Azione nonviolenta dicembre 2006
– Giornalismo e nonviolenza, di Mao Valpiana
– Prigionieri per la pace. Albo d’onore 2006. Democrazie e dittature in tutto il mondo condannano chi rifiuta l’esercito, a cura della War Resisters International
– La Russia ha bisogno di pace e diritti umani, di WRI
– L’obiezione di coscienza nella Russia di Putin, di Andreas Speck
– Violenze in Cecenia e nonnismo in caserma. Carnefici e vittime, nella Federazione Russa, a cura di WRI, traduzioni di Elena Buccoliero
– Condannata a morte perchè raccontava quello che vedeva e sentiva, di Anna Politkovskaja
– Un secolo fa, il futuro, a cura di Luca Giusti
LE RUBRICHE
– Educazione. Il gioco per pensare e immaginare un altro mondo, a cura di Pasquale Pugliese
– Disarmo. Scambiare le armi con fumetti e una lotteria, a cura di Massimiliano Pilati
– Economia. Le sue armi sparano da cinquecento anni, a cura di Paolo Macina
– Giovani. Da San Francesco a Capitini, Umbria una terra di pace, a cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
– Per esempio. Il potere spirituale del bene per uscire dal buco del dolore, a cura di Maria G. Di RienzoVai
– Cinema. L’ombra del passato toglie i colori a Sarajevo, a cura di Flavia Rizzi
– Musica. Una pomata antireumatica contro la follia della guerra, a cura di Paolo Predieri
– Libri. Una difesa alternativa a quella militare, a cura di Sergio Albesano
– Lettere. Sull’immigrazione incontrollata e l’abolizione delle parate militari, a cura della Redazione
Giornalismo e nonviolenza
Di Mao Valpiana
In Russia
Ogni anno, a dicembre, la War Resisters’ International (WRI – l’Internazionale dei resistenti alla guerra, di cui il Movimento Nonviolento fa parte ed è sezione italiana) diffonde l’Albo d’onore dei prigionieri per la pace: coloro che hanno subito il carcere a causa del rifiuto dell’esercito. Scorrendo l’elenco (che pubblichiamo alle pagine 4 e 5), vediamo che, in questo, non ci sono differenze fra democrazie e dittature: gli stati non accettano che l’obiezione di coscienza metta in crisi l’istituzione militare e mini alla radice la preparazione della guerra.
La lente d’ingrandimento della WRI si sofferma quest’anno sul “caso-Russia”, al quale dedichiamo copertina e vignetta (e i servizi da pagina 6 a pagina 9). La Russia è un paese dove i diritti umani vengono regolarmente calpestati e chi si oppone apertamente all’esercito viene accusato di spionaggio militare e condannato a 15 anni di galera. E’ un paese dove chi vuole sapere la verità sulla guerra in Cecenia, viene condannato a morte, e l’esecuzione avviene per direttissima, senza processo, con un proiettile sparato in testa sotto il portone di casa. E chi accusa il presidente di essere il mandante, finisce all’altro mondo avvelenato con le radiazioni. Sembra un giallo scritto senza troppa fantasia, un film nero di spionaggio e intrighi internazionali da cinema di terza categoria, ed invece è cronaca di questi giorni. Il caro “amico Vladimir”, ospite corteggiato dei vertici G 8, è al centro di queste inquietanti vicende.
Anna Politkovskaya era una vera giornalista, innamorata del suo lavoro e professionalmente corretta. Voleva raccontare ai suoi lettori della Novaja Gazeta ciò che l’opinione pubblica non poteva venire a sapere su quello che realmente avviene in Cecenia. Le notizie “ufficiali” sono quelle filtrate dal potere militare e politico e raccontano oggi di una Cecenia “normalizzata” dietro la quale in realtà si cela il regime di quotidiana violenza, brutalità e tortura instaurato dal primo ministro ceceno Ramzan Kadyrov; un regime su cui l’Unione Europea ha sempre espresso in ogni sede preoccupazione per la situazione dei diritti dell’uomo e serie riserve sul processo politico in corso in Cecenia più volte contestato e denunciato anche dalla giornalista russa Anna Politkovskaja, colpita dall’odio di Kadyrov prima ancora delle pallottole che l’hanno uccisa. La ricerca della verità, anche attraverso un serio e meticoloso lavoro di inchiesta giornalistica, è un modo per dare parola alla nonviolenza. Per questo vogliamo onorare il lavoro svolto da Anna Politkovskaya, pubblicando il suo ultimo articolo (alle pagine 10 e 11).
In Sudafrica
Il 18 dicembre 1907 il settimanale degli indiani del Sudafrica Indian Opinion lanciava un insolito concorso a premio indetto da Mohandas K. Gandhi per dare un nome al metodo di lotta che aveva lanciato nella memorabile assemblea dell’11 settembre dell’anno precedente, di cui si è recentemente celebrato il centenario (in Italia con l’ottimo convegno di Pisa promosso dal Centro Gandhi, di cui abbiamo riferito nel numero di ottobre). Gandhi non era soddisfatto dell’espressione “resistenza passiva” con cui veniva fino ad allora definito il metodo adottato dal suo movimento. C’era bisogno di una parola nuova. Il 10 gennaio 1908 Indian Opinion pubblica la parola indicata dal vincitore del premio, shri Maganlal Gandhi: sadagraha, cioè “fermezza in una buona causa”. A Gandhi la parola piacque, ma – dice lui stesso nella sua autobiografia – “affinchè fosse più comprensibile io poi la cambiai in satyagraha, che da allora in poi è diventata comune in lingua gujarati per definire la nostra lotta”. La forza che nasce dalla verità e dall’amore, questo è il metodo satyagraha o della nonviolenza (ne parliamo da pagina 12 a pagina 17).
Dunque anche per Gandhi l’uso delle parole, attraverso la scrittura, e il giornalismo in particolare, era un modo per servire la nonviolenza.
I cento volumi dei “Collected works of Mahatma Gandhi” smentiscono infatti l’idea che Gandhi scrivesse poco. Uno dei motivi per cui ringraziava chi lo incarcerava era che le quattro pareti bianche intorno gli consentivano di provare a concentrare sui fogli ciò che aveva fatto e intuito. Raccontando di Indian Opinion, Gandhi dice: “settimana dopo settimana ho messo tutta la mia anima in quelle colonne, ho fornito l’interpretazione del satyagraha, ed ho spiegato come lo si applica (…). Ricordo che ogni parola era oggetto di meditazione e di ponderazione, non una era scritta con voluta esagerazione o semplicemente per far piacere a qualcuno (…). Il satyagraha, cioè la resistenza nonviolenta, probabilmente non si sarebbe mai realizzata senza Indian Opinion”.
Per questo pensiamo al prossimo centenario della parola scritta satyagraha, come al centenario del binomio indissolubile “giornalismo e nonviolenza”. Con l’augurio che tanti giornalisti si ispirino al loro collega Gandhi. Noi, con Azione nonviolenta, ci proviamo.
Prigionieri per la pace. Albo d’onore 2006.
Democrazie e dittature condannano chi rifiuta l’esercito
Come funziona questa lista
Per primi sono scritti i nomi dei prigionieri, in grassetto, seguiti dalla loro condanna, poi l’indirizzo del carcere in cui sono rinchiusi e infine la ragione della detenzione. Le informazioni sui paesi dove i prigionieri hanno avuto una sospensione della sentenza, o dove le sentenze sono state scontate entro quest’anno, sono in corsivo. ARMENIA
Benché in Armenia sia passata una legge sull’obiezione di coscienza nel 2004, il paese continua ad imprigionare gli obiettori di coscienza. Molti di essi rifiutano anche il servizio sostitutivo, perché è controllato dal Ministero della Difesa. Un emendamento alla legge attuale permette di perseguire questo tipo di obiettori.
Nel maggio 2006 alcuni obiettori testimoni di Geova hanno fatto ricorso alla Corte Europea per i Diritti Umani protestando una violazione del loro diritto alla obiezione di coscienza. ERITREA
Paulos Eyassu (24/09/1994—-)
Negede Teklemariam (24/09/1994—-)
Isaac Mogos (24/09/1994—-)
Aron Abraha (09/05/2001—-)
Mussie Fessehaye (Giugno 2003 —-)
Ambakom Tsegezab (Febbraio 2005 —-)
Bemnet Fessehaye (Febbraio 2005—-)
Henok Ghebru (Febbraio 2005 —-)
Sawa Prison, Eritrea
Amanuel Tesfaendrias (Marzo 2005 —-)
Wia Prison, Eritrea
Tutti i nove Testimoni di Geova sono imprigionati per obiezione di coscienza al servizio militare. Tre di essi sono in carcere dal 24 settembre 1994 e non hanno mai subito un processo per il loro “crimine”. La massima pena per obiezione di coscienza in Eritrea è di 3 anni.FINLANDIA
Nonostante la pressione dell’Unione Europea e delle altre organizzazioni internazionali, la Finlandia continua ad incarcerare gli obiettori totali e rifiuta di modificare la sua legge sul servizio civile sostitutivo secondo gli standard internazionali.
Il 16 ottobre scorso sono stati imprigionati 19 obiettori totali, ma solo 4 degli obiettori che saranno ancora in carcere il 1° di dicembre hanno dato il permesso di pubblicare il loro nome.
Kenneth Eklund
Erno Pennanen (01/08/06—17/02/07)
Helsingin tiösiirtola, PL 36, 01531
Vantaa, Finland
Santeri Lintunen
Ojoisten työsiirtola, PL 36, 01531
Vantaa, Finland
Hannu Luode (01/08/06-18/02/07)
Satakunnan vankila, Köyliön osasto,
PL42, 32701 Huittinen, Finland GRECIA
Nel 2006 la situazione in Grecia non è cambiata nonostante ampie attenzioni internazionali. Diversi obiettori di coscienza stanno aspettando il risultato del loro processo d’appello, e potrebbero essere incarcerati.ISRAELE
Israele continua a incarcerare coloro che rifiutano di arruolarsi nell’esercito israeliano, ma la consuetudine di emettere sentenze per periodi di prigionia fino a 5 settimane, ripetibili, rende impossibile prevedere chi sarà in carcere il 1° dicembre. Aggiornamenti al riguardo possono essere reperiti sul sito di War Resisters’ International, http://wri_irg.org/news/alerts.PORTO RICO
Josè Perez Gonzàlez (21519-069)
(cinque anni – uscirà il 15/07/08)
Edgefield FCI, PO box 725, Edgefield
SC 29824, USA
È stato condannato per cospirazione, danno alle proprietà federali e/o violazione agli ordini il giorno 1° maggio 2003, per aver resistito al bombardamento dei militari statunitensi, a Vieques, Porto Rico. RUSSIA
Igor Sutyagin (15 anni)
427965, Respublika Udmurtiy, g.
Sarapul; ul. Raskolnikova, 53-A, YaCh 91/5,
14 otryad; Russia
In carcere dal 27/10/1999, il 7 aprile 2004 ha ricevuto una condanna per spionaggio di informazioni militari sulle armi nucleari.COREA DEL SUD
Nel 2004 la Corte Suprema del paese e la Corte Costituzionale hanno deliberato contro il diritto all’obiezione di coscienza. Ci sono circa 1.000 obiettori di coscienza i carcere, la grande maggioranza dei quali Testimoni di Geova. Attualmente due casi verranno analizzati dal Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite.
Quest’anno ci sono state anche nuove proteste contro la ricollocazione di basi militari statunitensi in Corea del Sud, e questo ha dato luogo a numerosi arresti.
Kim Ji Tae (#201, in 05/06/06)
Pyeongtaek Gu Chee So, Dong Sak Dong 245-1
Pueongtaek, South Corea
Imprigionato per aver opposto resistenza nonviolenza alla ricollocazione di una industria bellica in vista della espansione di una base militare statunitense. Il processo continua fino al 3 novembre 2006.USA
Greg Boertje-Obed
Michael Walli
Carl Kabat O.M.I.
Burleigh County Detention Center
POB 1416, Bismarck, ND58502
È stato direttamente coinvolto in una operazione per il disarmo di missili nucleari nel Nord Dakota, il 20 giugno 2006. Una sentenza è attesa per il 4 dicembre 2006.
Helen Woodson (03231-045) (106 mesi – uscirà il 09/09/11)
FMC Carswell, Max Unit, POB 27137
Ft. Worth, TX 76127
È stata coinvolta in una protesta alla corte federale di Kansas City, nel Missouri, l’11/03/04, violando la promessa con cui era stata precedentemente rilasciata dal carcere.
Kevin McKee (40886-050) (24 mesi – uscirà il 05/11/07)
FCI Schuykill Satellite Camp, POB 670
Minersville, PA 17954
Joseph Donato (40884-050) (27 mesi, uscirà il 31/01/08)
FCI Fairton, POB 420, Fiarton,
NJ 08320
Dichiarato colpevole nel dicembre 2004 per aver rifiutato di pagare le spese militari, per ragioni religiose.
Rafil Dhafir (11921-052) (22 anni – uscirà il 26/04/22)
FCI Fairton, POB 420
Fairton, NJ 08320
Ayman Jarwan (11920-052), (18 mesi, uscirà il 25/12/06)
Dichiarati colpevoli per aver offerto aiuti umanitari e finanziari agli iracheni, in violazione delle sanzioni statunitensi, febbraio 2005.
Augustin Aguayo
US Army Confinement Facility-Europe
Mannheim, Germany
Dopo che la sua dichiarazione di obiezione è stata rifiutata, è stato dichiarato disertore, ed è stato trattenuto in Germania in attesa della risoluzione del suo caso.
Walter R. Clousing
Bldg. 1041, PSC 20140, Camp Lejeune
NC 28542
Condannato il 12 ottobre per tre mesi, per aver disertato.
Come agire
prenditi almeno un’ora e scrivi ad almeno 4 prigionieri;
organizza, con la tua associazione, la tua classe, il tuo gruppo, un luogo di incontro nella città dove proporre la corrispondenza con i prigionieri per la pace;
inscena una performance di teatro di strada, costruisci un simbolo o fai qualsiasi cosa possa attirare l’attenzione e l’interesse dei passanti.
Come inviare lettere e cartoline
manda sempre i tuoi messaggi chiusi in una busta
non dimenticare il mittente (nome e indirizzo)
sii breve e creativo: invia foto della tua vita, disegni;
dì ai prigionieri ciò che stai facendo per fermare la guerra e la sua preparazione;
non scrivere niente che potrebbe rattristare o mettere in difficoltà i prigionieri;
non aspettarti che i prigionieri rispondano alle tue lettere;
non cominciare dicendo “Sei coraggioso, io non potrei mai fare quello che ha fatto tu” …
… ricorda: il prossimo anno potresti essere tu a testimoniare la nonviolenza in un carcere
1° Dicembre – giorno dei prigionieri per la pace
La Russia ha bisogno di pace e diritti umani
La Russia è il terzo paese al mondo per il numero di giornalisti uccisi negli ultimi 15 anni. Nell’elenco la precedono solo l’Iraq e l’Algeria, due terre dilaniate dai conflitti. Un report del Comitato per la Protezione dei Giornalisti ha rilevato che, dal 1992 ad oggi, sono stati uccisi in Russia 42 giornalisti, molti di essi in uno stile che fa pensare ad una esecuzione, e la maggior parte di questi casi non sono stati ancora risolti dalle autorità.
L’ultimo assassinio è stato quello di Anna Politkovskaya una giornalista dell’opposizione la cui attenzione era concentrata sulla guerra in Cecenia, sulle violazioni dei diritti umani che le forze armate russe stanno compiendo in Cecenia, o contro i ceceni che vivono in Russia. Con questo obiettivo è andata a toccare due pilastri centrali nel potere di Putin in Russia: l’esercito, e la guerra russa contro il terrorismo ceceno.
Totalmente irrilevante?
Il presidente Putin ha espresso una dichiarazione sull’omicidio di Anna Politkovskaya solo su pressione dei giornalisti durante una sua visita in Germania. E allora ha dichiarato: “In ogni caso, il suo livello di influenza sullo sviluppo politico del paese era… irrilevante”.
Anna Politkovskaya è stata minacciata e attaccata più volte a causa del suo lavoro (vedi il suo ultimo articolo pubblicato di seguito. NdR) . Quando è stata uccisa, stava ancora lavorando su una nuova vicenda relativa alle violazioni dei diritti umani in Cecenia. C’è da crederlo che a Putin piacerebbe molto se questa storia fosse del tutto “irrilevante”.
Non solo i giornalisti
E tutto questo non riguarda soltanto i giornalisti.
Solo pochi giorni dopo l’uccisione di Anna Politkovskaya, le autorità russe hanno chiuso la Società degli Amici della Russia e della Cecenia a Nizhny Novgorod – anche in questo caso, perché stava facendo luce sulla guerra russa contro il terrorismo ceceno. Ovviamente, questo non è che un ulteriore tentativo di far tacere il dissenso, che fa seguito alla introduzione di una nuova legge sulle ONG e sulle organizzazioni della società civile. A il Guardian ha riferito che il 19 ottobre molte ONG ben note in Russia sono state costrette a interrompere le loro attività perché non si erano registrate entro il termine secondo i criteri della nuova legge. Ciò è stato dovuto a ritardi burocratici. Fino al 18 di ottobre, solo 91 ONG su 500 sono state approvate dalle autorità russe – le rimanenti devono sospendere le loro attività.
Ancora una volta, molte di queste ONG erano coinvolte in aiuti umanitari nel nord del Caucaso, in Ingushetia o altrove, spesso offrendo aiuti ai rifugiati ceceni.
Un clima di violenza
L’uccisione di giornalisti e la chiusura delle ONG e di molti gruppi della società civile sono avvenuti in un contesto di violenza crescente contro le minoranze e contro gli attivisti politici. Nel novembre 2005 due anarchici sono stati attaccati da un gruppo di fascisti a San Pietroburgo, uno dei due è morto, l’altro è rimasto gravemente ferito. Specialmente i caucasici che abitano in Russia devono affrontare regolarmente abusi e attacchi fascisti. E l’attuale escalation del conflitto tra la Russia e la Georgia – con la deportazione di centinaia di cittadini georgiani dalla Russia – non fa che aumentare le violenze razziste all’interno della società russa. Evidentemente, le cose non stanno andando poi così bene…
Andreas Speck
Prime impressioni dopo tre anni di applicazione della legge
L’obiezione di coscienza nella Russia di Putin
La legge russa sull’obiezione di coscienza è diventata esecutiva il 1° gennaio 2004, introducendo un “diritto” all’obiezione che non è in linea con gli standard internazionali e include un servizio sostitutivo 1,75 volte più lungo di quello militare.
In pratica – lasciando da parte la durata del servizio – i problemi arrivano soprattutto dall’applicazione delle procedure burocratiche. Una dichiarazione di obiezione deve essere inviata alle autorità con un anticipo di almeno 6 mesi rispetto alla chiamata alla leva.
Comunque, molti potenziali obiettori di coscienza non sono a conoscenza di queste scadenze, e gli uffici competenti spesso danno informazioni incomplete o sbagliate.
Secondo Sergey Krivenko, segretario della Coalizione di tutte le ONG Russe per un Servizio Civile Alternativo e Democratico, questi sono casi di vera e propria disinformazione consapevole da parte degli uffici; si danno apposta informazioni errate, in modo che il diritto all’obiezione di coscienza venga applicato solo a persone di fede religiosa. Comunque sia, la maggior parte degli uffici effettivamente non forniscono informazioni sul diritto all’obiezione di coscienza.
Attualmente ci sono diversi casi in cui la dichiarazione di obiezione è stata respinta perché giunta oltre la scadenza prevista, e conseguentemente gli obiettori sono stati costretti a svolgere il servizio militare. Questa parte della legge è attualmente in discussione presso la Corte Costituzionale della Federazione Russa.
Ci sono anche casi in cui l’ufficio di leva non ha trasmesso la dichiarazione di obiezione al comitato che ha il compito di accettare o negare il diritto all’obiezione.
Al di là di tutto, da quando la legge è entrata in vigore, circa 3.500 persone si sono dichiarate obiettori di coscienza. Non sono attualmente disponibili statistiche su quante di queste richieste siano state accettate o rifiutate. Comunque, circa un centinaio di persone hanno contattato delle organizzazioni per i diritti umani in Russia per farsi aiutare nel rapporto con la burocrazia, e la gran parte di questi casi hanno passato l’esame.
L’obiezione di coscienza in Russia va inquadrata nella situazione disastrosa in cui versa attualmente l’esercito russo e nel tentativo crescente tra i giovani di evitare la leva. Secondo un sondaggio del centro indipendente Levada, la volontà di servire il Paese nell’esercito era calato del 40% all’inizio del 2006. Per molti giovani il modo migliore per scegliere è evitare la leva – “comprando” un certificato medico che li dichiara inabili o ottenendo un congedo – e non fare dichiarazione di obiezione. Questo significa che il numero degli obiettori non riflette il più ampio scontento verso l’esercito russo.
Andreas Speck
I diritti umani e l’esercito russo
Carnefici e vittime. L’esercito russo calpesta i diritti umani dei suoi coscritti e del popolo ceceno. E tutti tacciono.
L’esercito russo ha davanti a sé (almeno) due problemi che hanno a che vedere con i diritti umani: dedovshchina, il nonnismo verso i nuovi coscritti, e le violazioni compiute dai militari russi in Cecenia o in altre aree di conflitto.
Dedovshchina
Nel 1988 un episodio descritto dalla Komsomol’skaia Pravda ha aperto il dibattito sul nonnismo nell’esercito: un coscritto che per molto tempo era stato vittima di abusi ha sfoderato un’arma e l’ha puntata contro un compagno, fino a uccidere otto commilitoni.
Il fenomeno del nonnismo estremo ha dato vita in Russia ad un altro fenomeno probabilmente unico: il Movimento delle Madri dei Soldati.
Per molti antimilitaristi, è difficile mettersi in relazione con questo movimento che non può essere realmente classificato come antimilitarista o pacifista, dal momento che la maggiore preoccupazione per molte di queste madri è proteggere il proprio figlio dagli atti dei commilitoni. La maggior parte del Comitato delle Madri dei Soldati promuove la professionalizzazione dell’esercito russo come risposta al problema.
In ogni caso, il Comitato è stato ed è ancora importante quando fornisce assistenza pratica a giovani che non vogliono fare il militare per paura degli atti di nonnismo estremo, e che rendono pubblici questi fatti, contribuendo a introdurre il problema della dedovshchina nell’agenda della società russa e al collasso del sistema di leva, ampliando ancora il rifiuto dell’esercito.
Nonostante l’impegno di queste madri, e a circa 20 anni di distanza dal loro inizio, le cose non sono migliorate in Russia, come dimostra il caso di Sychyov, che all’inizio di quest’anno è diventato un simbolo della brutalità della leva russa.
Secondo quanto riferito dalla Fondazione dei Diritti delle Madri, “tremila soldati in media muoiono ogni anno nell’esercito russo. […] Il 23% delle morti sono attribuite ad incidenti, il 16% a operazioni militari, il 15% ad azioni aggressive da parte di altri soldati e l’11% a malattia. Inoltre, nel 17% dei casi i soldati morti erano figli unici, e il 14% dei genitori che hanno perso il figlio nell’esercito erano persone disabili. I genitori di un soldato che muore nell’esercito percepisce una pensione di 70 dollari al mese, ma solo se può dimostrare che la morte non va addebitata a suicidio o a malattia. In aggiunta, le indagini spesso non prendono in considerazione che la maggior parte dei suicidi sono arrivati a questo atto dopo giorni e giorni di umiliazioni, minacce e torture brutali. Secondo Veronica Marchenko, l’ultimo anno è stato caratterizzato da omicidi insolitamente crudeli e da molti casi criminali”.
L’esercito russo sta rispondendo abbreviando il tempo della leva (diventerà di un anno dal 2008 in avanti) e incrementando la componente professionale. È comunque improbabile che questo eliminerà il problema, se non si aggiungeranno interventi strutturali.
La Cecenia
La Cecenia è l’altra faccia dei problemi che assillano l’esercito russo: la violazione sistematica dei diritti umani dei civili ceceni da parte delle forze armate. E queste pratiche stanno aumentando ed ampliandosi alla vicina Ingushetia. Amnesty International scrive: “Continue e serie violazioni dei diritti umani, inclusi crimini di guerra, vengono commessi in Cecenia sia dai ceceni sia dalle forze federali. Le forze di sicurezza cecene sono sempre più implicate in detenzioni senza processo, torture e “sparizioni”. Le donne soffrono atti di violenza di genere, compreso lo stupro o il tentativo di stupro da membri dell’esercito russo o delle forze di sicurezza cecene. Ci sono anche le prove che i gruppi ceceni di opposizione armata continuano a commettere crimini di guerra, inclusi gli attacchi diretti sui civili. Amnesty International è al corrente di due soli processi avvenuti nel 2005 per serie violazioni dei diritti umani commesse in Cecenia. La maggior parte delle indagini al riguardo non vengono portate a termine e nei pochi casi in cui si arriva ad un processo questo viene insabbiato”.
“Violenze sono state testimoniante in altre repubbliche del Caucaso settentrionale, confatti quali detenzione arbitraria, tortura, “sparizioni” e rapimenti. Il 13 ottobre 2005 un gruppo di 300 uomini armati hanno sferrato attacchi contro le sedi governative dentro e vicino a Nalchik, la capitale del Kabardino-Balkaria, in cui più di 100 persone (inclusi almeno 12 civili) sono state uccise.
L’attacco sarebbe stato una risposta a mesi di persecuzione in questa regione praticata dalle forze governative verso i musulmani praticanti, con detenzioni arbitrarie, torture e chiusura delle moschee. In seguito alle violenze a Nalchik i militari federali hanno incarcerato dozzine di persone; molte di esse sono state torturate”.
Mentre la Corte Europea per i Diritti Umani procede contro la Russia per la scomparsa e la morte di cittadini ceceni, nel febbraio e nell’ottobre 2006, la situazione non sembra migliorare. Nel primo procedimento che ha avuto luogo in febbraio, la Corte Europea prima ha riconosciuto la Russia colpevole di serie violazioni dei diritti dell’uomo, con un uso sproporzionato della forza nelle operazioni militari e un attacco indiscriminato contro i civili, e poi non ha indagato nel modo dovuto sulle morti dei civili.
Un movimento contro la guerra?
Dopo quanto abbiamo detto sulla dedovshchina nell’esercito russo e sulla guerra in Cecenia, in Russia non c’è un movimento contro la guerra di cui parlare. Pochi, piccoli gruppi – qualche Comitato di Madri dei Soldati, Azione Autonoma, Memoriale e pochi altri – lavorano più o meno isolati gli uni dagli altri contro la guerra della Russia contro il terrorismo ceceno. Molti attivisti russi ripongono le loro speranze nell’Europa e nelle istituzioni internazionali, e fanno appello ad esse perché fermino la guerra in Cecenia.
Ma è difficile che accada, specialmente finché non ci sarà una opposizione pubblica alla guerra all’interno della stessa Russia.
Andreas Speck
Per saperne di più
Autonomous Action: www.avtonom.org
Memorial: www.memo.ru
Soldiers’ Mothers’ Committees: http://www.ucsmr.ru
Condannata a morte perché raccontava quello che vedeva e sentiva
Il Cremino non vuole che si sappia la verità sulla Cecenia
Il 7 ottobre 2006 è stata uccisa a colpi di pistola fuori dal suo appartamento a Mosca. Anna Politkovskaya era “solo” una giornalista indipendente che svolgeva il lavoro con coraggio e coscienza. Raccontava la violenza del potere usando la parola, che è la forza della nonviolenza.
Per renderle l’onore che merita, pubblichiamo uno dei suoi ultimi articoli, nel quale lei stessa individua i mandanti del suo assassinio.
Sono un paria. Questo è il risultato principale del mio lavoro giornalistico negli anni della seconda guerra cecena e dell’aver pubblicato all’estero alcuni libri sulla vita in Russia e sulla guerra cecena. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle riunioni alle quali siano presenti personalità del Cremlino, perché non pensino che gli organizzatori covano simpatie nei miei confronti. Nonostante questo, tutti i più alti rappresentanti del governo mi parlano, se interpellati, quando scrivo i miei articoli o faccio delle inchieste, ma solo segretamente, dove non possono essere visti: all’aperto, in qualche piazza, in case sicure alle quali arriviamo prendendo strade diverse, come spie. Agli alti dirigenti piace parlare con me. Sono felici di darmi delle informazioni. Mi incontrano e mi raccontano quello che succede ai vertici. Ma solo in segreto.
A questo non ci si abitua, ma si impara a conviverci. È esattamente così che ho dovuto lavorare durante la seconda guerra cecena. Mi nascondevo dall’esercito federale russo, ma ero sempre in grado di entrare in contatto clandestinamente con le singole persone attraverso intermediari di fiducia, così che i miei informatori non corressero il rischio di essere denunciati ai generali.
Quando il progetto di cecenizzazione di Putin ebbe successo (facendo sì che i ceceni “buoni” leali al governo uccidessero quelli “cattivi” che vi si opponevano), ricorsi allo stesso sotterfugio per parlare con gli ufficiali ceceni “buoni”, che naturalmente conoscevo da molto tempo e che prima di diventare “buoni” mi avevano accolto nelle loro case nei mesi più difficili della guerra. Adesso possiamo incontrarci solo clandestinamente perché sono un paria, un nemico. Anzi, un nemico incorreggibile che non si presta a essere rieducato.
Non sto scherzando. Tempo fa Vladislav Surkov, vice presidente dell’amministrazione presidenziale, ha spiegato che esistono dei nemici che possono essere ricondotti alla ragione e nemici incorreggibili con i quali ragionare è impossibile e che devono essere semplicemente “epurati” dall’arena politica.
E così stanno cercando di togliere di mezzo me e altri come me.
Il 5 agosto del 2006 mi trovavo in mezzo a una folla di donne nella piccola piazza di Kurcaloj, un polveroso villaggio ceceno. Indossavo sulla testa una sciarpa ripiegata e annodata come fanno molte donne della mia età in Cecenia, senza coprire completamente il capo ma anche senza lasciarlo scoperto. Era essenziale che mantenessi l’anonimato, altrimenti chissà cosa sarebbe successo.
Su un lato della piazza, sulla tubazione del gas che attraversa tutto il villaggio di Kurcaloj, erano stesi dei pantaloni di tuta maschili, imbrattati di sangue. Allora era già stata portata via la testa mozzata dell’uomo, che non vidi.
Nella notte tra il 27 e il 28 di luglio alla periferia di Kurcaloj due combattenti ceceni erano caduti in un’imboscata tesa loro dalle unità di Ramzan Kadyrov, leader amico del Cremlino. Uno, Adam Badaev, era stato catturato, mentre l’altro, Hoj-Ahmed Dusaev, di Kurcaloj, era stato ucciso. Verso l’alba una ventina di macchine Ziguli, piene di uomini armati, entrarono nel villaggio e andarono alla stazione di polizia. Avevano con sé la testa di Dusaev. Due di loro la appesero. Sotto stesero i pantaloni insanguinati che ora stavo vedendo.
Gli uomini armati passarono due ore a fotografare la testa con i cellulari.
La testa rimase lì per 24 ore, poi i miliziani la portarono via ma lasciarono i pantaloni dove stavano. Gli agenti dell’ufficio del procuratore generale cominciarono a ispezionare la scena dello scontro e la gente del posto sentì uno degli ufficiali chiedere a un sottoposto: “Hanno finito di ricucire la testa?”.
Il corpo di Dusaev, con la testa ricucita al suo posto, fu portato sul luogo dell’imboscata e gli agenti del procuratore generale cominciarono a esaminare la scena del crimine seguendo le normali procedure investigative.
Scrissi di questo sul mio giornale, astenendomi dal commentare e limitandomi a mettere un po’ di puntini sulle “i” a proposito di quello che era successo. Arrivai in Cecenia quando uscì l’articolo sul giornale. Le donne nella folla cercarono di nascondermi perché erano sicure che gli uomini di Kadyrov mi avrebbero uccisa sul posto se avessero saputo che mi trovavo lì. Mi ricordarono che Kadyrov aveva pubblicamente giurato di uccidermi. Durante una riunione del suo governo aveva detto che ne aveva abbastanza, e che la Politkovskaja era condannata. Me l’avevano riferito membri di quello stesso governo.
Perché? Perché non scrivevo quello che voleva Kadyrov? “Chiunque non sia dei nostri è un nemico”. Così ha detto Surkov, e Surkov è il principale sostenitore di Ramzan Kadyrov nella cerchia di Putin.
“Ramzan mi ha detto, ‘È così stupida da non conoscere il valore del denaro. Le ho offerto dei soldi ma non li ha presi'”, mi raccontò quello stesso giorno un vecchio conoscente, un alto ufficiale delle forze speciali della milizia. Lo avevo incontrato in segreto. Essendo “uno dei nostri”, diversamente da me, avrebbe avuto dei problemi se ci avessero visti insieme. Quando venne l’ora di andarmene era già sera, e insistette perché mi fermassi in quel luogo sicuro. Temeva che potessero uccidermi.
“Non devi uscire”, mi disse. “Ramzan è infuriato con te”.
Perché Ramzan ha giurato di uccidermi? Una volta lo intervistai e mandai in stampa l’intervista esattamente come l’aveva rilasciata, con la sua tipica stupidità da idiota, con la sua ignoranza e le sue inclinazioni diaboliche. Ramzan era convinto che l’avrei riscritta completamente, presentandolo come un uomo intelligente e onesto. Dopotutto così si comporta oggi la maggioranza dei giornalisti, quelli che “stanno dalla nostra parte”.
È abbastanza perché qualcuno giuri di ucciderti? La risposta è semplice quanto la morale personalmente incoraggiata da Putin. “Siamo spietati con i nemici del Reich”. “Chi non è con noi è contro di noi”. “Coloro che sono contro di noi devono essere annientati”.
“Perché te la prendi tanto per quella testa mozzata?”, mi chiede Vasilij Pancenkov quando ritorno a Mosca. Dirige l’ufficio stampa delle truppe del Ministero degli Interni, ma è una brava persona. “Non hai niente di meglio di cui preoccuparti?”. Gli sto chiedendo di commentare i fatti di Kurcaloj per il nostro giornale. “Scordatelo. Fingi che non sia mai successo. Te lo dico per il tuo bene!”.
Ma come posso dimenticarlo, se è successo?
Disprezzo la linea del Cremlino elaborata da Surkov, che divide le persone tra coloro che stano “dalla nostra parte”, “non dalla nostra parte” o perfino “dall’altra parte”. Se un giornalista è “dalla nostra parte”, riceverà premi e rispetto, forse anche un invito a candidarsi alla Duma. Se un giornalista “non è dalla nostra parte”, invece, sarà considerato un sostenitore delle democrazie europee, dei valori europei e diventerà automaticamente un paria. È il destino di tutti quelli che si oppongono alla nostra “democrazia sovrana”, alla nostra “tradizionale democrazia russa”. (Cosa mai sia, non lo sa nessuno, eppure giurano di esserle fedeli: “Siamo per la democrazia sovrana!”)
Non sono un animale politico. Non ho mai aderito a un partito e lo considererei uno sbaglio per un giornalista, almeno in Russia. Non ho mai sentito il bisogno di candidarmi alla Duma, anche se in passato sono stata invitata a farlo.
Dunque quale crimine mi ha meritato questa etichetta di “non una dei nostri”? Mi sono limitata a riferire quello che ho visto, niente di più. Ho scritto e, meno frequentemente, ho parlato. Sono perfino riluttante a commentare, perché mi ricorda le opinioni impostemi durante la mia infanzia e la mia giovinezza sovietiche. Mi sembra che i nostri lettori siano capaci di interpretare da soli quello che leggono. Ecco perché il mio genere è il reportage, con limitati interventi personali. Non sono un magistrato ma qualcuno che descrive la vita che ci circonda per coloro che non riescono a vederla con i loro occhi, perché quello che viene mostrato alla televisione e di cui scrive la schiacciante maggioranza dei giornali è ammorbidito e indebolito dall’ideologia. Il Cremlino reagisce cercando di bloccarmi l’accesso alle informazioni: i suoi ideologi suppongono che sia il modo migliore per rendere inoffensivo quello che scrivo. Però è impossibile fermare qualcuno fanaticamente dedito alla professione di raccontare il mondo che ci circonda. A 47 anni non sono, dopotutto, così giovane da accettare di imbattermi costantemente nei rifiuti e di farmi sbattere in faccia la mia condizione di paria. Però posso conviverci.
Non voglio dilungarmi sulle altre gioie della strada che ho scelto: l’avvelenamento, gli arresti, le lettere e le e-mail minatorie, le minacce di morte al telefono, il fatto che mi convochino ogni settimana nell’ufficio del procuratore generale per firmare dichiarazioni praticamente su tutti gli articoli che scrivo (la prima domanda è sempre: “Come ha ottenuto questa informazione?”).
La cosa più importante, però, è continuare il mio lavoro, descrivere la vita che vedo, ricevere tutti i giorni in redazione persone che non hanno un altro luogo in cui portare i loro guai perché il Cremlino trova le loro storie inopportune, e così il solo luogo che può dar loro voce è il nostro giornale, la Novaja Gazeta.
Anna Politkovskaja(Fonte: The Guardian – Traduzione Mirumir)
Un secolo fa, il futuro
A gennaio la parola satyagraha compie 100 anni. Ricordiamo insieme il contesto in cui fu concepita e mosse i primi passi: la lotta che Gandhi condusse tra 1893 e 1914 per i diritti degli indiani del Sudafrica
Per festeggiare l’anniversario della “pubblicazione” a stampa del nome che definisce il metodo nonviolento abbiamo seguito il racconto che della campagna sudafricana Gandhi fece nei due anni di prigionia a Yeravda, raccolto nel libro “Satyagraha in South Africa”, recentemente tradotto da Maria Serena Marchesi e pubblicato a cura di Rocco Altieri con il titolo “Una guerra senza violenza”. La scheda qui presentata riprende, in neretto come titoli di paragrafo, i nomi che Gandhi ha dato ai capitoli del libro e rimanda alle pagine e ai paragrafi del libro (d’ora in poi riferito con l’acronimo Ugsv).
1893: il Natal ottiene l’indipendenza
Geografia e storia: un territorio appetibile: non solo per oro e diamanti tra i più grandi del mondo, ma anche per latifondi a canna da zucchero, tè, caffè e altro. Non stupisce dunque la competizione tra inglesi e olandesi (detti Boeri), arrivati da quattro secoli sulla costa nelle Colonia del Capo e Natal. I secondi migrano nell’entroterra non colonizzato, fondando Libero Stato di Orange e Transvaal.
Gli indiani entrano in Sudafrica: un solo aspetto limita lo sfruttamento coloniale: dopo l’abolizione della schiavitù non è semplice controllare il lavoro della popolazione indigena. Non c’è problema: un accordo con il governo indiano garantisce lavoratori disposti a emigrare con un contratto quinquennale e pochi diritti; non specifica però che la loro forza non risiede solo nelle braccia e che sanno come affrancarsi già dopo il primo contratto. Soprattutto non si prevede che ad essi si sarebbero accodati commercianti indiani assai dinamici.
Un esame dei torti subiti: Preoccupati di tutto ciò commercianti e datori di lavoro europei fanno pressione affinché i vari stati approvino leggi che limitino fortemente il diritto di proprietà, voto, commercio e affrancamento degli indiani. L’Impero sostiene ma spesso emenda: nascono così movimenti per chiedere governi autonomi. Il Natal è il primo a ottenerlo, nel 1893; e subito pubblica il Franchise Law Amendment Bill, progetto di legge che toglierebbe il voto agli asiatici discriminando -prima volta- in base alla razza.
1893: il giovane Mohandas arriva a Durban
Il ventiquattrenne Mohandas K. Gandhi ha appena coronato con la laurea in legge cinque anni a Londra che -nel libro “An Autobiograpy or the story of my experiments with Truth”- così sintetizzerà: “Il seme di tutto quello che feci dopo fu gettato in Inghilterra”. Ha conosciuto la cultura e lo stato inglese nei suoi fondamenti giurisprudenziali; ma soprattutto -lontano dagli impegni familiari- ha avuto modo di sviluppare la pratica di conquista dell’autonomia attraverso quelli che chiama “esperimenti” di autogestione consapevole.
Rientrato in India non riesce ad avviare un’attività; decide così di accettare l’invito di un parente che cerca un avvocato per la propria ditta in Sudafrica. Qui il lavoro va bene ma il contatto diretto con la dura condizione degli Indiani in quel paese, lo spinge a orientare in senso politico l’enorme lavoro che ha fin qui condotto su di sé.
Viaggiando in treno verso Pretoria, G. viene fatto scendere in malo modo alla stazione di Maritzburg: (gli indiani non potevano viaggiare in I°classe). L’esperienza della negazione degli elementari diritti, amplificata sulla propria pelle da una fredda notte, lo convince ad occuparsi della condizione degli Indiani in Sudafrica.
Ma non è facile far convivere impegno e lavoro. Deciso a tornare in India, durante la festa di addio che amici gli hanno organizzato, gli capita in mano una copia del quotidiano Natal Mercury, che annuncia il Franchise Law Amendment Bill. Rimane scandalizzato, intuendovi “l’inizio della fine dei pochi piccoli diritti”.
Un esame delle prime lotte: G. si lascia così convincere a organizzare l’opposizione al Franchise Law Amendment Bill; la notte stessa scrive una petizione che sarà firmata da diecimila indiani, spingendo il sergretario di stato inglese per le colonie a porvi un veto il 14 settembre 1895. Evidentemente leggero se per superarlo basta una nuova legge che rimuove la distinzione razziale ma nella sostanza squalifica gli indiani. Nel 1894: G. inizia a scrivere lettere settimanali ai propri contatti e a tutte le forze politiche in Inghilterra. Dà al movimento un’organizzazione sul modello del Congresso nazionale indiano, da cui deriva anche il nome: Congresso indiano del Natal. Nascono esperienze simili in Transvaal e Colonia del Capo. I commercianti girano i villaggi in auto raccogliendo adesioni. Il Congresso lancia l’Associazione indiana per l’educazione, che avvia un’attività di formazione importantissima di cui G. scriverà “senza di essi il lettore non può rendersi conto come il satyagraha spontaneamente germogliò all’improvviso” (“salvare la comunità dall’abitudine all’esagerazione” Ugsv pag.50).
Nel maggio 1896 G. torna a prendere la famiglia in India e vi rimane sei mesi a informare forze politiche e principali giornali, questi pubblicano articoli che scatenano la reazione degli europei del Sudafrica. Al rientro G. è isolato per 23 giorni sulla nave in quarantena e poi malmenato.
Nel 1897 le nuove leggi Sulle licenze commerciali e Sulla restrizione dell’immigrazione impongono agli indiani del Natal scoraggianti procedure e limitano l’immigrazione a chi passi un esame di lingua e cultura europea. La guerra boera -1899: lo scontro tra Boeri e Inglesi si riaccende in guerra; G. organizza un corpo di ambulanze indiano, a partire dall’assunto che “la nostra esistenza in Sudafrica è soltanto in qualità di sudditi britannici“(Ugsv pagg.70 e seg.). Nonostante che tra i motivi dichiarati per entrare in guerra ci fosse il modo in cui i Boeri trattavano gli Indiani, i vincitori Inglesi mantengono le leggi repressive, applicandole in maniera più sistematica: I permessi a cui gli indiani si devono nuovamente registrare al passaggio sotto il nuovo governo devono contenere una fotografia del portatore, la sua firma e se analfabeta l’impronta del suo pollice. Dopo un tentativo di modificare la direttiva per via negoziale, gli Indiani accettano di scambiare i propri permessi con quelli nuovi
Per giustificare presso l’opinione pubblica inglese questa durezza, i governanti creano fittizie giustificazioni di matrice ideologica (Ugsv pag. 86/87).
Indian Opinion – 1904: Da buon ex londinese G. coglie in pieno questo aspetto; pensa anche che senza un giornale “non avremmo forse potuto educare la comunità indiana del posto né tenere in contatto gli indiani di tutto il mondo”. Prende la responsabilità della rivista Indian Opinion, dedicando alla sua publicazione delle 3500 copie settimanali una comunità di persone fondata a Phoenix, 13 miglia da Durban. La ricompensa della cortesia –Il Black Act: il 22 agosto 1906 il governo del Transvaal adotta l’“Asiatic
law amendement ordinance” impone agli Indiani di ogni sesso e età complesse procedure di registrazione e verifiche improvvise in ogni momento e luogo, persino in casa (Ugsv pag.94). Una umiliante discriminazione rispetto agli Europei che non sono soggetti a nulla di simile. Una vera e propria tela di ragno che lega i movimenti degli indiani per mantenerli sottomessi e timorosi e per mettere una zavorra al loro dinamismo economico.
Un’assemblea degli indiani più importanti del Sudafrica conclude che un’approvazione del decreto (rinominato “Black act”) avrebbe portato all’emulazione negli altri paesi; decide così di convocare un’adunanza pubblica
La nascita del satyagraha: l’11 settembre l’adunanza si svolge al Teatro Imperiale di Johannesburg. Con atteggiamento davvero insolito per chi deve persuadere, G. illustra tutti gli scenari più neri e chiarisce che il giuramento di ognuno deve rimaner fermo e perfettamente nonviolento, anche se tutti gli altri lo tradissero (Ugsv pagg. 99-101). Evidentemente sa che la gente è preparata ad accogliere un impegno pesante, il solo adeguato a una sfida così dura. L’assemblea infatti sottoscrive con entusiasmo.
La delegazione in Inghilterra: il 20 ottobre: G. e un altro rappresentante incontrano a Londra il Comitato britannico del Congresso nazionale indiano e “tutti i membri del parlamento che potemmo senza badare al partito a cui appartenevano”. Si fonda il Comitato indiano britannico del Sudafrica.
Politica sleale: a dicembre: il segretario di Stato per le colonie non firma l’Asiatic law. E’ solo ipocrisia, visto che il 1 gennaio ‘07 viene conferito al Transvaal il governo autonomo e che questo il 21 marzo approva –senza che la corona intervenga- la Legge di registrazione asiatica.
Il nome satyagraha: a gennaio i lettori preparati da anni di articoli su Indian Opinion sono invitati a sintetizzare il senso di quel metodo. Nell’anniversario dell’evento abbiamo deciso di riportare l’intero passo che G. inserisce in “Satyagraha in South Africa”: “Sapevo soltanto che un nuovo principio aveva visto la luce. Mentre la lotta progrediva, l’espressione “resistenza passiva” dava adito a confusione e sembrava vergognoso che questa grande lotta venisse conosciuta soltanto con un nome inglese. Inoltre quell’espressione straniera difficilmente poteva essere accettata come termine corrente all’interno della comunità. Sull’Indian Opinion fu dunque annunciato che un piccolo premio sarebbe stato conferito al lettore che avesse inventato la migliore designazione per la nostra lotta. Così ricevemmo un gran numero di suggerimenti. Il significato della lotta era stato allora discusso dettagliatamente sull’Indian Opinion e i concorrenti al premio avevano materiale più che sufficiente da cui partire per la loro esplorazione. Shri Maganlal Gandhi era uno dei concorrenti, e suggerì la parola sadagraha, che significa “fermezza in una buona causa”. La parola mi piacque, ma non rappresentava completamente l’intera idea che desideravo che connotasse. Così la corressi in Satyagraha. La verità (satya) implica l’amore, e la fermezza (agraha) genera, e quindi funge da sinonimo, di “forza”. Così iniziai a chiamare il movimento indiano satyagraha, vale a dire, la forza che nasce dalla Verità e dall’Amore o nonviolenza”
Una fessura nel liuto: il 1 luglio si mettono picchetti al primo giorno di apertura degli uffici di registrazione dei permessi. Precise regole garantiscono il rispetto di chi si vuole registrare ed evitano scontri, con l’eccezione -prontamente isolata- di “un corpo di uomini legati al movimento che, senza divenire volontari, minacciavano privatamente”.
Il primo prigioniero satyagrahi:a fine luglio sono andati a registrarsi non più di cinquecento dei tredicimila indiani del Transvaal. In duemila invece rispondono all’assemblea di massa organizzata in uno spazio aperto di Pretoria (non esistevano edifici così capienti). Il governo prova a indurire le misure condannando a un mese di prigione il primo satyagrahi; ma finisce per rafforzarne la fama e il desiderio di emulazione.
Una serie di arresti: a natale il governo cambia ancora strategia, inviando lettere di comparizione alle leader del movimento. I satyagrahi rispondono facendosi arrestare in centocinquanta. In molti casi la condanna è ai lavori forzati. “Ognuno di noi era saldo nella sua determinazione di trascorrere il suo periodo di carcere in perfetta letizia e pace”.
Il primo accordo: Il governo capisce che anche questa nuova strategia non sta funzionando e dopo due settimane-ben prima dei due mesi comminati a molti- invia a G. una bozza di accordo per l’abolizione del Black Act.
Ostilità e aggressione: Il 30 gennaio 1908: Il generale Smuts riceve a Pretoria G. che chiede di precisare meglio le condizioni di abolizione del Black Act. G. accetta l’accordo pagandone presto le conseguenze: le minoranze radicali lo accusano di corruzione e lo malmenano. In risposta “feci soltanto una cosa. Scrissi molto, allo scopo di rimuovere malintesi riguardo al compromesso”
Il generale Smuts viene meno alla parola data (?): Invece di abolire il Black Act introduce una nuova misura che convalida le registrazioni volontarie effettuate e i certificati emessi in data successiva a quella fissata dal governo nei termini di quella legge, escludendo i possessori dei certificati di registrazione volontaria dai suoi effetti e prendendo ulteriori provvedimenti per la registrazione degli asiatici. Così entrano in vigore due provvedimenti legislativi che hanno lo stesso obiettivo e sia gli indiani appena arrivati, sia i successivi richiedenti la registrazione sono ancora soggetti al Black Act.
Il comportamento spregiudicato della controparte rischia di screditare i leader del movimento e scoraggiare i partecipanti. Ma la maggioranza trova qui quella fermezza a cui G. li aveva invitati la sera dell’11 settembre.
Il governo cerca nuovi modi per colpire i singoli: fa pressione sui creditori europei perché scrivano al commerciante indiano Kachalia che faccia subito fronte ai suoi debiti o abbandoni l’impegno di satyagrahi, che li espone al rischio di un mancato rientro. Anche in questo caso l’auspicata fermezza dei singoli è leva di rafforzamento: Kachalia accetta di essere ridotto in bancarotta. La sua insolvenza serve da scudo per gli altri (il credito era pratica diffusa) perché il creditore si trova a perdere qualcosa. Così il fatto rimane isolato.
16 maggio: Indian Opinion titola Gioco sporco, G. riceve solidarietà da autorevoli Europei del Sudafrica e scrive a Smuts dichiarando rotto il compromesso, quasi ad annunciare un prossimo salto di livello nel conflitto.
Un falò di certificati: Il 14 agosto infatti scrive nuovamente a Smuts che se non fosse stato abrogato il Black Act, il giorno di partenza dell’iter legislativo della Legge Asiatica, i certificati sarebbero stati bruciati pubblicamente. La notizia fa uno scalpore ancor maggiore che il lancio del Satyagraha perché gli indiani hanno dimostrato di mantenere ciò che annunciano. E infatti il 16 agosto: vengono bruciati più di duemila certificati. I quotidiani inglesi offrono vivide descrizioni; il Daily Mail paragona l’atto al Boston Tea Party.
Accuse di sollevare forzatamente nuove questioni: Nello stesso anno Smuts fece approvare una legge simile al Black act in Transvaal, trattando da immigrati irregolari coloro che riuscivano a superare le prove culturali ma erano privi dei requisiti per la registrazione secondo la legge asiatica. G. è ben consapevole che l’allargamento degli obiettivi è un passaggio molto critico per una campagna. Ma l’attacco è sul tema chiave della campagna e richiede una risposta. Viene scelto un indiano che conosca l’Inglese e che non sia mai stato nel Transvaal. Il 24 giugno: dopo aver informato il governo, egli entra nei confini e raggiunge Johannesburg, dove informa il soprintendente di polizia che lo cita in tribunale e, dopo un articolato processo, viene condannato a un mese di prigione ai lavori forzati. Ormai consapevole dell’effetto che gli arresti facevano sul movimento, il governo evita altri arresti, adottando la tattica del temporeggiamento.
Il movimento raccoglie allora persone con le caratteristiche suddette in un nutrito gruppo facendogli attraversare la frontiera tutti insieme e rendendo impossibile al governo fingere di non vedere. Per ogni nuovo arresto arrivano altre dieci satyagrahi disponibili.
Deportazioni: Per uscire dall’empasse il governo decide di deportare in India le persone arrestate. Il movimento risponde con la solidarietà alle famiglie colpite, con articoli sui giornali e ricorsi legali. Il governo rinuncia alla pratica ma rilancia la linea dura, separando sistematicamente i prigionieri e riservando loro un trattamento sempre più duro. Arrivano i primi morti di stenti. Ma il movimento rimane fermo e risponde con azioni puntuali contro le singole violazioni dei diritti, adottando tecniche estreme quali lo sciopero della fame, che ottengono risultati.
Una seconda delegazione: Sia una parte che l’altra appaiono in questa fase deboli (Ugsv pag. 204).Il 23 giugno 1909 nuovo viaggio in Inghilterra per confrontarsi con il presidente del Comitato indiano britannico del Sudafrica che insiste per arrivare a un compromesso.
La fattoria Tolstoj: La trasparenza nella gestione finanziaria è una componente decisiva di qualsiasi campagna. Esemplare l’attenzione che G. mette nel conteggio delle spese dei suoi viaggi in Inghilterra (cfr. Ugsv pag.114). Oppure l’euforia con cui accoglie una donazione (Ugsv pag.208) e l’opposta attenzione con cui ne valuta altre (Usgv pag. 175-177). Tra i problemi economici di una campagna di tale dimensione e durata è la difficoltà nello stabilire criteri equi nel sostegno alle famiglie dei satyagrahi incarcerati. G. riteneva che ci fosse “soltanto una soluzione a questa difficoltà, ovvero che tutte le famiglie fossero tenute in un luogo solo e diventassero membri di una sorta di comunità cooperativa”. Ma Phoenix è lontano dall’attuale campagna. L’amico Kallenbach dona un terreno di 1100 acri vicino a Johannesburg con quasi mille alberi da frutto, due pozzi e una sorgente d’acqua. Il 30 maggio 1910 ci si trasferisce, si iniziano a costruire alloggi separati per donne e uomini e si avvia una pratica comunitaria di auto-produzione di mobilio, abbigliamento; si sperimenta l’autogestione delle pratiche sanitarie, didattiche e di culto; si fanno scelte come l’esclusione della carne: un programma costruttivo orientato all’ideale di un’indipendenza che riconducesse alla dimensione familiare e di villaggio molte delle specializzazioni professionali.
La visita di Gockale in Sudafrica, il 22 Ottobre 1912 è occasione di collaborazione tra indiani e con le autorità locali, impressionate dalla grandiosità delle cerimonie preparate che affermano la forza, l’unità e la dignità di una civiltà.
Promessa infranta: Gockale viene ospitato dal governo dell’Unione nella carrozza ferroviaria di stato; si propone anche un compromesso che piace a Gockale ma è rifiutata da G., memore dei recenti inganni.
Quando un matrimonio non è un matrimonio: Il 14 marzo 1913, al fine di privare la loro prole del diritto di ereditare, la Corte suprema della Provincia del Capo emette una sentenza che rende illegali i matrimoni non cristiani e non registrati all’Ufficio dei matrimoni. Perseguendo il consueto obiettivo di sottomettere economicamente gli indiani, degrada a concubine donne, offendendole nel profondo. Dopo la consueta lunga verifica sugli allargamenti degli obiettivi della campagna si decide per il sì. Questo porta con sé il coinvolgimento delle donne. vengono invitate anzitutto quelle della fattoria Tolstoj che sono determinatissime a entrare nella lotta, anche dopo il consueto richiamo a un attento esame della reale autonomia della propria volontà fatto da G, in particolare alla moglie.
Le donne in prigione: Si decide che le donne entrino nel Transvaal e che, se non incontrano opposizione, si dirigano verso Newcastle, grande centro dell’estrazione di carbone, per spingere i lavoratori indiani a entrare in sciopero. Così avviene e in breve tempo “la loro influenza si diffuse come un incendio” e un crescente numero di lavoratori aderisce allo sciopero; il governo le condanna a tre mesi di dura reclusione. Ma “Questi eventi commossero profondamente il cuore degli indiani, non soltanto in Sudafrica, ma anche nella madrepatria”.
Una fiumana di operai: anche gli operai delle miniere vicine e quelli che ancora non lo avevano fatto scendono in sciopero convergendo a Johannesburg. G. è consapevole dei pericoli delle escalation incontrollate. In particolare teme che i datori di lavoro abbiano buon gioco sugli alloggi e altri beni primari (luce, acqua) che forniscono ai lavoratori. Non vuole chiedere aiuto economico all’India né ai commercianti indiani del Sudafrica, per evitar loro ritorsioni. Invita i lavoratori e le loro famiglie a uscire dai loro alloggi, garantendo che rimanendo uniti i mezzi di auto-sostentamento non sarebbero mancati. Comprende bene il pericolo di radunare masse promiscue e inattive, propone al gruppo una grande marcia che attraversi il Transvaal verso Phoenix.
Il colloquio e ciò che seguì: Invitato dai proprietari delle miniere G. li invita a esercitare la propria influenza presso il governo. Il 28 ottobre, con la lettura ad alta voce delle regole di comportamento di ogni “soldato”, la marcia parte da Johannesburg di primo mattino e prima delle …. Ha coperto le oltre trenta miglia che la separano da Charleston, ultima città prima del confine, dove le donne possono essere sistemate in alloggiati. Ci si ferma per qualche giorno. G. scrive al governo per fare presente che “non ci proponevamo di entrare in Transvaal allo scopo di prendervi domicilio, ma come un’effettiva protesta contro la rottura della promessa”.
La grande marcia: Il 4 novembre viene convocata con proclami bellicosi un’assemblea degli Europei di Volksrust prima città oltre il confine; Kallenbach in quanto europeo vi si reca. Con grande sangue freddo di fronte alle provocazioni, egli chiarisce il valore simbolico dell’azione, disinnesca l’equivoco all’origine dell’atteggiamento aggressivo e colloquia civilmente.
In molte altre occasioni la marcia permetterà di comprendere che molti europei sudafricani hanno atteggiamenti assai più aperti dei governanti, condizionati da commercianti e proprietari. Qualcuno addirittura aiuta i marciatori: l’ufficiale sanitario di distretto fornisce un armadietto medico e alcuni fondamentali consigli; un grande forno europeo di Volksrust fornisce pane a prezzi equi a ogni sosta della marcia attraverso degli invii col treno; le merci sono poi particolarmente curate da funzionari e guardie ferroviarie, colpiti positivamente dal comportamento pacifico degli scioperanti.
Evidentemente la pacifica determinatezza dimostrata in sette anni di campagna e nel precedente decennio di programma costruttivo, hanno permesso di capire: “Sapevano che noi non albergavamo alcuna inimicizia nei nostri cuori, che non volevamo fare del male ad anima viva e che cercavamo di ottenere ragione soltanto tramite la sofferenza personale. L’atmosfera intorno a noi era in questo modo purificata e continuava ad essere pura”.
La marcia è una sorta di metafora che amplifica questo messaggio avvicinandosi lentamente: una comunità in marcia che attraversa territori potenzialmente ostili, senza alcuna difesa che li possa far scambiare per invasori; semplici pellegrini che si affidano agli altri per perseguire la propria meta. Se questa è la natura della dinamica, risulta forse meno paradossale che G. insista ad aprire spiragli di trattativa a governanti protagonisti di sette anni di inganni; ad inviare loro lettere trasparenti che annunciano le proprie più strategiche mosse e li richiamano alla responsabilità su cui dovrebbe fondarsi il ruolo di garante dell’interesse comune.
Attraversando la frontiera: Il 6 novembre, ore 6.30: si offrono le preghiere e la comitiva di 2037 uomini, 127 donne e 67 bambini parte verso la frontiera, I cancelli sono presidiati da una piccola pattuglia di poliziotti a cavallo probabilmente sistemata nell’eventualità di scontri con i cittadini. Dopo un po’ di equivoci e agitazione, appurato che non hanno alcuna intenzione di arrestare i marciatori, inizia la marcia in Transvaal.
Si raggiunge Palmford alle cinque del pomeriggio. Qui G. viene arrestato e condotto al tribunale di Volksrust, che gli fissa una causa otto giorni dopo e lo rilascia su cauzione di 20 sterline. L’8 novembre la marcia arriva a Standerton; anche qui per G. ed altri collaboratori arresto, notifica di causa per il 21 prossimo e rilascio.
Tutti in prigione: il 9 novembre G. è nuovamente arrestato sulla strada per Greylingsland. Questa volta la richiesta di rinvio viene rigettata e il prigioniero trasferito a Dundee, da dove la richiesta d’arresto era giunta. Viene condannato a nove mesi di lavori forzati. Il 14 novembre: viene tradotto a Volksrust per l’udienza annunciata. Mancando testimoni, il tribunale è costretto a chiedere aiuto. G. lo fornisce per evitare che la causa sia protratta. Sono altri tre mesi per uno. Il commento di G. sulla propria condanna è sorprendente: “non avevo mai avuto tempo per studiare da diversi anni, in particolare dal 1893, e la prospettiva di studiare ininterrottamente per un anno mi riempì di gioia”. Aggiunge che questi arresti in serie fanno aumentare la sua autorevolezza e l’abitudine del gruppo a fare a meno di lui; sottolinea come i funzionari lo siano andati ad arrestare con difese minime e col fare sereno di chi confida negli oltre duemila indiani. Tutti elementi di saldo positivo!
Per evitare di fornirgliene di ulteriori il governo rompe gli indugi e convoglia treni speciali a Balfour per deportare i pellegrini in Natal. Dopo un’iniziale resistenza (che G. stigmatizza dal carcere) gli Indiani salgono pacifici sul treno.
La prova: La mancanza di tutta quella mano d’opera per un periodo così prolungato mette in difficoltà i proprietari delle miniere. Allora il governo circonda i complessi minerari di filo spinato, li proclama succursali esterni delle prigioni di Dundee e Newcastle e nominando secondini i lavoratori europei delle miniere costringe i lavoratori a lavorare con la frusta. Avendo evidentemente perso di vista la soglia che nelle coscienze dei più ancora separava il lavoratore immigrato (passibile di sanzioni civili) dallo schiavo (che un tempo era stato possibile ricondurre al lavoro con la forza bruta). I lavoratori sopportano pazientemente, superando quello che G. definisce battesimo del fuoco, precisando che “Il dolore è spesso in questo modo il precursore del piacere”.
Il 24 novembre Il muro di gomma imperiale è finalmente rotto dal primo di una serie di memorabili discorsi del Vicerè Lord Harding, spinto da masse indiane profondamente scosse. Migliaia di nuovi lavoratori in tutto il Sudafrica scioperano spontaneamente, preoccupando G. che era ben consapevole che sarebbe stato difficile mantenere economicamente quelle masse e sarebbe stato invece facile per la controparte provocarle, rilanciando in extremis l’escalation repressiva. E in effetti il governo: “adottò una politica di sangue e ferro. Impedì ai lavoratori di scioperare con la forza bruta (…) alla minima agitazione dei lavoratori veniva risposto con il fuoco dei fucili”. Ma evidentemente il patrimonio di autocontrollo dei satyagrahi si è miracolosamente moltiplicato: i lavoratori non si lasciano intimidire né provocare; rimangono pacifici e non timorosi, rendendo l’abuso di potere evidente a tutti. Le accuse di comportamento brutale dei poliziotti, lanciate dagli indiani, riecheggiano nei giornali di mezzo mondo.
11 dicembre: Smuts rientra in difesa nominando una commissione;gli indiani non la riconoscono se non si aggiunge almeno un membro di loro nomina.
Il principio della fine: Il 18 dicembre Gandhi, Kallebank e Polak vengono rilasciati; il nuovo membro è invece rifiutato per non ammettere che gli altri sono parziali. Il 24 dicembre G. annuncia che il 1 gennaio sarebbe partita una marcia e torna a chiedere un incontro a Smuts, che accetta.
Si decide di rinviare la partenza della marcia, prevista per il 1 gennaio, perché in quella data gli impiegati europei delle ferrovie dell’Unione hanno indetto un grande sciopero all’interno di una “lotta completamente diversa e diversamente ideata”: Essi mirano a prendere il potere con la forza; per questo ha spinto il governo a chiedere la legge marziale.
Si consideri che è solo l’ultima di una serie di analoghe fatte durante la campagna. Quando, ad esempio, gli operai indiani della costa settentrionale scioperarono, si resero conto che, se la canna già tagliata non fosse stata portata al mulino, avrebbero causato ai proprietari di Mount Edgecombe perdite fuori dalla misura della dinamica in corso. 1200 indiani tornarono così a terminare quella parte dell’opera e poi si riunirono ai compagni. Il metodo satyagraha prevede il controllo sul danno all’avversario, tra l’altro, per evitare che la paura lo porti a confondere la domanda di diritti con il rischio di negazione dei propri. Tanto più in vista dell’arrivo gli Indiani scelsero dunque di evitare scorciatoie, acquisendo autorevolezza verso la controparte (Ugsv pag.294).
L’accordo provvisorio: Smuts assume un atteggiamento più disponibile di altre volte; chiede di non contrastare il processo evitando propaganda attiva poichè: “I nostri problemi sono numerosi, non abbiamo un momento libero e, quindi desideriamo sistemare la questione indiana. Abbiamo deciso di soddisfare le vostre richieste ma per far questo dobbiamo avere una indicazione da parte della commissione”.
Uno scambio di lettere: Il 21 gennaio G. invia le proprie richieste: non portare prove negative (per evitare che il silenzio fosse scambiato per mancanza di argomenti); liberare i satyagrahi; abrogare la tassa di tre sterline; legalizzare i matrimoni; consentire l’ingresso agli indiani istruiti; applicare con giustizia le leggi esistenti. Il giorno stesso Smuts risponde con una lettera piena di distinguo ma che in sostanza accetta le principali richieste. G. propone il compromesso ai propri seguaci. Temono che sia il solito bluff ma accettano. Il 7 marzo la commissione presenta il rapporto al governo: respinge le accuse ai soldati e raccomanda che senza indugi venga data soddisfazione a tutte le richieste indiane: Smuts ha mantenuto la parola.
La fine della lotta: il 27 maggio la Gazzetta ufficiale dell’Unione pubblica l’Indians’ Relief Bill, che recepisce i punti richiesti dagli Indiani. Con la nuova legge il Satyagraha può dirsi concluso e G. può ripartire per l’India. Ma prima scrive una lettera di commiato al gen. Smuts; la lettera riportaanche una lista di nuove richieste del popolo, precisando: “Ho detto ai miei compatrioti che dovranno esercitare la pazienza e, con tutti i mezzi onorevoli a loro disposizione, istruire l’opinione pubblica in modo da rendere possibile al governo di allora di andare oltre ciò che ha fatto la presente corrispondenza (…) Nel frattempo, se lo spirito generoso che il governo ha messo nell’affrontare il problema durante gli ultimi mesi continua ad essere adottato, come è stato promesso nella vostra lettera, nell’applicazione delle leggi esistenti, sono del tutto certo che la comunità indiana in tutta l’Unione riuscirà a godere di una qualche misura di pace e mai sarà una fonte di preoccupazione per il governo.
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Abbiamo scelto le di inserire le immagini della sintesi che Richard Atterborough ha fatto di questi eventi nel film “Gandhi”, per invitare a ricollocare questi frammenti del nostro immaginario alla reale complessità dell’azione e ai tempi necessari a svolgerla. Come segnalibro che riconducano le comode semplificazioni che di questo metodo ci facciamo verso il lavoro personale di approfondimento della complessità necessaria comprenderlo davvero.
EDUCAZIONE
A cura di Pasquale Pugliese
Il gioco per pensare e immaginare un altro mondo, nonostante il mondo
Come è noto, a differenza di altre visioni e pratiche, più centrate o sull’analisi intellettuale o sull’espressione corporea , il ‘training’ insiste sul giocare quale ‘teoria-prassi’ integrata essenziale per una formazione ecologica e nonviolenta alla nonviolenza.
E’ impossibile qui dire tutto quel che sta dietro questa impegnativa asserzione.
Provo ad andare, allora, solo per brevi citazioni e commenti.1.Decolonizzare l’immaginario.
Per S. Freud “sarebbe errato pensare che il bambino non prenda sul serio quel mondo; al contrario, egli prende molto sul serio il suo gioco e vi prodiga una grande quantità di emozioni. L’opposto del gioco non è infatti ciò che è serio ma ciò che è reale. Nonostante tutte le emozioni riversate nel mondo dei suoi giochi, il bambino lo distingue benissimo dalla realtà ed ama legare gli oggetti e le situazioni immaginate alle cose tangibili e visibili del mondo reale. E’ questo collegamento che differenzia il “gioco” del bambino dal “fantasticare”…”. (1)
“Di fronte all’accadimento, egli si trovava all’inizio in posizione passiva, quasi fosse travolto dal suo impatto; ma a furia di ripetere l’esperienza, per quanto sgradevole essa fosse, sotto forma ludica, eccolo assumere un ruolo attivo…” (2).
Credo che la nonviolenza abbia proprio a che vedere in primo luogo con la nostra capacità di immaginare un altro mondo e di iniziare ad agirlo, nonostante il mondo (le sue inerzie, passivizzazioni, impotenze, ritualità e ripetizioni senza cambiamento…).
2.Assertività ed empatia.
Per D.W.Winnicott il gioco quale “fenomeno transizionale” rappresenta la “terza parte della vita di un essere umano, un’area intermedia di esperienza tra la dimensione psichica interna e la realtà ‘ esterna all’io; …tra la incapacità e la crescente capacità del bambino di riconoscere e di accettare la realtà. …L’area intermedia è consentita al bambino tra la creatività primaria e la percezione oggettiva basata sulla prova di realtà. I fenomeni transizionali rappresentano i primi stadi dell’uso dell’illusione, senza la quale non vi è significato per l’essere umano nell’idea di un rapporto con un oggetto che è percepito dagli altri come esterno a quell’essere umano… Il gioco è estremamente eccitante. E’ eccitante -sia ben inteso!- non perché primariamente siano coinvolti gli istinti. La cosa importante del gioco è sempre la precarietà di ciò che si svolge tra la realtà psichica personale e l’esperienza di controllo degli oggetti reali…Mentre gioca l’individuo può raccogliersi ed esistere come una unità, non come una difesa contro l’angoscia ma come una espressione di IO SONO, io sono vivo, io sono me stesso. Da questa posizione ogni cosa è creativa” (3).
La congiunzione di alta assertività ed alta empatia (non l’una senza l’altra) rappresentano infatti sempre più, per me e nel mio lavoro di formatore, il fulcro dell’autonomia personale, chiave di volta della nonviolenza.
3. Comunicazione ed umorismo.
G.Bateson insiste e guarda ancora oltre: “..Vidi due scimmie che giocavano, che erano cioè impegnate in una sequenza interattiva le cui unità d’azione (o segnali) erano simili ma non identiche a quelle di un combattimento.. .All’osservatore umano era chiaro che ‘non era un combattimento’ ed era a lui evidente che ‘non fosse un combattimento’ neppure per le scimmie che vi partecipavano. Ma tale fenomeno, il gioco, poteva verificarsi soltanto se gli organismi partecipanti erano in grado di metacomunicare,..cioè di scambiare segnali che recassero il messaggio ‘questo è un gioco’..”(4).
La scoperta ed il riconoscimento pieno dell’interdipendenza comunicativa, del nostro essere sempre ‘in rete’, tra umani e tra viventi…altro caposaldo della formazione!
4. En-azione estetica.
E’ F. Varela a chiudere il cerchio: “La cognizione, perfino in quelle che sembrano le sue espressioni di livello più alto, è fondata sull’attività concreta dell’intero organismo, cioè sull’accoppiamento senso-motorio. Il mondo non è qualcosa che ci è ‘dato’, ma è qualcosa a cui prendiamo parte per mezzo di come ci muoviamo, tocchiamo, respiriamo e mangiamo. La cognizione è sempre un’incorpazione: dipende dai tipi di esperienza che derivano dall’avere un corpo con varie capacità sensomotorie, a loro volta incastonate in un contesto culturale e biologico più ampio…” (5).
Pensare è vivere! Oltre i dualismi spirito-materia, corpo-mente, ragione-emozione, la formazione alla nonviolenza è per me, infine, questa vitale tensione ad una ‘integrazione estetica’ del sapere e dell’agire umano.
Enrico EuliNote:
1.S. Freud, Il poeta e la fantasia (1908), Newton Compton, Roma, 1976
2.S. Freud, Al di là del principio del piacere (1920), Newton Compton, Roma 1976
3.D.W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974
4.G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 2000
5.F. Varela, Un know-how per l’etica, Laterza, Bari 1992
DISARMO
A cura di Massimiliano Pilati
Scambiare le proprie armi con fumetti e una lotteria
Brasile
E’ l’iniziativa inaugurata a Fortaleza, stato del Cearà in Brasile, nell’ambito della II Campagna per il disarmo infantile. Per un mese e mezzo, fino al 12 dicembre, i ragazzini di ogni età sono invitati a consegnare le loro “armi” in cambio di giornali zeppi di fumetti e storie divertenti.
La sfida è battere il record dello scorso anno, quando la città rispose con entusiasmo all’evento, consegnando 4.017 fra fucili e pistole di plastica.
Si tratta di un progetto comunale che intende richiamare l’attenzione sia dei bambini che dei genitori. I più piccini, infatti, associano questo tipo di giocattoli a situazioni di violenza e finiscono per preferire giocare alla guerra piuttosto che tirar due calci a un pallone. Ma la campagna è dedicata pure ai genitori che, secondo gli organizzatori, in periodi di violenza così allarmante, hanno bisogno di essere sempre più coscienti del tipo di giocattolo da comprare ai loro figli e contribuire così alla cultura di pace, che inizia proprio dal buon esempio all’interno del nucleo familiare.
Chiunque vorrà accompagnare suo figlio in questa sorta di disarmo, di processo verso la nonviolenza, potrà farlo recandosi ai 350 punti sparpagliati per la città: dai chioschi dei giornali ai centri commerciali, passando per i supermercati e le numerose chiese locali.
Per arrivare a parlare a più persone possibile, il comune ha investito molto in una campagna di diffusione che ha coinvolto mezzi di comunicazione e ideato attività culturali di contorno, che diffondessero la voce: spettacoli teatrali per bambini, i più svariati giochi, intrattenimenti che attirano ragazzi dai 4 ai 15 anni.
Le armi giocattolo restituite saranno accumulate e poi pubblicamente distrutte il 12 dicembre, nella giornata conclusiva, in un grande appuntamento in omaggio alla cultura di pace, nella Città del Bambino, il più grande parco giochi che campeggia nella turistica Fortaleza.
Bosnia Erzegovina
Fucili in cambio di biglietti della lotteria, l’ultima frontiera della lotta contro la diffusione di armi.
Motorini in cambio di lanciagranate. Elettrodomestici in cambio di bombe a mano. Un cellulare nuovo per il tuo fucile. Da domenica 5 novembre, tutti coloro che consegneranno le proprie armi saranno iscritti d’ufficio a una lotteria i cui premi verranno estratti a Sarajevo all’inizio di dicembre. Nuova frontiera della normalizzazione, secondo il portavoce del programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp), promotore dell’inziativa. Ennesimo tentativo di risolvere l’annoso problema della diffusione delle armi in Bosnia Erzegovina.
Le strade delle principali città del Paese sono tappezzate di manifesti che pubblicizzano l’iniziativa. L’obiettivo dichiarato è quello di spingere la popolazione a consegnare le armi nascoste dalla fine delle guerra, mina vagante per la sicurezza e la stabilità di un Paese che, a più di dieci anni dalla fine del conflitto, sta faticosamente cercando di raggiungere la tanto sospirata ‘normalità’.
Quella delle armi, infatti, continua ad essere una delle tante questioni aperte dei Balcani. Secondo stime dell’Eufor, la missione europea di peacekeeping in Bosnia Erzegovina, le armi nel Paese sarebbero centinaia di migliaia, e questo nonostante le ripetute operazioni di ‘raccolta’ attuate dai contingenti militari presenti sul territorio. Tuttavia, secondo quanto prescritto dagli annessi 1A e 2 degli Accordi di Dayton, compito principale delle forze d’interposizione presenti in ex-Jugoslavia è il “mantenimento della sicurezza […] da implementare attraverso strumenti diversi, tra i quali la raccolta delle armi ancora disperse nel territorio”. Fino ad oggi, però, sembra che i passi avanti fatti siano davvero pochi.
Recentemente una granata ha distrutto la facciata di una moschea in un quartiere periferico di Mostar. In primavera, fece discutere il caso di un’adolescente che, dopo essere stata rimproverata dal padre per aver speso troppo in telefonate, minacciò l’uomo con una bomba a mano. Casi eclatanti, specchio delle molte contraddizioni ancora presenti nei Balcani. Punte di un iceberg molto più grande di quanto non si immagini. Non è così infrequente, soprattutto lontano dalle grandi città, leggere annunci che propongono la vendita tra privati di mitragliatori e kalashnikov. Non è così infrequente, anche e soprattutto nelle grandi città, che bande di criminali più o meno ‘professionisti’ attingano da arsenali rimasti nascosti dagli anni Novanta, con conseguenze disastrose per la sicurezza e la normalizzazione dell’intera area.
La lotteria è appena cominciata. In palio – forse – un futuro migliore per la Bosnia Erzegovina.Cfr. www.peacereporter.net
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Le sue armi sparano da cinquecento anni.
Tanti auguri, cavalier Ugo Beretta…
Egregio cavaliere Ugo Gussalli Beretta, tanti auguri!
La sua azienda in questi giorni compie 500 anni di attività. Già nel 1526 infatti, risulta che un suo avo di Gardone Riviera, tale Bartolomeo Beretta, consegnò all’arsenale di Venezia 185 canne d’archibugio, ricevendone in cambio 296 ducati. Si doveva arrestare l’avanzata dei Turchi, e la Serenissima aveva bisogno di fucili di precisione per la battaglia.
Altri tempi: ora diversi discendenti dei saraceni lavorano presso i suoi stabilimenti. Senza falsi pudori, lei può essere considerato per l’Italia quello che il generale Kalashnikov ha rappresentato per l’Unione Sovietica, seppur privato delle stellette. La quattordicesima generazione della sua dinastia può andare fiera per diversi motivi: innanzitutto per il fatturato raggiunto, pari a circa 400 milioni di euro, che dà da mangiare a 2.500 dipendenti. Poi per la spaventosa produzione, schizzata ormai a 600 mila pezzi distribuiti ufficialmente in un centinaio di nazioni. Si, ufficialmente, perché in realtà i suoi pezzi pregiati sono stati trovati ovunque: il suo modello più famoso, il micidiale F92 Parabellum che spara 15 proiettili in pochi secondi, è stato adottato via via negli Stati Uniti dalla Marina militare, dal servizio immigrazione, dalle pattuglie di confine, dalle polizie di molti stati ma soprattutto dall’esercito, che la usa anche in Iraq e Afghanistan al pari dei combattenti che si trova di fronte, causando così un grazioso cortocircuito: armi Beretta sono state trovate anche nelle mani degli uomini di Al Zarqawi, che per Al Qaeda coordina le attività militari in Iraq. Chissà come saranno fieri i suoi antenati da lassù, nel vedere una guerra condotta da entrambe le parti con le stesse pistole prodotte dalle sue officine!
Con abile azione di marketing, abbiamo potuto vedere l’ultimo James Bond impugnare il suo nuovo modello Cougar, mentre suoi clienti sono re (Juan Carlos, Ranieri di Monaco), attori (Sean Connery e Stallone) ed il clan Bush la considera ormai di famiglia, per via dei sostanziosi finanziamenti elettorali e il sostegno alla Nationale Ryfle Association, la lobby dei produttori d’armi. Negli anni ’70 Prima Linea aveva adottato il suo mitra M-12 come simbolo, e probabilmente dalle patrie galere alcuni di loro ora sorridono alle sue affermazioni secondo le quali “i nostri fucili servono a contrastare il crimine, e reprimere anche le manifestazioni di piazza quando degenerano”. Con coerenza, ogni anno lei difende proditoriamente a Brescia la mostra Exa dagli attacchi di no global e pacifisti, per via della positiva immagine che essa dà all’Italia nel mondo, e più volte ha criticato la noiosissima legge sul commercio d’armi che le impedisce di essere più dinamico sui mercati mondiali e le ha mandato in passato in fumo forniture in Centroamerica, Medio Oriente ed Asia. Le olimpiadi invernali tenutesi nella mia città in febbraio le hanno per fortuna consentito, con un piccolo comma ad hoc nella legge che le istituiva (e Dio solo sa cosa c’entrasse con gli sport), di evitare guai giudiziari in tal senso, e di questo vado particolarmente fiero.
“E’ un problema di istruzione: credo che non si farebbe male a mandare i ragazzini al poligono di tiro”, ebbe a dire tempo fa. Immaginammo per lei importanti incarichi al Ministero. Ma poi aggiunse: “Le armi in sé non sono cattive. Sono nate per difendere e proteggere. Il loro uso sbagliato è legato alla natura, a volte malvagia, degli uomini. Anche per questo non ho mai fatto giocare i miei ragazzi con fucili e pistole”.
La sua ostinazione ad essere dalla parte del giusto (o del profitto?) non le ha fatto percorrere la strada intrapresa da Colt e Smith&Wesson, che alla fine degli anni ’90 hanno abbandonato o perlomeno limitato la vendita di armi ai civili sulla spinta delle cause miliardarie di risarcimento intentate dai parenti di vittime uccise da armi da fuoco. I giudizi pendenti di fronte ai tribunali di Chicago, New Orleans, Los Angeles e Miami non le tolgono il sonno, probabilmente in virtù delle numerose amicizie che in terra statunitense può vantare.
Chi può avere idea del dolore che lo avvolse, quattro anni fa, allorquando mezza Italia insorse alla notizia che l’allora governo Berlusconi aveva intenzione di nominarlo ambasciatore italiano negli Stati Uniti? Lo sgarbo seguiva quello occorso verso la fine del millennio quando per la nomina a Cavaliere del lavoro le fu preferito, grazie ad un accordo bipartisan, il banchiere Giovanni Bazoli, per un insano istinto di repulsione per la produzione di armi. Spuntò per lei solo una Croce al merito, e forse questo gesto l’avvicinò ancor più al territorio americano e all’affascinante continente africano. “Io amo l’Africa e gli elefanti”, affermò in una intervista. In che senso ama gli elefanti? “Nel senso che gli sparo” fu la risposta, nella quale è contenuta tutta la sua potente carica umana. Auguri, presidente.
GIOVANI
A cura di Elisabetta Albesano e Agnese Manera
Da San Francesco a Capitini
Umbria, terra di pace
Che bella idea quella di una rubrica su “Azione nonviolenta” scritta dai giovani per i giovani! Perché non sfruttarla? Innanzitutto mi presento: mi chiamo Flavio e ho diciannove anni. Conosco la nostra rivista e il Movimento Nonviolento da due anni grazie alla madre di un mio amico che mi propose di partecipare a un campo nonviolento. Un’esperienza assolutamente indimenticabile che ho ripetuto l’anno successivo e che consiglio a tutti i giovani che leggono questa rivista. Prima non conoscevo la parola nonviolenza, il concetto di risoluzione nonviolenta dei conflitti, il messaggio del sathyagraha., il pensiero di Gandhi, tutte cose che sto scoprendo giorno per giorno.
Abito in un paesino in provincia di Perugia, nel cuore della verde Umbria, culla della nonviolenza in Italia. Già a partire dal XIII secolo l’Umbria fu terra di rivoluzione. Giovanni Francesco Bernardone nacque ad Assisi nel 1182 da una ricca famiglia e condusse una vita spensierata e mondana fino a quando partecipò alla guerra tra Assisi e Perugia, dopo la quale passò un anno di prigionia patendo una grave malattia che lo portò a cambiare radicalmente stile di vita. Tornato ad Assisi, si dedicò a opere di carità tra i lebbrosi e nel restauro di edifici di culto in rovina. Il padre, stupito negativamente per il radicale cambiamento del figlio, lo diseredò. Francesco allora, davanti al vescovo di Assisi, si spogliò dei suoi ricchi vestiti, dichiarando con questo gesto di non voler nulla dal padre se non la sua libertà di fede. Dedicò i tre anni successivi alla cura dei poveri e dei lebbrosi nelle boscaglie del monte Subasio. Iniziò a predicare e raccolse accanto a sé dodici seguaci con i quali fondò il primo ordine francescano riconosciuto da papa Innocenzo III. Due anni dopo anche Chiara, una ragazza che aveva seguito il suo esempio, fondò un ordine, quello delle clarisse. Dal 1212 al 1220 Francesco espanse la sua predicazione in varie regioni italiane e si spinse fino in Egitto e in Palestina. Si ritirò sui monti e a La Verna ricevette le stigmate. Colpito dalla cecità e dalla debolezza fisica non smise mai di amare Dio e il suo creato e scrisse il Cantico delle creature. Morì nel 1226.
Spostiamoci ora in avanti nel tempo di quasi settecento anni. Nel 1899 l’Umbria fu la patria di un altro grande uomo, Aldo Capitini, intellettuale antifasciata e uno dei primi italiani a cogliere il pensiero gandhiano. Capitini nacque da una famiglia modesta e si dedicò dapprima agli studi tecnici e poi a quelli umanistici. Nel 1930 venne nominato segretario della Scuola Normale Superiore di Pisa, ma nel 1932 fu costretto a lasciare l’incarico poiché si rifiutò di tesserarsi al Partito Nazionale Fascista. Compì vari viaggi con lo scopo di entrare in contatto con numerosi amici antifascisti. Nel ’42 fu arrestato dalla polizia del regime. Durante la sua prigionia si costituì il Partito d’Azione, che però Capitini non appoggiò a causa della scelta di questo partito di opporsi al fascismo attraverso la resistenza armata. Uscito dal carcere, nel 1944 fu costretto a nascondersi nella campagna umbra per non essere deportato in un lager nazista. Nel secondo dopoguerra organizzò a Perugia i Centri di Orientamento Sociale attraverso i quali cercò di concretizzare la sua idea di omnicrazia, che è un’evoluzione della democrazia e che significa “potere di tutti”. Nel 1952 contribuì alla nascita dell’Associazione Vegetariana Italiana e nel 1961 organizzò la prima marcia per la pace da Assisi a Perugia, che si tiene ancora oggi ogni due anni negli ultimi giorni di settembre. Fu lui il fondatore del Movimento Nonviolento e della rivista che state leggendo. Morì nel 1968. I suoi concetti di religiosità laica, di apertura verso l’alto, di omnicrazia, di nonviolenza, di educazione profetica e il suo liberalsocialismo, una corrente politica da lui fondata, hanno dato una spinta preponderante ed eccellente al cammino della nonviolenza in Italia partendo proprio dall’Umbria, che può quindi a buon diritto essere definita una regione di pace.
Flavio Lorenzetti
PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Il potere spirituale del bene per uscire dal buco del dolore
“Ho anche un nome Kimbundu. E’ Manzumba. Significa “potere spirituale”. Ma tutti mi conoscono come Zecão.” José Manzumba da Silva Zecão è un costruttore di pace angolano, un formatore alla risoluzione nonviolenta dei conflitti.
A soli 17 anni, venne reclutato nell’esercito e la guerra divenne il fulcro della sua esistenza per i dodici anni che seguirono.
“Ero addestrato a scovare i nemici e a distruggerli. Comandavo le squadre. Uccidevo, e vedevo la gente venire uccisa. Credevamo di essere obbligati a combattere, anche se con il senno di poi posso dire che non capivamo granché della situazione. Venivamo manipolati, questa è la parola giusta, manipolati affinché uccidessimo. Non avevo mai avuto l’opportunità di riflettere, di considerare chi stava dall’altra parte.”
Nel 1992, Zecão fu inviato nella provincia di Uige e lì la sua squadra fu catturata dall’esercito nemico dell’Unita. “Ci portarono nell’interno della foresta, ci legarono e ci gettarono nelle celle. Le celle dell’Unita si chiamano “copos”, coppe. Sono buche profonde nel terreno, così profonde che non puoi arrampicarti e risalire. Devi fare tutto nel buco: mangiare, dormire, urinare, tutto.”
Zecão ha passato due anni nel “copo”. Veniva nutrito a malapena, picchiato, e in diverse occasioni gli furono spezzate le ossa. Due suoi commilitoni vennero uccisi in questo modo. Sopravvivere sembrava dipendere dal caso, ma Zecão fece del suo meglio per trasformare la situazione.
“Non ne potevo più della depressione, della rabbia e della paura. Cominciai a pensare che se non avevo altro che un po’ di intelligenza e un po’ di speranza era di quelle che dovevo servirmi. La mia unica possibilità era entrare in contatto con i miei carcerieri, quelli che stavano là sopra, persino quelli che mi avevano picchiato e che avevano ucciso i miei amici.”
Ascoltando le loro conversazioni, Zecão cominciò ad intervenire, a fare domande. “Li sentivo chiedersi perché combattevano. Molto di quello che dicevano aveva senso anche per me. Aveva una sua logica, e cominciavo a capirla. Se non li avessi ascoltati non avrei mai compreso che tutto quello che c’era veramente da combattere era la guerra stessa.”
Il 16 novembre 1994, la provincia di Uige tornò sotto il controllo del governo, e Zecão riuscì ad andarsene lo stesso giorno, con l’aiuto dei suoi carcerieri. L’esercito lo congedò, e passò diversi mesi in ospedale a Luanda.
“Dovevo ricominciare tutto daccapo. Riorientare me stesso e la mia vita. Un sacco di miei ex compagni impazzirono, a questo punto. Ma io fui fortunato. Andai all’università, studiai psicologia, trovai lavoro alla ong “Christian Children’s Fund”. Loro mi incoraggiarono a seguire corsi sulla guarigione dai traumi. Era proprio quello che mi serviva. Curò me, e mi insegnò a curare. Guardando indietro, il mio periodo nel buco è stato allo stesso tempo una maledizione e una benedizione. Il male era il dolore, quei due anni miserabili. Il bene, l’arrivare a capire. Non devo più schierarmi con un esercito o un altro, devo trovare il terreno comune su cui tutti viviamo come angolani.”
Oggi Zecão è il Coordinatore del programma “Pace e Sicurezza” del Centre for Common Ground (Centro per il terreno comune). Lavora alla risoluzione nonviolenta dei conflitti con i membri di polizia, esercito e governi locali. La parte che più lo appassiona del suo lavoro, dice, è aiutare gli altri ex combattenti a reinserirsi nella vita civile.
“La nonviolenza è antica e moderna allo stesso tempo. Nelle nostre tradizioni, nelle nostre culture, ci sono sempre metodi per promuovere la pace e reintegrare le persone che hanno avuto esperienze traumatiche nella vita della comunità. Forse, quello che faccio è nient’altro che la forma moderna della nostra guarigione tradizionale. Suppongo di non chiamarmi Manzumba per niente…”
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
L’ombra del passato toglie i colori a Sarajevo
Il segreto di Esma – Grbavica
Regia Jasmila Zbanic
Interpreti Mirjana Karanovic, Luna Mijovic
Durata 90’
Origine Bosnia, Croazia – 2005
Distribuzione Istituto Luce
Esma deve trovare i soldi per mandare sua figlia Sara ad una gita scolastica. Perché non può avvalersi della gratuità prevista per i figli dei caduti in guerra, dato che le ha sempre detto che suo padre è un martire bosniaco ucciso dai cetnici?
Nella Sarajevo del dopoguerra la vicenda di Esma e della quindicenne Sara si intreccia con quelle di altre persone, tutte però con il grosso elemento comune di aver subito le atrocità della guerra.
Esma frequenta un gruppo di donne in psicoterapia collettiva. Il suo unico fine è quello di ritirare l’assegno del sussidio mensile, non parla mai della sua vicenda. Trova lavoro in un locale notturno e arrotonda ulteriormente i suoi guadagni lavorando in casa come sarta. Si ammazza di lavoro per mantenere dignitosamente la figlia.
Non concede nulla a se stessa e nulla di sé fa trapelare agli altri. La vita è però un maglio in grado di frantumare anche le rocce più dure ed Esma non può sottrarsi a questa regola.
C’è molto della Sarajevo postbellica che vediamo – sempre meno a dire il vero – sui mass media, ma c’è anche molto altro nel film di Jasmila Zbanic, Orso d’oro a Berlino 2006, premio della giuria Ecumenica e segnalato da Amnesty International.
C’è molto anche se il film sembra procedere per sottrazioni. C’è anzitutto Sarajevo, anche se alla città vengono tolti i suoi colori e suoni (che tanto caratterizzano ad esempio i racconti di Ivo Andric); la vediamo perennemente imbiancata o in un livido disgelo di pozze e pantani. Sentiamo il rumore della fabbrica; il volgare frastuono del night; il rombo delle macchine dei malviventi; un lontano, gracchiante muezzin registrato; nulla percepiamo delle molteplici anime della città famosa per la sua convivenza tra ebrei, musulmani e cristiani d’ogni confessione. Ci sono le persone, anche se è stato tolto loro il passato di amori, di studi, di lavoro. Si ricerca il passato, ma al contempo se ne vuole fortemente fuggire, in un continuo duello tra il distacco cercato affannosamente e la memoria che ci portiamo dentro. C’è la famiglia, anche se non una delle famiglie è completa, manca sempre il marito-padre, tragico lascito della guerra. Ogni padre è però ricercato: in un certificato di morte, in una salma da riconoscere, in una pistola e in un distintivo dell’ “Armija” da conservare.
Per sottrazione lavora anche la sceneggiatura, sia per i personaggi che, piano piano, escono dalla vicenda, sia per i toni narrativi che non si esasperano quasi mai. La vicenda è tanto pregnante in sé che non occorre caricare ulteriormente la trama o la recitazione. Anzi, Mirjana Karanovic, interpreta una protagonista, Esma, forse fin troppo controllata e, quasi sempre, presente a se stessa.
Forse c’è anche un’ultima sottrazione, quella dell’odio. Esma, liberandosi del suo segreto, svela come dall’odio per i suoi aguzzini sia passata all’amore per la figlia, frutto di quell’odio. Altri, che non riescono a vivere senza odiare, scappano, vanno all’estero, tagliando i ponti con tutto il passato e, in definitiva, con se stessi.
Non sorprende allora che in un panorama così fosco, l’unico elemento “a colori” del film (a parte un orrendo vestito rosso iniziale) sia il personaggio della giovane Sara. Lei, anzi, deve costruirsi, deve accumulare conoscenze ed esperienze, anche se non sempre è facile, positivo o come se lo era immaginato.
L’apertura alla realtà (quella vera, non quella costruita per “proteggerla”) e al futuro è il filo che segna la trama del film. Esma, le sue compagne, gli altri, sono il passato, non potranno mai più prescindere da ciò che è stato e che stato fatto loro. Anche Sarajevo non sarà mai più la stessa. Sara e la sua classe, possono invece partire per la gita, per il domani. Proprio in questa partenza, che potrebbe costituire una rottura, Sara trova il coraggio di voltarsi indietro, salutare il passato e guardare avanti, cantando una canzone popolare che prima si rifiutava “Sarajevo ljubavi moja” (Sarajevo amore mio). L’unica volta in cui viene pronunciata la parola amore.
Giuseppe Borroni
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Una pomata antireumatica contro la follia della guerra
Rossano Pinelli è un compositore bresciano che, assieme ad altri musicisti italiani, fra cui Ennio Morricone, ha raccolto l’invito di Davide Anzaghi, Presidente della Società Italiana di Musica Contemporanea, cimentandosi nella scrittura di un melologo. Il melologo è una partitura per voce recitante e accompagnamento strumentale, uno degli sviluppi storici del rapporto fra parola e suono che dal XVI arriva al XXI secolo coi contributi di Poulenc, Prokof’ev, Schönberg, R. Strauss, Stravinskij. Pinelli ha costruito il testo utilizzando “Il Buon soldato Svejk” di Jaroslav Hasek, capolavoro della letteratura ceca, fra le fonti di ispirazione della Primavera di Praga del 1968 e paradigma di forme di azione nonviolenta catalogate esattamente come “comportamenti Svejk” . La composizione, scritta per pianoforte, percussione e voce recitante, si intitola “Opodeldok”, ha debuttato in agosto, proseguendo poi con altre esecuzioni in diverse città italiane; una di queste verrà registrata e pubblicata su un Cd edito da Bottega Discantica. Ne abbiamo parlato con l’autore.
Una scelta particolare per un’opera musicale dove il testo è molto importante…
Il romanzo di Hasek è un testo tipicamente antimilitarista, dotato di una grandissima attualità: descrive le singolari gesta di un soldato che esegue gli ordini in modo pedestre sconquassando la logica militare e proclamando l’ideale di una pacifica vita quotidiana, lontana da ogni forma di barbarie e sopraffazione.
Ti senti vicino a questo personaggio?
Moltissimo: da sempre ho avuto una repulsione totale per il servizio militare (oltre che ovviamente per la guerra) e ho cercato di evitarlo in tutti i modi, riuscendo a farmi riformare.
Com’è stato il lavoro per introdurre un romanzo di 600 pagine in un brano musicale di circa sette minuti?
La scelta dei frammenti di testo non è stata facile e poi, anziché utilizzare la versione italiana edita da Feltrinelli, ho preferito lavorare sul testo originale, visto che la lingua ceca mi ha sempre affascinato.
Il lavoro si divide in tre sezioni che sono collegate senza soluzione di continuità, caratterizzate da diversi climi espressivi e organizzate secondo una sempre crescente concitazione. Poiché i personaggi del romanzo hanno qualcosa di marionettistico, ho pensato alle opere di animazione del regista cèco Jiri Trnka, che nel 1954 ha realizzato una versione dello Svejk con pupazzi animati; quindi ho pensato che il linguaggio musicale in qualche modo si potesse rifare alle colonne sonore, spesso grottesche e surreali, dei disegni animati dell’est europeo che spesso venivano trasmessi alla televisione italiana negli anni ‘60 (o al ricordo trasfigurato che mi è rimasto nella memoria): il linguaggio armonico è fortemente dissonante ma è caratterizzato da polarità che generano accordi che, contenendo intervalli consonanti, garantiscono una chiara percettività. Musica né tonale né atonale ma, citando Ligeti, “diagonale”.
Perché questo titolo?
L’ opodeldok è un linimento con cui il protagonista, Josef Svejk, si massaggia le ginocchia affette da reumatismi nella scena iniziale del romanzo. Ora, questa scena è estremamente pacifica e quotidiana e la scelta del titolo è simbolica: l’opodeldok come simbolo di un momento qualsiasi come possono essercene moltissimi nella vita di ognuno, ad indicare l’assoluta bellezza della “banalità” dei gesti di tutti i giorni, “la dimensione mitica della vita quotidiana” (per dirla con le parole di Thoreau, antimilitarista e pacifista convinto), contro la logica demente e apocalittica di ogni guerra. E non è un caso che il brano, dopo un crescendo parossistico che porta ad un punto culminante, si concluda con la ripresa della musica iniziale, ovvero quella che accompagna la scena in cui Svejk, conversando con la sua affittacamere, si massaggia le ginocchia con la pomata di opodeldok: il riaffermarsi della pacifica vita quotidiana, di un’ assoluta “umanità” che si contrappone ad ogni violenza ed ingiustizia.
LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Una difesa alternativa a quella militare
A. DRAGO, Difesa popolare nonviolenta, EGA, Torino 2006, pagg. 384, € 22,00.
Le difese alternative a quella militare (cresciuta nella linea della distruttività fino al limite massimo, il nucleare, che la rende irrazionale) sono soltanto utopie emotive e aspirazioni spirituali o possibilità realizzabili ed espressioni storiche di una nuova razionalità applicata al settore della difesa? Antonino Drago, che ha studiato le alternative alla scienza dominante, lavora su questa domanda in un libro che può diventare uno dei manuali delle scienze per la pace.
Egli risponde che l’alternativa alla difesa catastrofica è comparsa nel Novecento, secolo sia dell’atomica sia delle lotte politiche popolari nonviolente. Richiamati i numerosi casi storici di popoli che si sono difesi e liberati senza uso di violenza da aggressioni esterne o interne, Drago mostra che tale difesa è anche progettabile, perché fondata su una razionalità alternativa a quella dominante. Su questo profilo della razionalità egli concentra il suo lavoro, che così si caratterizza tra gli studi relativi alla difesa nonviolenta.
Una nuova scienza del conflitto, dal personale all’internazionale, senza uso di armi omicide, è nata dall’esperienza e dalla riflessione che ha criticato la pratica militare ed è alternativa al tipo di scienza che tradizionalmente domina i tempi moderni, quasi fosse l’unica pensabile. Essa ha orientato lo sviluppo sociale in una sola direzione, che culmina nella scienza nucleare e nella difesa nucleare. Ma un’altra razionalità è compresente a questa. La scienza non è unica ma plurale, come dimostra la storia della scienza stessa, che constata i successivi mutamenti di paradigma. Esistono teorie scientifiche alternative. L’irrazionalità dell’attuale potenziale distruttivo impone un altro paradigma scientifico e politico. Quindi non è utopica una nuova razionalità difensiva. Ogni scienza incontra due opzioni fondamentali, argomenta Drago qui come in suoi precedenti studi: può darsi un’organizzazione analitica e gerarchica, che da pochi assiomi deduce tutta la teoria, oppure un’organizzazione problematica, che per risolvere un problema cruciale cerca un nuovo metodo. Un’opzione analoga si presenta riguardo al modo di concepire lo sviluppo: o illimitato o razionale.
Ciò vale anche nelle scienze sociali, quindi nella scienza dei conflitti. Esistono alternative logiche alla teoria dominante della difesa, perciò alla guerra nucleare. Una di queste è la difesa popolare nonviolenta, realizzata in non pochi casi esemplari e progettabile culturalmente e politicamente. Oggi su questi due piani essa incontra determinate difficoltà, che l’autore individua ed esamina. Attraverso otto passaggi argomentativi egli intende dimostrare che all’attuale difesa catastrofica è possibile, razionale e necessario contrapporre l’organizzazione di una difesa non distruttiva e autodistruttiva, gestita da un popolo democratico e non affidata a un organo separato e gerarchico come è l’esercito; una difesa nonviolenta che ha efficacia superiore, minori costi umani e naturali e quella dignità morale che la difesa militare non ha.
Enrico Peyretti
M. MINNOZZI, Juan José Gerardi, La piccola editrice, Celleno 2006, pagg. 109, € 10,00.
Juan Gerardi Conedera è stato barbaramente ucciso il 26 aprile del 1998 a Città del Guatemala. Vescovo ausiliare di quella città, è divenuto l’uomo simbolo della lotta per la difesa dei diritti del popolo indigeno e, in generale, del popolo martoriato del Guatemala.
In Italia è il primo libro che viene pubblicato sulla figura di questo vescovo, contestualizzata nel periodo storico del genocidio indigeno. Viene ripercorsa inoltre in modo puntuale e sintetico tutta la vicenda processuale di cui abbiamo avuto brevi e frammentarie notizie sui nostri organi di stampa.
25 marzo 2005: dopo sette anni di indagini e di processi, l’ultimo giudizio in appello si chiude senza un colpevole per l’assassinio di mons. Juan José Gerardi Conedera, il vescovo che nel Guatemala lacerato da trentasei anni di guerra interna aveva promosso e coordinato il lavoro di ricupero della memoria e di denuncia dei crimini commessi, presentandone il rapporto conclusivo, Guatemala: nunca más, solo due giorni prima del suo assassinio. Questo rapporto dell’ufficio dei diritti umani dell’arcivescovado del Guatemala (edito in Italia da La Piccola Editrice e ultimamente ristampato) rappresenta un atto di accusa nei confronti dell’esercito e dei servizi segreti del Guatemala che riuscirono a cancellare dalle mappe geografiche quattrocento villaggi, lasciando dietro di sé centocinquantamila morti fra la popolazione civile, cinquantamila desaparecidos, quarantamila vedove e duecentomila orfani, oltre a un milione di profughi, costretti alla fuga sulle montagne o oltre confine.
Luciano Comini
LETTERE
Sull’immigrazione incontrollata e l’abolizione delle parate militari
Caro Direttore,
molti anni fa (fine anni ’80?) mi pubblicaste su AN una lettera in risposta a un articolo di Alberto Trevisan sugli immigrati, in cui mettevo in guardia sui pericoli dell’immigrazione clandestina incontrollata (e lasciata in balìa della criminalità nostrana, organizzata e non), sull’intollerabilità del traffico degli schiavi (il racket della carne umana: sia per il lavoro nero che per la prostituzione e l’accattonaggio di donne e bambini o per il traffico di organi)…l’ipocrisia dei nostri umanitari e solidali che si riempiono la bocca di “solidarietà” e “antirazzismo” senza farsi carico dei problemi concreti del diritto d’asilo, dell’accoglienza e l’integrazione….Mettevo in guardia sulla formazione dei ghetti, le aree di degrado urbano, la criminalità diffusa, i focolai di violenza, corruzione e criminalità…e mettevo in guardia altresì della rinascita del razzismo e la xenofobia che questo degrado sociale avrebbe provocato tra i nostri cittadini…Facili profezie! Ma perchè la “sinistra” non l’ha saputo prevedere ? Non fosse altro per la perdita di voti e di consenso che sul piano politico e istituzionale ne è conseguito, a favore della “destra”…
Oggi che i Bronx, i quartieri neri di Los Angeles e New YorK, gli slums di Calcutta e Bombay sono ormai fenomeni di casa nostra e si aggiungono alla camorra di Napoli e le mafie di Bari e Palermo e nuovi fenomeni di squadrismo e di guerriglia urbana sono già una realtà (non solo a Scampìa di Napoli, ma anche alla Garbatella e al Trullo di Roma -prima spedizione punitiva contro i Romeni- a San Salvario e al Parco della Stura di Torino -rivolta degli spacciatori di droga- e a via degli Anelli di Padova), oggi, quando il flusso dei disperati del sud e dell’est del mondo mandati allo sbaraglio dai contrabbandieri scafisti assassini del mediterraneo continua ad aumentare e nessuno stato muove un dito contro le dittature asiatiche o africane che affamano e massacrano i loro popoli spingendoli alla fuga….Oggi, dico, non sarebbe il caso di affrontare il problema con tutte le nostre forze? Fiducioso nella vostra attenzione, un fraterno saluto
Luigi Nicolis
Come Direttore,
condivido pienamente l’obiettivo di arrivare ad una celebrazione della festa della Repubblica basata sulle forze pacificatrici di cui siamo ricchi. Non mi sembra invece ne’ giusto ne’ opportuno che le prime richieste siano di abolire la sfilata militare, o le prime iniziative siano di contestarla.
Credo che dobbiamo anche rispetto al fatto che la costituzione non esclude il servizio militare, che molti nostri concittadini ritengano in buona fede necessaria ed utile la possibilità di difendersi militarmente, e che qualche centinaio di migliaia di nostri concittadini, complessivamente, sono lavoratori militari.
L’abolizione della sfilata militare sarà significativa solo se sarà l’effetto di una ampia adesione popolare alla nonviolenza, alla difesa popolare nonviolenta, ad un atteggiamento di collaborazione e solidarietà con tutti coloro che nel mondo soffrono per oppressione e sfruttamento ecc.
L’abolizione della sfilata militare, senza che vi siano stata questa ampia conversione nei sentimenti e nelle scelte politiche della maggioranza dei cittadini ora favorevoli ad essa, rappresenterebbe solo l’occultamento del vero problema, non la sua soluzione, ed avrebbe anche aspetti di prevaricazione e violenza morale nei loro confronti, che porterebbero inevitabilmente al loro irrigidimento, alla contrapposizione, al conflitto.
Avviamo invece una azione, consapevoli che sarà necessariamente di lunga durata, per favorire una positiva evoluzione e più duraturi risultati.
Potremmo festeggiare la repubblica con una sfilata delle forze del lavoro, della cultura, delle arti, dello sport, ecc., senza proporre elementi di contestazione o derisione della sfilata militare.
Iniziamo a proporla al governo ed al parlamento; se questi fossero sordi, organizziamola noi.
Se questa manifestazione delle forze pacificatrici della repubblica si consolidasse, sicuramente stimolerebbe una riflessione ed una presa di coscienza che porterebbe molti a riconsiderare il ruolo delle forze armate e degli interventi di violenza bellica.
Se sapremo essere convincenti e tenaci, il sostegno alla sfilata militare andrà gradatamente a ridursi, fino alla sua naturale scomparsa.
Gerardo Orsi