Azione nonviolenta marzo 2005
– Verità e giustizia per le vittime della guerra (di Carlo Gubitosa e Alessandro Marescotti)
– Assolti: una vittoria di tutti (di Mao Valpiana)
– Sulla questione delle origini cristiane dell’Europa (di Maria Buizza)
– La Costituzione europea come scelta di pace (di Paolo Bergamaschi)
– Capacità di identificarer la violenza (di AndreaCozzo)
– Una guerra che dura da 18 anni. Campagna “Pace in Uganda” (di Pierangelo Monti)
– L’infinita apertura dell’anima in Aldo Capitini (di Pietro Pinna)
le Rubriche
– EDUCAZIONE: L’arte di ascoltare, per un sano conflitto
– LILLIPUT: Vogliamo la “decrescita”. Decalogo per resistere
– ECONOMIA: Olimpiadi di Torino 2006: No a Finmeccanica
– PER ESEMPIO: La lettera di Clara mette in crisi il comando nucleare
– CINEMA: Il prete che toglieva i ragazzini alla mafia
– MUSICA: Con la riforma scolastica la musica è finita…
– LIBRI: Gli occhiali per vedere verità, giustizia, compassione
– Caro Direttore, le scrivo per dire che…
– Appello dall’India per la Biblioteca gandhiana
Verità e giustizia per le vittime della guerra
A commento dei tragici fatti seguiti al sequestro e alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena, pubblichiamo questo articolo degli amici di Peacelink, che condividiamo integralmente.
Di Carlo Gubitosa e Alessandro Marescotti
La morte di Nicola Calipari è solo l’atto finale di una violenza che dura da anni, e che calpesta tutte le regole del diritto internazionale, le convenzioni di Ginevra, i codici militari e perfino le più elementari regole di umanità.
Chiediamo che gli assassini di Nicola siano portati davanti ad un tribunale assieme a tutti gli assassini in divisa e in doppiopetto che non possono più nascondere le loro azioni criminali dietro il pretesto della “difesa” di un popolo.
Chiediamo che sia fatta giustizia anche all’interno del nostro paese, e che i crimini di guerra commessi dai governanti di ogni colore non vengano più considerati un “errore politico”, ma una responsabilità penale che dovrà ricadere su tutti coloro che a vario titolo hanno disposto azioni di morte portando bombe e sterminio fuori dai confini del nostro Paese.
Siamo stanchi di parole vuote, equilibrismi politici, teatrini televisivi, ipocrisie e retorica. Oggi vogliamo sentire parole vere, e non le vogliamo da politici che fingono indignazione a comando, ma da un tribunale chiamato a giudicare gli assassini di Nicola Calipari, magari proprio quella Corte Penale Internazionale che gli Stati Uniti d’America si ostinano a rifiutare considerando la democrazia come un prodotto destinato alla sola esportazione.
Oggi chiediamo parole vere. Un uomo ucciso senza motivo dalla follia della guerra non è un “eroe” che va celebrato con vuote medaglie, ma una “vittima” di un’assurda occupazione militare che stronca ogni giorno decine di vite, un’aggressione armata che si scontra ogni giorno con il NO alla guerra che milioni di persone in tutto il mondo continuano a ripetere con le parole della nonviolenza.
Secondo il vocabolario un eroe è una persona che “mostra straordinario valore guerresco o è pronto a sacrificarsi coraggiosamente per un ideale”. Non c’è stato nessun valore guerresco nei gesti di Nicola Calipari, ma solo il valore umano di chi ha voluto operare per la vita e contro la violenza. La sua vita non è stata donata volontariamente in sacrificio per un ideale, ma è stata stroncata assurdamente dalla totale assenza di ideali, di valori e di dignità che guida le azioni delle truppe di occupazione statunitensi.
Non c’è eroismo nell’agnello mandato al macello che si trova improvvisamente davanti al suo carnefice: è il macellaio ad essere un vigliacco, e riempirsi la bocca di vuota retorica militaresca sul sacrificio eroico non servirà a consolare una vedova e due orfani, non riporterà in vita un uomo onesto, non servirà a nascondere che il punto del discorso non è l’eroismo delle vittime ma la codardia, la violenza, il cinismo, la freddezza e l’inestinguibile sete di sangue dei carnefici.
Un omicidio a freddo ad un posto di blocco non è un “tragico errore”, ma un “crimine di guerra” che deve essere perseguito con tutte le nostre forze, un crimine che ci chiama all’azione individuale proprio perchè nessuno dei potenti che vogliono esportare democrazia e diritto andrà fino in fondo nel chiedere giustizia per la morte di Nicola Calipari.
Un grido di dolore contro la violenza delle armi non è “antiamericanismo”, ma un sussulto di dignità di un popolo italiano che si ostina a credersi sovrano e non suddito di un impero dove la vita delle popolazioni “conquistate” conta di meno di quella dei cittadini dell’impero.
Oggi chiediamo parole vere, e mentre invochiamo giustizia ci stringiamo attorno alla famiglia Calipari con un invito commosso: tenete duro, non mollate, cercate giustizia in tutti i modi e in tutte le sedi possibili, bussate a tutti i tribunali che possono e devono garantirvi giustizia, non stancatevi di raccogliere memorie e documenti sull’omicidio a sangue freddo che vi ha strappato un padre e un marito, siate forti e continuate in ciò che è giusto, non abbandonate mai il vostro percorso di verità.
Anche se i tribunali e i potenti faranno finta di non sentirvi, il vostro grido sarà un continuo richiamo alla loro coscienza, la vostra voce e quella di tutte le vittime di guerra toglierà il sonno a chi si affretta a ricoprire di fiori le tombe degli eroi solo per riprendere a far squillare le trombe di una marcia suicida, le fanfare di una spirale di morte che oggi, purtroppo, ha tolto la vita e la libertà a un uomo che si è impegnato per tutelare la vita e la libertà degli altri.
Non sentitevi mai soli: nella vostra ricerca di verità tutte le persone di buona volontà, gli amici della nonviolenza, gli affamati di giustizia e tutti gli uomini e le donne onesti d’Italia e del mondo sono già al vostro fianco.
Assolti! Una vittoria di tutti.
12 febbraio 1991: blocco nonviolento del “treno della morte”
24 febbraio 2005: assolti perché il fatto non sussiste
Un lungo applauso liberatorio, nell’austera Aula della prima sezione della Corte d’Appello di Venezia, ha salutato la definitiva sentenza assolutoria per i 17 nonviolenti imputati del reato di blocco ferroviario perché “in concorso tra loro ostruivano ed ingombravano i binari d’entrambe le direzioni di corsa della ferrovia con la presenza fisica ed anche sdraiandovisi sopra, al fine di impedire la libera circolazione di un convoglio viaggiante con precedenza assoluta e recante forniture militari con destinazione Livorno e per il Golfo Persico”.
C’era una bella presenza di amici della nonviolenza oggi a Venezia, per assistere al processo e portare solidarietà agli imputati. Amici venuti anche da lontano, da Torino, da Ferrara, da Gorizia.
Moltissime le attestazioni di solidarietà giunte da ogni parte d’Italia.
Cinque gli imputati presenti: Vincenzo Benciolini, Massimo Corradi, Vincenzo Rocca, Maurizio Tosi, Massimo Valpiana.
Venivamo da un processo di primo grado (Tribunale di Verona, 27 gennaio 1997) che si era concluso con l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Il Pubblico Ministero, che aveva chiesto una condanna a 10 mesi di reclusione, aveva presentato ricorso chiedendo “che la Corte d’Appello di Venezia voglia condannare tutti gli imputati alla pena di legge”.
Questo processo di secondo grado poteva concludersi in diversi modi: non luogo a procedere per intervenuta depenalizzazione di alcuni reati; accoglimento dei motivi dell’appellante e condanna sospesa per intervenuta prescrizione; rinvio alla magistratura civile per sanzione amministrativa; assoluzione con diverse motivazioni.
Con i nostri avvocati abbiamo valutato che la prescrizione e la depenalizzazione non ci avrebbero soddisfatto. Ciò che ci interessava era la piena assoluzione e quindi il riconoscimento da parte della magistratura della legittimità del nostro agire. Quindi gli avvocati presenti (Sandro e Nicola Canestrini di Rovereto, Maurizio Corticelli di Verona, Nicola Chirco di Bologna) erano pronti a discutere la causa nel merito. Forse i giudici non si aspettavano di trovarsi davanti il collegio di difesa al gran completo, né di vedere l’aula piena di pubblico.
In apertura di udienza, dopo i preliminari di rito, il Procuratore Generale ha ritirato l’appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado che era stato presentato dal Pubblico Ministero di Verona. I Giudici si sono quindi ritirati alcuni minuti in camera di consiglio e poi il Presidente ha dato lettura della decisione di confermare in via definitiva la piena assoluzione di tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”.
Dunque una vittoria della giustizia, del diritto, della nonviolenza. La sentenza, oggi definitiva, farà da precedente per altre future azioni nonviolente. Vale forse la pena di evidenziare qualche passo delle motivazioni assolutorie: “… essendo stata l’azione comunque posta in essere per salvare delle vite umane compromesse dall’arrivo in Iraq dei carrarmati trasportati sul convoglio…. (…) … porre in essere una manifestazione nonviolenta a carattere meramente simbolico rientrante nell’ambito dei diritti costituzionalmente garantiti ed in particolare quello della libera manifestazione del pensiero con riferimento al ripudio della guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali (forse per trovare un po’ di spazio sui mass media impegnati in quei giorni in una gara generale di conformismo, nel cercare di convincere, appiattendosi acriticamente sulla posizione assunta dal governo allora in carica, l’opinione pubblica italiana che quella che si andava a combattere in Iraq non era una guerra ma ‘un’operazione di polizia internazionale’”….(…) … La manifestazione inscenata dai pacifisti del Movimento Nonviolento è stato un semplice atto dimostrativo di carattere meramente simbolico finalizzato a sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine al pericolo di risolvere con le armi le controversie internazionali…. (…) ….E che l’intenzione fosse quella cui si è detto, vi è chiara traccia anche nel comunicato, pienamente coerente col comportamento tenuto dagli imputati, letto in udienza e fatto proprio da quelli di loro presenti: “quando partecipammo a quella manifestazione nonviolenta eravamo perfettamente consci di non essere in grado di fermare se non simbolicamente l’escalation della guerra… la nostra è stata un’azione che è andata più in là della politica, nella speranza di poterla un giorno contaminare….”.
E’ una sentenza che andrebbe letta sui banchi di scuola. Una sentenza che accoglie il senso profondo della nostra azione nonviolenta: bloccare un treno che porta un carico di morte non è reato, ma è un atto coerente con la legge suprema della vita.
La democrazia italiana oggi ha fatto un passo in avanti. La nonviolenza è cresciuta.
E’ stata una vittoria di tutti.
E’ una sentenza che ci assolve definitivamente dall’accusa di blocco ferroviario per aver fermato il “treno della morte”, alla Stazione di Balconi di Pescantina il 12 febbraio 1991, proveniente dalla Germania e diretto a Livorno, carico di mezzi militari destinati alla prima guerra in Iraq.
Siamo stati assolti “perchè il fatto non sussiste” in quanto in sostanza i Giudici riconoscono che la nostra azione diretta nonviolenta era tesa “non già ad impedire od ostacolare la libertà dei trasporti ma a rendere palese e ad esternare una posizione di non allineamento a quella degli organi ufficiali” ed inoltre viene riconosciuta la correttezza e la coerenza della nostra resistenza passiva.
Grazie a tutti.
Questa “vittoria di tutti” è stata ottenuta con il concorso di tantissimi amici della nonviolenza. In primo luogo vogliamo ringraziare gli avvocati della difesa, che con generosità, competenza, e autorevolezza hanno patrocinato la causa. Grazie di cuore a Sandro e Nicola Canestrini, Maurizio Corticelli, Nicola Chirco, Giuseppe Ramadori. Questi avvocati costituiscono una preziosa risorsa per tutto il movimento. Senza di loro non avremmo ottenuto un risultato così soddisfacente.
Grazie alle tantissime persone e gruppi che da ogni parte d’Italia hanno fatto pervenire la loro solidarietà, determinante far capire ai giudici che il blocco nonviolento non era un’azione estemporanea, ma esprimeva la profonda persuasione di un sentire comune e diffuso.
Grazie a Padre Angelo Cavagna e al prof. Antonio Papisca, che con le loro testimonianze al primo processo hanno offerto ai giudici le profonde motivazioni morali e giuridiche per dichiarare illegittima quella guerra, e tutte le guerre.
Grazie a chi ha sempre dato una corretta e puntuale informazione, senza la quale non sarebbe cresciuto il consenso attorno a noi. Grazie in particolare a “La nonviolenza è in cammino” foglio quotidiano di approfondimento proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo.
Grazie a chi prima di noi, con sacrificio personale, ci ha insegnato cos’è la nonviolenza e ci ha fatto capire, con l’esempio, la forza e l’efficacia dell’azione diretta nonviolenta.
Grazie ai nostri figli, non ancora nati nel 1991, oggi adolescenti, che ci hanno sostenuto con la loro vivace freschezza, con leggerezza e passione.
Grazie al Movimento Nonviolento che ha messo a disposizione tutte le risorse ideali e materiali necessarie.
Grazie alla magistratura, che ci ha giudicato con imparzialità e in autonomia, ed ha saputo applicare con coraggio lo spirito della legge.
Grazie a chi utilizzerà questa sentenza per proseguire il cammino della nonviolenza.
Mao Valpiana
a nome di tutti i 17 imputati, assolti.
Verona, 25 febbraio 2005
Sulla questione delle origini cristiane.
La Costituzione europea: più frutti e meno radici.
di Maria Buizza
Dopo il clamore dei mesi scorsi, credo sia oggi importante esprimere un’opinione sulla questione tanto dibattuta delle radici cristiane dell’Europa. O meglio, la questione è tale: la richiesta, con qualche tratto impositivo, delle gerarchie ecclesiastiche di affermare, all’interno della nuova costituzione, l’origine giudaico-cristiana dell’Europa.
Ritenevo che la cosa andasse neppure discussa poiché assolutamente palese mi sembrava essere l’inopportunità di una tale pretesa. Apprendo, però, che il mio pensiero non è così scontatamente comune e ciò, devo essere sincera, mi preoccupa. Mi preoccupa non perché qualcuno possa avere idee diverse in merito ma, piuttosto, perché tali idee mi sembrano figlie, più che di riflessioni consapevoli della modernità, di vecchi stereotipi per cui i socialisti sono laicisti e, peggio, i comunisti anticlericali. Ebbene: per affrontare seriamente il problema è necessario ripulirci da questo vecchiume di pregiudizi ormai inconsistenti.
La questione va affrontata con gli strumenti corretti.
Non vorrei spendere molte parole sull’analisi storica delle radici cristiane dell’Europa. Il nocciolo del problema non sta, infatti, nell’indagare se e quanto l’Europa, nella sua essenza, si sia formata attraverso la mediazione della cultura cristiana. Rimane evidente che cristianesimo sia da sempre stato elemento fondamentale nella storia europea. Ma non fu l’unico: possiamo affermare che l’Europa abbia avuto inizio nell’800 con l’incoronazione di Carlo Magno, ma possiamo anche dire che essa ebbe inizio con la fondazione di Roma.
La cultura del nostro continente, pertanto, ha di certo avuto radici cristiane, ma anche greche e romane. Il cristianesimo fu certo imperante ma crebbe sul terreno fertile della cultura greca e ciò non può essere trascurato al fine di imporre, oggi, una o l’altra etichetta su qualcosa che si è formato attraverso vari contributi.
Il problema, però, oggi non si pone a livello storico. La questione è più profonda: non va discussa l’attendibilità del contenuto della richiesta fatta dal Papa ma, piuttosto, il fatto stesso che tale richiesta sia stata fatta.
Perché voler mettere il proprio marchio su qualcosa che poco ha a che vedere con la religione?
Non credo sia importante per l’essenza del cristianesimo moderno marchiare di sé un atto politico coma la costituzione. Anzi dico di più: una tale richiesta riporta la memoria ad un passato in cui i legami tra potere politico e religioso generarono errori e complicità di cui, ancora, oggi la chiesa sta pagando le conseguenze in termini di credibilità.
Se l’essenza del messaggio cristiano è la carità, l’amore di un Dio che ama i singoli, allora esso non va affermato sulla carta ma nella realtà dei fatti. E, in tal senso, si palesa una contraddizione: come si può affermare la carità, che è amore per gli altri, attraverso l’imposizione all’Europa delle radici cristiane, imposizione che è grave atto contro la libertà di coscienza di chi non si riconosce in quell’eredità. Imponiamo il messaggio cristiano? Anche ciò ha sapore antico, sapore di errori antichi.
Il messaggio cristiano mette l’uomo, la sua libertà, la sua dignità al centro; mette l’altro, il prossimo ed il lontano in credito verso me e mette me responsabile dell’altro.
Il messaggio cristiano insegna una religione aperta, non chiusa come una setta, non chiusa in dogmi e dottrine ma aperta alla centralità dell’uomo.
Il messaggio cristiano è quello testimoniato dal figlio di Dio che si fa uomo per essere all’uomo più vicino. Con tali premesse, reclamare oggi uno status privilegiato rispetto ad altre fedi presenti in Europa appare inopportuno, controproducente, sbagliato.
La chiesa, con tali richieste, nega se stessa, inficia la sua stessa credibilità. Vuole sottolineare le radici cristiane dell’Europa e, intanto, dimentica le sue di radici, si allontana dal senso vero della carità e dell’umiltà.
Il Papa è lontano dal secolo, lontano dalla modernità. Ieri, forse, potevano essere concepibili tali richieste (non giuste – ben inteso – e neanche giustificabili) ma oggi errori di tal sorta possono diventare fatali.
La chiesa della base, le gente, il popolo ha così ben assimilato il messaggio cristiano da sostenere la laicità dello stato come segno del rispetto della libertà di tutti. Questo è il paradosso più grande ed, insieme, quello che maggiormente riempie di speranza per il futuro.
Riprendo il pensiero e le parole di un importante pensatore italiano, Gianni Vattimo: il cristianesimo potrà sopravvivere solo “secolarizzandosi”, ossia uscendo da ogni pretesa rigidità o dogmatismo e, invece, avvicinandosi all’uomo, al suo mondo, al suo secolo. <<Secolarizzazione come fatto positivo significa che la dissoluzione delle strutture sacrali della società cristiana, il passaggio ad un’etica dell’autonomia , alla laicità dello stato (…) non va intesa come un venir meno o un congedo dal cristianesimo, ma come una più piena realizzazione della sua verità che è, ricordiamolo, la kenosis, l’abbassamento di Dio>>.1 Al centro la carità, dunque, e poi il resto.
Kenosis è Dio che si abbassa all’uomo, fino all’incarnazione. Lontani, dunque, dalla rigida autorità di un Dio chiusi nella sua onnipotenza, ci si avvia ora alla morte di dio, così come ne parlava Nietzsche. Chi, oggi, rivendica le radici cristiane non ricorda quella morte, non ha elaborato un lutto importante. E’ defunto il dio dell’autorità assoluta ma vive quel Dio che, in Cristo, è diventato icona dell’indebolimento: Dio non è più pensato come padrone ma come amico. Ed un amico è colui che accoglie, rispetta, si apre all’altro, al mondo, al secolo.
La vita religiosa, allora, è necessario che rispetti tali caratteristiche, impregnandosi d’esse. L’altro è al centro del cristianesimo ed all’altro il cristiano si aggiunge come contributo di arricchimento non di oppressione. La pretesa di chiudere, di etichettare con il proprio marchio ciò che riguarda tutti è un meccanismo violento, è una tentazione di potere. Tentazione alla quale, soprattutto oggi, non si può né si deve rispondere se non con la ferma e serena convinzione che la laicità è, politicamente, condizione per la nonviolenza e, religiosamente, condizione per la fede.
Mi pare utile, nonché doveroso, riproporre in questo contesto le parole di Aldo Capitini, immemorabili per il profetismo di cui sono intrise:<< L’atteggiamento fondamentale religioso deve essere di libera aggiunta. Tutte le volte che essa si fa pretesa unica ed autoritaria, sottomette l’unità di tutti a se stessa, obbliga tutti a passare per se stessa, e perciò divide, è guerra e non pace>>2.
In quell’espressione <<obbliga tutti a passare per se stessa>> è riposto il senso ultimo del più grande rischio che si corre con tale pretesa. In un momento in cui l’Europa vive le sane contraddizioni delle differenze che in essa coesistono, in un momento in cui l’eterogeneità di religioni e culture può diventare terreno fertile di splendori, ma anche terreno mortalmente minato, voler “ far passare tutti da una religione come fantomatica radice culturale” sarebbe l’inizio delle divisioni, dei conflitti per il dominio di un ruolo o di un privilegio.
Si palesa, allora, il discorso da cui abbiamo preso le mosse: la questione delle radici cristiane dell’Europa non va trattata nel merito della sua verità storica, ma nel senso del significato profondo che ha il richiedere una tale sottolineatura. Laicità dello stato e libertà di coscienza sono tra le manifestazioni più rilevanti dello spirito cristiano: come è possibile affermare questo negando quelle?
La riflessione, però, non credo si possa fermare solo qui. Penso alle parole di Raniero La Valle: <<Gli alberi si giudicano dai frutti non dalle radici>>. Ritengo che l’espressione non abbia bisogno di molti commenti, si spiega da sé. La comunità cristiana tutta ha, oggi, il compito di mostrare i risultati concreti che il suo progetto di vita ha portato in termini di alternativa al denaro, all’avidità di potere e di ricchezza. Dove sono questi frutti? Ad ognuno sta l’impegno ed il dovere di trovarli o di farli germogliare prima di rivendicare presunte radici o privilegi.
Vorrei concludere con due citazioni di Raimon Panikkar, sacerdote e teologo. Confesso di non aver mai letto nulla di lui ma di essere stata colpita da un articolo recentemente trovato in internet. Afferma: << Il cristiano non è tanto “distintamente cristiano” quanto “divinamente umano”, secondo l’esempio di chi chiamò se stesso Figlio dell’Uomo, pienamente umano alla pari che divino, e che predicò che la salvezza non si limitava al “popolo eletto”>>3.
Il cristiano dovrebbe contaminare di sé tutto ciò che tocca, senza bisogno di essere etichettato; senza preoccuparsi che i suoi valori siano scritti poiché essi dovrebbero essere più evidenti, più visibili, più palpabili di ogni documento. Divinamente umano, uomo teso ai valori ed a Dio…questo basterebbe. <<Il Vangelo parla dei cristiani come sale della terra non perché convertano tutto in sale, ma perché sappiano far risaltare il sapore di tutti i frutti della cultura umana, senza eliminare il contributo di altri possibili condimenti>>4.
La Costituzione europea come scelta di pace
Di Paolo Bergamaschi
La Costituzione Europea ha rilanciato il dibattito sulla politica estera comune, i meccanismi decisionali che la presiedono e la eventuale necessità di agganciarla ad una vera politica di difesa e sicurezza. Qualificati osservatori sostengono che l’azione esterna dell’Unione senza un robusto elemento militare è destinata al fallimento. Critici d’oltre-oceano non perdono l’occasione per sbeffeggiare un’Europa inetta e imbelle, ansiosa da una parte di giocare un ruolo da potenza mondiale mentre dall’altra si dimostra riluttante ad aprire il portafoglio per aumentare le spese di difesa.
Analizzando l’azione esterna dell’Unione Europea in rapporto a quella degli USA si evidenzia come integrazione, inclusione, cooperazione, partenariato e condivisione siano state le caratteristiche dominanti di quella europea mentre quella statunitense, storicamente più aggressiva, gioca più sui rapporti di forza, la coercizione e l’imposizione. Gli Stati Uniti nel loro approccio non possono prescindere dal fatto di essere l’unica superpotenza militare del pianeta; gli Europei, al contrario, hanno fatto di necessità virtù adattandosi alla mancanza più o meno voluta di una convincente componente militare. E’ nato così il Partenariato Euro-Mediterraneo rivolto a tutti i paesi rivieraschi del “mare di mezzo”, il Processo di Associazione e Stabilizzazione per i Balcani che offre una prospettiva di adesione ai paesi della regione e più recentemente la Politica Europea di Vicinato che mira a promuovere i valori ed estendere i benefici della comunità evitando la creazione di nuovi muri con i paesi vicini dell’Unione allargata, che peraltro non ha ancora concluso il processo di ampliamento.
Il 2003 è ricordato come l’anno che ha visto il decollo della Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD), il 2004 come quello del test più probante. Con le missioni di polizia in Bosnia-Erzegovina e Macedonia e le missioni militari in Macedonia e Congo l’Unione Europea, due anni fa, ha messo a disposizione delle Nazioni Unite le proprie limitate forze per l’espletamento di mandati internazionali. Nel dicembre dello scorso anno è partita in Bosnia la missione Althea che vede il peace-keeping di 7000 soldati europei che hanno preso il posto del contingente della NATO. Altre missioni di mantenimento della pace si profilano quest’anno all’orizzonte.
Qualcuno ha veduto in questo l’inizio di un processo di militarizzazione dell’Unione Europea, altri, io fra questi, un modo concreto per rafforzare gli strumenti di intervento dell’ONU nelle situazioni di crisi a sostegno della sicurezza di tutti.
La PESD fu creata nel 1999 dopo la guerra in Kosovo. Poggia su di una componente militare ed una civile recependo quindi in pieno uno dei cavalli di battaglia del movimento pacifista secondo il quale la difesa non deve essere monopolio dei militari. Gli articoli I-41 e III-309 della Costituzione Europea di fatto attribuiscono pari dignità a mezzi civili e mezzi militari. E’ la prima volta che questo avviene in un documento di tale importanza superando una volta per tutte il mito dell’esercito popolare ancora presente nell’immaginario di una parte della sinistra. Più che ad una militarizzazione dell’Europa la Costituzione Europea apre potenzialmente la strada ad un graduale processo di demilitarizzazione della difesa. E’ sulla scorta dell’esperienza europea di questi ultimi anni che bisognerebbe procedere ad una profonda riforma degli attuali ministeri nazionali della difesa trasformandoli in ministeri di difesa, prevenzione dei conflitti e gestione delle crisi. Ed in linea con i principi della costituzione occorre sviluppare nuovi strumenti di intervento a partire dai Corpi Civili di Pace complementari e a volte più produttivi del puro peace-keeping militare. Le scuole per mediatori di pace che si sono aperte con successo a Bolzano, Firenze ed in altre città italiane con la partecipazione di civili e militari si muovono in questa direzione.
A chi obietta che l’inclusione nella Costituzione di un articolo che istituisce l’Agenzia Europea per la Difesa è un pessimo segnale che sfregia il volto pacifico dell’Unione non posso che rispondere ricordando che la stessa Costituzione all’articolo 47 ci permette di chiedere con un milione di firme l’istituzione di una Agenzia Europea di Peace-Building che sviluppi nel concreto gli strumenti ed i metodi di interposizione nonviolenta.
Promozione della pace, prevenzione dei conflitti e sicurezza internazionale sono alla base dell’azione esterna dell’Unione Europea incardinati nel trattato che sarà sottoposto quest’anno alla ratifica dei parlamenti dei paesi membri. Eravamo a milioni a marciare contro la guerra. Non è bastato e non basterà fino a quando non sapremo trasformarci in un vero movimento per la pace in grado di cogliere appieno e di sfruttare l’enorme potenziale che la Costituzione Europea ci offre.
Capacità di identificazione della violenza
Non è cosa ovvia essere in grado di identificare la violenza. Certo c’è una violenza che appare subito chiara a tutti: è quella fisica e di attacco. Ma la chiarezza finisce là, mentre, a parte che non sempre è chiaro chi ha attaccato, chi ha cominciato per primo, si potrebbe andare ben oltre nella messa a fuoco delle forme di violenza. La violenza verbale, quella psicologica sono troppo poco appariscenti, troppo “normali”, per essere considerate violenza? Eppure anch’esse producono sofferenza e sono vettori, per dirla con Pat Patfoort, della catena della violenza o della sua escalation (oppure di frustrazione, se la violenza viene non rivolta verso altri ma introiettata).
Se non la sappiamo individuare, la violenza poi esplode senza che ne capiamo il perché e si rischiano spiegazioni banali come “ero (o era) nervoso”, o altre che alla fine giustificano senza permetterci di intervenire in nessun punto del processo.
Identificare la violenza significa dare questo nome ad azioni che forse siamo stati abituati a chiamare in un modo che ci induce ad accettarle passivamente o a compierle inconsapevolmente o a ritenerle addirittura positive, come spesso capita nel caso della violenza strutturale. Consideriamo la scuola: già la struttura frontale delle lezioni, con l’insegnante da un lato e coloro che imparano tutti/e insieme come se fossero un essere unico e indistinto dal lato opposto, suggerisce implicitamente che non vale la pena che coloro che stanno tra i banchi si guardino, parlino e si ascoltino reciprocamente: è un’ottica trasmissiva e non comunicativa. Del resto, l’insegnante non ha come proprio appannaggio la cattedra, la lavagna e tutto ciò che mostra chi “comanda”? Danilo Dolci, quando costruì la scuola di Mirto, a Partinico vicino Palermo, si pose questi problemi e cercò di superarli: banchi ad anfiteatro o, per piccoli gruppi, a circolo ecc. Si preoccupò di lavorare anche sul vocabolario – altro mezzo di trasmissione della violenza invisibile – e propose di sostituire scuola con centro educativo, classe con gruppo, disciplina con responsabilità e così di seguito. Non si trattava di puro nominalismo ma di incanalamento del pensiero in direzione cooperativa anziché autoritaria; infatti con le parole si vedono le cose in un certo modo o in un altro e si fanno le cose in un certo modo piuttosto che in un altro. Ad esempio, possiamo trattare davvero con rispetto i bambini se continuiamo a chiamarli col nome di minori che dice della loro inferiorità? Sì, certo, per questo badiamo a loro; ma per questo anche decidiamo per loro.
Per fare ancora qualche esempio relativo al linguaggio: quante volte, con logica autoritaria, diciamo “devo (o deve, o dovrebbe) fare questo o quest’altro”? e non ci viene insegnato che gli ‘altri’ sono terroristi senza distinguere il terrorismo dal basso di questi ultimi dal nostro terrorismo dall’alto che uccide innocenti con la guerra? non si dice che ci sono gli Stati-canaglia senza dare lo stesso nome agli Stati occidentali che vendono loro le armi?
I giochi: sono violenti solo quelli che imitano le azioni degli eserciti oppure non dico solo il pugilato, ma anche il calcio e gli scacchi possono esser tali se mentre facciamo goal o scacco al re godiamo dell’avere sconfitto l’altro? Non affermo; domando veramente, perché non credo che ci sia una risposta univoca valida per tutti i casi: dipende dallo spirito con cui gioco – anche se, certamente, in ogni forma di gioco è già insita una tendenza cooperativa o competitiva.
C’è violenza nell’indifferenza, ma forse anche nel semplice “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, visto che potremmo pure “fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi”. Aggiungerei la violenza contro le cose inanimate: se l’altro nome della nonviolenza (ahimsa) è satyagraha, cioè “tenere alla verità (satya)”, cosa composta da tutto ciò che è (sat), allora la nonviolenza è tenere a tutto, ad ogni cosa che è, vivente o non vivente che essa sia.
Identificare la violenza non è cosa facile. Ma non è neppure impossibile: non si tratta di vivere ‘in continua paranoia’, basta solo un po’ di lentezza e di attenzione e la consapevolezza può crescere piano piano con uno sforzo sempre minore.
Forse può essere d’aiuto l’idea che ogni cosa si può fare in tre modi: con violenza, senza violenza, con nonviolenza. “Con violenza” è chiaro: rimanda a qualsiasi forma di aggressione. “Senza violenza”: ad esempio, quando si parla senza alzare la voce, senza interrompere e in generale quando non si prevarica. “Con nonviolenza”: quando si ha cura dell’altro e si cerca di contribuire alla sua espressione di sé o, nel caso di conflitto, di badare a non fargli male, a lottare l’azione e non la persona.
Andrea Cozzo (acozzo at unipa.it)
Una guerra che dura da 18 anni
L’Uganda era chiamata “perla dell’Africa” e dal punto di vista ambientale lo è ancora, ma, per le popolazioni del nord, la vita è carica di sofferenze e paura, a causa della guerra e delle malattie.
Jan Egeland, vicesegretario generale dell’Onu e responsabile delle questioni umanitarie, dopo una visita nell’autunno scorso nel nord Uganda, ha riconosciuto: “Quello del nord Uganda è uno dei peggiori disastri umanitari del mondo e noi, come Nazioni Unite, abbiamo fatto troppo poco”.
Negli ultimi mesi, dopo un periodo di terrore, si comincia a parlare di tregue e di avvii di colloqui tra le parti in conflitto, ma questi segnali di pace potrebbero un’altra volta svanire.
La buona notizia verrà quando la comunità internazionale, l’Onu, l’Unione Europea e l’Unione Africana si decideranno a intervenire veramente, con iniziative e con forze di pace.
Per ora arrivano ancora notizie di incursioni degli olum (i ribelli del Lord Resisters Army) nei villaggi e di scontri armati con l’esercito, che a sua volta non lascia tranquilla la gente, che si ritrova tra l’incudine e il martello.
La vita nel nord Uganda è sconvolta: l’80% della popolazione, abbandonate le proprie abitazioni e abitudini, vive in condizioni disumane nei campi profughi, con il poco cibo che viene donato, senza servizi igienici, con epidemie di colera e AIDS.
Migliaia sono anche i “pendolari della notte”, che al tramonto, abbandonano le proprie capanne e con una stuoia e una coperta vanno a pernottare in città, sotto le tettoie degli ospedali e delle missioni; specialmente i minori, perché rischiano di essere rapiti dai ribelli che li schiavizzano: i maschi come baby soldati e le femmine come schiave sessuali. Le cifre parlano di 20.000 bambini rapiti tra le popolazioni del nord Uganda (Acholi, Lango, Teso), molti dei quali ancora tra le file dei ribelli.
Questo è l’aspetto più tragico di una guerra, una delle guerre ignorate dell’Africa, iniziata (con gli attuali contendenti) nel 1986. Da una parte c’è l’esercito del Presidente Yoweri K. Museveni, dall’altra l’Esercito di Resistenza del Signore, agli ordini di Joseph Kony, un carismatico e ambizioso personaggio, che dice di essere posseduto da uno spirito divino e che vorrebbe instaurare in Uganda un regime basato sull’applicazione fondamentalista dei dieci comandamenti, ma che da sempre ordina di uccidere e fare razzie.
Sulle 95000 cartoline distribuite nella Campagna “Pace in Uganda”, è riprodotto il disegno fatto da un tredicenne, che vive in un centro di recupero, dopo essersi liberato dalle mani dei ribelli. Su un foglio di quaderno ha reso la sua testimonianza: uomini armati di fucile e machete che uccidono, bruciano le capanne, legano i sequestrati e li obbligano a portare pesanti carichi.
I racconti dei ragazzi ritornati dalla terribile esperienza del rapimento e della guerriglia sono raccapriccianti, essi stessi sono stati costretti a compiere crudeltà indicibili, persino contro i loro stessi compagni. Alcune ong per questi sopravvissuti hanno attivato centri di riabilitazione, per curarli dai traumi psichici e fisici riportati.
La gente, che nonostante tutto riesce ancora a sorridere e sperare, si chiede i perchè di una guerra che dura da 18 anni e che ha causato 100 mila morti. In particolare si chiede perchè l’esercito ugandese, forte di 40000 soldati, ben armato (il più forte del centro Africa), non riesca a sconfiggere le bande di ribelli, perlopiù minorenni arruolati forzatamente, che in passato hanno raggiunto le 4000 unità e che oggi, secondo alcune fonti, sarebbero solo 200. Ivana Ciapponi nel libro “I bambini primo bersaglio. Il dramma del Nord Uganda” (Ed. EMI) ha scritto: “Spesso accade che invece di difendere la popolazione dagli abusi commessi dai guerriglieri, siano i militari governativi stessi a commettere crimini, ammazzando o derubando le persone ai posti di blocco o saccheggiando le capanne”.
Il Presidente Museveni per combattere la guerriglia chiede e ottiene dall’occidente armi e addestramento; ma poi anziché impiegare il suo esercito per risolvere il conflitto interno (ammesso che si possa risolvere con la forza delle armi), lo impegna nei conflitti negli stati confinanti e lo offre persino a Bush per la guerra in Irak. Ma allora si può ragionevolmente pensare che i ribelli, benchè nemici del governo centrale, siano funzionali al potere, come è funzionale la guerra. Infatti la guerra ai ribelli (o terroristi) giustifica la richiesta continua di armi e la sospensione dei diritti civili nel paese; indebolisce e riduce le popolazioni del nord, da sempre avverse a Museveni; inoltre, fino a qualche mese fa, la guerra poteva servire a preparare un eventuale attacco al vicino Sudan (stato canaglia per il governo Bush).
Provvidenzialmente in Sudan si è avviato un processo di pace, giunto il 9 gennaio alla firma di un accordo tra il governo islamista e i separatisti del Sud; accordo che, come ha dichiarato il Segretario generale dell’Onu, Kofi Annan: “servirà anche come base e stimolo alla soluzione di altri conflitti”. Si consideri che finora le autorità sudanesi hanno concesso ai ribelli di Kony le armi e le basi operative sul proprio territorio in funzione anti-ugandese, mentre il governo di Kampala continua a essere un fedele alleato di John Garang, leader storico dello Spla (Esercito popolare di liberazione del Sudan), formazione antigovernativa sudsudanese.
I dossier delle organizzazione per i diritti umani Human Rights Watch e Amnesty International muovono pesanti accuse al governo e al sistema giudiziario ugandese; ma di esse e della guerra nel nord non si parla in occidente, così il Presidente Museveni continua a godere la fiducia tra i grandi della terra: infatti Bush lo ha invitato al summit G8, che si è tenuto negli Usa nel giugno scorso. Ora, per essere rieletto nel 2006, Museveni ha in progetto di emendare la costituzione da lui voluta, che non consente un terzo mandato presidenziale (anche a questo serve la guerra).
In realtà il Presidente teme l’intervento di forze internazionali e le inchieste della Corte penale Internazionale, che innanzitutto dovrebbe processare i capi del LRA.
Come per il Sudan e il Darfur, l’ONU, l’Unione Africana e l’Unione Europea (primo partner commerciale dell’Uganda) potrebbero influire decisamente sul cammino di pace.
Proprio per chiedere l’intervento della comunità internazionale e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, è stata attivata in Italia la Campagna “Pace in Uganda”, su iniziativa di 23 organizzazioni (tra le quali MIR-MN e Azione Nonviolenta).
L’appello che gli italiani con le cartoline sono invitati a spedire ai responsabili delle organizzazioni internazionali, è stato già più volte ripetuto dall’Arlpi (Acholi religious leaders’ peace initiative), un organismo ecumenico che riunisce vescovi cattolici e anglicani e capi islamici del distretto Acholi, presieduto dal coraggioso arcivescovo di Gulu, John Batist Odama, minacciato dai ribelli del LRA e ammonito dal governo, per le iniziative di pace e per le denunce di violenze mosse alle parti in conflitto.
Nel mese di maggio Mons. Odama mi disse:“Le radici del conflitto in nord Uganda sono al di fuori della regione, per cui ONU e UE hanno un ruolo importante, in quanto possono fare grosse pressioni politiche, interventi diplomatici e finanziari per arrivare a una soluzione del conflitto”.
Grazie anche all’Arlpi si è aperto il muro di silenzio che avvolgeva questo conflitto e oggi c’è qualche speranza di pace, come ha constatato Mons. Odama: “Questa guerra, che fino a pochi anni fa era praticamente sconosciuta, oggi incomincia ad apparire sulla scena internazionale e si spera che questa maggiore conoscenza possa portare a degli sbocchi positivi. Il movimento interreligioso per la pace che ha dato voce ai senza voce, la formazione di gruppi per la pace nelle scuole, i movimenti giovanili, le donne impegnate per la pace, sono segni di grande speranza per il futuro”.
Anche noi e le nostre organizzazioni, con la Campagna “Pace in Uganda”, possiamo ripetere a tutti i livelli il grido di pace della povera gente del Nord Uganda “STOP THE WAR ! STOP USING CHILD SOLDIERS !”.
Pierangelo Monti
CAMPAGNA “PACE IN UGANDA”
La “Campagna Pace in Uganda” è promossa da 24 organizzazioni e riviste, affinchè finalmente, dopo 18 anni, la comunità internazionale si impegni a fermare le violenze nel nord Uganda.
Di questa Campagna sono stati informati personalmente anche i parlamentari italiani membri delle Commissioni esteri di Camera, Senato e del Parlamento Europeo.
Gli obiettivi della Campagna sono: sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sul dramma dell’Uganda, diffondere l’appello alla pace in Uganda, sollecitare l’impegno delle istituzioni internazionali a intervenire per fermare la guerra, smascherare i responsabili della guerra, soccorrere la povera gente che vive nei campi profughi e che vuole riprendere la vita in pace.
Le brevi tregue e le trattative avviate tra le parti in conflitto negli ultimi mesi hanno bisogno di essere incoraggiate dall’esterno, perchè non finiscano nel nulla, come altre volte. Infatti sono molti gli interessati a perpetuare il conflitto armato: innanzitutto i ribelli che vivono di razzia e ambiscono al potere, poi le forze armate, che dalla guerra trovano alimento (mentre la gente è in miseria), quindi chi è al potere, perchè così richiede aiuti civili e militari all’estero e giustifica la sospensione di diritti civili e il divieto di protestare.
In un quadro così drammatico, segnato dall’odio per il nemico e dalla sofferenza di tanti innocenti, l’unica luce di speranza è portata da volontari e missionari, i quali però, proprio per questo, spesso pagano il loro impegno con la vita.
“C’è bisogno di parlare, di denunciare questa tragedia che si consuma nell’indifferenza, cercando di coinvolgere e sensibilizzare la comunità internazionale” (Mons. John Batist Odama, arcivescovo di Gulu).
Sulle cartoline è stampato il disegno fatto da un bambino acholi, rapito dai ribelli e poi sfuggito, che però non riesce a cancellare l’immagine della violenza patita nel suo villaggio.
Grazie dell’attenzione.
Pierangelo Monti
Coordinatore della Campagna
0125251012 Ivrea (TO)
“L’infinita apertura dell’anima” in Aldo Capitini
Questo articolo è stato scritto per la rivista mensile nonviolenta indiana “Sarvodaya” (mensile del Khadi Friends Forum, Gandhi Smarak Nidhi, Gandhi Museum).
Pur se contenente cose ampiamente risapute nel nostro ambito, riteniamo utile pubblicarlo come possibile stimolo a riprendere direttamente in mano gli scritti di Capitini, perennemente ispiranti la coscienza e animanti all’azione.
di Pietro Pinna
“Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore, e di instaurare subito, a partire dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza una apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia”.
In questa frase (scritta profeticamente alla vigilia di quella tremenda “decapitazione” che fu la 2ª guerra mondiale) troviamo limpidamente condensati gli elementi fondamentali che caratterizzano l’istanza nonviolenta di Aldo Capitini: il suo motivo ispiratore; l’uomo nuovo che se ne fa portatore teso al superamento della realtà di male in cui l’umanità è immersa; e il basilare atteggiamento pratico da cui avviare il rinnovamento.
Motivo ispiratore è “l’infinita apertura dell’anima”, l’affermazione cioè dell’unità amorevole, “di sopra a tante differenze”, tra tutti gli esseri umani. Cogliamo qui una prima caratterizzazione della nonviolenza capitiniana. L’unità amorevole da essa postulata si distingue dalle altre forme tradizionali di unione, perché queste confinano la solidarietà ad un numero limitato di esseri: i parenti, la propria congregazione, e al più i cittadini del proprio Stato. Qui l’orizzonte si chiude, dilà dal quale si fa lecita la violenza – oppressione, sfruttamento, guerra – verso chi ne sta fuori- per la difesa indiscriminata ed esclusiva dei propri particolari interessi.
La nonviolenza capitiniana (gandhiana) estende invece questi confini all’orizzonte mondiale, dove l’unità amorevole vale per tutti gli uomini. “Tutti – afferma Capitini – è il nuovo nome di Dio”, nel concetto che la salvezza, la liberazione non è individuale ma di tutti insieme. (Ripeteva Capitini che “il male dell’umanità deriva da un fatto che dura da millenni: il fatto che non abbiamo pensato e operato per tutti, l’uomo preoccupato soltanto della sua proprietà individuale in terra e della sua salvezza in cielo, in ciò favorito dalle vecchie società e vecchie religioni che sono società e religioni del privilegio”). In questa “apertura infinita dell’uno verso l’altro” emerge il riconoscimento del valore centrale di ogni essere nella sua singolarità unica e irripetibile, da preservare e valorizzare poiché “in tutti – sostiene Capitini -, fino all’essere più meschino o malvagio, quale che sia il loro vivere e il loro agire, il loro sviluppo e la loro buona fede, c’è l’esigenza e la possibilità della vita spirituale”.
Il secondo essenziale elemento richiamato da Capitini è che “il primo progresso dell’apertura infinita” consiste nel partire da noi stessi, dal proprio “nuovo modo di sentire la vita” in un rapporto amorevole verso ogni altro. In che cosa consiste questo cambiamento rispetto al nostro modo d’essere attuale, che contrariamente ad ogni nostro migliore proposito ci fa vivere in una perenne condizione schizofrenica, che nella scissione tra i nostri professati ideali e i nostri reali comportamenti ci fa inevitabilmente ritrovare immersi nella confusione, nella conflittualità, nella disperazione e nella solitudine? Se appena fossimo veramente consapevoli di noi stessi, vedremmo che al centro del nostro interesse, invece che la sollecitudine per l’altro nella ricerca del bene comune, c’è fondamentalmente la preoccupazione del nostro io, la soddisfazione e la difesa strenua di sé, del proprio comodo, della propria sicurezza, delle proprie svariate appetizioni. Noi non guardiamo veramente l’altro per quello che è in sé, chiedendoci come fa Capitini: “Qual è la sua caratteristica, la sua vita, la sua libertà, le sue esigenze, il suo formarsi dal di dentro?”. Guardiamo invece gli altri semplicemente in rapporto a quanto ci può venire utilitariamente da loro, ad esclusivo nostro vantaggio materiale o psicologico. In realtà noi finiamo col non guardare altro che noi stessi. Il cambiamento allora, se vogliamo attuare una relazione adeguata, instaurare quel rapporto creativo di bene, di giustizia, di pace, di solidarietà con l’altro, dev’essere quello di orientare la nostra vita in direzione opposta, non in quella dell’io ma nella direzione del tu – il “divino-tu” capitiniano – , visto come un altro se stesso (vedendo Dio, come dice Gandhi – in ogni creatura). E questo diverso orientamento si realizza se noi riduciamo per quanto possibile, con un’attenzione costantemente vigile, il nostro io, la sfera egoistica ed egotistica dei nostri esclusivi interessi ed ambizioni, distaccati dalla sete di potere e di successo, di prestigio usurpato, di arrampicata sociale, dei più diversi stravolti desideri, non morbosamente attaccati agli oggetti di questi desideri. Quell’io distaccato che – dice Capitini – “non chiede di avere cose, ma di essere anima”.
Infine il terzo elemento, il basilare atteggiamento pratico da cui avviare il rinnovamento: ”Sottrarre subito ogni collaborazione con quell’errore” (il dilagare della violenza e del materialismo). Il che comporta il riconoscimento che del tanto male sociale deprecato, una parte di responsabilità attiene a noi medesimi. Perché la verità è che, se quel male è così profondamente radicato nella società e così esteso da investire moltitudini, esso beneficia della complicità, cioè a dire della collaborazione, della larga parte dei suoi stessi membri, quelli stessi che se ne dolgono e al quale dicono di volersi ribellare. Ma di questa ribellione, di questa noncollaborazione, non siamo poi disposti ad assumere i rischi e i sacrifici e veniamo ad adagiarci in un atteggiamento di passività, di complice adeguazione al male sociale che salvaguardi per quanto possibile la nostra personale tranquillità e interessi. Del male tremendo della guerra, che tutti a parole aborriamo, possiamo far responsabili e artefici soltanto i capi di Stato e l’infima cerchia di politici, burocrati, scienziati, generali? La guerra si impianta e si effettua essenzialmente con la collaborazione della pressoché totalità di noi stessi, imbracciandone le armi, fabbricandole, nutrendo con le nostre tasse i bilanci militari, ecc., e nulla eccependo alla politica militare dei partiti politici cui diamo il nostro pieno voto. Talmente fondamentale è la debita consapevolezza di questo aspetto che Gandhi vi ha insistito con particolare forza: “A mio avviso la non collaborazione col male è un dovere ancor più della collaborazione col bene”.
L’infinita apertura dell’anima ha portato Capitini a ricercare e concretare, con una pratica instancabile, impegni e iniziative conseguenti, tutto teso a trasfondere nella realtà la sua coscienza appassionata di vicinanza e di liberazione per tutti, quella del singolo nel suo cieco egoismo e della società nella sua illibertà e ingiustizia. A chi lo avvicinava foss’anche per la prima volta, quella sua cordiale attenzione verso chiunque dava loro il senso di essergli amico da tempo (“L’ultimo che incontro – diceva Capitini – è come se lo conoscessi da sempre”). – Ecco il nuovo uomo nonviolento, colui che non soltanto non deve incutere timore a nessuno, ma accanto al quale nessuno deve sentirsi estraneo -. Una vicinanza – la sua – sempre intrisa di spiritualità, vòlta al superiore senso dei valori che contano. Ha scritto di sé Capitini: “Se penso a quello che io sono veramente, alla composizione del mio essere e, allo stesso tempo, al mio bisogno profondo e al mio ideale più costante, trovo questi due elementi: familiarità e tensione. Non l’una senza l’altra. La familiarità senza tensione mi appare un abusare delle cose, delle persone, della vita, prendendo volgare confidenza con tutto. Sì, mettere il braccio sulla spalla della persona che ci sta accanto, ma mentre la nostra compagnia s’innalza a un pensiero di bontà, a una promessa di sacrificio o di dedizione di amore, alla scoperta di una verità, alla formulazione di un grande proposito sociale, alla visione di una cosa bella. E anche la tensione senza la familiarità diventa durezza, anima e verità scoscesa, solitaria e anche pericolosa a sé stessa, soggetta a inabissarsi nel vuoto che si fa intorno”.
Questo atteggiamento di amicizia e di apertura verso chiunque, Capitini tendeva a concretarlo nei confronti di ogni altro essere vivente, animali e piante. “Dagli animali ci vengono tanti tesori di affetto, già abbiamo costituito con essi piani di collaborazione, e altri sempre più potremo scoprirne e fondarne”. Da qui – in aggiunta a quello riservato generalmente da noi occidentali ai soli esseri umani – un altro suo atteggiamento amorevole, la pratica vegetariana. Ed anche le piante arricchiscono l’unità-amore, poiché “anch’esse sono una presenza, un essere che ha in sé un soffio e un’apertura all’aria, alla luce, in tutto simile a com’è per noi esseri umani”. E scendeva anche più giù, alle cose, poiché pur’esse nel contatto umano si caricano di una valenza spirituale; e finanche alla materia inanimata, nel profondo di essa vedendo vibrare un palpito di vita e di partecipazione: “Il rispetto che possiamo attuare fin da ora nei riguardi degli oggetti e delle cose è quello di usarli non oltre quanto ci è strettamente necessario”. Si può qui notare, nel cerchio onnicomprensivo dell’apertura nonviolenta capitiniana, la delineazione con decenni di anticipo di un tema assorbente in questi ultimi anni, quello ecologico; e come egli dia al corrispettivo problema del consumismo e della devastazione della natura la migliore, più esatta risposta: non per un dato negativo, per un angusto motivo utilitaristico, ma per una ragione positiva, un’iniziativa di amore.
Congiuntamente all’attuazione di una vita spirituale personale, prende rilievo in Capitini, in adeguazione al principio dell’apertura a tutti, il più intenso dispiegamento operativo nella vita pubblica. Metodo fondamentale, strumento pratico della vita politica tesa alla liberazione di tutti è per Capitini – com’è per Gandhi – la nonviolenza (che per lui, come in un’unica medaglia, è l’altra faccia dell’apertura a tutti, dell’unità-amore in cui si afferma la presenza di Dio, così come per Gandhi la nonviolenza è l’altra faccia della Verità). Tra le tante pregnanti definizioni che ce ne ha date: “La nonviolenza è apertura (cioè interesse, appassionamento, amore) per l’esistenza, la libertà e lo sviluppo nel bene di ogni essere” – c’è il meglio, diremmo, di quanto possiamo pensare e volere per il singolo e per tutti.
L’impegno pubblico capitiniano si è dispiegato nei settori più vari. Si è già accennato alla scelta vegetariana, ai suoi tempi universalmente considerata in Italia un’alimentazione innaturale, nociva alla salute, criticata e irrisa dai suoi colleghi universitari come una “bizzarria”. Diremo sinteticamente che Capitini ha reso popolare in Italia il vegetarianesimo, attivandovi l’interesse attraverso scritti e fondando la Società Vegetariana Italiana, oggi sempre più fiorente. Non avendo qui spazio per dilungarci su tant’altre sue iniziative (i Centri di Orientamento Religioso, per la critica e la radicale riforma delle istituzioni religiose tradizionali, autoritarie e dogmatiche; per un’educazione che di là dalla semplice trasmissione della conoscenza intellettuale fosse vòlta alla comunicazione dei valori (verità, bontà, bellezza, ecc.), dove l’educatore porta la consapevolezza dei gravi limiti della realtà naturale e sociale e la personale esperienza dei valori, e il giovane educando la sua aurorale e festiva creatività, aperta a nuovi e più ampi sviluppi; ecc.), ci limiteremo alla presentazione di due campi d’importanza fondamentale dell’attività politica capitiniana, quello della trasformazione della società e quello della pace.
Nel primo campo, la sua opera iniziale è rivolta ad avversare l’imperante dittatura fascista. Nel 1933, poco più che trentenne, rifiuta pubblicamente l’obbligo per i professori universitari di iscrizione al partito unico fascista e di qui la perdita del suo posto di docente presso una delle più prestigiose università italiane. È la messa in atto di una basilare tecnica della nonviolenza, la noncollaborazione col male; ed è al contempo un’indicazione di lotta politica per tutti quale strumento di esautoramento del potere oppressivo, al cui esercizio è necessaria la collaborazione degli stessi oppressi. Per una dozzina d’anni, fino alla caduta del regime fascista allorché poté riprendere il suo posto universitario, Capitini si riduce a vivere del modesto introito di lezioni private. Si prodiga fino all’ultimo in una estesa ed intensa attività di propaganda contro il regime (che lo porterà due volte per mesi in carcere), con l’elaborazione e la diffusione di scritti clandestini, incontri, costituzione di nuclei antifascisti. Esce anche, nel 1937, un suo primo libro Elementi di un’esperienza religiosa (da cui abbiamo tratto la frase citata all’inizio), che costituì un testo fondamentale per l’educazione politica liberale di tanti giovani di allora, così sottratti all’ebbrezza della mistica totalitaria fascista.
A superamento non soltanto del regime fascista ma altresì di quello democratico tanto largamente deficitario, Capitini è venuto teorizzando e promuovendo sul piano socio-politico una sua peculiare posizione definita omnicrazia (potere di tutti). Come avvio alla sua attuazione, pose in essere, già nel 1944 – appena liberata la sua città, Perugia, dal potere nazi-fascista -, una originalissima esperienza, i Centri di Orientamento Sociale (C.O.S.). Quali strumenti di autoeducazione popolare e di preparazione all’autodeterminazione, i C.O.S. si ponevano come integrazione alle insufficienze e difetti del regime rappresentativo democratico e come suo possibile superamento nello sviluppo di forme di democrazia diretta dal basso, per un nuovo assetto socio-politico e un nuovo potere partecipato da tutti. I C.O.S. erano libere assemblee aperte a tutti, per periodiche discussioni su tutti i temi, amministrativi e politici, locali e internazionali. Constavano di alcuni essenziali strumenti di valore: – il principio di “ascoltare e parlare” (era il motto dei C.O.S.): ognuno poteva prendere la parola nella discussione e ricerca collettiva, come un pensare insieme, precisando e armonizzando le esigenze fin dal loro sorgere; – la presenza delle autorità: i capi degli enti e uffici pubblici venivano a farvi relazioni sui loro provvedimenti, ed a ricevere critiche e suggerimenti da chiunque; – il contatto degli intellettuali col popolo: essi vi recavano il contributo della loro cultura e delle loro riflessioni bene articolate, al contempo imparandovi semplicità di espressione, concretezza e autenticità di esperienze; il popolo a sua volta vi apportava la concretezza e autenticità delle sue esigenze e la immediata schiettezza del suo linguaggio, e vi corroborava la sua fiducia negli intellettuali sentiti non più quali appartenenti ad una classe astratta e lontana dai ceti popolari, ma come pari individui partecipi, investiti dei problemi comuni a tutti. I C.O.S. , diffusisi rapidamente in diverse località, durarono alcuni anni, fino al momento delle prime elezioni politiche del dopoguerra; poi l’interesse e la partecipazione ad essi venne a scemare fino ad estinguersi, a causa del sopravvenuto monopolio della vita politica da parte dei ricostituiti partiti che se n’erano fatti gli unici collettori e protagonisti, in un’attività tutta accentrata nel cerchio chiuso delle loro centrali burocratiche, e ricercanti il contatto con le moltitudini popolari soltanto al momento delle competizioni elettorali per la conquista del voto.
Capitini non era avverso in assoluto alla democrazia. “Non sono d’accordo con i distruttori del sistema rappresentativo, che le democrazie occidentali hanno costruito, che nel suo migliore sviluppo cerca di allargare il potere al maggior numero possibile di cittadini”. Ma ne denuncia taluni gravi limiti e storture: “La democrazia attuale attribuisce alla maggioranza un potere che qualche volta è eccessivo rispetto ai diritti delle minoranze; conferisce alle polizie un potere di sopraffazione fino alla tortura (come è pressoché in tutti i Paesi) e molte volte un soverchio intervento nell’ordine pubblico; si lascia sopraffare dalle burocrazie trascurando il servizio al pubblico anonimo, ed è largamente influenzabile, fino alla corruzione, da parte di interessi particolari e settari; abusa della insufficiente informazione e della scarsa educazione critica delle moltitudini popolari, quelle a cui bisognerebbe tenere di più, perché le persone colte hanno altri modi per esercitare una qualche influenza pubblica; fa guerre di Stato contro Stato (…). Considero utile il Parlamento, ma mi preme dire che esso ha bisogno di essere integrato da moltissimi centri sociali, assemblee deliberanti o consultive in tutta la periferia, tali da costituire il necessario contrappeso e correttivo. Non importa che i centri sociali siano inizialmente soltanto consultivi, perché la pressione che essi possono esercitare sugli istituti deliberativi è sempre possibile, se non altro esercitando il consenso e il dissenso secondo le tecniche della nonviolenza”. In difetto di ciò, rilevava: “Una democrazia che non sia sotto il controllo continuo dei cittadini, nella piena libertà e possibilità di informazione e di critica, finisce per diventare un gioco chiuso di pochi eletti, nell’apatia e nel disinteresse degli elettori”.
L’altro campo centrale dell’attività politica capitiniana è stato quello riguardante la pace, non per un pacifismo relativo e condizionato quale è quello dominante dei governi – avallato dalle Chiese -, che proclamantisi amanti della pace si prodigano schizofrenicamente ad apprestare strumenti di guerra; ma all’opposto per un pacifismo incondizionato, totale, ossia di rifiuto assoluto alla preparazione e all’effettuazione di qualsiasi guerra fatta da chiunque e per qualsiasi ragione. Capitini considerava l’opposizione alla guerra, e quindi l’abolizione integrale e immediata del suo essenziale strumento portante, l’esercito, un’esigenza primaria per ciascun popolo di ogni Stato e per l’intera umanità: e non soltanto per ragioni morali, ma per le condizioni di fatto della storia attuale, in cui tutta l’umanità si trova investita da interessi e bisogni sovrastatali, di ambito universale (la cosiddetta “globalizzazione”), che delle attuali singole patrie viene a fare una sovrastante patria comune, e dove pertanto la guerra fra Stati risulta essere null’altro che una fratricida guerra civile intestina. Altrimenti – non manca di avvertire Capitini – “di fronte all’unità mondiale in formazione, di fronte all’assemblea universale sopravvivono le limitate assemblee dei popoli (chiuse nelle divisive frontiere statali) dietro cui e sopra cui si costituisce l’assemblea armata, l’esercito, fornito di armi schiaccianti e che può intervenire dappertutto”. Viene spontaneo notare come anche qui l’anticipatrice avvertenza capitiniana trovi una puntuale tragica conferma negli “interventi” imperialistici di questi anni e giorni.
Per Capitini la lotta per l’abolizione degli apparati militari poteva, inoltre, contemporaneamente servire quale leva e punto di partenza per la trasformazione della società ingiusta, che oltre la guerra genera oppressione e sfruttamento e dove i ristrettissimi e reazionari ceti dominanti trovano nella forza militare il loro decisivo strumento di potere e di repressione. Insistenti erano i suoi richiami – rivolti in particolare alle forze progressiste, nazionali e internazionali, – a voler considerare che proprio la lotta pacifista poteva costituire il punto di coagulo della più larga solidarietà e mobilitazione popolare, con moltitudini di persone, uomini e donne, delle più diverse condizioni sociali e appartenenze politiche e religiose, all’interno di ogni comunità statale e dappertutto nel mondo, insieme operanti nel comune supremo valore della pace; e su quest’opera di smontamento del sistema militare-industriale – che oltre ad arrecare le devastazioni della guerra sottrae ogni giorno ingentissimi mezzi allo sviluppo civile – sarebbe possibile, soltanto allora, innestare sostanziali piani di rinnovamento nei più diversi settori sociali, ora invece strozzati da quel vampiresco sistema.
L’opposizione assoluta alla guerra vede Capitini, al sorgere in Italia nell’immediato dopoguerra del primo caso di obiezione politica al servizio militare, impegnato in un lavoro decisivo – in quegli anni di misconoscimento e ripulsa di quella posizione – nell’attrarvi l’attenzione e la considerazione dell’opinione pubblica. Non si trattava di un semplice isolato problema individuale di coscienza, di personale aborrimento allo spargimento di sangue; ben aldilà di ciò, quell’obiezione poneva un problema generale che investiva la coscienza e la responsabilità dell’intera collettività, quello di una politica ancorata sempre alla predisposizione bellica. Ad illustrazione del significato ideale e della portata politica dell’obiezione di coscienza, Capitini così ne scriveva ad esempio: “È in gioco un punto di vista sui rapporti umani, una visione su ciò che è o dovrebbe essere l’umanità. Si tratta di un sentimento e un impegno profondo, che porta fuori dall’inerzia di seguire i più”. “I più”: non soltanto i decisori politici e i capi religiosi, ma anche i cittadini comuni, che pur affermando di aborrire la guerra, nei fatti consentono e collaborano alla sua preparazione. Centrale e determinante fu poi il contributo apportato da Capitini alla campagna di sostegno all’obiezione di coscienza (punita con anni di carcere) , che giunse alfine ad approdare al suo riconoscimento legale, col diritto per gli obiettori di sostituire il servizio (dell’uccisione) militare con un servizio civile di pubblica utilità.
Insieme col lavoro specifico e distinto per il pacifismo assoluto nonviolento, Capitini ha altresì sviluppato una serie continua di iniziative, aperte alla partecipazione di una cerchia più ampia di organizzazioni e persone pur genericamente pacifiste, e particolarmente atte a raggiungere la popolazione più periferica e lasciata ai margini dell’attività politica, fornendo ad essa l’occasione e la possibilità di dare voce ed espressione alla sua volontà di pace. Tra quelle varie iniziative, resta memorabile l’ideazione e l’organizzazione della “Marcia Perugia-Assisi per la pace e la fratellanza dei popoli” del 1961. Presentandone il progetto, così si esprimeva Capitini quanto al suo motivo originario: “Avevo visto, nei dopoguerra della mia vita, le domeniche nella campagna frotte di donne vestite a lutto per causa delle guerre, sapevo di tanti giovani ignoranti e ignari mandati a uccidere e a morire da un immediato comando dall’alto, e volevo fare in modo che questo più non avvenisse, almeno per la gente della terra a me più vicina”. L’invito di Capitini alla partecipazione alla Marcia era stato rivolto a tutti, e la sua presenza centrale di nonviolento nell’ispirazione e nell’organizzazione dell’iniziativa assicurò che essa non venisse monopolizzata da nessuna forza politica per propri fini particolari. Al momento conclusivo della Marcia, Capitini ne lesse la mozione finale:
“(…) Il tempo è maturo per una grande svolta del genere umano. Il passato è passato. Basta con le torture, con le uccisioni per qualsiasi motivo; basta con il veleno che la violenza porta nell’educazione dei giovani; basta con il pericolo che enormi forze distruttive siano in mano alla decisione di pochi uomini. Noi del Centro per la Nonviolenza chiediamo che si allarghi l’applicazione del metodo di resistenza attiva nonviolenta, alle lotte per la liberazione dall’imperialismo, dal colonialismo, da tutte le oppressioni, dal potere assoluto di gruppi dittatoriali o reazionari o asserviti alle forze economiche sfruttatrici. Da questo orizzonte aperto, infinito e sereno (delle colline in cui era vissuto San Francesco – n.d.r.), sacro da sette secoli ad ogni essere che nasce alla vita e alla compresenza di tutti, scenda una volontà intrepida e serena di resistere alla guerra, in propositi costruttivi di pace”. La Marcia riuscì di tale successo, con la più larga inusitata confluenza intellettual-popolare, che è venuta a segnare una data storica nell’intensificazione del pacifismo italiano. Dopo essere stata riconvocata alcune altre volte, dopo la morte di Capitini, dal Movimento Nonviolento da lui fondato, la direzione della Marcia è stata poi assunta da un comitato di varie organizzazioni pacifiste che a scadenza annua o biennale la promuovono sul medesimo percorso iniziale da Perugia ad Assisi, con la partecipazione di centinaia di migliaia di persone anche estere, e rifacentisi al nome – se non propriamente allo spirito – del suo iniziatore Aldo Capitini.
Diremo conclusivamente che Aldo Capitini è stato il massimo ideatore, propagatore e attuatore della nonviolenza in Italia (della cui iniziale ispirazione ha riconosciuto il suo debito verso Gandhi). A lui si deve se in questo paese l’idea e la pratica nonviolenta godono ora – dopo persistenti ostracismi e travisamenti – di una discreta maturità e credibilità. Il Movimento Nonviolento, ricco del suo patrimonio di idee e di esperienze, è tuttora operante, considerato da taluni osservatori come “il centro più dinamico e qualificato della nonviolenza in Italia”. Quanto all’elaborazione teorica, va sottolineato che Capitini ha qui dato un contributo altissimo, che può stare alla pari con quant’altro di sommo è stato scritto nel mondo sulla nonviolenza.
In uno degli ultimi suoi scritti, Capitini aveva annotato: “La nonviolenza ha cominciato ad aprire in ogni paese un conto, in cui ognuno può depositare via via impegni e iniziative”. Il deposito che Aldo Capitini ci ha lasciato in tale “conto” è enorme, inestimabile. Da questo capitale – come è per l’immenso patrimonio fornito al mondo dalla suprema lezione nonviolenta di Gandhi – ognuno può trarre una fonte inesauribile di ispirazione e di forza per ulteriori, possibili e quanto mai necessari e urgenti impegni e iniziative, per un nuovo mondo aperto alla libertà e al benessere di tutti.
EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
L’arte di ascoltare per un sano conflitto
Partiamo da due elementi concettuali di fondo:
1)il conflitto è segno di vita
ovvero dove non c’è conflitto c’è la… pace perpetua.
Una importante lezione sulla dimensione vitale del conflitto deriva dalla cultura delle donne e dalla loro riflessione sul parto come metafora del conflitto. Parto doloroso e faticoso, nel quale entrano in conflitto profondo i corpi della donna e del nascituro (un vero corpo a corpo) il quale, affrontato con amore, si trasforma in creazione di nuova vita.
2)il conflitto è segno di relazione sana
ovvero dove non c’è conflitto c’è autoritarismo o collusione.
Ricordo ancora l’assenza di conflitto nella mia scuola elementare, frequentata circa 25 anni fa in un paese del Sud Italia, dove l’insegnante, accanto al gesso ed al cancellino, teneva sulla cattedra (rialzata da terra da uno zoccolo in legno di circa 20 centimetri) una verga sempreverde, perché sempre prontamente sostituita man mano che veniva rotta sulle mani e sulle braccia dei bambini.
Ma segnaliamo anche l’assenza di conflitto all’estremo educativo opposto, quello che vede il rapporto alla pari tra educandi ed educatori, i quali pur di sopravvivere rinunciano a pezzi sempre crescenti di autorevolezza, fino alla vera e propria collusione che annulla il conflitto e, insieme, annulla anche quelle opportunità educative indispensabili fornite da “i no che aiutano a crescere”(5).
Questi punti di riferimento del nuovo paradigma diventano determinanti per agire nella relazione educativa dentro i conflitti, sia quando si è coinvolti come parte in causa (nei confronti di ragazzi, delle loro famiglie, dei colleghi, dell’Istituzione) sia quando l’educatore interviene come terza parte, ossia come mediatore. Tanto nell’un caso che nell’altro il modo nel quale ci si muove nel conflitto è fortemente educativo. Ciò per almeno due ordini di ragioni che in questa sede possiamo solo enunciare, rinviando agli studi specifici per il loro approfondimento (6):
a)perché i ragazzi imparano molto e bene dai conflitti nei quali sono coinvolti;
b)perché essi guardano a noi e alla nostra coerenza tra il dire e il fare, anche nella gestione dei nostri conflitti personali.
Un elemento preliminare all’avvio del primo passo dentro il complesso mondo dei conflitti è dato dalla scelta dei tempi dell’intervento. Accorgersi di un conflitto quando ne è già in atto una degenerazione violenta significa limitare di molto la possibilità di trasformarlo in maniera costruttiva. Occorre allora prevenire la degenerazione patologica del conflitto, cioè le diverse forme della violenza, esercitando la propria sensibilità al riconoscimento precoce dei conflitti. Ossia, seguendo lo schema dell’escalation della violenza proposto da Pat Patfoort (7), avvertire il conflitto al di sotto della soglia che segna il passaggio dalla fase verbale alla fase fisica.
A questo scopo può risultare molto utile esercitarsi ad affinare l’ascolto attivo, cioè quella forma di presenza nella relazione che ci consente di avere le antenne drizzate e sensibili per cogliere le sfumature della comunicazione (8). In questa direzione possono risultare di grande aiuto le sette regole dell’arte di ascoltare, proposte da Marianella Sclavi:
1. Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca.
2. Quel che vedi dipende dal tuo punto di vista. Per riuscire a vedere il tuo punto di vista, devi cambiare punto di vista.
3. Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva.
4. Le emozioni sono degli strumenti conoscitivi fondamentali, se sai comprendere il loro linguaggio. Non ti informano su cosa vedi, ma su come guardi. Il loro codice è relazionale e analogico.
5. Un buon ascoltatore è un esploratore di mondi possibili. I segnali più importanti per lui sono quelli che si presentano alla coscienza come al tempo stesso trascurabili e fastidiosi, marginali e irritanti, perché incongruenti con le proprie certezze.
6. Un buon ascoltatore accoglie volentieri i paradossi del pensiero e della comunicazione. Affronta i dissensi come occasioni per esercitarsi in un campo che lo appassiona: la gestione creativa dei conflitti.
7. Per divenire esperto nell’arte di ascoltare devi adottare una metodologia umoristica. Ma quando hai imparato ad ascoltare, l’umorismo viene da sé.(9)
Pasquale Pugliese
Seconda parte (continua)
Note
5. Phillips A. I no che aiutano a crescere Feltrinelli, Milano 2002
6. vedi almeno Nigris E. I conflitti a scuola Bruno Mondatori, Milano 2002
7. Patfoort P. Costruire la nonviolenza. Per una pedagogia dei conflitti la meridiana, Molfetta 2000
8. cfr Watzlawik P. Pragmatica della comunicazione umana Astrolabio, Roma 1971
9. Sclavi M. Arte di ascoltare e mondi possibili Bruno Mondadori, Milano 2003
LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Vogliamo la “Decrescita”
Dieci consigli per resistere
1. Liberarsi dalla televisione
Per entrare nella decrescita, la prima tappa è prendere coscienza dei propri condizionamenti. Il primo portatore di condizionamenti è la televisione. La nostra prima scelta sarà di liberarsene. Per sua natura, la televisione richiede la rapidità, non tollera i discorsi approfonditi. La televisione inquina al momento della sua produzione, durante l’utilizzo e poi come rifiuto. Per tenerci informati facciamo altre scelte: la radio, la lettura, il teatro, il cinema, incontrare gente, ecc.
2. Liberarsi dall’automobile
Più che un oggetto, l’automobile è il simbolo della società dei consumi. Riservata al 20% degli abitanti della terra, i più ricchi, porta inesorabilmente al suicidio ecologico per la distruzione delle risorse naturali (necessarie per la sua produzione) o per i diversi tipi di inquinamento tra cui l’aumento dell’effetto serra. L’automobile porta anche come conseguenza una guerra sociale che provoca la strage di morti sulle strade. L’automobile è uno dei flagelli ecologici e sociali del nostro tempo. Alternative: camminare a piedi, andare in bicicletta, prendere il treno, utilizzare i trasporti collettivi.
3. Liberarsi dal telefonino
Il sistema genera dei bisogni che diventano delle dipendenze. Ciò che è artificiale diventa naturale. Come numerosi oggetti della società dei consumi, il telefonino è un falso bisogno creato apposta dalla pubblicità. Assieme al telefonino butteremo via i forni a micro-onde e tutti gli oggetti inutili della società dei consumi. Preferiamo la posta, la parola.
4. Rifiutare l’aereo
Rifiutare di prendere l’aereo, è prima di tutto rompere con l’ideologia dominante che considera un diritto inalienabile l’utilizzo di questo mezzo di trasporto. Meno del 10% degli esseri umani hanno già preso l’aereo. Meno dell’1% lo utilizza tutti gli anni. Questo 1%, la classe dominante, sono i ricchi dei paesi ricchi. Sono loro che detengono i media e fissano le regole della società. L’aereo è il mezzo di trasporto più inquinante per passeggero trasportato. A causa dell’alta velocità, sballa la nostra percezione delle distanze. Preferiamo andare meno lontano, ma meglio.
5. Boicottare la grande distribuzione
La grande distribuzione disumanizza il lavoro, inquina e sfigura le periferie, uccide i centri delle città, favorisce l’agricoltura intensiva, centralizza il capitale, ecc. La lista dei flagelli che rappresenta è troppo lunga per essere elencata qui. Noi le preferiamo: prima di tutto consumare meno, l’autoproduzione alimentare (l’orto), poi le botteghe di quartiere, le cooperative, l’artigianato.
6. Mangiare poca carne
O meglio, mangiare vegetariano. Le condizioni di vita riservate agli animali di allevamento rivela la barbarie tecnoscientifica della nostra civiltà. L’alimentazione carnea è anche un grosso problema ecologico. E’ meglio nutrirsi direttamente dei cereali che utilizzare il terreno agricolo per nutrire animali destinati al macello. Mangiare vegetariano, o comunque mangiare meno carne ci porta anche una miglior igiene alimentare, meno ricca in calorie.
7. Consumare prodotti locali
Quando si compra una banana dell’Equador, si consuma anche il petrolio necessario al suo trasporto verso i nostri paesi. Produrre e consumare localmente è una delle condizioni migliori per entrare nel movimento di decrescita, non in senso egoistico, chiaramente, ma al contrario perché ogni popolazione ritrovi la sua capacità di autosufficienza.
8. Politicizzarsi
Il mercato non è né di destra, né di centro, né di sinistra: lui impone la sua dittatura finanziaria avendo come obiettivo di rifiutare qualunque contraddittorio o conflitto di idee. Questo totalitarismo è paradossalmente imposto in nome della libertà, di consumare. Noi preferiamo politicizzarci, come persone, nelle associazioni, nei partiti, per combattere la dittatura del mercato. E’ ora di propagandare l’idea della decrescita.
9. Sviluppo della persona
La società dei consumi ha bisogno di consumatori servili e sottomessi. Al contrario, la decrescita economica ha come condizione uno sviluppo sociale ed umano. Arricchirsi sviluppando la propria vita interiore. Privilegiare la qualità della relazione con se stessi e con gli altri a detrimento della volontà di possedere degli oggetti che a loro volta vi possiederanno.
10. Coerenza
Le idee sono fatte per essere vissute. Se non siamo capaci di metterle in pratica, serviranno solo a far vibrare il nostro ego. Siamo tutti a bagno nel compromesso, ma cercheremo di tendere alla maggior coerenza. Cambiamo ed il mondo cambierà. Questa lista sicuramente non è esaustiva. A voi completarla. Ma se non ci impegniamo a tendere verso la ricerca della coerenza, ci ridurremo a lamentarci ipocritamente sulle conseguenze del nostro stile di vita.
Dal sito del movimento francese “Casseurs de pub”
In italiano vedi il sito: www.bilancidigiustizia.it/Article78.phtml
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Olimpiadi Torino 2006
No a Finmeccanica!
Era il marzo del 1998 quando Giovanni Agnelli presentò Evelina Christillin, attuale donna immagine delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006, all’allora presidente del CIO Juan Antonio Samaranch. Il risultato di quell’incontro sta diventando realtà: da un anno Torino è il più grande cantiere europeo e le 2,2 milioni di persone che vivono nella Provincia, ma ancor più quelle che vivono nelle Valli Chisone, Germanasca e Susa, cominciano a soppesare risultati e impatti dell’organizzazione dell’evento che l’Avvocato fortissimamente volle nella sua regione.
Nell’aprile 2002 Toroc, il comitato organizzatore dei giochi, grazie alla caparbietà del vicepresidente Rinaldo Bontempi (poi dimessosi per motivi di salute) e alla pressione di numerose associazioni, produceva una carta d’intenti in cui, nero su bianco, si impegnava ad escludere dall’elenco degli sponsor tutte quelle aziende che non rispondessero a precisi standard nel campo dei diritti umani, della salvaguardia degli ambienti di lavoro, della estraneità a settori non eticamente orientati (armi, azzardo, ecc.).
La torta era ghiotta: si parlava in quel tempo di un miliardo di euro derivante da vendita di gadgets, magliette, biglietti ma soprattutto diritti televisivi e di utilizzo del marchio che contraddistingue l’Olimpiade torinese. In seguito, le stime vennero ridotte ad 800 milioni e poi ancora diminuite, ma si tratta pur sempre di un importo ragguardevole.
Da quel momento in poi, le associazioni che avevano cantato troppo presto vittoria dovettero iniziare a mandare giù bocconi sempre più amari, che vanificavano lo sforzo prodotto nell’azione di pressione. Agli intoccabili Top Sponsor scelti direttamente dal CIO, tra i quali troviamo esempi non brillanti come Coca Cola e Mc Donald’s, oggetto da anni di campagne di boicottaggio internazionali, si aggiungevano presto Fiat e San Paolo: la prima con ancora un ragguardevole settore militare, un passato ed un presente di conflitti sindacali; la seconda ancora nell’elenco delle banche che finanziano l’export di armi nonostante l’opinione pubblica abbia in questi anni convinto Intesa, Unicredit, Monte Paschi e molte altre ad abbandonarlo.
Anche nella scelta dello sponsor tessile non si andava troppo per il sottile. Il Piemonte da tempo piange la notevole riduzione occupazionale del settore, un tempo fiore all’occhiello della regione: marchi come Fila, Superga, Kappa, Invicta sono stati in questi anni oggetto di pesanti ristrutturazioni, e anche marchi prestigiosi come Loro Piana e Zegna hanno dovuto fare i conti con la delocalizzazione dei siti produttivi. Nessun produttore tessile italiano è certificato SA8000, e non sarà certo un caso. Ma la scelta di Toroc cadeva al di fuori della regione.
Non era ancora finita: la ciliegina sulla torta era di marca italiana, e di provenienza pubblica. Venendo in soccorso ad un bilancio sempre più rosso, il 5 agosto 2004 il governo Berlusconi imponeva a Finmeccanica di partecipare alla sponsorizzazione dei giochi olimpici con sei milioni di euro, unico modo per finanziare un evento privato con soldi dello Stato. E l’azienda è una di quelle destinate a fare notizia: accanto ad attività nel settore dei trasporti civili e dell’energia, produce infatti la quasi totalità delle armi che vengono costruite in territorio italiano (e non solo). Un boccone troppo grosso che va di traverso alle organizzazioni torinesi.
Curioso: un’azienda che per legge (la famosa 185 che regola il commercio di armi) non può fare pubblicità ai suoi prodotti militari in tutto il territorio italiano, paga una cifra notevole per acquisire il diritto di esporre, sui prodotti che non può pubblicizzare, il logo delle Olimpiadi invernali. Forse gli azionisti di questa azienda quotata in borsa dovrebbero chiedere lumi agli attuali amministratori.
Riuscirà la politica cittadina a rimediare alle scelte di Toroc? Ricorda Gavino Olmeo, presidente della Commissione Consiliare del Comune di Torino, che la città da decenni risulta proprietaria di una quota dell’azienda di armi, in virtù di patti stabiliti all’atto dell’acquisizione di Alenia (che ha un importante sito produttivo nel capoluogo). Non bisogna farsi quindi troppe illusioni.
Ma l’iniziativa del governo di imporre ad una sua azienda, per quanto una delle poche in utile, di sponsorizzare le olimpiadi, ha un risvolto amaro per il centrosinistra che da anni amministra la città e che, a partire dal suo esponente Valentino Castellani, organizza l’evento. Buona parte del suo elettorato infatti, deluso e inviperito per come i lavori e le scelte procedono, riterrà probabilmente più opportuno far transitare il suo voto verso altri lidi, a partire dalle prossime elezioni regionali. Ma questo pericolo non sembra turbare più di tanto i sonni di una amministrazione sempre più occupata in altre scacchiere e, forse, sempre più cinica.
Per ulteriori informazioni:
http://nolimpiadi.8m.com/mainita.html
www.giocapulito2006.org
PER ESEMPIO
A cura di Maria g. Di Rienzo
La lettera di Clara mette in crisi il comando strategico nucleare
La comunità cristiana che si raccoglie attorno alla pubblicazione “Des Moines Catholic Worker” sta conducendo una campagna, che è ancora in corso, di resistenza e opposizione nonviolenta alle armi nucleari ed alla guerra. Parte di questa campagna è stato l’arresto di Clara Terrel, di 19 anni, il 29 dicembre 2004. Efficace mescolanza di azione di massa ed azione individuale, il gesto altamente simbolico di Clara è stato preparato per dare risonanza e visibilità alla campagna, scopo che è stato raggiunto. Il “reato” che ha portato all’arresto della giovane è l’essersi pacificamente introdotta nella base per consegnare la seguente lettera:
“Io credo che il messaggio portatoci da Gesù Cristo sia un messaggio di pace. Noi non possiamo comprarla con il sangue dei bambini iracheni e non possiamo pagarla con le vite dei soldati americani. Tutto l’enorme potere che è tenuto dietro questi cancelli non può consolare le madri e i padri, iracheni o statunitensi, che stanno soffrendo durante questo Natale per i loro figli perduti.
Questo è un luogo in cui vengono detenute armi di distruzione di massa. Questo è un luogo dove vengono prese le decisioni su che bambini vivranno e che bambini morranno. Questo infine è il luogo che noi abbiamo scelto per celebrare il Natale e proclamare il Vangelo: ovvero che i potenti cadranno, e i deboli saranno innalzati.”
Clara è stata arrestata dagli uomini addetti alla sicurezza della base, e rilasciata dopo qualche ora con un’ammonizione che contiene la sua messa “al bando” dal luogo. In essa si legge: “La vostra condotta sbagliata ha creato una minaccia sostanziale alla pace e all’ordine della base.”
La base STRATCOM (Comando strategico a Bellevue, Nebraska, USA) è in effetti il sito in cui si decidono praticamente e tecnicamente i bersagli delle armi nucleari. Perciò i manifestanti che accompagnavano Clara, testimone di una scelta condivisa, e che l’hanno attesa in preghiera, dichiaravano ciascuno/a alla stampa: “Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto dell’anno, questa base tiene il mondo intero sotto la minaccia della distruzione nucleare.”
L’azione di Clara faceva parte della 28° Festa degli Innocenti, che la comunità cristiana di Des Moines celebra annualmente. La stessa Clara ha spiegato: “Questa volta la comunità ha scelto di preparare la Festa esplorando i collegamenti fra Erode, ed il suo assassinio di bambini innocenti a Betlemme, e le mostruose azioni degli Erodi moderni, e dell’imperialismo statunitense che li sostiene e controlla. Noi stiamo tentando di portare alla luce la verità, di confrontarci con le persone che lavorano nella base militare, e di convincerle attraverso la nostra testimonianza.”
La copertura data a questa semplice azione dai media americani, in un contesto abbastanza ostile, mostra che il gruppo ha compiuto molto bene le sue scelte: luogo, tempistica, linguaggio immediato, aggancio ad eventi già esistenti e sotto l’attenzione della stampa (le ricorrenze natalizie, la festa tradizionale della comunità), attenzione al simbolico (la connessione fra l’Erode delle scritture e gli Erodi attuali, il potere dell’individuo che resiste e si oppone, i legami fra individuo e comunità). Lo stesso testo consegnato da Clara aveva un focus simbolico, centrato sullo svelamento dell’impotenza di ciò che è considerato “potente”: un potere inutile, che non ristora i cuori feriti delle madri e dei padri. Un potere che è in grado di togliere la vita, ma non di darla, ne’ di assaporarla. Inoltre, i sentimenti evocati erano immediatamente comprensibili da ciascuno, poiché chiunque fa esperienza, nella propria vita, della perdita e del lutto.
Mi è grato quindi celebrare il gesto pacato e forte di questa giovane donna, che entra in una base militare apertamente, senza forzare ingressi o nascondersi, prendendo su di sé tutti i rischi e le responsabilità che il gesto comporta, ma con la certezza che esso è radicato in una comunità umana, in una decisione collettiva e in un’esplicita pratica nonviolenta. Mi piace pensare a Clara che distribuisce la sua lettera, che a voce alta in un luogo dove risuona la minaccia della distruzione proclama l’impegno a mettere fine alla follia nucleare. A nome suo, a nome della comunità di Des Moinese, a nome dell’umanità di ciascuno e ciascuna di noi.
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
ALLA LUCE DEL SOLE
di Roberto Faenza
Era un uomo solo, disarmato.
Per fermarlo lo chiamarono padre, perché era un sacerdote.
L’assassino, 28 anni, 13 omicidi alle spalle, teneva in pugno una pistola col silenziatore. Un altro, mentendo, disse: “E’ una rapina”.
L’uomo disse solo tre parole: “Me lo aspettavo”.
Sorrise, come faceva sempre con tutti.
E fu l’ultimo dei suoi sorrisi.1
Partiamo dalla fine… cioè dall’inizio. La sequenza dell’uccisione di don Puglisi, sviluppata per intero a conclusione del film, per intensità emotiva, uso del rumore fuori campo e ritmo è, a mio giudizio, uno dei momenti cinematografici più felici della stagione. Il “martirio” del sacerdote si consuma in un assolato tramonto palermitano, soffocato dall’indifferenza di chi passa ma non vede e dal commento in sottofondo della partita della seconda squadra più amata della regione: la Juventus. Attraverso un montaggio parallelo la visione del corpo ancora ansimante riverso al suolo e l’urlo straziante di suor Carolina, entrano in collisione con i mandanti dell’omicidio, boss mafiosi intenti in Versilia a contrattare l’affitto di una sfarzosissima villa con piscina. Ore 20 circa del 15 settembre 1993: la Sicilia, l’Italia e l’umanità intera hanno appena perso un “piccolo grande uomo” che ha scelto il martirio come testimonianza2 assoluta di amore del prossimo e della cultura della legalità.
Dall’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino sono trascorsi, ormai, molti anni; ricordo il clima di intimidazione e di terrore in cui tutto il paese venne precipitato dagli attentati di via dei Gergofili a Firenze e di via Palestro a Milano. Ci fu il violentissimo redde rationem di Giovanni Paolo II pronunciato ad Agrigento contro la mafia: “… Mafiosi convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio e dovrete rendere conto delle vostre malefatte”. Quindi la cupola ricambiò “l’attenzione” ecclesiale facendo saltare per aria un paio di chiese a Roma e assassinando, il 15 settembre del 1993, il rappresentante della chiesa siciliana che più andava ad ostacolare le sue perverse logiche di potere, denaro e sangue: Padre Pino Puglisi appunto, “3P” per gli amici, “U parrinu”, per i mafiosi.
Di tempo ne è passato da questi tragici fatti e da allora un assordante silenzio è calato sulla “questione siciliana”.
Faenza però non si sottrae alla sua naturale vocazione di regista “impegnato”3 ed è per questo che il suo film, che racconta gli ultimi due anni di vita di un uomo che “insegnava alla gente per bene a camminare a testa alta” e a non abbassare mai la voce, in tale contesto quasi “anestetizzato” assume un valore e un’importanza che vanno al di là del puro fatto artistico.
I veri protagonisti del film infatti, oltre naturalmente a Puglisi, sono i bambini di Palermo, ai quali, tra l’altro, il film è manifestamente dedicato in una didascalia in apertura. Bambini presi dalla strada, come afferma lo stesso Faenza, ma in grado con la loro naturalezza di far maturare lo stesso regista nel suo percorso umano e artistico: “Per girare il film abbiamo scelto, dopo lunghi mesi di ricerche, 120 bambini, fra i 3 e i 12 anni, moltissimi con situazioni drammatiche alle spalle: chi era costretto a lavorare, chi aveva il padre in galera… Vivendo con loro, ho capito il senso del lavoro di don Puglisi e il vero significato dell’educazione: ascoltare, osservare, partecipare, senza la pretesa di insegnare alcunché (…) Non esagero se dico che mi hanno cambiato la vita.”4 3P intuisce subito che il nodo chiave del suo operato devono essere proprio i bambini, come Faenza rappresenta con chiarezza ed efficacia e come le stesse testimonianze del religioso confermano: “…i primi obiettivi sono i bambini e gli adolescenti: con loro siamo ancora in tempo, l’azione pedagogica può essere efficace (…) il bambino può cogliere qui un nuovo stile, un modello di comportamento diverso… questo dà ai bambini la possibilità di vedere la vita in modo diverso, di verificare che ci sono regole da seguire, che non è giusto barare perché si perde la stima degli altri…”; paradigmatica rispetto alla stima e alla fiducia reciproca ad essa correlata è la sequenza del tentativo di furto del denaro raccolto con la lotteria a cui fa seguito una manifestazione collettiva di partecipazione alla colpa raffigurata dalla interminabile coda dei ragazzi di 3P al confessionale.
La mafia comprende che il sacerdote con le sue scelte strategiche rischia di erodere il consenso proprio alle radici e quindi decide di “fargli gli auguri”: non a caso il film si chiude con la frase di Grigoli pronunciata in aula al processo “Signor giudice, quel prete prendeva i ragazzi dalla strada, ci martellava con la sua parola, ci rompeva le scatole”. “Prendeva i ragazzi dalla strada”, cioè toglieva ossigeno e linfa vitale alla politica mafiosa.
Gianluca Casadei
FuoriSchermo – Cinema & Dintorni
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Con la riforma scolastica la musica è finita
La situazione prefigurata dalla nascita dei nuovi licei con l’eliminazione della musica dalla loro programmazione ha spinto la facoltà di Musicologia dell’Università di Pavia, sede di Cremona, a prendere un’iniziativa importante. I sottoscrittori sono già diverse migliaia.
PER L’INSEGNAMENTO DELLA MUSICA NEI LICEI
Il testo della petizione
Lo scorso 14 gennaio il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha diffuso uno Schema di decreto legislativo concernente la definizione delle norme generali e dei livelli essenziali di prestazione relativi al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, a norma dell’articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53 con il quale sono definite le caratteristiche del sistema liceale riformato e sono indicate le discipline obbligatorie per ogni tipo di liceo e il monte©ore di ciascuna di esse.
Per tutti coloro che, a qualsiasi titolo e livello, si occupano di musica e ne hanno a cuore le sorti, tale schema fonte di totale sconcerto e di enormi preoccupazioni.
Se vero, infatti, che nel sistema liceale proposto incluso un apposito Liceo Musicale/Coreutico (nÀ)#À avrebbe potuto essere diversamente, stante la ridefinizione degli studi musicali previsto dalla legge 508/99), tuttavia altrettanto vero à e sintomatico à che, nonostante il dibattito culturale di questi anni e le ripetute assicurazioni dei vertici del MIUR, l’insegnamento della musica, comunque declinato, non previsto in nessun altro tipo di liceo, ed anzi soppresso (o confinato tra le scelte opzionali delle singole sedi, con effetti che di fatto non saranno molto diversi dalla
soppressione) anche in quei licei à come il Liceo delle Scienze Umane à che risultano dall’evoluzione di percorsi formativi nei quali l’insegnamento della musica sempre stato presente.
Se a ciò s’aggiunge il fatto che in tutti i Licei invece à giustamente à prescritto l’insegnamento di “Arte” (o di “Tecniche della rappresentazione grafica e della comunicazione visiva”), evidente che la mancata inclusione della musica nell’asse culturale
di qualsivoglia liceo non discende da considerazioni legate alla caratterizzazione di ciascuno di essi e/o dalla volontà di contenere il monte©ore complessivo, ma una precisa scelta ideologica del ministro, della commissione di esperti e del ‘gruppo di saggi’ che ha lavorato allo schema di decreto.
Tutti costoro, evidentemente, non riconoscono alla musica la dignità di disciplina formativa e negano a essa la valenza culturale che le compete: nel migliore dei casi relegandola alle attività collaterali non essenziali alla maturazione dell’uomo e del cittadino, e nel peggiore sospingendola irrimediabilmente nel limbo dei ‘piacevoli’ passatempi ludico-espressivi. Negano, ancora una volta, alla musica quella dignità culturale e formativa che riconoscono invece alla storia dell’arte (oltre che alla letteratura italiana, alla filosofia, alle discipline scientifiche).
Così facendo à privando gli studenti della possibilità di comprendere nei loro percorsi di studio classici, scientifici, umanistici, artistici, il mondo della musica à, tutti costoro dimostrano, in definitiva, di non avere alcuna considerazione della musica; di ignorare totalmente quale impatto essa abbia avuto nel dispiegarsi della civiltà; di misconoscerne la forza impressiva ai più diversi livelli della comunicazione artistica e mediatica, e di tenere in nessun conto la parte che essa può à e deve à ancora avere nella formazione culturale di ogni persona e non solamente di coloro che a essa sceglieranno di dedicarsi professionalmente attraverso la frequenza del liceo musicale e dei seguenti studi superiori.
Per questo i sottoindicati firmatari di questo manifesto chiedono che tale omissione sia sanata e che l’insegnamento della musica sia inserito entro l’orario obbligatorio di tutti i tipi di liceo per lo meno al pari delle altre discipline artistiche.
Chiedono inoltre che nei Licei delle Scienze Umane possa continuare a impartirsi l’insegnamento dello strumento musicale almeno in quelle sedi nelle quali esso attualmente impartito.Il link al quale indirizzarsi per firmare la petizione il seguente:
http://spfm.unipv.it/petizione/index.html
Maurizio Pallante, Un futuro senza luce?. Come evitare i black out senza costruire nuove centrali, introduzione di Beppe Grillo, Editori Riuniti, Roma 2004, pagg. 168, euro 10
Il nostro sistema energetico è come un secchio bucato: spreca e disperde in atmosfera più energia di quanta ne utilizza. Quindi, prima di pensare alle fonti rinnovabili con cui soddisfare una domanda che sembra destinata a crescere indefinitamente per assecondare la crescita del p.i.l., occorre tappare i buchi del secchio, eliminando sprechi, inefficienze e usi impropri.
Senza ipotizzare impossibili fughe in avanti, allo stato attuale della tecnologia si possono ridurre almeno della metà i consumi di fonti fossili senza ridurre i servizi finali dell’energia, negli usi termici, nella produzione elettrica e nell’autotrasporto. In questo modo si ridurrebbero sia le emissioni di CO2, che sono la causa principale dell’effetto serra, sia i costi economici della bolletta energetica delle famiglie, delle imprese e dell’economia nazionale. E i risparmi consentirebbero di pagare i costi d’investimento delle tecnologie che accrescono l’efficienza energetica, attuando un ampio trasferimento di denaro dalle importazioni di petrolio alle retribuzioni degli occupati in questi settori.
Ma la chiusura dei buchi del secchio è anche il pre-requisito per consentire lo sviluppo delle fonti rinnovabili, il cui contributo non sarebbe in grado di coprire gli sprechi e le inefficienze attuali, ma potrebbe soddisfare in maniera significativa una domanda di servizi energetici forniti con un rendimento maggiore, come dimostra l’esperienza di altri paesi, la Germania in primo luogo.
Francesco Pugliese, I giorni dell’arcobaleno, Grafiche Futura, Matterello TN 2004, pagg. 284, € 13,00.
E’ un diario sul movimento per la pace dal settembre 2002 al maggio 2003.
Il volume racconta giorno per giorno la cronologia delle grandi manifestazioni in Italia e nel mondo, la multiforme mobilitazione nei grossi e piccoli centri, le attività delle organizzazioni pacifiste, i commenti, le analisi e il clamoroso fenomeno delle bandiere arcobaleno. Merito dell’autore è quello di essere riuscito a produrre allo stesso tempo un documento attento e preciso e un testo che si legge con la piacevolezza di un romanzo. “Mi auguro”, ha scritto Alex Zanotelli nella presentazione “che queste pagine così dense e così belle ci portino a impegnarci ancora di più”.
Il volume contiene circa duecento fotografie, vari documenti, una bibliografia con oltre un centinaio di titoli e una sitografia. Si tratta, quindi, anche di uno strumento di studio e di ricerca per offrire la base ad altri storici di approfondire l’argomento.
Il progetto non ha fini di lucro: infatti la metà del prezzo di copertina sarà devoluto per la costruzione di un centro chirurgico a Kerbala, in Iraq.
Purtroppo, come molti testi prodotti sui temi della pace, non è entrato a far parte del circuito commerciale e quindi è possibile acquistarlo soltanto reperendolo nei banchetti a qualche manifestazione oppure rivolgendosi direttamente all’autore (tel. 338 59 44001, e-mail: francesco.pugliese89@virgilio).
M. Angelini M. C. Basadonne S. Rossi, Parole per leggere luoghi, Centro Culturale Peppo Dachà, Montoggio GE 2004.
Affinché la visione di case, strade, boschi e capannoni che il nostro sguardo coglie quando ci spostiamo in un determinato territorio acquisti senso e profondità, ci vogliono occhiali di un certo tipo. Una cosa è se il mio sguardo cerca i consumi, altro è se cerca qualche elemento di verità, giustizia e compassione.
C’è un gruppetto, nei dintorni di Genova, che ha letto Aldo Capitini, Ivan Illich, Jean Giono, Nuto Revelli e poi ha cominciato a girare il proprio territorio mettendosi dal punto di vista della “compresenza dei morti e dei viventi”, del “mondo dei vinti”, dell’”uomo che piantava alberi” e con quegli occhiali ha fatto singolari scoperte.
Il gruppetto, formato da Massimo Angelini, Maria Chiara Basadonne e Sergio Rossi, ha raccolto queste osservazioni in un agile libretto che si intitola Parole per leggere luoghi.
Le parole, utilmente presentate in ordine alfabetico (ad esempio: agricoltura locale, autocertificazione, benefici comuni, ecc.) sono integrate da fotografie e segnalazioni di libri, realizzando così pagine molto accattivanti anche sul piano grafico. Il testo ha visto la luce nel novembre 2004, giusto una settimana prima della morte dell’enodissidente e gastroribelle Luigi Veronelli, che una nota ricorda con gratitudine e affetto.
Beppe Marasso
A. Chiara, D. Cipriani, L. Liverani (a cura di), Voci sull’obiezione, Edizioni La Meridiana, Molfetta BA, 2004.Con la pubblicazione di questo libro, la Caritas Italiana si conferma protagonista sul piano dell’informazione e della formazione sul tema del servizio civile.
Questa pubblicazione assume particolare significato dopo la fine del servizio civile sostitutivo a quello militare, con la sospensione della leva obbligatoria e l’avvio del servizio civile volontario su scala nazionale ed europea, e contribuisce all’inizio di un percorso di riflessione per non perdere la memoria sulla storia dell’obiezione di coscienza in Italia.
I curatori di questa piccola ma pregnante antologia hanno scelto di procedere attraverso incontri e interviste per comprendere il peso e il significato dell’obiezione di coscienza, raggiungendo obiettori di diverse generazioni e politici e intellettuali che hanno lottato per l’approvazione della legge che riconoscesse il diritto di obiettare.
A questa prima parte segue un’approfondita indagine indirizzata in particolare al mondo ecclesiale, attraverso l’esperienza e le testimonianze di protagonisti, a partire da don Giovanni Nervo, pioniere in Caritas dell’introduzione del servizio civile, sino ad arrivare alla figura e all’opera del vescovo Luigi Bettazzi, sempre attento ai problemi sociali.
Nel libro si possono trovare testimonianze meno note ma altrettanto significative, come quella di don Giovanni Battaglia, trovatosi a Ragusa a fare i conti con il vasto movimento della pace che negli anni Ottanta si opponeva all’installazione dei missili Cruise a Comiso.
Il libro, che non pretende di tracciare la storia del movimento degli obiettori di coscienza e dei trent’anni di servizio civile, presenta una terza parte originale che propone la storia di molti obiettori che hanno continuato la loro attività per la pace, andando a ricoprire posti importanti nella vita istituzionale e nella società civile. Spulciando quest’ultima parte troviamo sindaci, assessori, qualche deputato, persone inserite nel volontariato e i vertici di Banca Etica.
Il servizio civile volontario è oggi certamente una scommessa per non disperdere oltre trent’anni di servizio civile che sicuramente hanno contribuito a modificare la nostra società.
Alberto Trevisan
Come spegnere la TV e vivere meglio
Dopo aver boicottato i prodotti pubblicizzati nei programmi mediocri, violenti o indecenti, e successivamente aver scelto di spegnere la Tv, la mia famiglia ha richiesto la via formale del sigillamento dell’apparecchio televisivo per protestare contro la scarsa qualità dei programmi Tv, per denunciare la scandalosa manipolazione delle informazioni, per testimoniare che è possibile fare a meno dell’idolo TV, vivere meglio ed essere anche molto più correttamente informati dei tele-dipendenti.
Lo abbiamo fatto richiedendo ufficialmente alla RAI di sigillare la Tv e per questo abbiamo versato Euro 5.16, a mezzo vaglia postale, intestato a S.A.T. – Sportello Abbonamenti TV – Casella postale 22 – 20121 Torino ed inviato l’apposita cartolina D (B se è recente) allegata nel libretto di abbonamento nella parte 2.
Cos’è il sigillamento della Tv? E’ un atto tecnico-amministrativo che comporta l’insaccamento del televisore in un telo di juta adeguatamente sigillato da parte della Guardia di Finanza. Con il sigillamento – e soltanto dopo averlo formalmente richiesto con apposito versamento alla RAI (mai prima) – non si ha più l’obbligo di pagamento del Canone RAI. Una precisazione si rende necessaria. L’obiezione fiscale non è l’opzione dei furbi. Chi non paga il canone non ha diritto di vedere la Tv. Solo con il sigillamento del proprio elettrodomestico si può eticamente e legalmente praticare questa forma di protesta.
Vi consigliamo di non guardare la televisione e conquistare la libertà di farne a meno. Ciò è possibile, ve lo confermiamo. In Italia, lo 0,2% delle famiglie ha scelto di non vedere la Tv e vive bene; è più informata degli utenti televisivi, perché investe i soldi risparmiati del canone televisivo nell’acquisto di libri e di abbonamenti a riviste di controinformazione.
Matteo Della Torre
San Ferdinando di Puglia
Uniamo le nostre forze contro il rilancio nucleare
Scriviamo dalla Basilicata a nome del nostro movimento e di quei lucani che hanno detto di no al nucleare e che già troppe volte sono stati illusi e ingannati dalle scelte politiche, sulle quali pesano tanti interessi tranne quelle dei cittadini.
Siamo, purtroppo, all’avvio del pieno rilancio mediatico del nucleare in Italia, in quanto sembra che l’unica forma di energia in grado di soddisfare i bisogni dell’umanità sia legata all’atomo, nonostante si stiano combattendo guerre, con tanto spargimento di sangue, a causa del petrolio.
Siamo in ritardo di quasi vent’anni sulle energie alternative e rinnovabili e si vuole investire su una fonte di energia altamente pericolosa e, soprattutto, dai costi di gestione millenari di cui molti nuclearisti si dimenticano!
Il riprocessamento all’estero del combustibile nucleare non certo allontana l’incubo delle scorie che, comunque, dovranno ritornare in Italia (in quantità decisamente maggiore di quelle in partenza) e con combustibile buono per far ripartire le centrali.
L’intenzione di realizzare un sito unico (anche provvisorio) e far ripartire nuove centrali nucleari è la scommessa del governo per un nuovo futuro dell’energia in Italia. Questa intenzione è stata sostenuta nel recente incontro di Davos sul futuro dell’energia in Europa, dove si rilancia il nucleare e gli accordi per la nuova tecnologia atomica per la quale l’Italia è interessata dall’accordo franco-italiano EDF-Enel.
Questi programmi vengono pagati quasi inconsapevolmente dai cittadini con la bolletta elettrica ed il contributo su ogni kwh che pagano, prelevato dallo Stato per la messa in sicurezza delle scorie radioattive, rischia di trasformarsi in un contributo per il rilancio e la pubblicità alla produzione atomica. Alcune stime evidenziano che solo tra 10 anni si potranno mettere in produzione nuove centrali nucleari in Italia. Alcuni esperti ritengono, però, che se si smantellano quelle esistenti e si riutilizzano gli stessi siti per le nuove centrali nucleari, potrebbero bastare solo 5 anni!
Caorso e Trino, in un simile contesto, diventerebbero altamente produttive.
Nessuna comunità vuole le scorie o le centrali nucleari, per questo riteniamo che le scorie e il combustile devono essere sistemate in sicurezza in mausolei dedicati alla stupidità umana e non devono alimentare nessun commercio di materiale nucleare.
Custodiamo combustile americano che non ci appartiene ed il Centro della Trisaia è al secondo posto, come pericolosità, dopo Saluggia. Custodiamo, oltre al resto, l’unico esemplare di impianto di riprocessamento del ciclo uranio-torio.
Il capitolo ‘nucleare civile’, inoltre, non può essere assolutamente separato da quello ‘militare’. Non pensiamo di essere un popolo da armi strategiche e, nonostante tutto, abbiamo troppe vittime con l’uranio impoverito tra i soldati e civili nelle missioni di pace.
Movimento Antinucleare Pacifista
Scanzano Jonico – Basilicata
E.mai: nonucleare@email.it
Appello dall’India per la Biblioteca gandhiana
La biblioteca dell’Istituto per la Rivoluzione Totale, nel sud del Gujarat, è piuttosto fuori del comune, comprende, nella sua collezione, una eredità di tre gandhiani: Mohadev Desai, K.G. Mashruvala, Narahari Parikh.
Quando fu iniziata, nel gennaio 1982, la biblioteca era costituita da una modesta collezione di circa 7000 libri donati da Narayan Desai quando fondò, insieme a sua moglie Uttara, l’Istituto per la Rivoluzione Totale. Ora la biblioteca dell’Istituto consiste di molto più del doppio della quantità iniziale di libri. I tre studiosi su citati hanno donato diverse migliaia di libri alla biblioteca negli anni successivi. Ora abbiamo libri in dieci lingue diverse, ma la collezione più ampia riguarda l’Hindi, il Gujarati e l’Inglese.
Con le nostre modeste risorse l’edificio destinato alla biblioteca, che può tuttora ospitare qualche migliaia di libri in più, era stato costruito secondo un progetto a basso costo ed ora necessita di riparazioni importanti dato che il tetto, sottoposto a gravi intemperie per più di 15 anni, ora fa acqua. Anche l’arredamento all’interno della biblioteca necessita di riparazioni, sostituzioni ed aggiunte.
Preventiviamo all’incirca una spesa di 150.000 Rupie (all’incirca 2630 Euro). Gradiremmo moltissimo ricevere donazioni per la biblioteca da singole persone
Grazie
Sanghamitra Desai Gaddekar, 26/1/05
Istituto per la Rivoluzione Totale
Vedchhi, Valod Surat, 394641, Gujarat, India
Tel. 0091/2625/220074 – E mail < anumkti@gmx.net
Cari amici lettori di Azione Nonviolenta,
rivolgiamo a voi questo appello, per salvare dal deterioramento la preziosa biblioteca dell’Istituto, scritto dalla figlia di Narayan che è l’animatrice della comunità di circa 15 persone che porta avanti le attività dell’istituto . I lavori per la sistemazione del tetto vanno fatti prima della stagione delle piogge, entro il mese di aprile. C’è perciò urgenza di rispondere a questa richiesta abbastanza insolita. Narayan non vuole ricevere soldi da organizzazioni estere e non si è nemmeno accreditato per farlo, perché non vuole dipendere da soldi esteri per il suo lavoro. Ma ha difficoltà perché non tutti in India, soprattutto i nazionalisti di destra, apprezzano il suo lavoro e l’ispirazione del suo istituto.
Narayan ci ha illustrato il concetto di rivoluzione totale, che è stato coniato da uno dei suoi tre maestri di nonviolenza, Jayaprakash Narayan (uno dei più importanti continuatori del lavoro di Gandhi – è stato infatti per anni, con la collaborazione di Narayan Desai come segretario – il leader indiscusso degli Shanti Sena – corpi civili di pace – indiani).
I quattro punti importanti del programma per la rivoluzione totale sono: 1) la coscientizzazione della popolazione 2) la sua organizzazione; 3) la lotta nonviolenta contro le ingiustizie ed i soprusi; 4) il programma costruttivo e la messa a punto di un progetto alternativo.
Gli altri due suoi maestri sono stati: Gandhi, e Vinoba. Gandhi lo ha educato fin da piccolo dato che Narayan ha vissuto per molti anni in una comunità fondata e diretta da Gandhi, e dal momento che suo padre, Mohadev Desai, segretario per vari anni del Mahatma, è morto abbastanza giovane quando era in prigione con Gandhi. Con Vinoba ha collaborato per circa 9 anni nella riforma agraria dal basso (il movimento per la donazione della terra: Bhoodan).
Oggi il suo lavoro principale è quello di far conoscere a fondo le idee e la vita di Gandhi (l’ultimo lavoro di Narayan è una biografia illustrata di Gandhi in 4 volumi, scritta e pubblicata in Gujarati, che attualmente è in fase di traduzione in inglese) per risvegliare nelle giovani generazioni l’amore e la conoscenza della nonviolenza.
Mi auguro che ci sia una risposta pronta a questo appello, e che noi, suoi amici italiani che apprezziamo la sua instancabile attività, possiamo rispondere positivamente all’appello e coprire le spese di questo lavoro.
Una parte della cifra preventivata è già stata anticipata da italiani in visita in India: restano ancora da raccogliere circa 2200 Euro.
I contributi, di qualsiasi entità, possono essere inviati ad Azione nonviolenta, sul ccp 10250363, e saranno inviati direttamente in India, senza intermediari.
Alberto L’Abate