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Azione nonviolenta – Aprile 2005

DiFabio

Feb 3, 2005

Azione nonviolenta aprile 2005

– Cecenia, una guerra ignorata anche dal movimento pacifista (di Paolo Bergamaschi)
– Il muro di silenzio è il peggior nemico della Cecenia (nostra intervista a Seilam Bechaev)
– La storia dell’orso russo e della pulce cecena (a cura di Elena Buccoliero)
– La soluzione finale: i campi di filtraggio con tecniche naziste (a cura di Elena Buccoliero)
– Sul filo della memoria. Colloqui con Norberto Bobbio (di Laura Operti)
– Le dieci caratteristiche della personalità nonviolenta: L’empatia (di Luciano Capitini)

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Una guerra ignorata anche dai pacifisti

Di Paolo Bergamaschi

L’orso sovietico non si è estinto, ha solo perso un po’ di pelo e ha cambiato nome mantenendo le vecchie cattive abitudini. Scoppiato agli inizi degli anni novanta in corrispondenza con il disfacimento dell’Unione Sovietica il conflitto ceceno sembrava risolto dopo la mediazione del generale Lebed che aveva portato ad un accordo di pace fra le parti. Dudaev, il primo pittoresco leader, quello che pilotava personalmente il suo aeroplanino in giro per il mondo in cerca del riconoscimento internazionale della Cecenia era scomparso qualche tempo prima ammazzato dai Russi. Non per questo il suo popolo si era perso d’animo. Sconfitti e dispersi dall’esercito zarista a metà dell’ottocento e deportati poi da Stalin nella prima parte del secolo scorso i Ceceni non hanno mai abbandonato i propositi di indipendenza. Aslan Maskhadov è stato nel 1997 l’ultimo presidente liberamente eletto. La sua ascesa al potere coincide con quella di Putin in Russia. Mentre Maskhadov rappresentava l’anima moderata e laica della frastagliata società cecena Putin riportava al comando della Russia i servizi di sicurezza con la rete del KGB. Partiva l’operazione di ricostituzione dell’impero sotto altre forme, si concretizzava il tentativo di ricompattare l’area di influenza sovietica. I piccoli conflitti scoppiati nelle ex-repubbliche federate, Abkhazia e Ossezia del Sud in Georgia, Nagorno-Karabakh fra Armenia ed Azerbagian e Transdnistria in Modavia erano e sono tuttora controllati da Mosca che muove le sue pedine sui diversi scacchieri mantenendo in uno stato di debolezza cronica le strutture statali dei giovani paesi vicini intenti a consolidare l’improvvisa indipendenza.
La seconda guerra cecena scoppia nel 1999 in seguito ad attentati di terroristi di presunta marca cecena a Mosca in cui sin dagli inizi, in realtà, si sospetta la regia del KGB. Putin prende a pretesto questi fatti per dare l’ordine di invadere di nuovo la piccola repubblica caucasica. E’ la miglior campagna elettorale per un primo ministro semi-sconosciuto che si candida a sostituire Eltsin alla presidenza della Federazione Russa. Quello che succede poi è storia recente. Cala il silenzio della stampa occidentale sulla Cecenia. Si sa che c’è la guerra ma nessuno può arrivare a Grozny ridotta ormai a città fantasma. L’accesso è rigorosamente vietato a giornalisti e organizzazioni non governative. Le poche notizie che filtrano, però, fanno accapponare la pelle. L’esercito russo si macchia di ogni sorta di crimine. Il Parlamento Europeo nel luglio del 2003 approva una risoluzione che denuncia i crimini di guerra ed i crimini contro l’umanità commessi dai soldati regolari. Ma Putin ormai è diventato un prezioso alleato dell’occidente nella guerra globale contro il terrorismo. Tutto gli si perdona e si accetta che il conflitto ceceno rientri una strategia comune di lotta al terrore.
Oggi la Russia è tutto meno che un paese democratico. Stampa e televisioni sono ormai tornate sotto il controllo del potere centrale così come l’economia che ha visto la rinazionalizzazione di alcune grandi industrie di settore.
Ad un Putin che per ragioni di politica interna inseguiva la soluzione militare del conflitto l’Occidente non ha mai saputo controbattere con decisione la necessità di trovare una soluzione politica, possibile ed invocata più volte da Maskhadov e dai suoi emissari. Il piano di pace di Akhmadov, ex-ministro ceceno, andava in questa direzione. La sua voce è rimasta inascoltata così come quella di tanti intellettuali europei che chiedevano ai leader occidentali più attenzione ai diritti dell’uomo che ai contratti ed agli appalti. Anche nella società cecena come in altri paesi islamici si è assistito ad un processo di radicalizzazione che ha messo in ombra la componente moderata. D’altronde è stata proprio la contrapposizione violenta che ha fatto la fortuna di Putin così come quella di Sharon in Israele. Più si polarizza il confronto più gli estremi si avvantaggiano. Il Caucaso, così, si tinge di fondamentalismo, una svolta completamente estranea alla tradizione religiosa della regione. Mentre Maskhadov alla macchia rilanciava in questi mesi l’offerta di dialogo, Putin rinsaldava il suo potere serrando la presa dei servizi segreti in tutti gli angoli della federazione. Il fondamentalista Basaev, intanto, non cessava di sporcarsi le mani con i crimini più efferati culminati con la presa degli ostaggi alla scuola di Beslan nell’Ossezia del Nord delegittimando Maskhadov e con lui tutta la causa cecena. Ma la scomparsa, l’omicidio di Maskhadov ci fa ripiombare in una spirale di guerra. E la guerra non risolve mai i problemi. La lotta al terrorismo sta accecando l’Occidente.
La causa cecena, purtroppo, non ha mai saputo scaldare i cuori del movimento pacifista.

Il muro del silenzio è il peggior nemico della Cecenia
Parlate di noi, cercate di capire, aiutateci a vivere

Nostra intervista a Seilam Bechaev

La cameriera del ristorante ha fatto in modo di occuparsi del nostro tavolo. Si avvicina con un ampio sorriso e si rivolge al nostro ospite nella sua lingua natale, il russo. Spiega che è Ucraina, vive in Italia da alcuni anni insieme alla sua famiglia, si trova bene… Lui sorride della coincidenza, risponde che è in viaggio d’affari. E a noi spiega: “Non rivelo mai la mia identità, non si può mai sapere…”.
Seilam Bechaev, il presidente dell’ultimo parlamento ceceno liberamente eletto, è in Italia per la prima volta per dare notizie del suo paese e di una guerra così poco trattata dai media italiani.
“Ci definiscono islamisti, banditi, fondamentalisti”, insiste Bechaev, “eppure la religione islamica è per noi relativamente recente, ha solo duecento anni”.

La spinta indipendentista in Cecenia era presente anche sotto il regime sovietico?
In quegli anni la repubblica cecena si considerava autonoma all’interno dell’Urss e aveva istituito un suo consiglio che in alcuni casi sostituiva il parlamento russo. In questo modo la repubblica cecena ha conquistato un’autonomia di fatto e alla caduta dell’Unione Sovietica, nel 1990, ha approvato una propria costituzione, riconosciuta dal diritto internazionale. Tutto è andato bene fino al 1994, con la prima invasione russa, cui è seguita, dopo una relativa tregua dal 1996 al 1999, la seconda invasione che dura tutt’ora.

Le elezioni presidenziali del 2003, in Cecenia, erano state regolari?
Le elezioni avvennero secondo quanto aveva ordinato Putin: davanti a ogni sede di seggio c’erano un carro armato e un gruppo di militari. Le urne vennero raccolte e trasportate a bordo del carro armato, fino alla commissione che li avrebbe esaminati. Ci siamo chiesti che cosa accadeva a questi voti durante il loro trasferimento. Avrebbero potuto fare qualsiasi cosa – eliminare, aggiungere schede – e nessuno avrebbe potuto protestare.

Quale ruolo sta svolgendo l’Unione Europea in Cecenia?
Il Consiglio d’Europa da sei anni invia propri rappresentanti per monitorare la situazione. Ogni tre mesi gli osservatori dell’Unione Europea rendicontano ciò che hanno visto, che è generalmente molto meno di quello che accade perché non viene data loro la possibilità di entrare a contatto diretto con la realtà, ma anche quando denunciano le violazioni, le loro parole non hanno conseguenze e la guerra continua. Quando incontro i rappresentanti dell’Unione Europea, ho spesso l’impressione che siano più interessati al petrolio ceceno piuttosto che ai veri problemi del nostro popolo. Gli Stati Uniti, l’Unione Europea promettono amicizia alla Russia e rafforzano così il potere di Putin.

Le violenze intanto continuano…
Ogni giorno ci sono torture, controlli forzati dei passaporti, umiliazioni della popolazione civile. La popolazione cecena sta piano piano scomparendo e molti hanno lasciato il paese. Coloro che sono rimasti hanno bisogno di aiuti psicologici. Nei lager, chiamati “campi di filtraggio”, soprattutto nella regione dell’Inguscezia, si sta diffondendo la tubercolosi a causa della fame e del freddo. I profughi sono ormai in tutta la federazione russa oltre che in Europa.

Anche in Cecenia è stato usato lo stupro come arma?
Sì, molte donne sono state violentate, e anche se in Cecenia i soldati russi non vengono denunciati, all’estero ci sono donne cecene che stanno cominciando a parlare e in Francia si stanno pubblicando libri su questo. Le donne che hanno subito, tante cercano il suicidio o diventano kamikaze.

A chi fa comodo il terrorismo ceceno?
Ad ogni seduta in Parlamento Europeo, prima dei summit più importanti dove è necessario che la Russia sia presente, succede sempre qualcosa: il rapimento di persone importanti, membri di qualche organizzazione internazionale, o qualche atto terroristico o un’esplosione con tante vittime civili. A questo punto il giudizio sulla Cecenia da parte della comunità internazionale cade, non c’è. Come è successo dopo quello che è accaduto a Beslan. Quando era necessario affrontare la questione cecena e forse punire la Russia, Putin ha anticipato la discussione parlando dell’atto terroristico e della Cecenia non si è più parlato. Durante il conflitto ceceno sono morti 42.000 bambini con meno di 10 anni. Credo che adesso sia chiaro chi trae vantaggio da questi atti terroristici.

A chi conviene la guerra?
La prima ragione della guerra è che in Cecenia c’è petrolio di altissima qualità. Ogni giorno vengono estratti dalla repubblica cecena 3000 dollari di petrolio, un business mondiale che copre tutte le spese di guerra. Inoltre la campagna politica del presidente Putin era stata costruita intorno alla ripresa del conflitto in Cecenia e questa guerra serve al presidente per mantenere il potere. Intorno a lui il gruppo di oligarchi che lo sostiene hanno privato le risorse naturali della popolazione: il gas è nelle mani di uno, il petrolio nelle mani di un altro.
Oggi il presidente Putin sta costruendo questa immagine della guerra in Cecenia per poter distrarre il popolo dai problemi interni della Russia. Questa è la ragione principale per cui alla politica russa serve mantenere questa guerra.

Che relazione c’è tra la guerra in Cecenia e la situazione irachena?
Dopo l’11 settembre è cambiata la considerazione internazionale della guerra in Cecenia e c’è chi ha preso la palla al balzo per sfruttare questa situazione. Gli Stati Uniti hanno chiuso gli occhi sul problema della Cecenia e hanno concesso mano libera ai russi, che a loro volta devono chiudere gli occhi su quello che sta avvenendo in Asia. La situazione cecena è parte di questo equilibrio.
Certamente la guerra in Iraq attuale ha anche ulteriori rapporti con la situazione cecena. La Russia vende in Iraq tramite mezzi illegali una grande quantità di armi. Ci sono dati che attestano una grossa esportazione di sostanze esplosive. Se si arriverà alla stabilità in Iraq, sul mercato andranno a finire una grande quantità di petrolio, il prezzo cadrà e questo rappresenterà la fine della guerra in Cecenia.

Si è parlato dell’attentato a Beslan come di un equivalente dell’11 settembre…
Non c’è niente che possa giustificare questa tragedia. Ma ci sono alcuni aspetti della vicenda che non sono stati resi noti. L’attacco alla scuola di Beslan è stato organizzato dai servizi segreti russi. In questo atto terroristico sono stati utilizzati alcuni terroristi ceceni che erano stati arrestati tre anni prima: erano stati giudicati colpevoli dai tribunali russi e scontavano una condanna penale per 10-12 anni di carcere, nelle prigioni russe. Ci si chiede come sia stato possibile per queste persone trovarsi nella scuola di Beslan. In seguito sono stati dati per dispersi e nessuno sa che fine abbiano fatto, se siano morti, se siano mai stati trovati i loro corpi.
Nel processo contro i terroristi la Russia ha cercato di nascondere la ragione e i fatti reali di quanto è successo. Nessuna delle organizzazioni per i diritti dell’uomo ha avuto il permesso di avvicinarsi al processo, gli stessi servizi speciali federali hanno visto solo gli atti. Il parlamento ceceno e il presidente hanno annunciato che daranno qualsiasi forma di sostegno per scoprire il perché di quanto è accaduto a Beslan, ma anche di fronte a queste proposte, la Russia per l’ennesima volta rifiuta. Questo è quanto è successo a Beslan. Se non ci fosse stato l’intervento dei genitori dei bambini, tutti gli ostaggi, tutti quelli che erano stati trattenuti, sarebbero stati uccisi.

Queste informazioni, sul coinvolgimento dei terroristi già in carcere, restano lontane dall’opinione pubblica.
L’informazione esiste, c’è. È nelle mani dei protagonisti e di chi è loro vicino. La possibilità di informare è nelle mani dei parenti dei prigionieri che sono stati liberati per partecipare all’azione di Beslan. Ma quando al processo gli avvocati hanno presentato dei testimoni e hanno fatto queste dichiarazioni, quello che è venuto fuori è stato subito nascosto e questi prigionieri sono scomparsi, non si è più saputo niente di loro. L’importante per la Russia è il primo, secondo minuto in cui i fatti si verificano, il nodo è informare nelle situazioni di shock. Dopo non viene più data nessuna informazione. Nessun politico si permetterà di chiedere come mai l’informazione c’era nei primi minuti e poi non si è più saputo niente. All’interno delle Nazioni Unite resta solo la versione ufficiale fornita dalla Russia. La popolazione cecena non è in grado di controbattere, non ha le possibilità per fare controinformazione.

Che impatto hanno avuto i fatti di Beslan sull’opinione pubblica russa?
Il popolo russo ora è sotto shock e non vede il problema nella sua complessità ed interezza, anche perché non sa veramente quello che accade. Non c’è nessuna televisione russa che mostri la verità. Un canale aveva mandato in onda qualcosa che assomigliava alla verità ed è stato costretto a chiudere, un giornalista radiofonico è stato intimidito dalle autorità…
In novembre a Mosca è sceso in piazza oltre un milione di persone per chiedere la fine della guerra in Cecenia, ma non ne ha parlato nessuno, solo un giornale e una radio, e ancora non è sufficiente. Quando l’opinione pubblica si sveglierà, forse potrà cambiare qualcosa.

Che ruolo vede per l’Unione Europea?
L’Unione Europea ha un ruolo decisivo. È l’unica organizzazione da cui veramente possiamo aspettarci un aiuto. L’Europa rispetta e difende i diritti fondamentali dell’uomo e la democrazia, non può più chiudere gli occhi su un paese dove si opprime la popolazione e si compiono continue violazioni. Ogni abitante ha il diritto di chiedere ai suoi deputati e al governo la possibilità di avere i propri diritti e la propria democrazia.

Un piano di pace era stato predisposto.
Attraverso il nostro ministro degli esteri abbiamo proposto misure concrete: lo stato ceceno sotto l’egida dell’Onu, con osservatori internazionali e un’amministrazione internazionale del paese per un periodo di transizione di 5-10 anni per aiutare la democratizzazione del paese, e in seguito affidare al popolo la scelta se mantenere la Cecenia come repubblica indipendente o entrare nella federazione russa.

E poi?
Queste proposte non sono parse interessanti all’Unione Europea che sembra appoggiare gli interessi della Russia. Per l’Unione, evidentemente, è più importante la riduzione del prezzo del petrolio o del gas, è più importante aprire il commercio delle merci europee in Russia, piuttosto che tutelare i diritti umani.

Le ragioni sono tutte economiche?
Storiche ed economiche. Quando al Parlamento Europeo si è discusso del problema ceceno è stato richiamato il modo in cui la Russia è stata offesa quando, dopo la caduta dell’URSS, le sono state tolte le repubbliche baltiche. Accade così che si chiudono gli occhi sulla situazione cecena per non offendere la Russia che ha perso le repubbliche baltiche. La Federazione Russa a sua volta fa la parte della vittima e minaccia di uscire dal Consiglio d’Europa, di cui garantisce il 25% del budget. E il ricatto economico è pesante….

Che cosa possiamo fare noi?
Gli studenti dell’Università di Varsavia mi hanno posto la stessa domanda, qualche tempo fa, in un nostro incontro. Hanno poi raccolto le loro firme contro le violazioni dei diritti umani e hanno proposto al governo polacco di stabilire sanzioni economiche contro la Russia fino alla cessazione di queste violazioni.
In Francia, nell’incontro tra Chirac e Putin, siamo riusciti a porre a Putin una domanda sulla Cecenia, cosa che lo ha fatto infuriare moltissimo perché lo ha costretto a dare spazio a questo tema di fronte ai giornalisti. Parlare e far parlare della Cecenia aiuta la nostra condizione.

Se lei tornasse in Cecenia che cosa le succederebbe?
So per certo che non riuscirei ad arrivare. Se passo la frontiera ucraina o bielorussa possono arrestarmi subito. Ma non appena si normalizzerà la situazione, non aspetterò un minuto a rientrare nel mio paese.

Servizio a cura di Elena Buccoliero
La violenza sulle donne, la violenza delle donne

Nel commando che ha preso in ostaggio la scuola di Beslan, in Ossezia del nord, erano presenti due donne, e proprio alle donne si devono molti attentati suicidi perpetrati negli ultimi anni in Russia.
Cresce intanto la violenza delle truppe russe specificatamente alle ragazze. Secondo Yakin Erturk, relatrice speciale dell’Onu per le violenze contro le donne che ha visitato la Cecenia nel 2004, rapire, violentare e torturare le donne cecene è diventata quasi un’abitudine per le truppe russe di Vladimir Putin. Anche nei blitz militari nelle case, in cui “tradizionalmente” venivano sequestrati gli uomini, ora le donne non vengono risparmiate. Secondo Erturk “ciò viene presentato come una risposta al coinvolgimento delle donne come kamikaze”.
Ci sono anche casi di denuncia di maltrattamenti a carico di donne cecene finché non confessano, sotto tortura, di essere parte di una organizzazione terroristica. Un recente esempio (fine dicembre 2004) è stato illustrato dalla Chechenpress e Daymok secondo cui una giovane madre di 21 anni è stata costretta ad ammettere di voler esplodere in un attentato in accordo con il presidente Maskhadov, per impedire che venisse torturato il suo bambino di 2 anni, rapito insieme a lei.
Casi come questi vengono “coperti” anche dalla stampa russa, che dà per certo il coinvolgimento di donne nella preparazione di attentati dinamitardi pur se ammette che le denunce a loro carico sono state emesse da testimoni mentre si trovavano “sotto le pressioni dei militari”.

Le Madri dei Soldati Russi contro la violenza sui militari di leva

Secondo il rapporto 2004 di Human Rights Watch, nell’esercito russo ogni anno centinaia di migliaia di reclute vengono sottoposte a grossi abusi da parte dei senior. Il risultato è che dozzine di ragazzi muoiono ogni anno e migliaia soffrono danni seri – e spesso permanenti – alla loro salute fisica e mentale, centinaia commettono o tentano il suicidio e migliaia fuggono dalle unità a cui sono assegnati.
Le madri dei soldati nel 1998 hanno cominciato a costruire un potente network di comitati sorti in tutta la Russia per contrastare gli abusi e aiutano i disertori, scatenando così le ire delle gerarchie militari che le accusano di ostacolare la giustizia militare. Ma le madri ribattono: “I soldati non vengono considerati persone. Vengono picchiati, minacciati e torturati, per questo cercano di fuggire. Il sistema stesso genera violazioni”.
L’Unione dei Comitati delle Madri dei Soldati ha deciso di costituirsi in Partito Popolare Unito delle Madri dei Soldati con la prospettiva di partecipare alle elezioni politiche del 2007 e di chiedere l’abolizione degli obblighi di leva.
Un deputato del partito nazionalista Rodina, Viktor Alksnis, ha accusato il gruppo alla fine del 2004 come “agente segreto” che cerca di indebolire le capacità difensive dell’esercito russo e ha richiesto un’inchiesta federale. Oggi in Russia il “nonnismo” è il primo problema nazionale per l’affermazione dei diritti umani.
Sollecitati dall’associazione delle Madri, alcuni deputati europei capeggiati dal belga Bart Staes hanno assunto l’iniziativa di convocare una conferenza di pace “informale” fra la società civile russa e la componente moderata e democratica della resistenza cecena. L’incontro si è svolto a Londra il 25 febbraio scorso e si è concluso con un documento comune intitolato “La via verso la pace in Cecenia” che contiene l’impegno al cessate il fuoco ed il ritiro graduale dell’esercito russo. E’ stata una prova generale di dialogo, di un dialogo che può e deve continuare.
Condividere le sofferenze del popolo ceceno

Come volontari dell’Operazione Colomba volevamo, anche in Cecenia, assicurare una presenza per condividere gli stessi rischi dei civili che subiscono il conflitto.
Siamo andati in Cecenia nel 2000-01, ritornando per due anni a più riprese, in collegamento con le Ong presenti nei paesi del Caucaso. Abbiamo incontrato profughi ceceni, abbiamo imparato il russo per parlare direttamente con loro. Purtroppo è stato impossibile aprire il progetto perché questa guerra è diversa da tutte le altre.
Di solito nei luoghi di guerra ci sono interventi umanitari, è presente l’Onu, ci sono associazioni di civili… In Cecenia tutto questo non esiste. Chi va in Cecenia deve vivere sotto scorta armata per ventiquattro ore al giorno, per scongiurare il rischio di rapimenti. È difficile capire quello che succede. Non avere presenze internazionali fa molto comodo alla Russia perché così non trapelano informazioni. Quando eravamo in Cecenia, spesso eravamo costretti a cambiare strada perché nel paese che volevamo raggiungere era in atto una operazione di pulizia etnica. I militari circondano il villaggio in modo che nessuno possa più entrare o uscire. Vengono gettate bombe dall’alto mentre le truppe entrano, con rastrellamenti e violenze. Questa è una pratica quotidiana, costante.
Noi purtroppo abitavamo in un albergo lussuoso, eravamo obbligati a vivere lì, ma alcune persone sono venute da noi per farsi ascoltare, perché fossimo noi gli amplificatori della loro storia. Un uomo era riuscito a passare il confine illegalmente, a piedi, i suoi familiari erano spariti, li aveva poi ritrovati in una fossa comune, con i segni delle torture…
Incontrando i profughi in Inguscezia e le famiglie di Grozny sopravvissute si comprende che è una forma di lotta nonviolenta anche coltivare l’orto e raccogliere i frutti che hanno vinto le bombe. Abbiamo visto una popolazione dignitosa e decimata dalla guerra che quando ci incontrava diceva: “Dite agli italiani che non siamo terroristi. Vorremmo accogliervi a Grozny, che era una città bellissima”. Ora Grozny è un cumulo di macerie.

Andrea e Carlo, volontari Associazione Papa Giovanni XXIII. Testo non rivisto dagli autori.

La storia dell’orso russo e della pulce cecena

Nel 1944 Stalin ordina le deportazioni cecene (100.000 vittime) a causa del sospetto di “complicità” dei locali col regime nazista.
Il crollo dell’Unione Sovietica coincide con la nascita della Repubblica Cecena.
Il 28 ottobre 1991 il presidente ceceno Dudayev proclama l’indipendenza. La decisione suscita una violenta reazione da parte della Russia di Boris Eltsin che, dopo il distacco di altri stati ex-sovietici, non ha intenzione di perdere anche la Cecenia, con i suoi giacimenti di petrolio e di gas naturale.
Nel dicembre 1994 avviene la prima invasione militare della Cecenia. Dopo due anni di scontri e 140.000 morti (di cui oltre 100.000 civili) la guerriglia comandata da Aslan Maskhadov – succeduto a Dudayev dopo la sua morte – riesce ad avere la meglio.
Alla fine di agosto 1996 vengono firmati gli accordi di pace a Khasaviurt. Segue un periodo di transizione, in cui il governo russo sembra accettare la Cecenia come repubblica indipendente; nel frattempo Maskhadov deve spartire il potere con gli influenti “signori della guerra” locali, su tutti il sanguinario comandante Shamil Basayev, e la popolazione già stremata dalla guerra si trova sotto il giogo di mafiosi, contrabbandieri e criminalità comune. Centinaia di giovani si arruolano in gruppi islamici radicali promossi da “predicatori” spesso provenienti da Paesi arabi, che unitamente agli uomini di Basayev e del giordano Amir Khattab intendono trasformare la Cecenia in un “principato islamico”, con blanda opposizione da parte di Maskhadov, secondo alcuni trascinato quasi con la forza in queste attività allo scopo di impedire il dilagare di scontri interni.
Nell’agosto 1999 gli uomini di Khattab e Basayev invadono il Daghestan. Nel settembre dello stesso anno diversi palazzi moscoviti saltano in aria, con la morte di oltre 300 civili. Il Cremlino accusa i combattenti di Basayev, ex ufficiali dei servizi segreti sostengono si sia trattata di una messinscena del governo per giustificare la seconda invasione della Cecenia. In tale contesto emerge il nuovo presidente russo Vladimir Putin come “uomo forte”, capace di riprendersi la repubblica caucasica con una “guerra-lampo”.
Ottobre 1999: le truppe regolari entrano in Cecenia, dando origine ad una spirale di violenza e massacri di civili che continua ancora oggi: nel giro di diversi mesi cadono tutte le principali città, fra cui la capitale Grozny (sottoposta ad un sanguinoso assedio, nel quasi completo silenzio della Comunità Internazionale), ma parallelamente sacche di resistenza permangono nelle città e nelle montagne a sud. Oggi la Cecenia è un gigantesco cumulo di macerie, ancora scossa da combattimenti e resa insicura dalle incursioni (zachistkas) delle forze russe e locali, oltre che dominata da estrema povertà e pessime condizioni igienico-sanitarie.
Violazioni dei diritti umani: Ci sono stati raid militari su vasta scala, cosiddetti zachisti, accompagnati da gravi abusi dei diritti umani, e un gran numero di ceceni, soprattutto uomini e ragazzi, sono stati uccisi o sono “scomparsi”. Tra gli abusi: rastrellamenti, massacri, esecuzioni sommarie, torture, sparizioni (tuttora una media di 80 al mese), stupri, rapine e sequestri a scopo di estorsione, assalti alle case e alle moschee. Nel 2003 sono stati riferiti raid militari anche in Inguscezia, tra i circa 70.000 sfollati ceceni rifugiati sia negli accampamenti che in insediamenti spontanei o in case private.
Combattenti ceceni hanno continuato a compiere gravi abusi dei diritti umani: attentati dinamitardi con vittime civili, omicidi di funzionari del governo filorusso, rapimenti ed agguati a scopo di rapina. L’azione più eclatante è stata senza dubbio il sequestro del teatro Dubrovka, a Mosca (ottobre 2002), a cui gli Spetsnaz russi replicarono brutalmente utilizzando un gas che uccise più di 160 ostaggi, oltre all’intero commando ceceno.
Le vittime: si stima un numero compreso tra i 250.000 e i 300.000 civili ceceni uccisi (di cui 40.000 bambini) nell’arco delle due guerre, vale a dire un quarto della popolazione. Migliaia di civili (almeno 3 mila secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani) sono ‘spariti’ nel nulla dopo essere stati arrestati dalle forze di sicurezza russe e rinchiusi nei cosiddetti ‘campi di filtraggio’. Si calcola che dal 1994 al 2002 oltre 80 mila ceceni sono passati in questi campi. Secondo il commissario russo per i diritti umani, nel solo 2004 almeno 1.700 cittadini ceceni sono stati rapiti da truppe federali, poliziotti locali e ribelli; molti degli ostaggi non hanno fatto ritorno alle proprie case.
Non mancano le perdite tra i militari russi. Il Cremlino dichiara 5.300 morti dal 1999 ad oggi; per contro, l’associazione delle madri dei soldati parla di oltre 13.000 vittime, pressoché equivalenti a quelle subite tra le fila della guerriglia.

Fonti: War News, Peace Reporter, Amnesty International

Verso la “soluzione finale”: i campi di concentramento

Con il decreto n. 247 del dicembre 1994 il governo russo ha istituito, in palese contraddizione con la legge russa e con il diritto internazionale, i “Punti di filtraggio”, per “identificare e controllare se le persone arrestate nelle zone di combattimento sono coinvolte nel conflitto”. Si tratta in realtà di una rete di campi di concentramento, in Cecenia e in alcune regioni russe, cui si aggiungono i reparti speciali di diverse prigioni russe, destinate proprio ai prigionieri ceceni.
Le pressioni internazionali ne hanno determinato la chiusura ufficiale, ma nel giugno 2002 Umar Khambiev, medico e ministro della sanità nell’ultimo governo ceceno, ha scritto un rapporto in cui denunciava il permanere dei campi – solo occultati, trasferiti dalle città alle campagne e moltiplicati – e il sistema di torture in essi utilizzato. Secondo il ministro, intervistato da Peace Reporter nell’aprile 2004, “non si tratta degli atti compiuti da singole formazioni militari non coordinate, ma di un modello statale governato, controllato e sollecitato dalle autorità supreme russe. L’obiettivo dichiarato dai leader russi è arrivare alla soluzione definitiva della questione cecena”.
Il sistema dei campi di filtraggio è perfettamente organizzato.
“Una banda russa ‘pulisce’ il territorio, prende gli ostaggi e li mette in un minicampo ‘privato’, controllato da un gruppo di punizione che i russi chiamano ‘unità militare’. Se in tre o quattro giorni i parenti dell’ostaggio non pagano il riscatto, con denaro o armi, questo, che subisce torture e viene picchiato dal giorno dell’imprigionamento, può sparire senza lasciare tracce, può morire. Se sopravvive, viene trasferito in altri campi, senza registrazioni o accuse. Se in una delle tappe il prigioniero muore a causa delle torture, se ne producono i documenti nei quali figura come ‘liberato’. A questo punto il corpo viene gettato nelle fosse comuni e la persona sparisce senza lasciare tracce”.
Secondo i dati ufficiali in possesso del governo ceceno in esilio, dall’inizio di questa guerra nei campi russi sono state massacrate nei campi di filtraggio più di 40 mila persone. Di esse, oltre 20 mila sono sparite nel nulla.
“Secondo le informazioni che trapelano dalle strutture punitive russe”, ha affermato Khambiev, “ci sarebbe una direttiva segreta di Putin agli organi di punizione che prescrive di eliminare l’ottanta per cento dei prigionieri e di rendere invalidi gli altri. Lo confessano gli stessi ufficiali russi. L’ultima volta simili confessioni sono state documentate nel corso delle operazioni punitive di Putin a Sernovodsk e ad Assinovckaja”.
Anche le torture sono codificate, ha raccontato il ministro Khambiev.
“Sono stato in un campo di concentramento, ho sperimentato le torture russe sulla mia pelle. Come medico spesso ho a che fare con le malattie di coloro che sono stati vittima del sistema punitivo russo. Sono convinto che molte torture, per la loro complessità e livello tecnico, siano nate nei laboratori dei servizi segreti russi. Siccome molte tecniche si ripetono nei diversi campi, ci dovrebbero essere degli istruttori che vengono da Mosca o delle istruzioni tipo che spiegano come mutilare e far soffrire le vittime”.
I sistemi codificati – agghiaccianti, dettagliatamente descritti nel rapporto di Umar Khambiev – vanno dalla tortura psicologica estrema e protratta nel tempo alle scosse elettriche, dalle umiliazioni alla violenza sessuale sia su uomini che su donne, dal soffocamento all’essere appesi per ore con le mani e i piedi legati dietro la schiena… e poi ci sono gli usi di segare i denti del detenuto, di inchiodargli la lingua al tavolo, di lasciare i prigionieri senza cibo per poi spaccar loro la lingua e costringerli a mangiare cibi caldi e salati…
Chi non muore subisce per anni le conseguenze psicofisiche delle violazioni subite, in una situazione di totale mancanza di assistenza e di farmaci.
Come già durante il nazismo, anche in questa guerra, dichiara Khambiev, “i detenuti vengono utilizzati per esperimenti di laboratorio negli Istituti di medicina del Dagestan e dell’Ossezia del Nord. Per me che sono un medico la cosa più terrificante è che in queste torture partecipano i medici militari russi. Numerose sono le testimonianze delle manipolazioni mediche nelle torture, nelle lesioni e nei massacri dei prigionieri”.
È la storia che si ripete…
“Alla nascita del fascismo in Germania negli anni Trenta l’Occidente stava a osservare tranquillamente questo processo, anzi, a volte lo aiutava economicamente ‘per avere una Germania stabile e amichevole’. Si sa bene come è andata a finire. Purtroppo la storia si ripete. L’America e l’Europa plaudono il nuovo Führer, l’innovatore dei campi di concentramento”.

Rielaborazione da PeaceReporter

Sul filo della memoria
Colloqui con Norberto Bobbio

di Laura Operti

Il 9 gennaio del 2004 moriva Norberto Bobbio e nel primo anniversario sui giornali ho trovato ancora molte fotografie ed articoli che lo hanno ricordato, tra cui un’intervista al figlio Andrea che ci ha restituito la sua figura nel pensiero e nella vita famigliare. Queste letture e un senso di pacificato rimpianto, mi hanno spinta finalmente a scrivere qualche riga in omaggio all’illustre professore con cui mi laureai all’Università di Torino con una tesi in Filosofia del Diritto nel giugno 1969, superando un certo imbarazzo e il timore che tutto quello che si poteva dire di lui sia già stato detto e scritto e da ben altre e più autorevoli voci .
Credo però che “lui” non disdegnerebbe affatto essere ricordato, come farò io, per l’influenza diretta o indiretta del suo insegnamento nelle vite dei suoi allievi, anche al di fuori del mondo accademico e in modi svariati.
Fui sua allieva provenendo dalla Facoltà di Lettere e Filosofia e seguii negli anni universitari i suoi corsi su “Il problema della guerra e le vie della pace” e su “Giusnaturalismo e Positivismo Giuridico”.(1) La mia tesi di laurea in Filosofia ebbe come argomento “Il principio etico della non violenza” e per prepararla fui più volte ricevuta a casa sua in via Sacchi 66, come Bobbio era solito fare coi suoi studenti. Già allora ebbi la consapevolezza della qualità del rapporto che in questo modo si instaurava tra docente e allieva, che non era affatto consueto in quella Università e che per sempre sarebbe rimasto nel cuore. Nulla togliendo all’autorevolezza e a una certa severità che caratterizzava la persona.
Erano gli anni della contestazione e sappiamo che Bobbio la visse intensamente, cercando di capirne le ragioni. Anche di questo si parlava mentre si discuteva della “nonviolenza”, concetto all’epoca quasi originale e comunque non molto condiviso da più parti del “movimento”. Bobbio precedentemente mi aveva consigliato vivamente di andare a Perugia a parlare con Aldo Capitini, perché da lui avrei potuto avere tutte i lumi e le indicazioni che stavo cercando, e così feci nella primavera del ‘67. Tralascio tutte le impressioni altrettanto forti che ebbi dal bellissimo incontro con Capitini, che richiederebbero un altro saggio, data la statura del personaggio. Da Capitini, oltre all’approfondito esame di quelli che erano i fondamenti del pensiero nonviolento, ebbi il prezioso suggerimento di andare in una certa libreria di Londra, dove avrei potuto trovare tutti i libri che volevo per sviscerare il tema. L’epoca di internet è lontana e quindi io con molto entusiasmo in estate me ne volai a Londra e trovai in questo piccolo negozio in Caledonian Road 5, specializzato in Peace Research, una persona piena di sapere e passione che mi procurò i libri che cercavo.
Sono stata dunque molto fortunata ad avere avuto nel percorso di ricerca che porta alla stesura della tesi incontri così belli, di livello umano così alto, quali – già allora lo intuivo – la vita non facilmente regala.
Provo un po’ di pena per i ragazzi che oggi, come allora, vanno fieri di preparare la tesi nel minor tempo possibile e col minor dispendio di energie…!
La mia discussione di laurea fu “ravvivata” da domande che il mio relatore, nonostante la frequentazione di anni, si era riservato di farmi “lì” e dal dialogo a tre col controrelatore, prof. Giuseppe Riconda, docente di Filosofia Morale alla Facoltà di Lettere e Filosofia . Andò tutto bene e come prosecuzione o compimento di questo lavoro tenni all’Università un seminario con Riconda e pubblicai sulla rivista “Filosofia”, nel 1971 un saggio dal titolo Rassegna di studi sulla nonviolenza.(2)
Ma tutto questo è l’antefatto per parlare di come l’insegnamento di Bobbio abbia permeato la mia vita, nelle esperienze di lavoro e forse qualcosa di più.

Subito dopo la laurea ebbi un incarico a tempo indeterminato per l’insegnamento di materie letterarie presso un scuola media di un quartiere di periferia di Torino, la mia città.
Il mio primo lavoro mi diede molta felicità e provai da subito una forte empatia per quei ragazzini, un pò teppistelli, tutti però sufficientemente incuriositi dalla scuola, dai loro insegnanti, da ciò che veniva loro raccontato (avevo due classi di cui una tutta maschile).
Ovviamente, avendo studiato tutt’altro all’università, sapevo ben poco di didattica, di pedagogia, ma, come pensavo allora e anche penso adesso, dopo tanti anni in cui ho avuto a che fare molto da vicino con la formazione dei docenti, non mi sembrava necessario essere a conoscenza di particolari metodologie per andare d’accordo con gli studenti e insegnar loro quel che si doveva.
Era molto diffusa la pratica del “partire dagli interessi dei ragazzi” e quindi anch’io seguii più o meno questo “imperativo educativo ”, anche se strada facendo mi accorgevo che porgere con le giuste maniere contenuti totalmente lontani dalla loro esperienza a volte poteva avere un effetto eccitante, come se si andasse alla scoperta di un territorio sconosciuto. E quindi perché non portarli sui “miei” territori e vedere cosa succedeva?. Per questo in una terza media proposi, forse all’interno del programma di Educazione Civica, o forse no, il tema del giusnaturalismo di bobbiana memoria e… miracolo!, riuscimmo a sviscerarlo, a farne capire i nessi con i fenomeni del sociale, con l’attualità, ecc.ecc. Al punto che quando ci fu una specie di “ispezione” da parte della preside, in quanto per motivi disciplinari (sic!) non si voleva ammettere alcuni ragazzi all’esame, io fronteggiai questo pericolo mettendo in scena un’interrogazione con l’allievo più bravo che, guarda caso, si chiamava Leopardi. L’interrogazione si svolse sulla differenza tra diritto naturale e diritto positivo, su come la pensava lui, i suoi compagni, se l’argomento lo aveva interessato, se avrebbe voluto approfondirlo. La preside uscì dall’aula esterrefatta, anche se non voleva darlo a vedere e mi disse soltanto “sì, effettivamente il livello culturale della classe è buono…”. Ricordo benissimo l’episodio, e quello che tutti avevamo provato, come fosse ora.
Con questa esperienza io avevo verificato che tutto il sapere può essere condiviso e può far crescere in modo diverso tutti, quale che sia l’età e la provenienza sociale. Quando raccontai l’episodio a Bobbio, egli sorrise e mi pare di ricordare che fosse soprattutto contento per l’ entusiasmo che io mettevo nel far pervenire “mediandolo” a quei ragazzi ciò che avevo imparato nei suoi corsi. Scorgeva in questo le potenzialità di una trasmissione democratica, ugualitaria, semplificata del sapere che era nelle sue corde più profonde. (3)

Molto anni più tardi mi “imbattei” in quella che sarebbe diventata una mia passione: “l’antropologia visuale“, figlia di antropologi e registi. L’antropologa per eccellenza che credette fermamente in questo “mezzo” per far progredire l’umanità fu l’americana Margaret Mead, insieme al marito, l’ancor più celebre Gregory Bateson, alla fine degli anni trenta, con esperienze sul campo a Bali e in Nuova Guinea. (4)
Il regista cui può attribuirsi la paternità dell’ “antropologia visuale” è Jean Rouch, regista-etnologo, francese, da poco scomparso, che particolarmente nelle terre del Niger negli anni ‘50 scoprì come la cinepresa non solo potesse fissare per sempre espressioni di una cultura che stava scomparendo, ma anche le grandi potenzialità di relazione e di scambio, insite in questa idea di fare cinema: la cosiddetta “antropologia condivisa “.(5)
In Italia la figura indicata come più significativa in questo campo è quella dell’ etnomusicologo e cineasta Diego Carpitella che indagò e filmò in aura demartiniana nel nostro Sud fenomeni di tarantismo, musica, canti, linguaggi gestuali, che forse oggi sarebbero dimenticati, se non ci fosse stata la sua vivida opera .(6)
Nel 1979 organizzai con Diego Carpitella , Gian Renzo Morteo, docente di storia del teatro, e Sara De Benedetti del Gruppo di Danza Contemporanea Bella Hutter, una Rassegna dal titolo “Danza, rito, gestualità nel film etnografico”, per un totale di circa quaranta documentari. A Torino, credo per la prima volta, si scoprì al Teatro Araldo in Borgo S. Paolo una cinematografia che spaziava dalla cerimonia rituale delle popolazioni africane, alla danza- trance dei balinesi, al raffinato teatro giapponese Kabuki, al folklore europeo .
Ma tutto questo cosa c’entra con Bobbio?
Innanzitutto avere un atteggiamento curioso e rispettoso degli altri credo sia stato un modo di essere di Norberto ed è lo stesso con cui i grandi registi antropologi che ho citato si accostavano a gruppi o popolazioni la cui cultura aveva registri, connotazioni, segni diversi dai nostri .
Fissando i segni e le immagini di tali culture nell’immagine filmica si soddisfano schematicamente quattro esigenze :
– l’archiviazione di culture in via di estinzione in modo che le future generazioni possano reimpadronirsi della propria identità culturale
– l’effettuazione di una ricerca scientifica estremamente mirata, che consente di rivedere l’immagine audiovisiva dei fenomeni nei quali il movimento ha un ruolo importante, per un tempo indefinito.
– la catalogazione di materiali audiovisivi per una scienza comparativa delle culture
– la comunicazione interculturale, attraverso l’immediatezza del contatto con la realtà che scorre sullo schermo. (7)
Nulla a che vedere con la “cialtronizzazione” di un certo reportage televisivo che ci avvicina a “mondi lontani“, ma il più delle volte in modi superficiali, incolti, attenti più di tutto a quell’”audience “, spesso nutrita di qualunquismo e di volgarità.
E’ anche importante ricordare che storicamente la prima manifestazione ad aver promosso in Italia la conoscenza dell’antropologia visuale era stato il Festival dei Popoli di Firenze, fondato nel 1959 dell’allora sindaco di Firenze Giorgio La Pira, di cui ricorre quest’ anno il centenario della nascita, una figura che, guarda caso, ci riporta nell’orizzonte della nonviolenza.

Per la sottoscritta il passo fu breve: quando in Italia si cominciò a parlare diffusamente di flussi migratori, società multietnica, integrazione, diversità, incontro tra culture, il mio interesse dominante si trasferì dall’antropologia visuale all’educazione interculturale. A quell’epoca lavoravo all’Irrsae Piemonte, l’Istituto regionale per la ricerca l’aggiornamento educativi (da alcuni anni Irre, Istituto regionale per la ricerca educativa ).
La scuola materna e poi la scuola elementare e poi la scuola media cominciavano a riempirsi di bambini provenienti dal Marocco, dalla Cina, dalle Filippine, dal Perù, dalla Nigeria (siamo ai primi anni ‘90) e le istituzioni scolastiche e gli insegnanti avevano bisogno di formazione specializzata per far fronte all’evolversi della realtà.
Senza entrare in un’analisi approfondita del fenomeno e del mio conseguente impegno in quegli anni molto stimolanti, molto ricchi culturalmente, qui voglio ricordare che nacquero in quel periodo tre libri pubblicati dalla Editrice Bollati Boringhieri (8), in cui si raccoglievano le relazioni provenienti da convegni, conferenze, seminari organizzati all’Irrsae, più contributi vari, tutti progettati intorno all’idea che l’educazione e l’istruzione avrebbe dovuto ispirarsi all’interculturalità per essere democratiche e rispettose dei diritti dell’uomo .
All’uscita, nel dicembre ’92, del primo libro Verso un’educazione interculturale, nell’elenco che diedi alla casa editrice di persone cui mandare il volume, sicuramente il prof. Bobbio era ai primi posti. E puntualmente nel gennaio del ’93 ricevetti da Bobbio una letterina di ringraziamento per l’invio del libro e un garbatissimo e affettuoso invito ad andarlo trovare e fare quattro chiacchiere. Questo di lì a qualche giorno avvenne e ricordo quell’incontro, dopo molti anni che non ci vedevamo, come un momento di grande emozione, per me assai gratificante , ma anche di pacato “contarsela” un po’ su tutto, dalle grandi cose del mondo, ( si parlò anche di Clinton per esempio) alle vicende della nostra Università, a ciò che avrei fatto una volta concluso il mio ”comando” (il minaccioso termine tecnico era proprio questo) all’Irrsae. Sempre attento, preciso nelle osservazioni e nei suggerimenti, Bobbio mi disse che il mio libro era andato a collocarsi nel suo studio sulla pila di libri che avevano come tema il razzismo e che gli era molto piaciuto il piccolo saggio contenuto nel libro di un autore africano Mambu Bamapi dal titolo “Razzismo strutturale e razzismo contingente”. Poi mi parlò a lungo del testo di Pierre Andrè Taguieff La forza del pregiudizio (9), che amava molto.
Riferendosi a un mio capitolo del libro che aveva per tema “Il ruolo dell’antropologia visuale nella pedagogia interculturale” e che riassumeva un po’ la mia ricerca di quegli anni, gli scappò di dire: “Quante cose sai su questo strano argomento !”.
Poi mettemmo in luce il senso profondo di continuità tra il pensiero nonviolento e il pensiero interculturale che in estrema sintesi hanno in comune il rispetto dell’uomo a qualsiasi classe sociale e cultura appartenga, e mirano entrambi attraverso un’ “opzione dinamica”, a portare dei cambiamenti là dove questo si renda necessario. Così come “noi” non possiamo rimanere immutati in una società che costantemente ci pone accanto stimoli e modelli provenienti da culture diverse, così “loro”, che lasciano la loro società, devono entrare in una prospettiva di cambiamento che non cancella, ma “trascende “la loro precedente identità. In un contesto però che non sia mai di “dominazione “(10) degli “uni” sugli ”altri”.
Di grande suggestione rimangono le parole di Aldo Capitini: “…anche a proposito dell’attuale mondialismo la nonviolenza dà un’ottima guida. Non si oppone, sia perché c’è tanta gente che in quella forma esprime quello che vuole la nonviolenza, sia perché c’è sempre qualche cosa di educativo in questo sentirsi “cittadini del mondo”. Quando Capitini parla di educazione alla nonviolenza, noi potremmo dire all’interculturalità, egli scrive: “….l’educazione alla sincerità e alla libera discussione, al rispetto delle minoranze, dei refrattari, degli eretici, l’attenzione a chi è fuori del gruppo e gli scambi di scolari, i campi estivi internazionali e il servizio civile sono modi che rientrano in questo ambito [….] perché di nonviolenza ce n’è stata, e profonda, pura, mirabile; ma oggi vi vediamo alcuni elementi che ne fanno una cosa nuova; e anzitutto il senso dinamico, che essa è trasformazione dell’umanità, della società, della realtà , e che quindi non è un semplice fatto morale e semplicemente personale, ma coinvolge tutti …..” (11 ). Potremmo riportare altre infinite frasi di Aldo Capitini , significative per il nostro percorso .
Alla fine del pomeriggio, quando Bobbio mi accompagnò all’ascensore mi disse che, se si fosse presentata l’occasione, avrebbe fatto volentieri cenno al mio libro. (12)

Passarono alcuni anni, ebbi occasione di incontrarlo in luoghi pubblici e ci sentimmo al telefono. Andai a trovarlo a Natale del 2000, quando c’era ancora accanto a lui la moglie Valeria. Si parlò un po’ di tutto, delle sue ultime pubblicazioni (13), di come andavano le cose nel mondo, delle situazioni di conflitto, anche del mondo arabo, che era il tema del mio terzo libro; ma di questo Bobbio non ricordava molto, forse il libro si era perso nella mole smisurata di volumi che, nonostante l’età avanzata, continuava a ricevere .
Più importante per me fu l’ultima visita, nel dicembre 2001, quando gli comunicai che dal mese successivo avrei lavorato come Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta. Assunse un’aria vagamente solenne e mi disse quanto poteva essere importante, anzi decisivo per un giovane deviante avere dal Tribunale la giusta sentenza: che fosse riparatrice, ma al contempo di aiuto, di sostegno, di forza per la sua vita futura che era ancora tutta da compiersi. Qualcosa, fin da queste prime battute, mi riportò alle atmosfere un po’ squinternate, ma estremamente stimolanti che avevano accompagnato i miei primi anni di insegnamento nella scuoletta di periferia e sentii che la mia scelta professionale aveva una sua logica.
Più volte al Tribunale, durante le Udienze, le Camere di consiglio, lo studio dei fascicoli, i rapporti con l’Istituto penale minorile Ferrante Aporti, ho ripensato alle scarne, ma intense, rigorose parole del professore, in particolare quando in qualche momento di sconforto mi sentivo addosso un senso di inadeguatezza o, a seconda dei casi, di scarsa incisività per quello che potevo fare o meglio “dare”. A parte queste considerazioni che riguardano l’ “incontro dei saperi”, degna aspirazione della magistratura minorile, e di altri ambiti del sociale, ma non sempre facile da realizzare, al Tribunale si entra in contatto, nel penale e nel civile, con un’umanità dolente che ti apre tali scenari di conoscenza e di inevitabile condivisione, da rendere questa esperienza estremamente significativa (14).
Il diritto, o meglio la filosofia del diritto, come tentativo di riflettere sui fondamenti delle leggi che governano noi e i paesi del mondo intero in questi tempi tormentati, mi sembra siano tornati nella mia vita, anche ora che Bobbio non c’è più, che il nostro colloquio è terminato.
Un piccolo tassello del grande mosaico che compone la sua personalità.

NOTE

(1)Uno dei primi libri che lessi di Norberto Bobbio fu Giusnaturalismo e Positivismo Giuridico, edizioni di Comunità, Milano, 1965. Risfogliando l’introduzione leggo che Bobbio dedicò questo libro a Alessandro Passerin d’Entrèves e Renato Lattes “coi quali -scrisse- “ ormai da più di trent’anni, dura un amichevole e fecondo colloquio”, pg13
Le pagine di certi capitoli sono molto sottolineate.
(2)L. Operti, Rassegna di studi sulla nonviolenza in “Filosofia” anno XXII, fasc.II, aprile 1971, pp 217-229
(3)Mi piace ricordare della vastissima bibliografia di Norberto Bobbio un volumetto del 1977: N. Bobbio Trent’anni di storia della cultura a Torino (1920-1959), Cassa di Risparmio di Torino, Edizione speciale per gli studenti delle scuole medie superiori del Piemonte e Valle d’Aosta. Un libro scritto appositamente per insegnanti e studenti che Bobbio definì né “cronaca “, né ”storia”, ma piuttosto una sorta di autobiografia. Nella Premessa troviamo scritto: “Siccome ho parlato di persone che ho quasi tutte conosciute, talora intimamente, il saggio ha assunto tratto tratto carattere autobiografico”. Un impegno editoriale dunque che rivela il rispetto e la fiducia che Bobbio rivolse sempre al mondo della scuola.
(4)I film di Margaret Mead e Gregory Bateson che hanno aperto la porta d’ingresso principale all’antropologia visuale e che appartengono alla serie “Films on Character Formation in different cultures ,”editi dalla New York University sono: A balinese family ,17’; Bathing babies in three cultures, 9’; Childhood Rivalry in Bali and in New Guinea, 17’; First days of a New Guinea’s baby , 19’; Karba’s first years, 19’; Trance and dance in Bali, 20’; Learning to dance in Bali, 13’. I film sono stati girati in 16mm, bianco e nero, negli anni 1936-39, e montati a partire dagli anni ‘50
Della ricchissima bibliografia di Margaret Mead segnalo, in quanto attinente alla tematica che qui ci interessa e estremamente attuale: M. Mead L’antropologia visiva in una disciplina di parole”in “La ricerca folklorica” 1980, 2, pp.95-98
Del periodo in cui esplorai questo genere di documentazione scientifica: L.Operti Ripensando a Margaret Mead e Gregory Bateson in ”Il Nuovo Spettatore”1989, 12, pp.123-129
(5)Della sterminata produzione cinematografica di Jean Rouch ricordo a titolo esemplificativo: Bataille sur le grand fleuve,1951, 25’,cl ; Les maitres fous 1958, 30, cl; Yenendi ou les hommes qui font la pluie, 1950, 35’, cl ; Sigui 1969 (con Germaine Dieterlen), 1969, 40’, cl; Tourou e Bitti , 1971, 8’,cl
Jean Rouch è stato ricordato nell’ultima edizione del Festival dei Popoli di Firenze (dicembre 1994) con una tavola rotonda presieduta dall’antropologo Tullio Seppilli ”In memoria di Jean Rouch : il film etnografico ieri e oggi “
(6)Di Diego Carpitella, i film importanti sono: Terapia coreutico-musicale di tarantismo,1960, 10’,bn; Cinesica culturale1:Napoli. Ricerche sui gesti e il linguaggio del corpo ,1974, 40’, cl; Cinesica culturale 2:Barbagia, 1976, 42’, cl
Su di lui si veda: M.Agamennone e Gino. L. Di Mitri (a cura di) L’eredità di Diego Carpitella, BESA, Nardò (Le), 2003
(7)Il libro che ancora oggi è molto utile e mi è stato di guida e formazione in questa disciplina è : Antropologia Visuale di Paolo Chiozzi, La casa Usher, Firenze, 1984
Altri libri essenziali da segnalare per chi voglia accostarsi a questa tematica sono: P. Chiozzi Manuale di antropologia visuale, Unicopli, Milano 1993, rist.1997; M.Canevacci Antropologia della comunicazione visuale, Costa Nolan, Genova.1996; A.Marazzi Antropologia della visione ,Carocci, Roma, 2002
(8)L.Operti e L. Cometti (a cura di) Verso un’educazione interculturale, IRRSAE Piemonte, Bollati Boringhieri, Torino, 1992, rist.1997; L. Operti (a cura di) Sguardi sulle Americhe . Per un’educazione interculturale, IRRSAE Piemonte, Bollati Boringhieri, Torino, 1995; L.Operti (a cura di) Cultura araba e società multietnica. Per un’educazione interculturale, IRRSAE Piemonte, Bollati Boringhieri, Torino, 1998, rist.1999
(9) P.A.Taguieff La forza del pregiudizio, Il Mulino, Bologna, 1988
(10)Questo concetto ricorre nei libri di Antonio Perotti , uno tra i più sensibili studiosi dei fenomeni migratori e delle conseguenti necessità educative delle società. In particolare si veda Tra memoria e progetto: le transizioni culturali degli stranieri in E. Damiano Dinamiche multiculturali e processi formativi. Una nuova frontiera per l’Europa, Celim , Bergamo, 1994
(11)A. Capitini Religione Aperta,1964, Neri Pozza editore, Vicenza. Le citazioni sono state prese dal cap. nono “La nonviolenza”, pp.141-162. Il corsivo è mio
(12)Il che avvenne in occasione di un articolo: N. Bobbio Razzismo , oggi, in “Scuola e città “ 4, aprile 1993, pp.179-183
Nell’ultima parte dell’articolo leggiamo queste parole “contro il pregiudizio razziale non c’è altra via per combatterlo che un’educazione orientata verso valori universali”(pg 183 e nota 11: “si veda il volume Laura Operti e Laura Cometti (a cura di) Verso un’educazione interculturale, promosso dall’IRRSAE Piemonte, e pubblicato dalla Bollati Boringhieri, Torino, 1992, raccolta di scritti generali e specifici sulle ”culture altre”e sulla situazione degli immigrati a Torino.”)
(13) E’ di quel periodo l’uscita in libreria di: N. Bobbio La mia Italia, a cura di Pietro Polito, Passigli Editore, Firenze Antella , 2000. Nella prima pagina troviamo scritto “Che questo sia il mio ultimo libro non è difficile da prevedere. Quando sarà uscito avrò compiuto novantuno anni ……L’idea di questo libro è venuta a Pietro Polito che da anni lavora con me “. Pietro Polito è anche un mio amico e gli ultimi incontri con Bobbio sono stati facilitati dalla sua rassicurante presenza a fianco del maestro.
(14)Ho svolto attività con incarico di Giudice Onorario presso il Tribunale per i Minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta dal 1 gennaio 2002 al 31 dicembre 2004 . In questi anni ho avuto un sostegno teorico, oltre che il piacere della lettura, da una rivista che segnalo vivamente: “MINORIGiustizia. Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia“, diretta da Piercarlo Pazè, promossa dall’A.I.M.M.F., Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e per la Famiglia.

Le “Dieci caratteristiche della personalità nonviolenta”
L’empatia

A cura di Luciano Capitini

Quando entriamo in relazione con un altro individuo (una relazione sufficientemente profonda da “interpellarci”) abbiamo delle reazioni che si esplicano all’interno di noi stessi:
se ne riceviamo una sensazione positiva, gradevole, anche divertente, parliamo di una reazione di simpatia – nel caso contrario avremo una antipatia; se siamo di fronte ad un individuo che si trova in una situazione disgraziata, che non vorremmo si ripetesse in noi, possiamo chiamarla compassione.
Se esaminiamo quest’ultima nostra reazione possiamo – più o meno chiaramente – accorgerci che tale reazione comprende un inizio di distacco, dall’altro che soffre, come a prendere le distanze dal dolore che lo pervade.
Naturalmente esistono anche altre reazioni, ma vogliamo soffermarci su una che chiamiamo empatia.
Si tratta di un atteggiamento che, al contrario, ci sollecita, e ci convince ad avvicinarci all’altro (e ciò può accadere per varie motivazioni – ma fondamentalmente tale avvicinamento è un fatto d’amore).
Potremmo affermare che questo avvicinamento, che arriva ad una immedesimazione, scaturisce dalla consapevolezza della fratellanza che unisce tutti gli uomini, e di cui siamo consci nel nostro profondo, e per molti comprende anche un avvicinamento anche ad animali che, appunto, stiano soffrendo.
Si tratta di un sentimento, atteggiamento, reazione, che è giudicato da tutti molto positivamente, anche da chi non pratica l’empatia, perché gli si riconosce una carica etica, ma ancor di più, di reale condivisione, d’amore – sempre disinteressato; ognuno percepisce che, nel caso toccasse a noi essere in una più o meno grave tragedia, sarebbe confortato dal sentire, in maniera quasi palpabile, che un altro essere umano è al suo fianco, ma coinvolto, consapevole di quanto grande sia il suo dramma, e ne soffra con lui.
E’, in definitiva, l’atteggiamento opposto al “fregarsene”.
In una società in cui i contatti sono anche troppo frequenti, in cui le situazioni di dolore ci incalzano quotidianamente è naturale che la disponibilità all’empatia si riduca, e a tutti noi capita troppo spesso di proseguire il nostro cammino ponendoci metaforicamente una mano davanti agli occhi, per non vedere.
Questa possibilità (di non lasciarci coinvolgere) è di grande utilità per chi commette atti criminosi, ed è inutile elencare tutti i casi in cui il male si può compiere solo se noi volgiamo altrove lo sguardo. E’ pertanto naturale che esistano forze potenti che esercitano tanto del loro potere proprio nel distoglierci, nel non lasciarci reagire, nel non creare le occasioni di sottolineatura di ciò che stanno facendo.
E’ anche a causa di ciò che parliamo di una società disumanizzata.
Ma il bisogno di empatia permane sempre, e permane in chi soffre, per qualsiasi motivo (questa stessa mattina, in un reportage televisivo da una aula di tribunale, si vedevano e si ascoltavano le reazioni scomposte, tragiche, dei parenti di un uomo che veniva condannato ad una grave pena per aver violentato ed ucciso una sedicenne: anch’essi levavano le mani in alto, ed urlavano il proprio dolore).
Il volto del padre palestinese che ha tra le braccia il corpicino ormai inerte di suo figlio, lo sguardo della ragazza israeliana coi vestiti insozzati dal sangue della sua compagna dilaniata da una bomba, ci interpellano e, ormai essendo tardi per ogni rimedio, ci chiedono come possiamo non vivere il loro enorme dolore, essi hanno necessità di uno sguardo che lasci loro capire che, sì, il loro dramma è il nostro.
Nel conosciutissimo quadro “Guernica” di Pablo Picasso, ai due lati estremi, stanno due donne (ricordiamo che il quadro fu dipinto come condanna di un bombardamento terroristico sulla omonima cittadina spagnola): la donna di destra leva le mani al cielo e spalanca la bocca in un urlo, quella di sinistra sostiene, appunto, il corpo del figlio ucciso, ed alza anch’essa un urlo – quelle urla vengono udite da tutti gli uomini, anche quelli che, per un motivo o un altro, fingono di non sentire.
La capacità di empatia è, con tutta evidenza, una componente di base della personalità nonviolenta; da lì nasce il suo agire, che sarà, certamente, nel senso di far cessare la sofferenza, di prevenirla in ogni modo, anche il più impegnativo – perché non vi può essere limite accettabile in tale attività.
Così come abbiamo sofferto con chi soffre, vorremmo gioire con chi gioisce, perché in una società senza amore non ci vogliamo stare, senza un’apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione al di sopra di tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia.
Queste ultime parole, di Aldo Capitini, possono orientare il procedere di chi, insoddisfatto di una società inadeguata, intende percorrere il cammino della nonviolenza.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Un breve itinerario all’interno dei conflitti nella relazione educativa

I primi sei passi che aiutano ad affrontare creativamente i conflitti ci vengono proposti da Daniele Novara:
1 Ricorda che il conflitto è un problema da gestire, e non una guerra da combattere.
(…) in realtà, specialmente in ambito educativo, succede spesso che gli educatori siano più propensi ad abolire il conflitto contrastando direttamente chi lo porta che non cercando di affrontare la situazione. (…)
2 Conta fino a dieci prima di agire.
Questo passo riguarda la dimensione temporale, la capacità di aspettare il momento giusto, prendere tempo, evitare le reazioni impulsive e compulsive. È un’indicazione di grande utilità tattica e strategica. (…).
3 Non fare muro contro muro.
Questo ci ricorda il momento trasformativo del conflitto, la possibilità di elaborare la provocazione in senso non simmetrico, trovando una strada diversa da quella che la provocazione suggerisce. (…)
4 Rispetta i contenuti del conflitto.
Questo punto è strettamente collegato al punto precedente, e invita a evitare le “risposte tangenziali”, molto diffuse nella comunicazione conflittuale distorta. (…)
5 Evita il giudizio stigmatizzante; sperimenta la critica costruttiva.
Ci sono due dimensioni nella gestione educativa del conflitto particolarmente importanti: la dimensione dell’ascolto e la dimensione del contenimento. Il giudizio è il contrario dell’ascolto. (…)
6 Sappi dire di no, quando occorre.
(…)Nel rapporto educativo, gli educatori devono assumere la capacità di dire di no, tollerando anche la frustrazione che questo dire di no comporta nei ragazzi, per uscire da un rapporto di amichevolezza che rischia di essere molto pericoloso. (10)

Possiamo ora cominciare a fare ricorso ad alcune semplici e immediate strategie, messe in pratica quotidianamente in alcune esperienze della pedagogia extra scolastica (11). Alcune di queste strategie potrebbero essere recuperate e riadattate anche all’interno dei contesti scolastici:
– costruire contesti spazio/temporali per accogliere i conflitti.
Prevedere un luogo, diverso da quello dove si svolgono le attività strutturate, più familiare ed accogliente, ed un tempo (per esempio l’assemblea o i colloqui individuali) dove i ragazzi possano raccontare liberamente il conflitto, sapendo che qualcuno ha tempo ed interesse ad ascoltarne le ragioni, senza temere sbocchi necessariamente punitivi.
– impostare riti per affrontare i conflitti.
Quando tra due o più esplode un conflitto, interrompere la normale attività e far riflettere i ragazzi su ciò che è accaduto e perché. Si tratta di una ritualizzazione sperimentata, per esempio, in alcuni percorsi di psicomotricità: le prime volte i ragazzi sono restii a mettersi in cerchio ed a parlare, ma alla fine dell’anno diventa prassi normale che svolgono spontaneamente.
– in casi complessi usare la tecnica del teatro-forum.
In situazioni conflittuali più complesse e incancrenite, magari con più ragazzi coinvolti, risulta utile provare la tecnica del teatro-forum [propria del Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal (12)] che consente di “mettere in scena” il proprio conflitto, per distanziarsene e vedere come altri “spet-attori” lo affronterebbero.
– dopo la fase acuta recuperare la relazione.
Se l’intervento dell’adulto all’interno di un conflitto vede un rimprovero o una punizione significativa, diventa fondamentale recuperare la relazione personale tra l’educatore ed il ragazzo. Occorre trovare il modo di operare quella ricucitura che difficilmente può partire dal ragazzo, ma che consente a lui di comprendere meglio le ragioni dell’intervento dell’adulto e di essere rassicurato sulla r-esistenza della relazione.
narrare per iscritto il proprio conflitto.
Infine un suggerimento per gli insegnanti coinvolti in un conflitto: per prenderne le distanze emotivamente e magari riuscire a leggerlo anche dal punto di vista dell’altro, raccontarlo a se stessi mettendolo per iscritto. E’ una tecnica che, se sviluppata, può portare a un vero e proprio diario dei conflitti, strumento utile di conoscenza e lavoro su di se e sulle proprie modalità d’intervento nei conflitti.

L’educazione ai conflitti è in verità autentica educazione alla pace, perché la via della pace è la nonviolenza e la nonviolenza è propriamente l’arte di trasformare i conflitti da distruttivi in costruttivi. (13)

Pasquale Pugliese

Terza parte (fine)

NOTE

10. Novara D. L’alfabetizzazione al conflitto come educazione alla pace www.cppp.it
11. Mi pare significativa in questo senso l’esperienza dei Gruppi Educativi Territoriali di Reggio
Emilia, (sulla cui esperienza sono in via di pubblicazione, presso EGA, gli atti del Convegno
“Progettare futuri”).
12. Boal A. Il poliziotto e la maschera. Giochi, esercizi e tecniche del teatro dell’oppresso la
meridiana, Molfetta 1996
13. Galtung J. La trasformazione nonviolenta dei conflitti EGA, Torino 2000

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
La passata di pomodoro mette in rete produttori e consumatori biologici

Sempre più in Italia e nel mondo si sta ragionando sulle “RES – Reti di Economia Solidale”, reti di soggetti fortemente legati al proprio territorio, che offrono e consumano prodotti e servizi, promuovendo il rispetto per l’ambiente e per i lavoratori, e sostenendo l’economia locale. Il progetto “RES” (Rete di Economia Solidale) è un esperimento in corso per la costruzione di una economia “altra”, a partire dalle mille esperienze di economia solidale attive in Italia.
Anche in Trentino qualcosa si sta muovendo: Rete Lilliput, i Gruppi di Acquisto Solidale di Trento e Varone e alcuni agricoltori biologici hanno deciso di provare a costruire un pezzo di queste reti, di dare vita ad un Distretto di Economia Solidale (DES), dal nome “Trentino Arcobaleno”.
Solida base di partenza del nuovo percorso è il progetto “Pagine Arcobaleno” che ha portato alla pubblicazione della edizione trentina della guida “Fa’ la cosa giusta!” ed ha riscosso un notevole successo. Riconoscendo la bontà e l’importanza del lavoro fatto, Confesercenti del Trentino, ha proposto a Rete Lilliput del Trentino di organizzare una mostra mercato che radunasse nello stesso luogo i soggetti presenti sulla guida. La proposta è stata fatta propria dal gruppo promotore del DES, così dal 4 al 6 novembre 2005 si terrà a Trento la prima fiera “Fa’ la cosa giusta! Fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili”.
La fiera e i suoi eventi culturali, saranno certamente un’occasione per far conoscere le realtà che a vario titolo operano in quello che viene chiamato “consumo critico”, ma vogliono essere anche un’opportunità per permettere a queste realtà di incontrarsi fra loro, iniziare a dialogare e a collaborare. L’obiettivo è quello di arrivare là avendo realizzato alcuni progetti concreti che mostrino a tutti che produttori e consumatori responsabili hanno obiettivi comuni e possono trovare nuove forme di incontro, collaborazione e scambio, vantaggiose per entrambi.
Prima iniziativa concreta del gruppo di lavoro è stato il progetto “Tra Passata e Futuro”, iniziativa di promozione della agricoltura biologica locale. Il progetto è partito da due considerazioni molto concrete: da una parte molte famiglie trentine fanno tutti gli anni la passata di pomodoro in casa acquistando pomodori provenienti da altre regioni, dall’altra in Trentino vengono prodotti pomodori da passata, biologici e di ottima qualità, che faticano a trovare spazio sul mercato. Far incontrare questa domanda e questa offerta ha molteplici effetti positivi: diminuzione dell’inquinamento prodotto dal trasporto, promozione degli imprenditori agricoli locali, possibilità di instaurare un contatto diretto fra produttore e consumatore, e riduzione del prezzo finale. Il progetto ha quindi organizzato un acquisto in rete di pomodori da passata, prodotti in Trentino e da agricoltura biologica. Caratteristiche specifiche e innovative della modalità di acquisto, che coinvolge cinque produttori, sono il pre ordine (che permette agli agricoltori di avere una garanzia di redditività del proprio lavoro), l’organizzazione di un incontro con gli agricoltori (che permette di stabilire un contatto diretto fra produttore e consumatore) e la definizione anticipata del prezzo di vendita (che non risulta dunque frutto delle fluttuazioni del mercato, ma viene calcolato sommando i costi di produzione e il giusto compenso per il lavoro). I risultati, anche tenendo conto del fatto che la promozione è stata affidata soprattutto al passaparola, ha avuto risultati sorprendenti: gli ordini hanno superato i 130 quintali. Prossimi passi saranno l’organizzazione di un incontro con quanti hanno aderito per proporre nuove iniziative, e, ad inizio estate, l’organizzazione di una visita nelle aziende per conoscere le aziende agricole coinvolte, per fare incontrare produttori e consumatori.
Il progetto “Tra Passata e Futuro” non è che il primo dei progetti pilota in direzione del distretto di economia solidale: altre iniziative sono già in cantiere per coinvolgere anche gli altri anelli della filiera produttiva, il mondo della cooperazione e quello del turismo, ambiti questi ultimi che possono costituire la caratteristica distintiva del futuro distretto trentino di Economia Solidale.

Dario Pedrotti

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Gli Angeli nonviolenti vegliano sulla città

Un gruppo di giovanotti con bomber rosso, basco blu e sguardo circospetto si aggira per la stazione centrale di Milano. Non dicono una parola, non provocano rumori, si limitano a scrutare e a dialogare con il walkie talkie. E’ una nuova banda di bulli metropolitani? No, al contrario: sono gli angeli della città, ovvero i City Angels, la risposta nonviolenta della città meneghina al continuo dilagare dei piccoli crimini.
Il Card. Ersilio Tonini li ha definiti “i boy scout del Duemila”; il Sindaco di Milano ha conferito loro l’Ambrogino d’Oro, la massima onorificenza cittadina. Ambrogio Fogar, grande esploratore da anni paralizzato a causa di un incidente, ne è diventato presidente onorario. Nascono nella primavera del 1995 da un’idea di Mario Furlan, quarantenne docente di tecnica della comunicazione nell’Università Cattolica di Milano ed esperto in comunicazione neurolinguistica, ex collaboratore dell’emittente cattolica Telenova e attuale presidente dell’osservatorio giornalistico Mediawatch. Nome di battaglia con cui è universalmente riconusciuto: stone, pietra, ha avuto anche lui la sua dose di manganellate durante il G8 di Genova dove era presente in qualità di corrispondente de Il Giornale.
I City Angels sono coccolati dalle amministrazioni di qualunque orientamento politico e vantano amici influenti dalle più disparate provenienze. Rappresentano un’interessante applicazione dei metodi nonviolenti di prevenzione e presidio popolare del territorio, ma nessuno li ricorda presenti a qualche incontro dei movimenti nonviolenti. Si ispirano ai famosi Angels londinesi e recentemente hanno guidato la nascita di gruppi analoghi a Brescia, Roma, Padova e Pescara. Dove trovano i soldi per le loro attività? Tramite iniziative di beneficienza, donazioni e stipulando convenzioni con le amministrazioni, oltre ad un’autotassazione di 30 euro annui. Ultimamente hanno trovato anche uno sponsor, la Timberland.
Il bilancio di dieci anni di attività è stato presentato anche al Maurizio Costanzo Show: operando prevalentemente nelle ore notturne, gli Angeli assistono senzatetto ed emarginati, prestando il primo soccorso (distribuzione di cibo, sacchi a pelo, coperte e vestiti) e proponendo loro l’inserimento in strutture di recupero. Svolgono inoltre un servizio di scorta per gli anziani che ritirano la pensione e di prevenzione dei crimine davanti alle scuole e sui mezzi pubblici. Sono 107 i tossicomani salvati da un’overdose e 137 quelli recuperati nel decennio di attività, innumerevoli le situazioni di tensione che si sono sciolte grazie al loro intervento.
Il loro programma politico si sviluppa intorno agli episodi di cronaca nera: dopo la morte di una persona senza fissa dimora sulle panchine della Stazione Centrale, i City Angels proposero il trattamento sanitario obbligatorio per i clochard malati. Nel gennaio scorso, assieme ad Exodus e Croce Rossa, chiesero di aprire i dormitori anche ai clochard senza permesso di soggiorno, contestando la legge Bossi-Fini. Sono aconfessionali e apartitici ma il cinquanta per cento si professa cattolico praticante. “Da ragazzo mi ispiravo a Che Guevara … avevo anche il suo poster in camera. In passato ci sono stati dei buoni leader, come ad esempio Gandhi e Martin Luther King. Al giorno d’oggi, però, non vedo grandi leader”. Come non dargli ragione?

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
La resistenza nonviolenta salva le foreste nicaraguensi

Il 17 settembre 2001, il Tribunale Inter-Americano per i Diritti Umani ha deliberato in merito al caso di una piccola comunità Mayagna di Awas Tingni, che si trova nell’area costiera delle foreste nicaraguesi. La decisione della Corte affermò l’esistenza del diritto collettivo dei popoli indigeni sulla loro terra, sulle risorse e l’ambiente. Questo diritto era stato violato dal governo del Nicaragua quando esso concesse ad una compagnia coreana di deforestare la zona senza aver consultato i suoi abitanti. “Per le comunità indigene, dice tra l’altro la sentenza, la relazione con la terra non è una mera questione di possesso e produzione, ma è anche elemento materiale e spirituale di cui esse devono godere pienamente, nonché uno dei mezzi per preservare il loro retaggio culturale e trasmetterlo alle generazioni future.” Il Tribunale ha ordinato che la zona in questione venga delimitata e restituita a pieno titolo alle comunità locali e che il governo presenti rapporti biennali sulle misure prese per adempiere alla sentenza. C’è dell’ironia, nel pensare che il governo del Nicaragua avrebbe potuto riconoscere come interlocutrice Awas Tingni molti anni prima, con assai minor spese e imbarazzo. La lotta nonviolenta della comunità, infatti, data dal 1992. L’esproprio delle terre e il rifiuto di negoziare con chi ci vive non è un’istanza nuova, e meno che mai per l’America Latina, in cui questa pratica è endemica sin dal 16° secolo. La novità rispetto alla situazione nicaraguese sta in due aspetti: la capacità di Awas Tingni di creare relazioni ed alleanze con soggetti non direttamente interessati dal problema e la risoluzione di vincere la propria lotta “legalmente”. In tale decisione, è entrata la consapevolezza che si sarebbe potuto creare un precedente utile a numerose altre comunità che soffrono gli stessi disagi: ovvero il cambiamento della cornice in cui il problema era visto all’esterno, da “le pretese ed i reclami di un gruppo marginale” a “i diritti legali delle persone e dei gruppi, riconosciuti in un quadro internazionale”.
Uno dei preziosi alleati che hanno aiutato Awas Tingni è stato il gruppo internazionale di attivisti Weatherhead Center, in particolar modo la squadra di etnologi ed antropologi che fa parte del programma PONSACS (Program on Nonviolent Sanctions and Cultural Survival – Programma sulle sanzioni nonviolente e la sopravvivenza culturale) che hanno sostenuto le azioni legali presentando studi e mappature e affiancando i propri avvocati a quelli nicaraguesi. Le denunce della comunità presero forma di piena azione legale nel 1995, dopo che un accordo trilaterale per la raccolta di legname, fra Awas Tingni, il governo nicaraguese ed una ditta dominicana, venne violato con la concessione di una vasta zona della foresta pluviale ad una compagnia coreana. Non avendo ottenuto risposte dal sistema legale del Nicaragua (le sentenze si rifacevano all’accordo trilaterale per dichiarare la “piena consapevolezza” e corresponsabilità della comunità indigena), nonostante la deforestazione fosse in pieno contrasto con le leggi ambientali del paese, Awas Tingni ha interpellato la Commissione per i Diritti Umani. Quest’ultima favorì e programmò numerosi incontri nel tentativo di aiutare le parti a raggiungere un accordo amichevole, ma poiché il governo restava sordo, e la Commissione non aveva potere legale di imporre una decisione, il caso è passato al Tribunale Inter-Americano per i Diritti Umani, che questo potere invece lo detiene. Il Tribunale ha dibattuto per la prima volta il caso a San José, dal 15 al 17 novembre 2000, ascoltando tra gli altri tre membri della comunità Mayagna, gli attivisti del PONSACS, una dozzina di testimoni esperti provenienti dal Nicaragua e da altre nazioni latinoamericane. Infine, l’anno dopo vi è stata la sentenza vittoriosa per Awas Tingni. Sulla costa atlantica nicaraguese sono numerose le comunità indigene che si trovano nella precaria posizione in cui si trovava Awas Tingni, prive di un riconoscimento legale che delimiti con precisione i diritti e i doveri rispetto alla terra. Nella stessa situazione si trovano gruppi similari in Colombia, Ecuador e Bolivia che in questi ultimi tempi hanno adottato diverse forme di lotta (scioperi, marce, azioni di protesta) per portare alla luce il problema dell’esproprio e dello sfruttamento indiscriminato delle loro terre. L’esperienza di Awas Tingni può fornire loro ispirazione, e un solido precedente a cui appellarsi.

Cinema
A cura di Flavia Rizzi
Testimoniare, resistere, perché l’orrore non si ripeta

HOTEL RWANDA
di Terry Gorge
Origine: Canada – Gran Bretagna – Italia – Sudafrica
Anno: 2004 – Uscita in Italia: marzo 2005

“Hotel Rwanda” si apre sulle strade chiassose e polverose di Kigali, alla vigilia della mattanza generata dall’odio razziale che contrappone la maggioranza Hutu alla minoranza Tutsi, e che porterà all’uccisione a colpi di machete di oltre 937.000 morti tra aprile e luglio del 1994.
Paul Rusesabagina (Don Cheadle) è un hutu sposato con una tutsi. E’ il direttore del più prestigioso albergo di Kigali, quartier generale degli occidentali e degli alti gradi ONU, e questo film racconta la sua vera storia. Quando gli Hutu prendono il potere con un colpo di stato dando inizio alla mattanza dei Tutsi, Paul, inizialmente preoccupato della sola salvezza della sua famiglia, deciderà di reagire al disumano macello che si consuma tra le strade e le case e, facendo leva sulla sua posizione, darà rifugio e protezione nel suo albergo a 1268 tutsi, rischiando la vita in prima persona e spendendosi per richiamare l’attenzione della comunità internazionale che, invece, abbandonerà il Rwanda a se stesso.

Che dire di un film che, per la tragedia che racconta, ti lascia senza parole? E senza parole come si fa a dire? Ma le parole bisogna trovarle perché, come ben ha detto il bravissimo protagonista Don Cheadle, dal Festival di Berlino: “l’orrore può ripetersi, dunque è importante non abbandonare le vittime, testimoniare, resistere”.
Il titolo del film: metafora degli eterni contrari male-bene, ricchezza-povertà? O della speranza di condivisione?
“Hotel”: luogo di elite, per privilegiati, per chi ha soldi …
“Rwanda”: terra africana, accogliente e bellissima, ma per chi conosce la storia, luogo di odio razziale, di massacri, di morte …
“Hotel Rwanda” …possibilità d’incontro …Quante “stelle”?
Milioni di milioni, tutte quelle promesse ad Abramo, alla sua discendenza, per sempre.
Stelle che brillano di luce propria, che illuminano, senza distinzione di razza, di religione, di sesso, stelle in armonia con il cielo.
Stelle che si trasformano, stelle che cadono… Hutu e Tutsi.
Sei un po’ più bianco, hai il naso più largo? Sei Tutsi. Sei più nero, hai il naso più stretto? Sei Hutu.
Hai nel DNA la voglia di comandare? Sei Tutsi.
Poi ci pensano gli europei a sfruttare la situazione, lezioni di “etica europea”, dalle origini cristiane, che arriva, prende, non dice grazie, spezza …la vita degli uomini Hutu e Tutsi.
Forse questa pellicola non brilla per originalità di regia, è quasi didascalica, ma sa evitare lo spettacolo per rievocare invece con precisione l’intreccio di complicità e indifferenza che portò al genocidio.
Una, due, tre… cinque medaglie sul petto e sei promosso generale, una cassa di birra, un sigaro avana, una bottiglia di pregiato whisky scozzese e ti corrompo.
“Divide et impera”. Che importa delle conseguenze, che importa di cosa questi uomini diventeranno? … Quando tu, caro “colonizzatore europeo” te ne andrai, perché ormai non ci sarà più niente da prendere, in campo rimarranno due popoli abbandonati a se stessi, frantumati e pronti a massacrarsi, “l’un contro l’altro armati”. E tu non sarai lì nel mezzo a offrire loro una possibilità di pace. Non sarai lì a prenderti cura di loro. E sarà abbandono totale.
L’unica tua preoccupazione sarà quella di riprenderti gli occidentali rimasti.
Per loro, Tutsi e Hutu, non c’è più posto, nessuna pietà: non valgono più.
Poche forze ONU, tre cronisti, è tutto quello che rimane fra uomini assetati di sangue, “sangue di scarafaggi Tutsi”!?!
E le grida degli oppressi non si sentono. In occidente vanno in onda all’ora di pranzo, bloccano la digestione, si cambia canale, si mette mano al cellulare per inviare un euro con un sms, casomai servisse qualcosa. E poi tutto a posto, inizia la digestione.
E l’informazione? Ha una sola voce la radio in Rwanda: quella del padrone di turno e trasmette messaggi che disumanizzano i Tutsi, incita all’eliminazione di questi “animali infetti”. Nessuno pensa a zittirla. Se avesse taciuto si sarebbero salvate tante vite. Un milione le “stelle cadute” a colpi di machete, nell’indifferenza di un mondo in cui la storia continua a non insegnare.
E’ bella e piena di speranza l’immagine del film che, su una strada diversa da quella polverosa con odore di mattanza con cui la storia si apre, vede tanti bambini in cammino verso quell’ “Hotel Rwanda” dove “c’è sempre un posto” possibile per la pace.

Franca Conato
Coop. FuoriSchermo – Cinema & Dintorni

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Immagina che tutti vivano la vita in pace

La data ufficiale dello scioglimento dei Beatles viene indicata nell’aprile 1970, ma l’ultima volta che i Fab Four si riunirono per incidere insieme, fu nel luglio del 1969: in poco più di sei settimane venne registrato il 33 giri Abbey Road. Poi John Lennon prese la decisione: “Sono stato io a fondare la band, e io a scioglierla. Tutto qui. La mia vita con i Beatles era diventata un trappola, un nastro che girava all’infinito…”. John aveva già deciso di percorrere una propria strada e di dedicarsi ad altri progetti, il principale dei quali era l’impegno per la pace. Le ghiande inviate a tutti i capi di stato “nella speranza che le pianterete nel vostro giardino e farete crescere due querce per la pace nel mondo” furono il primo passo pubblico in questa direzione. Seguì il volantino firmato da John e Yoko rivolto ai soldati americani: “Alzati e protesta!!! Vieni via dal Vietnam adesso! I lavoratori, gli innocenti, i poveri sono le vittime in tutte le nazioni”.
Dopo il matrimonio a Gibilterra, John e Yoko presero una stanza all’Hotel Hilton di Amsterdam e dal 25 al 31 marzo 1969 realizzarono il primo “Bed-in for Peace”: nelle interviste con i giornalisti di tutto il mondo, i Lennon-Ono esponevano le loro idee contro la guerra del Viet-Nam. “Tutto quello che dico è: pace. Non sto puntando il dito contro nessuno. Ci sono i buoni e ci sono i cattivi. Siamo tutti Cristo e tutti Hitler. La lotta è nella nostra mente. Dobbiamo seppellire i nostri mostri. Noi vogliamo che Gesù prevalga”.
Il primo album da solista di John Lennon senza i Beatles, è stato “John Lennon/Plastic Ono Band” (1970), un disco scarno ma schietto, dalla sonorità semplice ed elegante. Vengono affrontati argomenti personali e difficili per John: la morte della madre (My Mummy’s Dead), il crollo dei miti (God), la lotta di classe (Working Class Hero). Il disco si conclude proclamando la disillusione: “Non credo più in niente, credo solo in me, e questa è realtà”.
Se questo LP si chiude con l’affermazione che “il sogno è finito” (quello incarnato dai Beatles), l’opera successiva offre al mondo un sogno nuovo. Lennon scrive Imagine nel marzo del 1971. L’ispirazione per la canzone gli viene da un libro di preghiere che gli aveva dato Dik Gregory, comico e attivista di sinistra. “E’ in lingua cristiana –disse John- ma si può applicare a tutte le religioni”. Se sai immaginare un mondo di pace, allora può diventare realtà. John voleva immaginare anche un mondo senza religioni definite, ma volle specificare “non senza religioni, ma senza la religione de ‘il mio Dio è più grande del tuo’. La mia è una preghiera positiva”. Ancora una volta il genio musicale di John gli permette di trovare una meravigliosa melodia giocando con i tre accordi più elementari.
Secondo Lennon, i contenuti del primo e del secondo album solista sono gli stessi. “Imagine contiene lo stesso messaggio dei miei dischi precedenti, considerati duri, ma la pillola è stata indorata. E così il pubblico ha capito meglio e ha potuto apprezzare. Il mio messaggio è sempre lo stesso: anti-nazionalistico, anti-convenzionale, anti-capitalista, anti-militarista. Ora ho capito come si deve fare: diffondere il proprio messaggio politico con un po’ di miele. Questa è Imagine”.
L’album Imagine venne registrato in sette giorni e pubblicato nell’ottobre del 1971. Quello stesso mese John e Yoko si trasferirono dall’Inghilterra a New York, ed iniziarono la lunga battaglia per ottenere il visto di soggiorno, negato dalle autorità americane. L’amministrazione del presidente Nixon, messa in difficoltà dalle manifestazioni pacifiste contro la guerra in Viet-nam, vedeva in John Lennon un “cattivo maestro” con un’influenza dirompente sulle giovani generazioni.
Imagine è stata definita “la più bella canzone del secolo” ed è divenuta l’inno del movimento pacifista mondiale, il manifesto musicale della nonviolenza.

Mao Valpiana

Imagine

Immagina che il paradiso non esista,
è facile se ci provi.
Non c’è l’inferno sotto di noi,
sopra di noi soltanto il cielo.
Immagina tutta la gente
che vive solo per il presente.
Immagina che non ci siano nazioni,
non è difficile farlo,
niente per cui uccidere o per cui morire
e neppure nessuna religione.
Immagina tutta la gente
che vive la propria vita in pace…
Immagina che non esista la proprietà,
immagino che tu ci riesca,
nessuna necessità di avidità o di fame,
solo una comunità di persone.
Immagina tutta la gente
che condivide il mondo.
Tu dirai che io sono un sognatore
ma non sono l’unico.
Spero che un giorno ti unirai a noi
e il mondo diventerà unito.

John Lennon

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

Narrare la storia del nemico per far fiorire la vita

J. Hilal I. Pappe (a cura di), Parlare con il nemico, Bollati Boringhieri, Torino 2004, pagg. 299, € 24,00.

Il sottotitolo del libro spiega bene il suo contenuto: narrazioni palestinesi e israeliane a confronto. Infatti nel volume cinque studiosi israeliani e cinque studiosi palestinesi si incontrano, in un confronto dove la narrazione diventa un ponte per avvicinare l’altro, nel consapevole sforzo di andare al di là di storiografie in conflitto fra loro. Già negli anni Ottanta la storiografia israeliana aveva iniziato a tracciare un quadro della guerra del 1948 che metteva in discussione la versione sionista ufficiale. Ora questo testo rappresenta un ulteriore passo in avanti. Infatti le narrazioni convergono nella ricerca della pace, la produzione di sapere tiene conto del peso assunto da gruppi svantaggiati come le minoranze etniche, l’approccio è morbido e il metodo non è più quello dell’analisi storica nazionalista né quello della storia politica e militare, ma quello di una storia culturale e sociale. In altre parole il progetto è quello di riportare i palestinesi nella storia della Palestina, realizzando una storia che si occupi soprattutto dei popoli, più che delle scelte dei potenti.
Si tratta quindi di un’interessante raccolta di saggi, che con cura scientifica propongono una nuova visione del conflitto israelo-palestinese, concepita da personaggi di entrambe le parti in causa.

AA.VV., Pace non è solo assenza di guerra ma dove la vita fiorisce, Marea, Genova, dicembre 2004, pagg. 96, € 7,00.

Si tratta di un numero speciale della rivista “Marea”, che, come afferma in copertina, è un “trimestrale di attualità, riflessioni, storie, racconti, critica e informazione per dire lo stare al mondo delle donne”. La rivista aveva lanciato un concorso letterario, giunto alla sua quinta edizione, riservato a scrittrici e dedicato al tema che ora dà il titolo alla raccolta dei racconti classificati.
“La frase che ha dato lo spunto a questo concorso”, afferma la direttrice Monica Lanfranco, “ci ha colpito ben prima che si scatenassero le ultime guerre del nuovo secolo; come accade sovente quando la poesia sfiora con la sua lieve pesantezza temi grandi, quali la vita e la morte, così la poetica di Amrita Pritam ha fornito in poche parole una chiave di lettura efficace per descrivere la pace o, meglio, il suo processo”.
E’ in quell’immagine di vita che fiorisce (e non soltanto nella sua bellezza, ma anche nella sua fatica, stanchezza, intoppi e sbagli) che si può ritrovare lo sguardo femminile sul tema della pace.
Il numero della rivista, che per l’occasione si è trasformata da saggistica in letteraria, contiene anche tre interventi esterni al concorso, storie vere di trasformazione di violenza e guerra in realtà di pace e condivisione. Per acquisti rivolgersi a mochena@tn.village.it

“Valori”, Mensile di economia sociale e finanza etica, pagg. 80, € 3,00

Recensiamo questa volta non un libro, ma una rivista. Il sottotitolo recita “Mensile di economia sociale e finanza etica” ed è sufficientemente esplicativo rispetto ai contenuti degli articoli. Promossa da Banca Etica, questa pubblicazione, elegante nella grafica, si apre con un reportage fotografico, dedicato a quei problemi che si situano fra l’ecologia, la finanza e l’etica, come ad esempio il petrolio. Stampata ovviamente su carta riciclata, annovera fra i suoi autori padre Alessandro Zanotelli. Nonostante gli argomenti affrontati siano di notevole spessore, il taglio che viene offerto permette una sua lettura facile e piacevole: grazie a interviste e a molte immagini, l’approccio agli articoli è adatto non solo per gli addetti ai lavori. Inoltre i pezzi sono spesso corredati da schede e riquadri con approfondimenti e spiegazioni e presentano anche il rinvio a siti ove è possibile approfondire ulteriormente i temi affrontati. E’ inviata solo per abbonamento. Per informazioni potrete rivolgervi alla redazione, all’indirizzo redazione@valori.it.

Davide Calì (testi) ed Evelyn Daviddi (illustrazioni), Mi piace il cioccolato, Zoolibri, Commercio Alternativo, € 6,00

Il libro, rivolto ai bambini, si sofferma sulle caratteristiche di quello che viene chiamato “l’oro
dei Maya”: un dolce che consola nelle situazioni difficili ma anche un elemento che accomuna, un cibo per il cuore più che per il palato. Il volume offre alcuni spunti di riflessione per i più piccoli, una sorta di istruzioni per l’uso da tener sempre presenti: “Se ti piace il cioccolato, cerca di capire da dove viene; controlla la percentuale di grassi vegetali: più ce ne sono, meno il cioccolato è buono e nutriente; contribuisci a realizzare progetti di cooperazione e sostegno dell’infanzia nei Paesi dove il cacao viene raccolto”.
Corredato da due pagine di ricette semplici e da un’appendice dedicata al commercio equo, il libro è disponibile in esclusiva nelle Botteghe del Mondo (indirizzi nel sito www.commercioalternativo.it).

Di Fabio