le emozioni (rabbia), organizzare la società civile, allenarsi a governare il futuro, sopportare le sanzioni (repressione), farsi riconoscere (divise), mobilitare le terze parti, uso dei simboli, forme di spiazzamento ruolo dei produttori di coscienza (chiesa, sindacato, media), condividere visioni di futuro con avversari, cogliere le opportunità.
Tav.2 … ricorrenza delle dinamiche chiave
Forse già questi primi accenni sui contenuti possono suggerire la gran varietà di dinamiche didattiche attivabili al termine delle proiezioni; è comunque bene sottolineare il valore di questi materiali anche su un piano tecnico:
il valore documentario dei filmati, poco noti, originalissimi e capaci di avvicinare a noi movimenti lontani nello spazio e nel tempo
l’inusuale qualità video e audio, che consiglia di amplificare su grande schermo il valore emotivo dell’esperienza
Materiale suggestivo dunque, che non annoia lo spettatore ma semmai lo fa incorrere nel rischio di passività insito nel supporto audiovisivo.
E’ proprio per questo –e veniamo allo specifico dell’articolo- che abbiamo provato ad amplificare ulteriormente il grande potenziale didattico di questi materiali, sviluppando e sperimentando attività di gruppo che riconducessero le molte emozioni e domande che i video suscitano, sul piano del lavoro di gruppo in contesto scolastico e di apprendimento cooperativo per gruppi di base.
Vi proponiamo di seguito, così come li abbiamo appuntati, alcuni “fogli di lavoro” raccolti In due anni di lavoro formativo, nell’ambito dell’Istituto Sereno Regis di Torino, operando con tre principali tipologie di gruppi:
gruppi di base orientati all’azione nonviolenta
gruppi di studenti, in dinamiche d’aula
gruppi di insegnanti orientati all’uso dei materiali
1.Gruppi di base
Ecco un possibile canovaccio per stimolare la partecipazione e l’interesse dei partecipanti secondo le loro affinità:
1.Introduzione ai concetti fondamentali: violenza, nonviolenza, lotta, strategia
2.Inquadramento storico del filmato
3.Visione del filmato
4.Brainstorming sulle caratteristiche di una lotta nonviolenta
5.Distribuzione sul pavimento di 5-8 parole chiave che il filmato tratta (a cura del conduttore) integrata da parole chiave che emergono dal brainstorming
6.I partecipanti sono invitati ad avvicinarsi alla parola che più li interessa
7.Si formano così dei gruppi di affinità (da 2 a 5 persone). Se ci sono persone che non hanno trovato altri con cui condividere l’argomento, viene chiesto di avvicinarsi a qualche altro argomento con l’attenzione a mettere a fuoco la loro sensibilità nell’altro gruppo
8.A ogni gruppo viene data una scheda, per offrire un momento di confronto con studiosi che hanno affrontato l’argomento. La consegna del gruppo è di studiare la scheda e sviluppare il proprio pensiero sul tema scelto, presentandolo poi attraverso uno speaker, mettendo cura a non perdere i diversi punti di vista. Una buona fonte da cui ricavare le suddette schede è il terzo volune di Politica dell’azione nonviolenta, la dinamica di Gene Sharp, da cui segnaliamo: a) fattori che determinano l’esito delle lotte nonviolente (pagg. 311-313); b) spostare i rapporti di potere (pagg. 218-219); c) fattori che determinano l’impatto sulle terze parti (pagg. 188-189); d) affrontare il potere dell’avversario (pagg. 12-13); e) fare nascere dissenso, opposizione nel fronte dell’avversario (pagg. 191-193)
9.una volta terminate le presentazioni, viene fatta una Valutazione di fine lavoro:
– cosa significa cambiamento? (nelle relazioni, negli obiettivi, nei mezzi)
– cosa è necessario in Italia per andare in questa direzione? (quali ostacoli da superare, cosa facilita, quali sono i nostri punti di forza),
– come si giustifica il potere?
– come si delegittima?
– come si coltiva la cittadinanza attiva?
– come si costruisce un potere diffuso nella società?
-quale relazione tra sviluppo del potere popolare (people power) e la cultura della leadership, sia del punto di vista dei leader, che dei non leader?
– Come ci siamo trovati nei gruppi e tra i gruppi? Come sono praticabili e praticate alcune caratteristiche della lotta nonviolenta presenti nella vita dei gruppi? (Competenze sociali tipo: comunicazione, problem solving, processi decisionali, negoziazione, leadership diffusa).
E’ importante precisare che in tutto questo processo il conduttore è presente ma rimane sullo sfondo:
prepara le schede
verifica che tutto funzioni bene
recupera eventuali fraintendimenti
fa da garante che l’apprendimento sia massimo per ciascuno secondo le proprie necessità
Concludendo, a dimostrazione che lo spazio e il potere di cambiare è già qui e ora, nelle nostre mani, il percorso ci ha permesso di sperimentare insieme alcune fondamentali caratteristiche delle lotte nonviolente: fiducia all’altro, aiuto reciproco, organizzazione per gruppi di affinità, leadership diffusa, partecipazione di tutti secondo proprie modalità.
Alle considerazioni fin qui esposte, che rimangono valide in generale per dinamiche di apprendimento cooperativo, affianchiamo di seguito alcuni obiettivi specifici degli altri due tipi di gruppo con cui abbiamo fin qui lavorato.
2.Gruppi di studenti
a.medie inferiori: portarli a conoscenza di un’altra storia che non viene raccontata.
b.medie superiori: approfondimenti su tecniche, dinamiche e altri aspetti come:
– pratiche affini usate da realtà che non si dichiarano nonviolente (es. movimenti sindacali, delle donne)
– articolarsi dell’esperienza su diversi livelli: individuale, collettivo, politico e religioso
– differente durata degli obiettivi: breve, medio e lungo termine
– ruolo svolto dalle così dette doppie p: primato della politica, politiche di pace, people power
3.Gruppi di insegnanti
Aiutare a riportare quanto visto a temi vicini, contrastando la tendenza a “allontanarlo” (si da noi, però …):
La violenza nel contesto scolastico
Violenza/nonviolenza nelle guerre di liberazione
Nonviolenza e religioni (mussulmani, buddisti…).
Giorgio Barazza

EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Il teatro dell’oppresso come strumento di educazione alla pace

Il TdO
Il Teatro dell’Oppresso è un metodo iniziato circa 50 anni fa in Brasile e divulgato in tutto il mondo; è poi cresciuto adattandosi alle varie realtà culturali e a svariate applicazioni.
La storia del TdO è la storia di sfide di fronte a cui il suo creatore, Augusto Boal e chi lo ha seguito nel cammino, hanno dovuto adattare il metodo e inventare delle nuove tecniche e percorsi.
In sintesi l’idea centrale di questo teatro è di usare il linguaggio teatrale per conoscere e trasformare le realtà oppressive quotidiane, piccole e grandi, aiutando la liberazione collettiva nello spirito del pedagogista brasiliano Paulo Freire.
Un teatro basato sull’idea che “tutti possono fare teatro… anche gli attori…” (Augusto Boal) per dire che l’uomo “è” teatro, prima ancora di farlo, perché ha la capacità di vedersi in azione, di essere consapevole delle sue azioni e di avere coscienza di questa consapevolezza.
L’EaP
L’educazione alla pace ha avuto un grande sviluppo in Italia a seguito dei primi training nonviolenti di ispirazione nordeuropea e nordamericana, negli anni ’80; si è poi arricchita di molte sfumature psicopedagogiche e esperienze pratiche nella scuola e fuori di essa.
L’Educazione alla Pace ispirata alla nonviolenza ha lavorato sulla competenza al conflitto, sulle strategie, sulle abilità di base per gestire costruttivamente, su abilità e atteggiamenti adatti e coerenti, secondo prospettive pedagogiche, psicologiche, filosofiche e politiche diverse, ma accomunate dalla convinzione che ci si può educare a prevenire la degenerazione distruttiva dei conflitti.Un connubio interessante
Io credo che al di là dell’uso di singole tecniche, l’impianto generale di lavoro del TdO di Boal sia quanto mai attuale e utile nell’educazione alla pace, per una serie di motivi che sinteticamente cito:
1)la ricerca delle oppressioni a partire dall’analisi del quotidiano e dalla percezione individuale dei vissuti, ma svolta collettivamente, è il perno del TdO, ciò che lo differenzia da altri usi del teatro (catartici, espressivi, ideologici, ecc.). Questo approccio specifico aggiunge all’educazione alla pace una dimensione attiva nel cambiamento della realtà. Credo che per fare questo il TdO debba innestarsi con la Nonviolenza, nel senso di andare oltre la percezione del nemico diretto, per scoprire i meccanismi nascosti delle oppressioni che generano possibili conflitti.
2)L’unione del lavoro intellettuale, emotivo e corporeo rafforza le capacità di gestione dei conflitti laddove evita gli intellettualismi o gli attivismi fini a se stessi. Il TdO bilancia in vari momenti e in diverse tecniche mente, corpo ed emozione e permette un’esplorazione globale del conflitto o delle situazioni di malessere pre conflittuali. Le persone sono così più consapevoli dei diversi livelli in cui sperimentano il conflitto e dei diversi canali utilizzabili per la sua gestione.
3)La spinta ad agire per cambiare le situazioni che non ci piacciono porta i partecipanti ad affrontare prove e relazioni difficili che a volte cerchiamo di dimenticare o accantonare. Il sostegno del collettivo facilita questo, così come l’immaginare soluzioni e lo sperimentarsi in altre modalità di essere.
4)L’aspetto rituale del Teatro-Forum, una forma spettacolare in cui il pubblico interviene in scena a cercare soluzioni possibili, è un forte rituale se giocato in spazi pubblici e su conflitti reali. Esso permette alle persone di trovare un’atmosfera extra-quotidiana ma su un tema a loro vicino, di sentire aprirsi possibilità inedite di azione, la possibilità di sperimentare cambiamenti in situazione protetta dal rituale teatrale. In casi estremi, quando il conflitto vede i contendenti ambedue presenti in platea o in piazza, il rituale può essere utile a trattenere le risposte distruttive, convogliando le energie attivate nel gioco teatrale di ricerca di soluzioni. Gli attori e il conduttore (Jolly) devono essere molto competenti e capaci di contenere le fuoriuscite dal rituale, salvo non si reputi utile stravolgerlo per un obiettivo chiaro e costruttivo.
In sintesi, sia il laboratorio con un piccolo gruppo che lo spettacolo di piazza su un conflitto aperto, possono essere strumenti di educazione alla convivenza, alla pace, al rispetto reciproco, alla gestione dei conflitti. Serve per questo una formazione adeguata, soprattutto per gestire le fasi emotivamente più delicate, i passaggi più problematici.
Se ben usato il TdO apporta un valore aggiunto all’EaP e diventa uno strumento di connessione tra individuo-gruppo-società, tra mente-corpo-emozione, tra vissuto individuale e solidarietà, tra azione trasformatrice su di sé e sul mondo.
Roberto Mazzini
Per ulteriori approfondimenti consultare il sito di Giolli (www.giolli.it) e quello dell’associazione internazionale ITOO (www.theatreoftheoppressed.org).

DISARMO
A cura di Massimiliano Pilati
Santa Beretta proteggici tu !

Abito a Lavis, un Comune del Trentino di 8000 abitanti dove recentemente si è deciso di armare la polizia municipale per l’espletamento del servizio notturno.
Siamo una borgata tranquilla e, nonostante in molti ci considerino un potenziale paese dormitorio della vicinissima Trento, non ci sono, a mio giudizio, particolari problemi di criminalità.
Per questo sono rimasto basito quando, passando accanto alla bacheca degli annunci del Comune, vi ho letto che all’ordine del giorno del Consiglio Comunale del 1° giugno vi era la proposta di dotare di armi la polizia municipale per il servizio notturno. Perplesso sull’impellente necessità di dotare i nostri vigili di pistole ho svolto una breve ricerca sulla situazione delle polizie municipali nelle varie città d’Italia. Ho scoperto uno spaccato a me finora ignoto dove sembra che regni sovrana la confusione. Città di decine di migliaia di abitanti con i vigili armati solo di taccuino e penna e, al contrario, paesini di poche anime con la municipalità agguerrita di giorno e notte. Al di là di significative e non trascurabili eccezioni la tendenza appare tuttavia chiara: in tutta Italia, già da vari anni, si sta armando la Polizia Municipale.
Ho partecipato, da uditore, ai due Consigli Comunali dedicati al tema e il senso di spaesamento mi si è ulteriormente rafforzato. La discussione del primo incontro era basata esclusivamente sugli aspetti tecnici e giuridici legati al cambio del regolamento della polizia municipale, pochissime parole si sono spese sulle reali esigenze in merito. Solo un consigliere è intervenuto dicendo che ritiene ci siano anche questioni morali da tirare in ballo in questo caso. Credo che l’apice del tutto si sia toccato quando il Sindaco ha ricordato la necessità di fare in fretta altrimenti si rischiava di perdere un contributo provinciale per l’acquisto delle armi che sarebbe scaduto ad agosto. Altro acuto è stato l’intervento del Comandante della Polizia Municipale che ha parlato solo di leggi limitandosi a dire più o meno testualmente: “non serve certo che vi stia a dire perché crediamo serva armare i nostri vigili”… ma come? mi sarei aspettato grafici e studi, analisi e relazioni che dimostravano i picchi di inaudita violenza che incombono su noi poveri lavisani, mi sarei aspettato apocalittiche descrizioni delle notti brave che la delinquenza passa nel nostro borgo… no, niente di tutto ciò. Dobbiamo armare i nostri vigili perché è giusto così PUNTO!
Anche nel secondo incontro, nonostante alcune richieste della minoranza, non si sono fatte molte analisi in merito, il Sindaco ha detto che se la Provincia ha adottato il famoso Piano Provinciale della Sicurezza vuol dire che ce n’è effettivo bisogno. Con mio grande sollievo in questo secondo consiglio sono state sollevate opposizioni etiche sulla necessità di dotare di armi la polizia municipale. La sorpresa maggiore è stata però quando ho cominciato a parlarne con la gente del paese, con amici e conoscenti. Anche persone che conosco come convinte oppositrici della violenza della guerra non avevano nessuna obiezione in merito, anzi il sapere che, oltre a polizia e carabinieri, d’ora in poi anche i vigili veglieranno armati sui nostri sonni li faceva sentire più SICURI. Qualche mese fa, comodamente sdraiato su un lettino in riva al mare, sono sbiancato nel vedere che dei vigili urbani pattugliavano le spiagge ARMATI. Per difendermi da chi?? quale era il pericolo in agguato? i venditori abusivi che popolano le spiagge sono così pericolosi da meritarsi una vigilanza armata? io non scorgevo nessun pericolo e quindi non solo non mi sentivo più sicuro, ma al contrario la cosa mi inquietava.
Più ci penso e più mi rendo contro che il problema delle pistole ai vigili diventa sempre più secondario. Il problema sta forse in quello che mi hanno detto alcuni paesani: il BISOGNO DI SENTIRSI SICURI.
Poco importa se viviamo in una grande metropoli con effettivi problemi di criminalità o in un ridente e tranquillo paesino disperso per le montagne: noi non ci sentiamo sicuri, abbiamo bisogno di sapere che qualcuno ci difende, abbiamo bisogno di attaccarci MENTALMENTE a quella pistola, perché da quella arriverà la nostra salvezza…
Mi rifiuto di pensare che una Beretta, un’arma mortale, mi stia salvando dal male. Non ho molte certezze in tema di sicurezza e soprattutto non ho risposte pronte, ma sono convinto di due cose:
più armi circolano, più rischi ci sono; quando una persona ha un’arma prima o poi USERA’ quell’arma contro qualcuno e non è detto che quel qualcuno sia un criminale.
Infine un aspetto mi turba più di tutto: cosa penseremo quando, una volta armati tutti i vigili urbani d’Italia, scopriremo di non sentirci ancora abbastanza sicuri? temo la risposta perché so che significherà armare noi stessi…

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina

La vera storia del canale di Panama

Il prossimo novembre gli abitanti di Panama verranno chiamati per confermare o meno, tramite referendum, la scelta dell’attuale governo che, ad aprile scorso, ha deciso di raddoppiare il famoso canale, grazie all’apporto di capitali giapponesi, per permettere l’accesso alle navi di nuova generazione. Il piano prevede la costruzione di una nuova serie di chiuse più larghe e profonde, e l’intero progetto comporterebbe una spesa di 5 miliardi di dollari e sette anni di attività, ma la sua attuazione sembra inevitabile: molte imbarcazioni arrivano a essere il doppio più larghe delle navi “Panamax” (32,3 metri di larghezza), che sono in grado di passare tra le chiuse, ed il canale funziona già al 93% della sua capacità, registrando fino a 14.000 transiti all’anno. Nella Baia di Panama vi sono sempre almeno una decina di navi in coda.
Nell’era della globalizzazione, quando il trasporto delle merci sembra assumere un costo sempre più irrisorio, non si riesce probabilmente a percepire la portata dell’evento, ma agli inizi del secolo scorso, quando il tempo era paragonabile al valore del petrolio dei nostri giorni, gli Stati Uniti erano disposti a dichiarare guerra per molto meno.
Panama apparteneva alla Colombia quando nel 1889 l’ingegnere francese de Lesseps, il famoso costruttore del Canale di Suez, decise di provare a perforare l’istmo. Il progetto franco-colombiano non piacque però ai vicini statunitensi, che cominciarono a fomentare una strisciante guerra civile. Nel 1901 una delle fazioni in lotta chiese aiuto al governo degli Stati uniti, che accettò di intervenire in cambio della promessa di poter subentrare ai francesi nella costruzione e, soprattutto, nella gestione dell’opera ingegneristica. In breve tempo, i marines sbarcarono a Panama e, con un conflitto noto come la «guerra dei mille giorni», provocarono quasi centomila morti e gettarono la Colombia in una crisi profonda, i cui effetti si faranno sentire per decenni.
Nel novembre 1902 viene firmato l’armistizio sulla nave da guerra Wisconsin. Alla Colombia vengono offerti solo una somma iniziale di 10 milioni di dollari e appena 250.000 dollari annui di compensazione; in cambio gli Stati uniti ricevono una fascia di territorio larga 10 miglia sui due lati del canale, per costruirlo e sfruttarlo per sempre. Il canale di Panama viene inaugurato il 15 agosto 1914. Il neonato paese panamense viene governato per più di mezzo secolo da una oligarchia di famiglie ricche strettamente legate a Washington, le quali ricevono una decina di volte l’intervento americano per reprimere contestazioni e tentativi di colpi di stato: agli Usa viene infatti concesso un diritto permanente d’ingerenza negli affari interni panamensi e la possibilità d’intervenire militarmente in caso di attentati all’ordine pubblico. Questa clausola è addirittura inclusa nella Costituzione, promulgata il 20 febbraio 1904.
L’ultimo di questi golpe scaccia il dittatore Arnulfo Arias e proclama capo di stato un comandante dell’esercito molto amato dalla popolazione borghese ed operaia del paese: Omar Torrijos. In pochi anni, Torrijos riesce a costruire intorno a sè un consenso che gli permette di negoziare alla pari con il governo statunitense, favorito anche dalla coincidenza di trovare come interlocutore uno dei presidenti Usa più lungimiranti della sua storia. Nel 1977 viene firmato il trattato Carter-Torrijos che prevede il passaggio di amministrazione e proprietà della zona del canale a Panama entro il 2000. Vengono inoltre stabiliti gli smantellamenti della Scuola delle Americhe e del Centro di addestramento del Comando Meridionale Statunitense, entrambi ubicati nella zona del Canale, tristemente famosi per aver formato militarmente aspiranti dittatori sudamericani e comandanti degli squadroni della morte.
Agli osservatori internazionali sembra un risultato inaspettato, ma la storia non è ancora finita: nel 1980 viene eletto presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, e dopo l’oscura morte del presidente dell’Ecuador Roldòs, anch’esso contrario alla politica di espansione Usa, tocca a Torrijos morire in un incidente aereo il 31 luglio 1981, che la maggior parte della stampa bolla come l’ennesimo assassinio ad opera della CIA.
Partono immediatamente i tentativi di rinegoziazione del trattato di cessione del canale, che sfociano nella invasione di Panama il 20 dicembre 1989 e la conseguente estradizione in territorio statunitense del presidente Manuel Noriega, per inciso da anni a libro paga della CIA stessa ma nonostante tutto contrario a svendere il suo paese per un tozzo di pane. I 4 mila morti denunciati dalla stampa e la seguente campagna di indignazione fanno retrocedere il governo Usa, e i successivi governi panamensi, che annoverano anche la vedova di Arias e, per ultimo, il figlio di Torrijos, hanno buon gioco ad opporsi alle mire espansionistiche dello scomodo vicino: il 31 dicembre 1999 il canale viene finalmente restituito ai cittadini panamensi.

GIOVANI
A cura di Laura Corradini
Qui le aquile imparano a volare e i sogni a cavalcare le stelle

Questa è la scritta incisa su un cartello di legno che si incontra quando ormai non mancano più di dieci minuti dalla baita di Giuseppe. Alpe Sattal, Valsesia quota 2007. Dopo aver visto su internet le fotografie del paesaggio che si vedeva da qui, abbiamo deciso di partire, nonostante il tempo grigio.
C’è nebbia, ma fa un gran caldo: gli 850 metri di dislivello si fanno sentire. Quando arriviamo Giuseppe sta facendo legna. E’ molto cordiale, ci offre un tè caldo e inizia a raccontarci la storia del suo sogno. “E’ difficile ascoltarci dentro, riuscire a capire cosa vogliamo davvero. E quando l’abbiamo capito, ci vuole anche un po’ di coraggio per riuscire a seguire la nostra strada”. Così ci dice. Questo è quello che lui ha fatto. “Era il mio sogno da ragazzino”, racconta, “giocare alla baita!”. Non gli piaceva guardare la tv e l’unico cartone che gli è rimasto nel cuore è “Heidi”, la storia di quella piccola bambina che corre scalza per i prati delle Alpi, tra caprette, farfalle, acque fresche di neve sciolta e un nonno saggio ed esperto in molti lavori. Ci mostra l’album delle figurine di questa serie televisiva che ha completato da bambino. Giuseppe ha trentanove anni ed è laureato in filosofia. Terminato gli studi avrebbe potuto seguire quattro o cinque professioni, ma dentro di lui sapeva che non era quello che davvero voleva per la sua vita, che lo faceva “vibrare”. E così, anche con un certo dispiacere per i suoi genitori che si aspettavano una “sistemazione” diversa per il figlio, parte alla ricerca di una risposta più chiara che doveva venirgli da dentro. Lavora presso i rifugi, impara a fare il falegname, a fare lavori di idraulica, a isolare le case di alta montagna, a piazzare le reti lungo le strade di montagna. Impara mestieri e intanto si percorre, a piedi naturalmente, i sentieri delle Alpi da Est a Ovest, in cerca del suo luogo. E quando arriva al Sattal “sente” che questo è il suo posto. Con gli ultimi soldi, frutto della prima vita lavorativa da laureato nella ricca Como, compra la vecchia baita decadente e abbandonata. La smonta sasso per sasso, beola per beola. Oggigiorno in montagna per ristrutturare si usa l’elicottero per il trasporto dei materiali. Ma Giuseppe non se lo può permettere e così per mesi si carica tutto sulle spalle, con un solo limite: non superare i sessanta chili per volta. Oggi la sua baita è bellissima! Giuseppe mi ha mostrato l’ingegnoso sistema che ha escogitato per avere la scorta di acqua in casa. C’è una sorgente naturale vicino a casa e con un sistema di vasche, per caduta, lui ha l’acqua sia al piano terra che al piano superiore. Ha l’acqua calda grazie all’energia solare che tramite dei pannelli fornisce energia elettrica a 12volt. Per fare la doccia devi pompare l’acqua a mano, così non solo non sprechi energia, ma nemmeno l’acqua, perché esce solo se la pompi. Molti oggetti in casa sono fatti a mano da lui: i lampadari, i letti, i cucchiai, la poltrona (riscaldata!), i cucchiai e persino il rubinetto! Di notte la temperatura è scesa sotto lo zero e l’acqua del torrente si è ghiacciata, ma la casa di Giuseppe ha delle pareti così ben isolate che avevamo addirittura caldo, pur non avendo nemmeno acceso la stufa! Quando la mattina si sveglia, dal suo letto Giuseppe vede il sorgere del sole sul Monte Rosa: uno spettacolo indescrivibile! Mi ha colpito la sua attenzione in ogni piccolo dettaglio per il rispetto della natura e per la nonviolenza verso se stesso. In città, in televisione, a volte anche a scuola, sembra che tutto quello che davvero conta sia lavorare tutto il tempo, come se lavorare fosse lo scopo della vita. E lui mi ha fatto riflettere sul fatto che invece si possono fare anche altre scelte e che comunque tutte le scelte hanno dei lati difficili da sopportare. Anche la sua. Andare contro le aspettative dei tuoi genitori, passare i mesi invernali sapendo che la prima casa abitata sta a nove ore di marcia con le racchette da neve, sapere che ci saranno viaggi che forse non farai mai, che se hai qualche problema di salute te la devi cavare da solo… “Questo è il mio sogno, è quello che mi fa vibrare. Non è né migliore né peggiore di altri. Ognuno dovrebbe riuscire ad ascoltarsi. Forse qui in montagna è più facile ascoltarsi. Per questo diverse persone passano di qua e mi chiedono ospitalità.” Al CAI ci hanno insegnato che nello zaino in montagna bisogna mettere solo ciò che è importante davvero, perché si fatica in salita e lungo la strada ti accorgi presto di cosa puoi fare a meno la volta dopo. Deve essere un po’ così anche per i pensieri.
Tra le cose più belle del Sattal c’è Yago, il cagnone che fa da ottima guardia alla baita e che ha sempre tanta voglia di coccole. Spero di rivederlo presto!
Lorenzo
Per informazioni sul bed&breakfast di Giuseppe: www.alpesattal.com

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Dare voce ai bambini vittime della guerra civile

Kimmi non aveva nulla, alla fine del 1997, neppure una famiglia o un luogo dove stare, quando si presentò allo studio radiofonico “Tamburo parlante” a Monrovia, in Liberia. Solo il suo nome, i suoi 16 anni, il suo coraggio, e un’idea che bruciava dentro di lui: dare voce ai bambini del suo paese, una voce che li aiutasse a guarire dai traumi di sette anni di guerra civile. Volevano sostenerlo, chiese ai conduttori radiofonici, e far diventare questo desiderio realtà? Ben presto, Kimmi divenne il produttore di “Golden Kids News”, un programma settimanale condotto da bambini e bambine.
L’entusiastico responso del pubblico superò ogni previsione: l’innocenza ed il convincimento che voci infantili trasmettevano, tendendosi verso altri fanciulli che avevano subito enormi atrocità, nel desiderio di aiutarli, suscitavano commozione e ammirazione e stupore.
“Molto spesso”, dice Kimmi, “gli adulti credono che i bambini non abbiano delle opinioni proprie. E’ un errore. I bambini hanno le loro specifiche paure e le loro specifiche idee e preoccupazioni: se gliene si dà la possibilità, le esprimono tutte assai efficacemente.”
Il successo di “Golden Kids News” fu tale che altre agenzie chiesero di essere aiutate a produrre programmi simili. In Sierra Leone la trasmissione ebbe lo stesso titolo e la stessa fortuna, ed ogni volta che andava in onda produceva allo studio un afflusso di persone che desideravano intervenire o commentare in diretta. Otto anni più tardi, sono tredici le stazioni in Sierra Leone che trasmettono il programma, mentre esso è comparso anche in Angola, Burundi, Repubblica democratica del Congo: il 98% degli intervistati al proposito, in un sondaggio del 2004, hanno attestato che “Golden Kids News” ha cambiato le loro attitudini verso i bambini e credono fermamente che il programma contribuisca al processo di guarigione post trauma.
A varcare la soglia di “Tamburo parlante” per avere ragguagli da Kimmi e dai suoi piccoli amici reporter fu infine l’Alto Commissariato per i rifugiati dell’Onu. E venne prodotto un altro appuntamento settimanale, questa volta televisivo; da allora è possibile vedere una o uno speaker, la cui testolina è avvolta da cuffie che sembrano per contrasto grandissime, che dà l’annuncio del programma in un microfono apparentemente altrettanto sproporzionato: “Mi chiamo Brandy Crawford, e questo è Children’s World, un programma condotto da bambini feriti dalla guerra, e a loro diretto.” I reporter sono piccoli profughi, dispersi, orfani, ed ex bambini-soldati.
“Questi ultimi spesso intervistano i bambini che erano negli eserciti con loro.”, spiega Kimmi, “Fanno in modo che gli ex bambini-soldati possano spiegarsi e raccontare, affinché le loro comunità li riaccolgano.” Ma “Children’s World” è anche un fuoco d’artificio in cui si intrecciano poesie, notizie, canzoni, narrazioni e musica: tutto pensato da bimbi violati dalla guerra che ti dicono di voler ricostruire le loro vite. Ma le stanno ricostruendo anche agli adulti. Bellezza e speranza, nei loro visi e nelle loro voci. Promesse. Futuro.
Nonostante le minacce di morte ricevute dal proprio governo, Kimmi accettò nel 1998 di diventare “Ambasciatore dei bambini” per l’Unicef. Oggi sta terminando gli studi universitari. Una storia di successo? Chiediamolo a lui: “Il successo non si misura con quello che siamo stati in grado di accumulare per noi stessi, ma con quello che siamo riusciti a condividere con i compagni viaggiatori durante quel percorso, a volte duro, che è la vita.”

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Storia di un immigrato fra delusioni e violenze

Lettere dal Sahara

Regia: Vittorio de Seta
Sceneggiatura: Vittorio de Seta
Fotografia: Antonio Grambone
Montaggio: Marzia Mete
Musica: Fabio Tronco
Origine: Italia, 2006

Braccia e corpi che si agitano convulsamente nell’acqua, smorfie di dolore e sguardi misti di incredulità e orrore… sono le prime immagini di “Lettere dal Sahara”, l’ultimo lavoro cinematografico dell’ormai ottantatreenne Vittorio de Seta, presentato come Evento Speciale Fuori Concorso alla 63° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (2006).
Queste immagini, molto simili a quelle frequentemente ospitate dai servizi giornalistici dei nostri TG sugli sbarchi di immigrati, sono i primi “ricordi italiani” di Assane che, dopo aver lasciato il suo villaggio in Senegal e aver attraversato il deserto del Sahara, si vede gettare in mare da scafisti senza scrupoli insieme ad altri, tanti, troppi, compagni di sventura, assistendo impotente alla morte di un amico.
Costretto ad abbandonare gli studi di Lettere e Filosofia all’Università di Dakar a causa della necessità di trovare un lavoro per provvedere a sé e alla famiglia, Assane si era deciso a partire alla volta dell’Europa, attirato dal miraggio di trovare presto un bel lavoro e una bella casa, come raccontato nelle lettere di alcuni amici e parenti partiti prima di lui.
Ma il suo viaggio non è ancora terminato che Assane è costretto a scontarsi con una realtà molto lontana dalle sue aspettative: all’esperienza tragica della traversata in mare faranno seguito molte altre esperienze dolorose, umilianti e mortificanti, che provocheranno in lui una crisi profonda. Dopo lo sbarco in Sicilia e il salvataggio da parte delle forze di polizia, Assane è destinato al trasferimento presso uno dei centri di raccolta per clandestini del sud Italia, ma riesce a scappare e a raggiungere un parente a Villa Literno. Qui però scoprirà che la casa, per uno come lui, non assomiglia affatto a quelle descritte nelle lettere dei suoi connazionali emigrati, ma che si tratta di una baracca abbandonata e occupata abusivamente da decine di immigrati, che vivono col terrore di essere scoperti dalle forze dell’ordine e aggrediti dai picciotti del paese. Qui scoprirà che, per sopravvivere, la maggior parte dei suoi connazionali è costretta ad accettare una vita da “vu cumprà” o da bracciante stagionale sfruttato e sottopagato, una vita umiliante e disumana, precaria e senza prospettive di miglioramento. Ma Assane non ce la fa ad accettare, non si rassegna a quella vita “sempre in fuga”, non può scendere a compromessi con i suoi valori e ideali e non può rinunciare alla sua dignità. Se ne va, si rimette in cammino, cerca un’altra strada e questa strada lo porta a Prato, dove la cugina Salimata lo accoglie a braccia aperte. Salimata lavora con successo come modella, ha un bell’appartamento ed è bene integrata nella società italiana, e con lei per un attimo Assane si sente come a casa , ma solo per un attimo perché egli non sa accettare che Salimata abbia rinunciato alle sue tradizioni e alla sua religione per convivere con un italiano che non è musulmano e non è suo marito. Si rimette in cammino, sempre più confuso e disorientato. Si ritrova a Torino, dove non conosce nessuno, ma dove è accolto presto nella rete solidale dei suoi connazionali, all’interno della quale trova il modo di rendersi a sua volta prezioso e utile. Si arrangia con vari lavoretti in nero, anche in fabbrica, frequenta un corso di italiano e, finalmente, grazie all’incontro con alcuni nostri connazionali che si prendono a cuore la sua sorte, riesce ad ottenere il tanto sognato permesso di soggiorno. Le cose sembrano volgere al meglio ma ancora una volta la realtà non va a braccetto con il sogno, e Assane deve assaggiare il frutto della discriminazione razziale, della violenza, dell’intolleranza: smarrito e angosciato torna a casa, portandosi dietro cicatrici visibili e nascoste, e un pesante fardello di dubbi. Ma qui, grazie all’incontro con il suo vecchio professore di filosofia, che insiste affinché Assane vinca il suo orgoglio e racconti la sua storia, quella vera, ad un gruppo di ragazzi radunati in un villaggio, qui Assane trova di nuovo il suo posto, la sua identità, il suo valore e la sua forza, ma anche uno scopo: non cedere alla tentazione di rendere il male ricevuto, tornare da coloro coi quali ha potuto costruire dei rapporti positivi, crescere, migliorare, progredire e poi… tornare dai suoi a fare dono della sua esperienza, della sua storia, delle sue conoscenze.
Lettere dal Sahara non è il lavoro più riuscito di De Seta, e in diversi punti delude in parte lo spettatore per un eccesso di didascalismo, per una schematizzazione ed una semplificazione esasperata nella delineazione “dell’eroe buono” Assane, ma sa offrire anche momenti poetici e spunti di riflessione interessanti, come quello sul rapporto tra progresso e violenza.

Di Fabio