• 24 Novembre 2024 19:38

Azione nonviolenta – Giugno 2005

DiFabio

Feb 3, 2005

Azione nonviolenta giugno 2005

– Editoriale
– “Euromediterranea 2005”
– La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile
– Tentativo di decalogoper la convivenza inter-etnica
– L’Europa muore o rinasce a Sarajevo
– Irfanka Pasagic, Srebrenica/Tuzla Premio Alexander Langer 2005
– La fiducia negli altri
– L’arte della nonviolenza Un’esperienza formativa a Verona

Musica, a cura di Paolo Predieri (La comprensione musicale)
Economia, a cura di Paolo Macina (Vendita di armi alla Cina)
Per esempio, a cura di Maria G. Di Rienzo (La giustizia climatica)
Cinema, a cura di Flavia Rizzi (Film “Saimir”)
Libri, a cura di Sergio Albesano.

EDITORIALE
Dieci anni con Alex
Dieci anni senza Alex

Di Mao Valpiana

Lo si potrebbe definire in mille modi: intellettuale, traduttore, politico, giornalista, saggista, localista, verde, europeista, insegnante, pacifista, ambientalista, leader di movimento…e via elencando… lui si descrisse come un “portatore di speranza”. Per me è sempre stato semplicemente un amico della nonviolenza. Anzi, penso che Alexander Langer abbia dato corpo più di ogni altro all’idea capitiniana del “potere di tutti”, riuscendo ad applicare la nonviolenza nell’ambito forse più difficile per farlo: la politica e le istituzioni. E’ stato detto, giustamente, che Alex era il più impolitico dei politici, eppure è stato il rappresentante istituzionale di un vasto movimento ecologista e pacifista, che insieme a tante sconfitte ha raggiunto anche straordinari risultati concreti. Ha saputo attraversare cariche prestigiose senza rimanere invischiato nelle sabbie mobili del potere; ha trattato alla pari con capi di stato senza mai tradire la sua vocazione francescana.
A dieci anni dalla disperata dipartita, sentiamo ancora intatta la nostalgia e anche il vuoto lasciato dalla sua assenza. Non c’è incontro, riunione, convegno, assemblea, congresso di movimento dove Alex non venga in qualche modo ricordato, citato, rimpianto. Ci manca. Ma lo sentiamo anche fortemente vicino, compresente, quasi una compagnia angelica. Ripensare a quel sorriso gentile, allo sguardo acuto, alle battutine ironiche, alla sua faccia da coniglio intelligente, mette ancora allegria. Alla domanda ricorrente “perché?” non ci può essere risposta, ma ognuno di noi un senso a quella morte lo vuole dare: forse a schiacciarlo è stato il troppo amore, la troppa compassione, il farsi carico senza limite dei pesi altrui. Come il tuo amato San Cristoforo, caro Alex, avevi preso sulle spalle un bambino per portarlo dall’altra parte, ma ancor prima della fine della traversata ti sei accorto “che avevi accettato il compito più gravoso della tua vita, e che dovevi mettercela tutta, con un estremo sforzo, per arrivare di là” (Dalla lettera “Caro San Cristoforo” scritta per Lettera 2000, febbraio-marzo 1990, in “Il viaggiatore leggero”, a cura di Edi Rabini, pagina 328, Sellerio editore Palermo) . Non ce l’ha fatta, Alex, a concludere la traversata del fiume, stanco e oberato ha religiosamente accettato il suo calvario; ma la preziosa eredità di idee ed azioni che ha lasciato, oggi ci serve da bussola per solcare le acque turbolente del fiume e cercare un approdo.
Alex è stato un caro amico del Movimento Nonviolento. Gli siamo riconoscenti per i tanti stimoli che ci ha dato, per la disponibilità generosa, per il contributo di analisi, proposte e iniziative. Abbiamo pensato di rendergli omaggio predisponendo l’edizione di un libro contenente i suoi molti articoli pubblicati in Azione nonviolenta dal 1984 al 1995, raccolti in quattro filoni: dal pacifismo alla nonviolenza, nonviolenza e riconciliazione, nonviolenza per la decrescita, nonviolenza è politica. Porteremo questo nuovo testo al festival di Euromediterranea, quest’anno dedicato ad Alex, come nostro particolare contributo. Nessuno è legittimato a servirsi dei suoi scritti di anni fa per utilizzarli politicamente nella realtà di oggi. Alex ha deciso di non dire più nulla dal 3 luglio del 1995, e va rispettato anche in questa scelta. Ma a noi interessa mettere in luce che dietro le sue prese di posizione, anche le più difficili e discutibili, c’erano una conoscenza e un’adesione profonda ed esplicita alla nonviolenza specifica, incarnata nella sua particolare ed originale esperienza. La scelta nonviolenta (laica e religiosa insieme) è decisiva nella biografia di Alex, non ideologica, ma sempre messa alla prova del confronto con la realtà più complessa e contraddittoria. In un suo scritto Alex aveva auspicato lo sviluppo del settore “ricerca e sperimentazione” della nonviolenza: i laboratori nei quali ha lavorato sono stati molti, dal Sudtirolo, nel 1968, fino alla Bosnia, nel 1995. Con lui abbiamo fatto una lungo cammino insieme, durato più di dieci anni, dalla semina verde alla campagna Nord/Sud, dalla carovana Trieste-Belgrado al VeronaForum, dal convegno “Sviluppo? Basta!” alla rivista Verdeuropa. Ed ancora la sua presenza alle marce Perugia-Assisi, la restituzione del congedo militare, la campagna per l’obiezione fiscale e contro i missili a Comiso, i contributi per l’acquisto della Casa per la Nonviolenza, il sostegno concreto al Movimento e ad Azione nonviolenta.
Ci viene quindi naturale dedicargli questo numero, pubblicando i suoi tre scritti che saranno al centro della riflessione e del lavoro di Euromediterranea 2005. Il decalogo della convivenza, la conversione ecologica, l’Europa dopo Sarajevo: articoli profetici che mantengono intatta la loro attualità e che possono aiutare i giovani a comprendere la complessità di oggi.
Alex era un bella persona. E’ stato un privilegio averlo avuto come amico.

“EUROMEDITERRANEA” 2005
Alexander Langer 1995-2005
Lentius, profundis, suavius

Srebrenica 2005, le ferite del silenzio

Come si vede dall’abbozzo di programma che segue, dedicheremo il tradizionale incontro annuale della Fondazione al decennale della morte di Alexander Langer, ad una riflessione che prende spunto da suoi tre testi che pubblichiamo in questo stesso numero di Azione nonviolenta:
– La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile (1994)
– Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica (1994)
– L’Europa muore o rinasce a Sarajevo (1995)
Abbiamo invitato alcune, poche, persone ad introdurli, per poter così consentire a molti di dare, in questa cornice, un contributo di testimonianza e di riflessione, nel merito di una delle sessioni.

Ci aiuteranno nella riflessione i libri già pubblicati ed alcuni nuovi, che si annunciano entro giugno, curati rispettivamente da Florian Kronbichler (ed. Raetia), Clemente Manenti (Diario), Giuseppina Ciuffreda e Giulia Allegrini (Altreconomia), Mao Valpiana (Azione nonviolenta), Enrico Camanni (Cda&Vivalda) e da un film dialogo tra Adriano Sofri e Daniel Cohn-Bendit, realizzato da Dietmar Höss. Più avanti, in autunno, ancora Uwe Staffler (ed. Raetia) e una biografia politica che va scrivendo Fabio Levi.

Sono passati 10 anni da quando Alexander Langer ha deciso di accomiatarsi dalla vita. Il ricordo di lui, e di quanto ha fatto nella sua straordinaria vita, si è fatto col trascorrere degli anni più maturo e consapevole, seppur ancora velato di malinconia e nostalgia.
Nel patrimonio genetico della Fondazione sono nel frattempo entrate le destinatarie e i destinatari dei premi assegnati dal 1997: l’algerina Khalida Messaoudi Toumi, le ruandesi Jacqueline Mukansonera e Yolande Mukagasana, i coniugi cinesi Ding Zilin e Jiang Peikun, la kosovara Vjosa Dobruna e la serba Natasa Kandic, l’israeliano Dan Bar-On e il palestinese Sami Adwan, l’ambientalista ecuadoregna Esperanza Martinez, la memoria dell’operaio di Porto Marghera Gabriele Bortolozzo, la fondazione polacca Pogranicze di Sejny.
Sono il bene più prezioso della Fondazione, perché – assieme agli scritti di Alexander Langer più che mai attuali – ci indicano un modo per rimanere saldamente ancorati alle domande cruciali, ancora senza risposte, che il secolo scorso ci ha lasciato in eredità.
Non sappiamo cosa avrebbe detto Alex di queste sue nuove e nuovi compagni di viaggio. Siamo ben coscienti che dal 3 luglio 1995, almeno, la responsabilità di cercare “ciò che era giusto” è tornata interamente nelle mani di ciascuno di noi.
Avremo occasione di parlarne in questa edizione straordinaria della manifestazione “euromediterranea”, un’occasione di riflessione e di festa.
Non sarà l’unico appuntamento, perché altri se ne preannunciano in Italia e in Europa, promossi da persone che hanno conosciuto Alex, direttamente o attraverso il racconto dei suoi scritti, e ne continuano a trovare incoraggiamento per un impegno solidale, più che mai necessario.
Questa è la cornice che vuole poi consentire a molti di dare un contributo personale, con interventi di 5-7 minuti, che vi preghiamo per quanto possibile di preannunciare.A questo appuntamento vi vogliamo fin d’ora invitare.

PROGRAMMA DI MASSIMA

Sabato 25 giugno – Brennero/Brenner: Apertura della settimana euromediterranea dedicata ad Alexander Langer
Ore 10.00 – passeggiata lungo i confini tra Nord e Sud Tirolo, guidata dallo scrittore Erri De Luca e dallo scalatore Hanspeter Eisendle
Ore 16.00 – vecchia casa doganale austriaca: festa e incontro stampa, ospiti del vice-sindaco di Gries am Brenner Helmuth Gassebner e della parlamentare europea Eva Lichtenberger

Da lunedì 27 giugno – Bolzano/Bozen:
– Rassegna cinematografica al Filmclub
– Inaugurazione e presentazione dell’archivio Langer “minima personalia”, a cura di Ingrid Facchinelli

Venerdì 1 luglio
14.00 – Vecchio Municipio: apertura della Scuola estiva internazionale
Sala di Rappresentanza del Comune:
14.00 – Apertura Workshop artistici di Alberto Larcher e Loretta Viscuso
16.30 – Inaugurazione della mostra fotografica “Hallo Ibrahim!”, realizzata da Luisa Ferrari per Macondo 3 a sostegno delle adozioni a distanza di Tuzlanska Amica, aperta dal 27 al 7 luglio.

17.30 – Cerimonia di consegna del premio Langer 2005 a Irfanka Pasagic, Tuzla/Srebrenica

18.30 – 21.00 – I Sessione: L’Europa nasce o muore a Sarajevo
Interventi di: Irfanka Pasagic, Natasa Kandic – Belgrado, Vjosa Dobruna – Prjstina, Massimo Cacciari Sindaco di Venezia

Prati del Talvera: VolxFesta di Radio Tandem

Sabato 2 luglio – 10.30 – 13.00: Sala di Rappresentanza del Comune:
II Sessione: La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile
Introducono Vandana Shiva (India), Wolfgang Sachs (Wuppertal Institut), Giuseppina Ciuffreda (Il Manifesto).

13.00: Ökoinstut, via Talvera 2: Un brindisi per Alex, ospitato da Alois Lageder. Con Cristoph Baker e Sergio Staino, autore e illustratore de “Il vino spiegato ai miei figli”.

16.00: Sala di Rappresentanza del Comune: Un ricordo di Renzo Imbeni e Lisa Giua Foa, a cura di Gianni Sofri, presidente del Consiglio comunale di Bologna, e Stella Sofri, coautrice di “E’andata così”, ed. Sellerio.

17.30
III Sessione: Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica: dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera.
Introduce: Leopold Steurer, Südtirol/Alto Adige.

Prati del Talvera: continua la VolkFesta di Radio Tandem.Domenica 3 luglio: Sala di Rappresenta del Comune
10.00 – 10 anni con Alexander Langer, un itinerario biografico e bibliografico (con gli autori dei testi)
11.30 – Adriano Sofri e Daniel Cohn-Bendit ricordano Alexander Langer. Film-corto di Dietmar Höss .
12.00 – L’attualità di Alexander Langer. Interventi di autorità e amici.
Performance: Coro vocale eKsperimento

Lingue: traduzione simultanea italiano, tedesco, inglese13.00 – 22.00 – Minigolf, Lungo Talvera: Langer Sonntag/Parole e musica
Cibo, letture e interventi musicali dedicati ad Alex, a cura di Radio Tandem
Ore 20.00: concerto di Paola Sabattani e Sabatriò, Scuola di musica di Fornimpopoli

Scuola estiva internazionale di euromediterranea 2005, 1. – 12.7.2005: Srebrenica, le ferite del silenzio
La Scuola estiva internazionale 2005, riservata alla partecipazione di 40 giovani non solo europei, si svolgerà in forma itinerante (Bolzano, Tuzla, Srebrenica, Sarajevo) con l’intento di fornire ai partecipanti strumenti di comprensione di quella che è stata definita la più grave strage genocidaria nei confini europei dopo la fine della seconda guerra mondiale; di partecipare con il massimo di consapevolezza alle celebrazioni che si svolgeranno a Srebrenica nel decimo anniversario del massacro e degli accordi di Dayton; di riflettere sugli strumenti di prevenzione delle crisi e di ricostruzione della convivenza, individuati da Aleaxander Langer nel suo “L’Europa nasce o muore a Sarajevo”.
Interventi di: Irfanka Pasagic, Natasa Kandic, Vjosa Dobruna, Laura Dolci, Francesco Palermo, Jens Woelk, Emanuela Fronza, Andrea Lollini, Walter Lorenz, Stefano Recchia, Osservatorio Balcani Rovereto, Yael Danieli.Iniziative collaterali alla scuola estiva:

Lunedì 4 luglio – 21.00 – Theater im Hof: ”So oder so….”, Ein Theaterstück der „Creative Factory“ im Gemeinschaftszentrum. Jungbusch Mannheim, diretto da Lisa Massetti

Martedì 5 luglio – 21.00 – Filmclub: Srebrenica 2005, rassegna di documentari video.

Mercoledì 6 luglio – 21.00 –Papperlapapp – Proiezione del documentario di Mario Di Carlo “Deutschland wäre meine richtige Heimat” con sottotitoli in inglesi. Festa-incontro musicale tra associazioni giovanili di Bolzano e i partecipanti alla Scuola estiva internazionale.

Informazioni, aggiornamento del programma, ospitalità alberghiere, nel sito: www.alexanderlanger.org

FONDAZIONE ALEXANDER LANGER STIFTUNG – Onlus
Via Latemar Straße 3, I – 39100 BOLZANO/BOZEN
Tel.+ Fax 0039 0471 977691
E-Mail: langer.foundation@tin.it  www.alexanderlanger.org

La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile

1. Abbiamo creato falsa ricchezza per combattere false povertà – Re Mida patrono del nostro tempo
Da qualche secolo ed in rapido crescendo si produce falsa ricchezza per sfuggire a false povertà. Di tale falsa ricchezza si può anche perire, come di sovrappeso, sovramedicazione, surriscaldamento ecc. Falso benessere come liberazione da supposta indigenza è la nostra malattia del secolo, nella parte industrializzata e “sviluppata” del pianeta. Ci si è liberati di tanto lavoro manuale, avversità naturali, malattie, fatiche, debolezze – forse tra poco anche della morte naturale – in cambio abbiamo radiazioni nucleari, montagne di rifiuti, consunzione della fantasia e dei desideri. Tutto è diventato fattibile ed acquistabile, ma è venuto a mancare ogni equilibrio.
Non solo l’apprendista stregone è il personaggio-simbolo del nostro tempo. L’antico re Mida – che ottenne il compimento del suo desiderio che ogni cosa che toccava si trasformasse in oro – ci appare come il vero patrono dei culti del progresso e dello sviluppo, l’attualissimo predecessore dei benefici della nostra civiltà.

2. Non si può più far finta si non sapere, l’allarme è ormai suonato da almeno un quarto di secolo ed ha generato solo provvedimenti frammentari e settorialiDa qualche decennio e con sempre maggiori dettagli si conoscono praticamente tutti gli aspetti di questo impoverimento da cosiddetto benessere. Quasi non si sta più a sentire quando si recita, più o meno completa, la litania delle catastrofi ambientali.
Un quarto di secolo è stato impiegato a scoprire, analizzare, diagnosticare e prognosticare, a dare l’allarme, a lanciare appelli e proclami, a varare leggi e convenzioni, a creare istituzioni incaricate a rimediare. La tutela tecnica dell’ambiente è notevolmente migliorata nel mondo industrializzato, si sono registrati singoli successi, alcune acque si stanno rivitalizzando, certe specie in pericolo di estinzione si sono salvate, cominciano a circolare detersivi, carburanti ed imballaggi “ecologici”…
3. Perchè l’allarme non ha prodotto la svolta? E’ già finito l’intervallo di lucidità (Stoccolma 1972 – Rio 1992)?Allarmi catastrofisti, lamenti, manifestazioni, boicottaggi, raccolte di firme…: tutto ciò ha aiutato a riconoscere l’emergenza: le malattie sono state diagnosticate, le possibilità di guarigione studiate e discusse – terapie complessive non sono state ancora attuate. E soprattutto: appare tutt’altro che assicurata la volontà di guarigione, se ci fosse, produrrebbe azioni e segnali ben più determinati. Visto però che le cause dell’emergenza ecologica non risalgono ad una cricca dittatoriale di congiurati assetati di profitto e di distruzione, bensì ricevono quotidianamente un massiccio e pressoché plebiscitario consenso di popolo, la svolta appare assai più difficile. Malfattori e vittime coincidono in larga misura.
C’è da meravigliarsi se oggi persino la diagnosi risulta controversa? Silvio Berlusconi, a capo del governo della cosiddetta Seconda Repubblica, sin dal suo discorso inaugurale alla Camera ha ritenuto di dover ironizzare sull’allarme per l’effetto-serra: “forse il nostro pianeta comincerà ad intiepidirsi in un lasso di tempo pari a quello che ci divide addirittura dalla morte di Caio Giulio Cesare”. C’è da pensare che dunque ci resta ancora tanto tempo per cementificare, dissipare, disboscare!
Vuol dire che l’intervallo di lucidità che si potrebbe situare tra le due conferenze mondiali sull’ambiente (Stoccolma 1972 – Rio de Janeiro 1992) è già terminato? Si è fatto il pieno di lamenti ed allarmi e si pensa ora che la riunificazione del mondo tra Est e Ovest vada celebrata con nuovi fasti di crescita?

4 . “Sviluppo sostenibile” – pietra filosofale o nuova formula mistificatrice?Da qualche anno (rapporto Brundtland, 1987) la formula magica dello “sviluppo sostenibile” sembra essere la quadratura del cerchio così lungamente cercata. Nella formula è racchiusa una certa consapevolezza della necessità di un limite alla crescita, di una qualche autolimitazione della parte altamente industrializzata ed armata dell’umanità, come pure l’idea che alla lunga sia meglio puntare sull’equilibrio piuttosto che sulla competizione selvaggia; ma il termine “sviluppo” (o crescita, come in realtà si dovrebbe dire senza tanti infingimenti) è rimasto parte del nuovo e virtuoso binomio. Purtroppo basta guardare ai magri risultati della Conferenza di Rio per comprendere quanto lontani si sia ancora da una reale correzione di rotta. Sembra che il nuovo termine indichi piuttosto la propensione ad un nuovo ordine mondiale nel quale il Sud del mondo viene obbligato ad usare con più parsimonia e razionalità le sue risorse, sotto una sorta di supervisione e tutela del Nord: non appare un obiettivo mobilitante per suscitare l’impeto globalmente necessario per la conversione ecologica.

5. A mali estremi, estremi rimedi? (“Muoia Sansone con tutti i filistei”? Eco-dittatura?)Di fronte ai vicoli ciechi nei quali ci troviamo, può succedere che qualcuno tenti estreme vie d’uscita. Anche tra ecologisti, pur così propensi ad una cultura della moderazione e dell’equilibrio, ci può esserci chi – seppure oggi in posizione isolata – chi pensa a rimedi estremi. Scegliamone i due più rilevanti: la prima potrebbe essere caratterizzata con “muoia Sansone e tutti i filistei”: la convinzione che la catastrofe ambientale sia inevitabile e non più rimediabile, e che pertanto tocchi mettere in conto disastri epocali come ne sono avvenuti altri nel corso dell’evoluzione del pianeta. In mancanza di aggiustamenti tempestivi ed efficaci, la svolta ecologica verso un nuovo equilibrio sostenibile verrebbe imposta da tali disastri.
L’altro “rimedio estremo” che si potrebbe agitare, sarebbe lo “Stato etico ecologico”, l’eco-dirigismo o eco-autoritarismo possibilmente illuminato e possibilmente mondiale. Visto che l’umanità ha abusato della sua libertà, mettendo a repentaglio la propria sopravvivenza e quella dell’ambiente, qualcuno potrebbe auspicare una sorta di tutela esperta ed eticamente salda ed invocare la dittatura ecologica contro l’anarchia dei comportamenti anti-ambientali.
Si deve dire chiaramente che simili ipotetici “estremi rimedi” si situano al di fuori della politica – almeno di una politica democratica. Ogni volta che si è sperimentato lo Stato etico in alternativa a situazioni o stati anti-etici (e quindi senz’altro deplorevoli), il bilancio etico della privazione di libertà si è rivelato disastroso. E l’attesa della catastrofe catartica non richiede certo alcuno sforzo di tipo politico: per politica si intende l’esatto contrario della semplice accettazione di una selezione basata su disastri e prove di forza.
Quindi si dovrà cercare altrove la chiave per una politica ecologica, ed inevitabilmente ci si dovrà sottoporre alla fatica dell’intreccio assai complicato tra aspetti e misure sociali, culturali, economici, legislativi, amministrativi, scientifici ed ambientali. Non esiste il colpo grosso, l’atto liberatorio tutto d’un pezzo che possa aprire la via verso la conversione ecologica, i passi dovranno essere molti, il lavoro di persuasione da compiere enorme e paziente.

6. La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? “Lentius, profundius, suavius”, al posto di “citius, altius, fortius”La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. La paura della catastrofe, lo si è visto, non ha sinora generato questi impulsi in maniera sufficiente ed efficace, altrettanto si può dire delle leggi e controlli; e la stessa analisi scientifica non ha avuto capacità persuasiva sufficiente. A quanto risulta, sinora il desiderio di un’alternativa globale – sociale, ecologica, culturale – non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario.
Nè singoli provvedimenti, nè un migliore “ministero dell’ambiente” nè una valutazione di impatto ambientale più accurata nè norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità – per quanto necessarie e sacrosante siano – potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile.
Sinora si è agiti all’insegna del motto olimpico “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in “lentius, profundius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce”), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.
Ecco perché una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate – come è ovvio – in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nell’identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che attui efficaci spunti per una correzione di rotta ed al tempo stesso sostenga e forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica.7. Possibili priorità nella ricerca di un benessere durevoleI passi che qui si propongono – intrecciati ed interdipendenti tra loro – fanno parte di una visione favorevole al cambiamento e potrebbero a loro volta incoraggiare nuovi cambiamenti. Purchè ogni passo limitato e parziale si muova in una direzione chiara e comprensibile, ed i vantaggi non siano tutti rimandati ad un futuro impalpabile.a) bilancio ecologico
Gli attuali bilanci pubblici e privati sono tutti basati su dati finanziari. Sintanto che non si avranno in tutti gli ambiti (Comune, Provincia, Regione, Stato, CE, …) accurati bilanci della reale economia ambientale che facciano capire i reali “profitti” e le reali perdite, non sarà possibile sostituire gli attuali concetti di desiderabilità sociale, e tanto meno un cambiamento dell’ordine economico.
b) ridurre invece che aumentare i bilanci
Ogni discorso sulla necessità della svolta resta assurdo sino a quando la crescita economica resterà l’obiettivo economico di fondo e sino a quando i bilanci pubblici e privati punteranno ad aumentare di anno in anno. La parte industrializzata del pianeta dovrà finalmente decidersi alla crescita-zero e poi a qualche riduzione – naturalmente con la necessaria cautela e moderazione per non causare dei crolli sociali o economici.c) favorire economie regionali invece che l’integrazione nel mercato mondiale
Sino a quando la concorrenza sul mercato mondiale resterà il parametro dell’economia, nessuna correzione di rotta in senso ecologico potrà attuarsi. La rigenerazione delle economie locali, invece, renderà possibile – tra l’altro – una gestione più moderata e controllabile dei bilanci, compreso quello ambientale.d) sistemi tariffari e fiscali ecologici, verità dei costi
Di fronte ad un mercato che addirittura postula e premia comportamenti anti-ecologici, visto che non ne fa pagare i costi, si rende indispensabile un sistema fiscale e tariffario orientato in senso ambientale, che imponga almeno in parte una maggiore trasparenza e verità dei costi: imprenditori e consumatori devono accorgersi dei costi reali del massicio trasporto merci, degli imballaggi, del dispendio energetico, dell’inquinamento, del consumo di materie prime, ecc.e) allargare e generalizzare la valutazione di impatto ambientale
Tutto quanto viene oggi costruito (opere, tecnologie, ecc.), produce impatti e conseguenze di dimensioni sinora sconosciute. La valutazione di impatto ambientale – nel senso più comprensivo di una reale valutazione delle conseguenze ecologiche, ma anche sociali e culturali a breve e lungo termine di ogni progetto – dovrà diventare il nocciolo di una nuova sapienza sociale, e va quindi adeguatamente ancorata negli ordinamenti. Così come altre società, passate o presenti, proteggevano con norme fondamentali e tabú (sulla guerra, l’ospitalità, l’incesto…) le loro scelte di fondo, oggi abbiamo bisogno di norme fondamentali a difesa della valutazione di impatto ambientale – non importa se si tratti di autostrade, missili, biotecnologie, forme di produzione di energia o introduzione di nuove sostanze chimiche di sintesi. Tale valutazione non potrà avvenire senza l’intervento dei più diretti interessati e postulerà una Corte ambientale a suo presidio.
f) redistribuzione del lavoro, garanzie sociali
Solo una vasta redistribuzione sociale del lavoro (e quindi dei “posti di lavoro” socialmente riconosciuti) permetterà la necessaria correzione di rotta. L’ammortamento sociale degli effetti prodotti da scelte di conversione ecologica (che si chiuda una fabbrica d’armi o un impianto chimico..) è un investimento importante ed utile quanto e più di tanti altri, e se si indennizzano i proprietari di terreni che devono cedere ad un’autostrada, non si vede perché altrettanto non debba avvenire nei confronti di operai o impiegati che devono cedere alla ristrutturazione ecologica.g) riduzione dell’economia finanziaria, sviluppo della “fruizione in natura”
Sino a quando ogni forma di economia sarà canalizzata essenzialmente attraverso il denaro, sarà assai difficile far valere dei criteri ecologici, e ci saranno pesanti ingiustizie socio-ecologiche: chi può pagare, potrà anche inquinare. Un processo di “rinaturalizzazione” – che allontani dalla mercificazione generalizzata (dove tutto si può vendere e comperare) e valorizzi invece l’apporto personale e non fungibile – potrebbe aiutare a scoprire un diverso e maggior godimento della natura, del lavoro, dello scambio sociale. Le “res communes omnium” (dalla fontana pubblica alla spiaggia, dalla montagna alla città d’arte) non si difendono col ticket in denaro, bensì con l’esigere una prestazione personale, con un legame col volontariato, ecc.h) sviluppare una pratica di partnership
La necessaria autolimitazione ecologica riesce più convincente se si fa esperienza diretta di interdipendenza e partnership: nella nostra attuale condizione, forse potrebbero essere alleanze o patti “triangolari” (Nord/Sud/Est) quelle che meglio riflettono il nesso tra i cambiamenti necessari in parti diverse, ma interconnesse del mondo. L'”alleanza per il clima” ne può fornire una interessante, per quanto ancora parzialissima, esemplificazione.

8. Una Costituente ecologica?Società anteriori alla nostra avevano il loro modo di sanzionare, solennizzare e tramandare le loro scelte ed i loro vincoli di fondo: basti pensare alla “magna charta libertatum”, al leggendario giuramento dei confederati elvetici sul Rütli, alla dichiarazione francese sui diritti dell’uomo, al patto di fondazione delle Nazioni unite…
Oggi difettiamo di una analoga norma fondamentale di vincolo ecologico che – viste le caratteristiche del nostro tempo – avrebbe peso e valore solo se frutto di un processo democratico. Certamente esiste in questa o quella carta costituzionale un comma o articolo sull’ambiente, ma siamo ben lontani dal concepire la difesa o il ripristino dell’equilibrio ecologico come una sorta di valore di fondo e pregiudiziale delle nostre società, e di trarne le conseguenze.
Se si vuole riconoscere ed ancorare davvero la desiderabilità sociale di modi di vivere, di produrre, di consumare compatibili con l’ambiente, bisognerà forse cominciare ad immaginare un processo costituente, che non potrà avere, ovviamente, in primo luogo carattere giuridico, quanto piuttosto culturale e sociale, ma che dovrebbe sfociare in qualcosa come una “Costituente ecologica”. In fondo le Costituzioni moderne hanno il significato di vincolare il singolo ed ogni soggetto pubblico o privato ad alcune scelte di fondo che trascendono la generazione presente o, a maggior ragione, la congiuntura politica del momento. Se non si arriverà a dare un solido fondamento alla necessaria decisione di conversione ecologica, nessun singolo provvedimento sarà abbastanza forte da opporsi all’apparente convenienza che l’economia della crescita e dei consumi di massa sembra offrire.Alexander Langer(Testo scritto per i Colloqui di Dobbiamo – 1.8.1994)

Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica

1. La compresenza pluri-etnica sarà la norma più che l’eccezione; l’alternativa è tra esclusivismo etnico e convivenza.
Situazioni di compresenza di comunità di diversa lingua, cultura, religione, etnia sullo stesso territorio saranno sempre più frequenti, soprattutto nelle città. Questa, d’altronde, non è una novità. Anche nelle città antiche e medievali si trovavano quartieri africani, greci, armeni, ebrei, polacchi, tedeschi, spagnoli…
La convivenza pluri-etnica (1), pluri-culturale, pluri-religiosa, pluri-lingue, pluri-nazionale… appartiene dunque, e sempre più apparterrà, alla normalità, non all’eccezione. Ciò non vuol dire, però, che sia facile o scontata, anzi. La diversità, l’ignoto, l’estraneo complica la vita, può fare paura, può diventare oggetto di diffidenza e di odio, può suscitare competizione sino all’estremo del “mors tua, vita mea”. La stessa esperienza di chi da una valle sposa in un’altra valle della stessa regione, e deve quindi adattarsi e richiede a sua volta rispetto e adattamento, lo dimostra. Le migrazioni sempre più massicce e la mobilità che la vita moderna comporta rendono inevitabilmente più alto il tasso di intreccio inter-etnico ed inter-culturale, in tutte le parti del mondo. Per la prima volta nella storia si può – forse – scegliere consapevolmente di affrontare e risolvere in modo pacifico spostamenti così numerosi di persone, comunità, popoli, anche se alla loro origine sta di solito la violenza (miseria, sfruttamento, degrado ambientale, guerra, persecuzioni…). Ma non bastano retorica e volontarismo dichiarato: se si vuole veramente costruire la compresenza tra diversi sullo stesso territorio, occorre sviluppare una complessa arte della convivenza. D’altra parte diventa sempre più chiaro che gli approcci basati sull’affermazione dei diritti etnici o affini – p.es. nazionali, confessionali, tribali, “razziali” – attraverso obiettivi come lo stato etnico, la secessione etnica, l’epurazione etnica, l’omogeneizzazione nazionale, ecc. portano a conflitti e guerre di imprevedibile portata. L’alternativa tra esclusivismo etnico (comunque motivato, anche per auto-difesa) e convivenza pluri-etnica costituisce la vera questione-chiave nella problematica etnica oggi. Che si tratti di etnie oppresse o minoritarie, di recente o più antica immigrazione, di minoranze religiose, di risvegli etnici o di conflittualità inter-etnica, inter-confessionale, inter-culturale.
La convivenza pluri-etnica può essere percepita e vissuta come arricchimento ed opportunità in più piuttosto che come condanna: non servono prediche contro razzismo, intolleranza e xenofobia, ma esperienze e progetti positivi ed una cultura della convivenza.

2. Identità e convivenza: mai l’una senza l’altra; nè inclusione nè esclusione forzata
“Più chiaramente ci separeremo, meglio ci capiremo”: c’è oggi una forte tendenza ad affrontare i problemi della compresenza pluri-etnica attraverso più nette separazioni. Non suscitano largo consenso i “melting pots”, i crogiuoli dichiaratamente perseguiti come obiettivo (ad esempio negli USA), e non si contano le sollevazioni contro assimilazioni più o meno forzate. Al tempo stesso si incontrano movimenti per l’uguaglianza, contro l’emarginazione e la discriminazione etnica, per la pari dignità.
Non hanno dato buona prova di sè nè le politiche di inclusione forzata (assimilazione, divieti di lingue e religioni, ecc.), nè di esclusione forzata (emarginazione, ghettizzazione, espulsione, sterminio…). Bisogna consentire una più vasta gamma di scelte individuali e collettive, accettando ed offrendo momenti di “intimità” etnica come di incontro e cooperazione inter-etnica. Garanzia di mantenimento dell’identità, da un lato, e di pari dignità e partecipazione dall’altro, devono integrarsi a vicenda. Ciò richiede, naturalmente, che non solo le regole pubbliche e gli ordinamenti, ma soprattutto le comunità interessate so orientino verso questa opzione di convivenza.

3. Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: “più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo”.
La convivenza offre e richiede molte possibilità di conoscenza reciproca. Affinché possa svolgersi con pari dignità e senza emarginazione, occorre sviluppare il massimo possibile livello di conoscenza reciproca. “Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo”, potrebbe essere la controproposta allo slogan separatista sopra ricordato. Imparare a conoscere la lingua, la storia, la cultura, le abitudini, i pregiudizi e stereotipi, le paure delle diverse comunità conviventi è un passo essenziale nel rapporto inter-etnico. Una grande funzione la possono svolgere fonti di informazioni comuni (giornali, trasmissioni, radio, ecc. inter-culturali, pluri-lingui, ecc.), occasioni di apprendimento o di divertimento comune, frequentazioni reciproche almeno occasionali, possibilità di condividere – magari eccezionalmente – eventi “interni” ad una comunità diversa dalla propria (feste, riti, ecc.), anche dei semplici inviti a pranzo o cena. Libri comuni di storia, celebrazioni comuni di eventi pubblici, forse anche momenti di preghiera o di meditazione comune possono aiutare molto ad evitare il rischio che visioni etnocentriche si consolidino sino a diventare ovvie e scontate.

4. Etnico magari sì, ma non a una sola dimensione: territorio, genere, posizione sociale, tempo libero e tanti altri denominatori comuni.
Ha la sua legittimità, e talvolta forse anche le sue buone ragioni, l’organizzazione etnica della comunità, delle differenti comunità: purchè sia scelta liberamente, e non diventi a sua volta integralista e totalitaria. Quindi dovremo accettare partiti etnici, associazioni etniche, club etnici, spesso anche scuole e chiede etniche. Ma è evidente che se si vuole favorire la convivenza più che l'(auto-) isolamento etnico, si dovranno valorizzare tutte le altre dimensioni della vita personale e comunitaria che non sono in prima linea a carattere etnico. Prima di tutto il comune territorio e la sua cura, ma anche obiettivi ed interessi professionali, sociali, di età… ed in particolare di genere; le donne possono scoprire e vivere meglio obiettivi e sensibilità comuni. Bisogna evitare che la persona trascorra tutta la sua vita e tutti i momenti della sua giornata all’interno di strutture e dimensioni etniche, ed offrire anche altre opportunità che di norma saranno a base inter-etnica. E’ essenziale che le persone si possano incontrare e parlare e farsi valere non solo attraverso la “rappresentanza diplomatica” della propria etnia, ma direttamente: quindi è assai rilevante che ogni persona possa godere di robusti diritti umani individuali, accanto ai necessari diritti collettivi, di cui alcuni avranno anche un connotato etnico (uso della lingua, tutela delle tradizioni, ecc.); non tutti i diritti collettivi devono essere fruiti e canalizzati per linee etniche (p.es. diritti sociali – casa, occupazione, assistenza, salute… – o ambientali).5. Definire e delimitare nel modo meno rigido possibile l’appartenenza, non escludere appartenenze ed interferenze plurime
Normalmente l’appartenenza etnica non esige una particolare definizione o delimitazione: è frutto di storia, tradizione, educazione, abitudini, prima che di opzione, volontà, scelta precisa. Più rigida ed artificiosa diventa la definizione dell’appartenenza e la delimitazione contro altri, più pericolosamente vi è insita la vocazione al conflitto. L’enfasi della disciplina o addirittura dell’imposizione etnica nell’uso della lingua, nella pratica religiosa, nel vestirsi (sino all’uniforme imposta), nei comportamenti quotidiani, e la definizione addirittura legale dell’appartenenza (registrazioni, annotazioni su documenti, ecc.) portano in sè una insana spinta a contarsi, alla prova di forza, al tiro alla fune, all’erezione di barricate e frontiere fisiche, alla richiesta di un territorio tutto e solo proprio.

Consentire e favorire, invece, una nozione pratica più flessibile e meno esclusiva dell’appartenenza e permettere quindi una certa osmosi tra comunità diverse e riferimento plurimo da parte di soggetti “di confine” favorisce l’esistenza di “zone grigie”, a bassa definizione e disciplina etnica e quindi di più libero scambio, di inter-comunicazione, di inter-azione.
Evitare ogni forma legale per “targare” le persone da un punto di vista etnico (o confessionale, ecc.) fa parte delle necessarie misure preventive del conflitto, della xenofobia, del razzismo.
L’autodeterminazione dei soggetti e delle comunità non deve partire dalla definizione delle proprie frontiere e dei divieti di accesso, bensì piuttosto dalla definizione in positivo dei propri valori ed obiettivi, e non deve arrivare all’esclusivismo ed alla separatezza. Deve essere possibile una lealtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di “famiglie miste”, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita.6. Riconoscere e rendere visibile la dimensione pluri-etnica: i diritti, i segni pubblici, i gesti quotidiani, il diritto a sentirsi di casa
La compresenza di etnie, lingue, culture, religioni e tradizioni diverse sullo stesso territorio, nella stessa città, deve essere riconosciuta e resa visibile. Gli appartenenti alle diverse comunità conviventi devono sentire che sono “di casa”, che hanno cittadinanza, che sono accettati e radicati (o che possono mettere radici). Il bi- (o pluri-)linguismo, l’agibilità per istituzioni religiose, culturali, linguistiche differenti, l’esistenza di strutture ed occasioni specifiche di richiamo e di valorizzazione di ogni etnia presente sono elementi importanti per una cultura della convivenza. Più si organizzerà la compresenza di lingue, culture, religioni, segni caratteristici, meno si avrà a che fare con dispute sulla pertinenza dei luoghi e del territorio a questa o quella etnia: bisogna che ogni forma di esclusivismo o integralismo etnico venga diluita nella naturale compresenza di segni, suoni e istituzioni multiformi. (Franjo Komarica, vescovo di Banja Luka, cità pluri-etnica a maggioranza serba in Croazia, oggi assai disputata tra serbi e croati, lo dice in modo semplice: “un prato con molti fiori diversi è più bello di un prato dove cresce una sola varietà di fiori”.)
Faticosamente l’Europa ha imparato ad accettare la presenza di più confessioni che possono coesistere sullo stesso territorio e non puntare a dominare su tutti e tutto o ad espellersi a vicenda: ora bisogna che lo stesso processo avvenga esplicitamente a proposito di realtà pluri-etnica; convivere tra etnie diverse sullo stesso spazio, con diritti individuali e collettivi appropriati per assicurare pari dignità e libertà a tutti, deve diventare la regola, non l’eccezione.7. Diritti e garanzie sono essenziali ma non bastano; norme etnocentriche favoriscono comportamenti etnocentrici.Non si creda che identità etnica e convivenza inter-etnica possano essere assicurate innanzitutto da leggi, istituzioni, strutture e tribunali, se non sono radicate tra la gente e non trovano fondamento in un diffuso consenso sociale; ma non si sottovaluti neanche l’importanza di una cornice normativa chiara e rassicurante, che garantisca a tutti il diritto alla propria identità (attraverso diritti linguistici, culturali, scolastici, mezzi d’informazione, ecc.), alla pari dignità (attraverso garanzie di piena partecipazione, contro ogni discriminazione), al necessario autogoverno, senza tentazioni annessionistiche in favore di qualcuna delle comunità etniche conviventi. In particolare appare assai importante che situazioni di convivenza inter-etnica godano di un quadro di autonomia che spinga la comunità locale (tutta, senza discriminazione etnica) a prendere il suo destino nelle proprie mani ed obblighi alla cooperazione inter-etnica, tanto da sviluppare una coscienza territoriale (e di “Heimat”) comune: ciò potrà contribuire a scoraggiare tentativi di risolvere tensioni e conflitti con forzature sullo “status” territoriale (annessioni, cambiamenti di frontiera, ecc.).
E non si dimentichi che leggi e strutture fortemente etnocentriche (fondate cioè sulla continua enfasi dell’appartenenza etnica, sulla netta separazione etnica, ecc.) finiscono inevitabilmente ad inasprire conflitti e tensioni ed a generare o rafforzare atteggiamenti etnocentrici, mentre – al contrario – leggi e strutture favorevoli alla cooperazione inter-etnica possono incoraggiare ed irrobustire scelte di buona convivenza.

8. Dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono “traditori della compattezza etnica”, ma non “transfughi”
In ogni situazione di coesistenza inter-etnica si sconta, in principio, una mancanza di conoscenza reciproca, di rapporti, di familiarità. Estrema importanza positiva possono avere persone, gruppi, istituzioni che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità conviventi e coltivino in tutti i modi la conoscenza, il dialogo, la cooperazione. La promozione di eventi comuni ed occasioni di incontro ed azione comune non nasce dal nulla, ma chiede una tenace e delicata opera di sensibilizzazione, di mediazione e di familiarizzazione, che va sviluppata con cura e credibilità. Accanto all’identità ed ai confini più o meno netti delle diverse aggregazioni etniche è di fondamentale rilevanza che qualcuno, in simili società, si dedichi all’esplorazione ed al superamento dei confini: attività che magari in situazioni di tensione e conflitto assomiglierà al contrabbando, ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l’inter-azione.
Esplosioni di nazionalismo, sciovinismo, razzismo, fanatismo religioso, ecc. sono tra i fattori più dirompenti della convivenza civile che si conoscano (più delle tensioni sociali, ecologiche o economiche), ed implicano praticamente tutte le dimensioni della vita collettiva: la cultura, l’economia, la vita quotidiana, i pregiudizi, le abitudini, oltre che la politica o la religione. Occorre quindi una grande capacità di affrontare e dissolvere la conflittualità etnica. Ciò richiederà che in ogni comunità etnica si valorizzino le persone e le forze capaci di autocritica, verso la propria comunità: veri e propri “traditori della compattezza etnica”, che però non si devono mai trasformare in transfughi, se vogliono mantenere le radici e restare credibili. Proprio in caso di conflitto è essenziale relativizzare e diminuire le spinte che portano le differenti comunità etniche a cercare appoggi esterni (potenze tutelari, interventi esterni, ecc.) e valorizzare gli elementi di comune legame al territorio.9. Una condizione vitale: bandire ogni violenza.
Nella coesistenza inter-etnica è difficile che non si abbiano tensioni, competizione, conflitti: purtroppo la conflittualità di origine etnica, religiosa, nazionale, razziale, ecc. ha un enorme potere di coinvolgimento e di mobilitazione e mette in campo tanti e tali elementi di emotività collettiva da essere assai difficilmente governabile e riconducibile a soluzioni ragionevoli se scappa di mano.
Una necessità si erge pertanto imperiosa su tutte le altre: bandire ogni forma di violenza, reagire con la massima decisione ogni volta che si affacci il germe della violenza etnica, che – se tollerato – rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili. Ed anche in questo caso non bastano leggi o polizie, ma occorre una decisa repulsa sociale e morale, con radici forti: un convinto e convincente no alla violenza.10. Le piante pioniere della cultura della convivenza: gruppi misti inter-etniciUn valore inestimabile possono avere in situazioni di tensione, conflittualità o anche semplice coesistenza inter-etnica gruppi misti (per piccoli che possano essere). Essi possono sperimentare sulla propria pelle e come in un coraggioso laboratorio pionieristico i problemi, le difficoltà e le opportunità della convivenza inter-etnica. Gruppi inter-etnici possono avere il loro prezioso valore e svolgere la loro opera nei campi più diversi: dalla religione alla politica, dallo sport alla socialità del tempo libero, dal sindacalismo all’impegno culturale. Saranno in ogni caso il terreno più avanzato di sperimentazione della convivenza, e meritano pertanto ogni appoggio da parte di chi ha a cuore l’arte e la cultura della convivenza come unica alternativa realistica al riemergere di una generalizzata barbarie etnocentrica.
Alexander Langer
(testo pubblicato su Arcobaleno TN; riveduto nel novembre 1994)___________________________________________
1) Il termine “etnico”, “etnia” viene usato qui come il più comprensivo delle caratteristiche nazionali, linguistiche, religiose, culturali che definiscono un’identità collettiva e possono esasperarla sino all’etnocentrismo: l’ego-mania collettiva più diffusa oggi.
L’Europa muore o rinasce a Sarajevo

Siamo andati a Cannes, dunque, a manifestare davanti ai Capi di Stato e di governo, per la Bosnia-Herzegovina. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia, bisogna arrivare ad un punto di svolta!” Non eravamo tantissimi – qualche migliaio appena -, e dall’Italia prevalevano i pannelliani. Il grosso dei militanti della solidarietà per l’ex-Jugoslavia non avevano saputo e forse neanche voluto.
Dalla Spagna, invece, sono venuti in parecchi, dalla Catalogna soprattutto; dalla Francia molti comitati, pochi o pochissimi invece da Belgio, Olanda, Svezia, Gran Bretagna e Germania. Dei parlamentari europei molti avevano firmato – la maggioranza dei verdi e dei radicali, significativi democristiani e socialisti, qualche esponente della sinistra, diversi rappresentanti dei berlusconiani europei (“Forza Europa”, ora integrati nei gaullisti), liberali e regionalisti. Tanti bei nomi tra i firmatari, dall’ex-commissario ONU José Maria Mendiluce (socialista spagonolo) a Otto d’Asburgo, da Daniel Cohn-Bendit a Corrado Augias, Francisca Sauquillo, Michel Rocard, Arie Oostlander, Giorgio La Malfa, Pierre Carniti, Glenys Kinnock, Antonio Tajani, Catherine Lalumière, Bernard Kouchner. Solo una ventina viene poi effettivamente a Cannes, il 26 giugno 1995. Oltre cento rifugiati bosniaci che dall’Italia vogliono raggiungere Cannes, restano invece bloccati alla frontiera di Ventimiglia: “ecco, ancora una volta l’Europa non ci vuole”, è l’amaro commento. Una manifestazione al confine rende almeno visibile il loro intento.
Dopo la manifestazione in piazza, ci riceve Jacques Chirac in persona, una dozzina di noi vengono ammessi a riunirsi con lui e con il ministro degli esteri Hervé de la Charette, mezz’ora prima dell’inizio del vertice: al nostro appello risponde che sì, liberare Sarajevo dall’assedio è una priorità, ma che non esistono buoni e cattivi, e che non bisogna fare la guerra. Ci guardiamo, la deputata verde belga Magda Aelvoet e io, entrambi pacifisti di vecchia data: che strano sentirsi praticamente tacciare di essere guerrafondai dal presidente neo-gollista che pochi giorni prima aveva annunciato la ripresa degli esperimenti nucleari francesi nel Pacifico!

Ed ecco quanto avevamo elaborato e firmato in tanti:

“Dopo tre anni tutti noi, umili o potenti, assistiamo al quotidiano ormai banalizzato di una guerra i cui bersagli sono donne, bambini, vecchi, deliberatamente presi di mira da cecchini irraggiungibili o colpiti da obici mortali che sparano dal nulla.
Ci volevano dunque tre anni e, soprattutto, una presa di ostaggi dei caschi blu, fatto senza precedenti nella storia della comunità internazionale, perchè leadership politiche e media europei riconoscano che in questa guerra ci sono aggressori ed aggrediti, criminali e vittime.
Tre anni di una politica inutile di “neutralità” che ci ha privato di ogni credibilità presso i bosniaci e di ogni rispetto da parte degli aggressori.
Ormai siamo arrivati ad un punto di non-ritorno.
O tiriamo le conseguenze che si impongono e rafforziamo la nostra presenza – mandato dei caschi blu, presa di posizione netta di fronte agli aggressori – e, in fin dei conti, rifiutiamo di essere complici della strategia di epurazione e di omogeneizzazione della popolazione della Bosnia, oppure cediamo al ricatto intollerabile delle forze serbo-bosniache, ritirandoci dalla Bosnia ed infliggendo così alle Nazioni Unite la loro più grande umiliazione proprio mentre si celebra il cinquantenario della fondazione dell’ONU.
Oggi più che mai in passato dobbiamo armarci di dignità e di valori. E soprattutto ripetere quel “mai più” che risuona in tutta Europa dalla fine della seconda guerra mondiale.
Oggi più che mai in passato dobbiamo difenderci, in Bosnia, contro coloro che spingono all’epurazione etnica e religiosa come ideale politico e lo impongono perpetrando crimini contro l’umanità.
Se la situazione attuale è il risultato delle politiche disordinate, rinunciatarie e contraddittorie dei nostri governi, l’Unione europea in quanto tale è rimasta muta, impotente, assente.
Bisogna che l’Europa testimoni ed agisca!
Bisogna che grazie all’Europa l’integrità del territorio bosniaco e la sicurezza delle sue frontiere siano finalmente garantite. Ma ciò non è, non è più sufficiente. Per recuperare un credito assai largamente consumato, l’Unione europea deve oggi dar prova di un coraggio ed un’immaginazione politica senza precedenti nella sua storia. L’Europa può farlo, l’Europa deve farlo. Lo deve tanto ai bosniaci quanto a se stessa. Perchè ciò è condizione della sua rinascita.
Andiamo dunque in tanti a Cannes a manifestare ai capi di Stato e di governo che:
– le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, in particolare quelle che garantiscono il libero accesso degli aiuti alle vittime, devono essere applicate;
– l’assedio a Sarajevo ed alle altre città accerchiate deve essere levato e le zone di sicurezza effettivamente protette;
– i caschi blu non devono essere ritirati, il loro mandato non deve essere ristretto, al contrario la presenza internazionale in Bosnia fa rinforzata;
– di fronte ad una politica di sedicente neutralità, noi stiamo dalla parte degli aggrediti e delle vittime;
– nello spirito di solidarietà che deve animare l’Europa che noi vogliamo, la repubblica di Bosnia-Herzegovina, internazionalmente riconosciuta, venga invitata ad aderire pienamente ed immediatamente all’Unione europea.
L’Europa, infatti, muore o rinasce a Sarajevo.”Tuzla, maggio 1995

Esattamente un mese prima era stata bombardata la città di Tuzla: di una generazione si è fatta strage, oltre 70 giovani ammazzati durante il passeggio, centinaia di altri giovani feriti. Quattro giorni prima avevo congedato il sindaco (musulmano e riformista, cioè socialdemocratico) Selim Beslagic, dopo averlo accompagnato per diversi giorni – insieme al deputato Sejfudin Tokic, suo compagno di partito – a Strasburgo, a Bolzano ed a Bologna. Il sindaco Beslagic e l’amministrazione “civica, non etnica” di Tuzla – come fieramente amano definirsi – sono considerati universalmente come riferimento di pace e di convivenza, di democrazia e di tolleranza. Bene: il giorno dopo il cannoneggiamento della sua città, Beslagic mi ha inviato per fax copia del suo messaggio al Consiglio di sicurezza dell’ONU, con la preghiera di diffonderlo al Parlamento europeo. “Voi state a guardare e non fate niente, mentre un nuovo fascismo ci sta bombardando: se non intervenite per fermarli, voi che potete, siete complici, è impossibile che non vi rendiate conto”.
E se a Strasburgo, a Bolzano ed a Bologna avevamo lavorato con gli ospiti per portare verso la sua realizzazione l’apertura di un'”ambasciata delle democrazie locali” a Tuzla (ne esiste già una a Osijek) e per progredire con altri progetti (acquedotto, parti di ricambio per fabbriche, impianto de-ionizzatore, scambi di giovani, ecc.), di colpo tutto questo perdeva non poco senso e speranza: a che poteva servire tutto ciò, se l’aggressione finiva per seminare l’odio etnico a Tuzla come a Mostar?
Si può fare qualcosa?
Certo, soluzioni facili non esistono. E guardarsi indietro serve a poco: non si troverà convergenza tra chi (come il sottoscritto) è convinto che l’Europa abbia fatto malissimo a favorire la disintegrazione della vecchia Jugoslavia e chi invece accoglieva con entusiasmo le proclamazioni di nuove indipendenze (anche da sinistra: il vocabolo magico “autodeterminazione nazionale” aveva un forte corso legale in molti ambienti democratici e di sinistra).
Così bisognerà trovare una linea di demarcazione che aiuti a scegliere chi e cosa sostenere, chi e cosa contrastare. Questa linea non separa di per sè i serbi dai croati o i cosiddetti musulmani da entrambi, ma potrebbe essere un’altra: è la distanza che separa le diverse politiche dell’esclusivismo etnico (epurazione, espulsioni, omogeneizzazione nazionale, ghettizzazione, discriminazione ed oppressione delle minoranze, integralismo etnico o religioso….) dalle politiche della convivenza, della democrazia, del diritto, della possibilità di essere diversi e far parte di un ordinamento comune, con pari dignità e pari diritti, e senza che trovarsi in minoranza debba essere una disgrazia cui sfuggire quanto prima attraverso la costituzione di un’entità in cui si sia maggioranza.
Nella direzione di quanto si può fare per ricostruire condizioni di convivenza possibile, vi sono alcuni passi necessari. Tutti includono, innanzitutto, che si lavori non “per”, ma con gli ex-jugoslavi, ed una proposta, una politica sarà tanto più credibile, quanto più riuscirà a convincere insieme dei democratici serbi e croati, bosniaci e macedoni, albanesi e sloveni, ungheresi ed istriani.
Bisognerà quindi considerare:* Ristabilire il valore del diritto: non deve stupire l’insistenza di tanti cittadini dell’ex-Jugoslavia sul Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità! La separazione delle responsabilità individuali dalle generalizzazioni etniche o politiche e la supremazia del diritto contro l’arbitrio (e quindi la possibile tutela dei deboli contro i forti) è di cruciale importanza. Come può altrimenti rinascere la fiducia in un ordinamento giusto? Quante volte nell’est europeo si chiede “quali sono le norme europee, quali sono gli standards europei?” per affrontare questo o quel problema! Si vuole una legge che non sia fatta ed imposta semplicemente dal più forte.
* La politica di pace più efficace è oggi l’offerta di integrazione: più che qualunque altra proposta o piano di pace, funziona il semplice invito “vieni con noi, unitevi a noi”. La smania degli europei dell’est di entrare a far parte della NATO, si spiega facilmente come ricerca di sicurezza (ed in fondo la NATO è riuscita a contenere contemporaneamente greci e turchi!). Se si vuole promuovere pace in una regione nella quale la precedente casa comune si è dissolta, l’offerta più credibile è quella di entrare sotto un tetto comune più ampio e meno condizionato dai rispettivi nemici preferiti. Ecco perchè a tutti i paesi successori dell’ex-Jugoslavia bisogna aprire le porte dell’Europa, a condizione che scelgano la convivenza, al posto dell’esclusivismo etnico, lo Stato democratico invece che etnico. (Naturalmente questa prospettiva implica che si lavori forte alla costruzione della casa comune europea, e che l’Unione europea come tale evolva rapidamente in tal senso.)
* Offrire il massimo sostegno a chi decide di dialogare, a chi sa reintegrare: tutte le cosiddette trattative di pace hanno, in realtà, rafforzato i signori della guerra, legittimando la loro leadership, consolidando il loro potere, emarginando i loro avversari democratici. Niente o quasi nulla è stato fatto, invece, per sostenere le forze del dialogo, della reintegrazione, della ricerca di soluzioni comuni. Bisognerebbe definire dei veri e propri “premi o incentivi di reintegrazione” (bonus) e sanzioni all’esclusione etnica (malus); sostenere, per esempio, quei comuni che permettono il rientro dei profughi o quei gruppi che organizzano iniziative pluri-etniche o pluri-confessionali o quei mezzi d’informazione che ospitano anche voci “degli altri”, ecc. Anche il sostegno ai disertori del conflitto, a coloro che sottraggono la loro forza personale alla guerra (e per questo meriterebbero l’asilo politico), dovrebbe far parte di questa strategia. Bisogna che il dialogo paghi e porti riconoscimenti e sostegni, e che l’esclusione etnica invece si attiri sanzioni e conseguenze negative.
* Massimo sostegno quindi alle diverse reti organizzate che ricostruiscono legami: dai networks di studenti e professori ai gemellaggi tra città, dai comitati per i diritti umani alle organizzazioni degli operatori dell’informazione. Molto potrebbe essere fatto anche tra l’emigrazione ex-jugoslava.
* Il ruolo della prevenzione del conflitto: ci sono oggi situazioni di pre-guerra, dove l’esplosione violenta del conflitto può essere, forse, ancora evitata (Kosovo, Macedonia, Vojvodina…), ma dove occorre concentrare grande attenzione, forte presenza internazionale, intensa opera politica e civile. In questi casi si tratta di influenzare l’evoluzione delle cose in un senso o nell’altro, e nulla dovrebbe essere troppo complicato o troppo “costoso” per non essere tentato, visto che in ogni caso un conflitto armato comporterebbe costi umani, politici, economici e materiali assai più alti. Sostenere in queste regioni le forze della possibile convivenza e scoraggiare l’esclusivismo etnico, dovrebbe avere oggi un’alta priorità nell’opera di pace.
* Perchè non organizzare almeno una parte del volontariato in corpo civile europeo di pace? Esistono oggi decine di migliaia di volontari della solidarietà con l’ex-Jugoslavia, che in questi anni hanno accumulato conoscenze ed esperienza. Molti di loro sono frustrati dall’essere un po’ come la Croce rossa che può solo assistere le vittime, senza fare nulla per fermare la guerra. Oggi c’è una forte domanda politica nel volontariato, molti non si accontentano della funzione di tampone che oggettivamente ricoprono. Perchè non trasformare questa straordinaria esperienza in un “corpo europeo civile di pace”, adeguatamente riconosciuto ed organizzato ed assunto da parte dell’Unione europea per svolgere – sotto una precisa responsablità politica – compiti civili di prevenzione, mitigazione e mediazione dei conflitti, attraverso opera di monitoraggio, dialogo, dispiegamento sul territorio, promozione di riconciliazione o almeno di ripresa di contatti o negoziati, ecc.? Il Parlamento europeo si è recentemente (18-5-1995) pronunciato in favore di una simile “corpo civile europeo di pace”, e nulla potrebbe meglio assomigliargli che la ricca e diversificatissima esperienza del volontariato europeo per l’ex-Jugoslavia, che in quasi tutti i paesi ha sviluppato straordinarie capacità, iniziative, competenza e generosità.
Ma….
Resta purtuttavia un “ma”, ed è quel “ma” da cui prende avvio l’appello di Cannes. Se, infatti, non arriva qualche segnale chiaro che l’aggressione non paga e che a nessuno può essere lecito partire per le proprie conquiste territoriali e conseguenti omogeneizzazioni etniche, allora ogni altro sforzo civile si sgretola o si logora. A Sarajevo la parola Europa è ormai associata alla parola cetnik, e nulla nella politica europea lascia pensare che davvero si preferiscano stati democratici piuttosto che etnici.
Chi non vuole prendere atto di questa realtà, continua a mettere sullo stesso piano Karadzic e Izetbegovic (come fa omai il manifesto), e sventola il pur assai promettente inizio di dialogo tra moderati bosniaci e serbi moderati di Pale come dimostrazione che esiste un’alternativa a ciò che viene chiamata la militarizzazione del conflitto.
Sejfudin Tokic è uno dei promotori del dialogo di cui sopra. Tokic è il compagno politico di quel Selim Belsagic che ci ricorda che chi non fa niente contro “i fascisti che ci bombardano, è loro complice”. Con che faccia continueremo a blaterare di ONU e OSCE come futura architettura di pace e di sicurezza, se poi i soldati dell’ONU diventano ostaggi ed il loro mandato consente loro solo la forza necessaria per proteggere se stessi ed i loro compagni?
Alexander Langer
(Testo pubblicato su La terra vista dalla luna – 25.6.1995)

Irfanka Pasagic, Srebrenica/Tuzla
Premio Alexander Langer 2005

Irfanka Pasagic è nata a Srebrenica nel 1953. Dopo aver studiato a Sarajevo e Zagabria, ottenendo la specializzazione in psichiatria, è tornata a lavorare nella sua città natale. Nell’aprile del 1993, nel corso di una delle prime ondate di pulizie etniche, culminate nella strage genocidaria di Srebrenica, è stata deportata, raggiungendo dopo varie traversie, insieme ad altre migliaia di profughi, la città bosniaca di Tuzla.

Lì, nell’ambito della rete internazionale, “Ponti di donne tra i confini” creata nel 1993 dalle donne di “Spazio Pubblico” di Bologna assieme ad altre donne della ex Jugoslavia, ha fondato il centro “Tuzlanska Amica”. Grazie a un progetto di adozione a distanza fatto proprio da associazioni che operano soprattutto in Emilia Romagna e Liguria, in questi dieci anni Tuzlanska Amica ha dato una famiglia a oltre 850 bambini, ed è diventata ben presto uno dei pochi luoghi dove donne, bambini, uomini traumatizzati, possono ricevere aiuto psicologico, ma anche assistenza medica, sociale, legale. L’adozione a distanza non si limita alla raccolta e distribuzione di preziosi aiuti finanziari. Chi adotta riceve infatti un rapporto costante sullo stato di salute dei bambini e del loro andamento scolastico e familiare, ed è incoraggiato a visitarli a Tuzla o od ospitarli per periodi di vacanza, cura e ristoro.
Grazie a un’organizzazione olandese, Mala Sirena, Irfanka Pasagic ha potuto mettere in atto quella che era stata un’altra intuizione importante: la creazione di un Team mobile, per andare a cercare e assistere nelle campagne, tra gli oltre 250.000 profughi che vivono in condizioni molto precarie nel distretto di Tuzla e Srebrenica, i casi più difficili e nascosti, attivandosi dapprima con un aiuto di tipo umanitario, per poi verificare l’opportunità di un intervento anche psicologico per i componenti più vulnerabili del nucleo familiare.

Irfanka Pasagic partecipa inoltre alla rete “Promoting a Dialogue: Democracy Cannot Be Built with the Hands of Broken Souls”, guidato da Yael Danieli, psicologa e “traumatologa” di New York, consulente per le Nazioni Unite, per il quale ha effettuato viaggi di studio e lavoro in altri paesi, tra i quali il Ruanda. E’ un progetto di dialogo interetnico teso a rompere quella “cospirazione del silenzio” che tanto contribuisce a perpetuare traumi e conflitti tra le generazioni.
E’ questo anche il senso della sua collaborazione con l’associazione “Women of Srebrenica” e con molte persone, come la belgradese Natasa Kandic e la kosovara Vjosa Dobruna, già premi Alexander Langer nel 2000, impegnate nella stessa direzione.
Fin dall’inizio della sua esperienza di profuga, Irfanka Pasagic ha dimostrato grande sensibilità e buon senso, nell’individuare forme adeguate di aiuto ai profughi. Ha dedicato costante attenzione al lavoro delle Ong (ad esempio battendosi affinché nei progetti per le donne fossero inclusi anche i bambini, o denunciando la perdurante assenza di luoghi d’ascolto anche per gli uomini), scoraggiando qualsiasi discorso fondato su stereotipi e non lesinando critiche anche alla propria parte. E’ infatti difficile sentirla parlare di “Serbi”, “Croati”, “Bosniaci”. Secondo Irfanka ciascuno deve rispondere delle proprie responsabilità individuali.
Nella sua lunga esperienza con le donne e i bambini traumatizzati ha ascoltato centinaia di storie terribili, eppure non c’è mai rancore nelle sue parole, nemmeno quando parla di chi occupò la sua casa: “Sicuramente profughi anch’essi”, spiega.

Ogni volta che qualcuno le chiede della situazione in Bosnia, Irfanka risponde: “vieni a vedere”. Molto curiosa poi di conoscere le impressioni dei suoi ospiti o dei giovani volontari che offrono la loro collaborazione, instancabilmente disponibile a rispondere alle loro domande ed accogliere il disagio delle persone più sensibili.
Con l’assegnazione di questo Premio la Fondazione vuole contribuire ad una necessaria riflessione sulla strage genocidaria di Srebrenica e nello stesso tempo a ripercorrere i passi che avevano portato Alexander Langer ad adottare dieci anni fa le ragioni della città interetnica di Tuzla.

Il premio 2005 verrà consegnato ad Irfanka Pasagic il prossimo 1 luglio a Bolzano, nell’ambito della manifestazione internazionale Euromedterranea. (notizie in www.alexanderlanger.org)

Helmuth Moroder
Presidente della Fondazione

Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta 5
La fiducia negli altri

di Graziano Zoni*

Tra i tanti motivi che ho di ringraziare il Signore per i privilegi che mi ha riservato, assolutamente senza alcun merito da parte mia!, quello di avermi fatto incontrare, ormai quasi 35 anni fa, l’Abbé Pierre e con lui il Movimento Emmaus, è sicuramente quello a cui tengo maggiormente.
Ebbene, tutta la storia di Emmaus è fondata sulla fiducia.
Vale la pena riandare alle origini. Novembre 1949. L’Abbé Pierre, all’epoca deputato alla Assemblea nazionale, viene chiamato al capezzale di Georges. Un assassino che aveva ucciso vent’anni prima suo padre in un momento di disperazione. Condannato ai lavori forzati a vita, viene liberato per aver salvato qualcuno durante un incendio del carcere, alla Guiana francese. Rientra a Parigi, ritrova sua moglie che convive con un altro, con bambini che portano il suo nome ma che non sono suoi, l’unica figlia ventenne che mai aveva conosciuto, si rifiuta di accettarlo come padre, tutti lo cacciano. Georges tenta il suicidio, senza riuscirvi. E quando l’Abbé Pierre arriva di fronte a quest’uomo distrutto, disperato, umiliato, gli dice: “Georges, tu sei disperato, ed io non ho nulla da darti. La mia famiglia è ricca, ma ho lasciato tutto quando mi son fatto Cappuccino. Ma tu, prima di ritentare di suicidarti (visto che vuoi morire), non potresti venire a darmi una mano per costruire case illegali per i senza tetto di Parigi?”
A questa proposta, di per sé oltre ogni livello di follia, Georges fece cenno di acconsentire. E quindici anni dopo, prima di morire, confidò all’Abbé Pierre che, quel giorno, qualunque cosa gli avesse potuto dare, lui avrebbe ricominciato a suicidarsi, perché “non mi mancava di che vivere; mi mancavano valide ragioni per vivere”. La fiducia riposta in lui dall’Abbé Pierre, contro ogni normale previsione, aveva provocato il “miracolo”: Georges, nonostante tutto, aveva ripreso ad aver fiducia in se stesso e negli altri.
Da questo incontro, nacque la prima Comunità Emmaus. La prima delle quasi 400 sparse, oggi, in 42 paesi del mondo.
E tutto cominciò da un atto di “fiducia” al di là di ogni logica umana, o forse, proprio all’interno della vera ed autentica logica umana: quella della fiducia negli altri. Anche se questi altri, sono degli assassini, suicidi maldestri, o alcolisti o dimessi dal carcere o persone in qualsiasi ambito, svantaggiate, come vengono chiamate oggi, ufficialmente, dalla fredda alchimia del gergo ufficiale dell’esclusione sociale.
Emmaus è quindi, anche, il luogo della fiducia. Fiducia data e ricevuta, indipendentemente dal colore della pelle, dalla responsabilità ricoperta nel Movimento, dal ceto sociale, dalla religione praticata, dal conto in banca o dal peso politico esercitato.
Non sempre è facile. Le riserve o le ragioni per esserne dispensati sono facili e numerose a trovarsi. Le eccezioni abbastanza frequenti, perché siamo più portati per un eccesso ipotetico di buon senso, a preferire la fiducia in noi stessi, piuttosto che concederla agli altri.
Certo, viene forse più spontaneo non fidarsi degli altri, piuttosto che correre il rischio di fidarsi. Ma, almeno per quanto mi riguarda, ho sperimentato che alla fine conviene correre il rischio della fiducia. Perché la fiducia genera fiducia, mentre la sfiducia non porta da nessuna parte, non costruisce nulla di buono.
Personalmente mi viene più spontaneo fidarmi degli altri, di tutti, a prima vista senza prova e senza controllo. Forse perché normalmente gli altri si sono comportati così con me e mai da parte mia ci fu alcun tentativo né pensiero anche vago di profittarne.
Solo una volta, ed accadde in Africa, purtroppo, nonostante abbia una grande stima e fiducia negli Africani. Ma in quella occasione, il mio interlocutore, un amico peraltro, capì che c’era qualcosa in me che lo feriva… E con evidente disagio e sofferenza, mi disse: “Amico mio! Quand’è che voi occidentali sarete capaci di correre il rischio della fiducia anche con noi Africani?”
Non dimenticai più quel gentile rimprovero e da allora mi fu sempre di grande lezione nel mio modo di comportarmi con gli altri, tutti!
Recentemente, un cappellano delle carceri di una città del nord, ricordando il suo primo incontro con l’Abbé Pierre, mi raccontò che quando seppe il servizio che svolgeva nelle carceri, gli disse: “Amico! Più l’hanno fatta grossa, più devi amarli, più devi dar loro fiducia…”
Penso proprio che non ci siano alternative se vogliamo che anche chi sbaglia, possa riacquistare fiducia in se stesso. Determinante, sarà il grado di fiducia con cui riusciremo a dargli coraggio. E solo così potremo sperare, senza doverne arrossire, di ricevere fiducia dagli altri, perché non è bello vivere, penso, sapendo che gli altri non si fidano di noi. E’ più facile essere imbrogliati o presi in giro da coloro cui non diamo fiducia.
Non abbiamo paura, allora, di correre il rischio della fiducia!

* Presidente Emmaus Italia

L’arte della nonviolenza
Un’esperienza formativa a Verona

L’Arte, che è comunicazione, espressione, interazione, dialogo, è l’essenza stessa della nonviolenza.
La danza, il teatro, la musica, la pittura, la scrittura e il cinema usano mezzi, come il corpo, l’immagine, il suono, la parola che hanno un grande potenziale di sviluppo di un potere nonviolento cui ciascuno di noi può dar vita dentro e intorno a sé. Un potere creativo e trasformativo della violenza stessa ed in grado di rompere i “linguaggi” che la sostengono.
Da queste considerazioni è nata l’idea di organizzare alla Casa per la Nonviolenza di Verona diversi incontri su “Arte e nonviolenza”, ciascuno dei quali caratterizzato da un laboratorio pratico, in modo da offrire ai partecipanti la possibilità di mettersi in gioco, di “fare esperienza concreta” di queste potenzialità, in un libero confronto con gli altri e in uno spirito di reciproco apprendimento.

In particolare il percorso è avvenuto in sei tappe.

Prima tappa: DANZA
La conoscenza di varie danze popolari è veicolo della conoscenza della cultura dei diversi popoli. Il ballo diventa quindi strumento nel processo di pace.
All’inizio della loro avventura i partecipanti (compresa un’ottantenne molto arzilla) si sono trovati a sperimentare danze popolari provenienti da tutto il mondo. Le danze sono state introdotte con una spiegazione del loro significato da parte del relatore, Stefano Masera, dell’associazione “Danzare la pace” di Rovereto. Esse si sono svolte in cerchio o a coppie e sono risultate avere una grande energia unificatrice per tutto il gruppo. Presto (o tardi?) è stata trovata una buona sintonia di movimenti, e sicuramente anche le gaffe hanno contribuito a creare un clima di allegria e di divertimento!

Seconda tappa: TEATRO
Il  laboratorio è stato incentrato sulla Commedia dell’Arte, tecnica teatrale precisa che ha come presupposto il lavoro sulla maschera, la quale obbliga ad un ascolto e ad una disponibilità che ha molto a che fare con la gestione nonviolenta dei conflitti. Avere un’idea ed essere pronti a difenderla, ma non chiudersi alle idee e alle proposte degli altri, è la base dell’improvvisazione su canovaccio, tipica della commedia. E’ stata Francesca Pompeo del Teatro Del Montevaso di Livorno a guidare il gruppo. Dopo una prima fase, che ha permesso di avvicinarsi al clima teatrale per sentirsi un po’ più liberi e un po’ meno goffi, sono entrate in scena loro, le vere protagoniste del laboratorio: le maschere in cuoio. Ascoltare la maschera e prestare attenzione alle voci interiori di ciascuno, che vanno conosciute e fatte vivere affinché non scoppino senza controllo. Questo è quello che ha portato i partecipanti a dar vita a personaggi che si sono mostrati gli uni agli altri e si sono messi in relazione all’interno di piccole scene improvvisate.

Terza tappa: MUSICA
La musica da forma alle idee, attraversa i fenomeni sociali, coinvolgendo anche profondamente la vita di tutti. Molti sono anche i collegamenti tra musica e lotta e movimenti popolari. Ogni oggetto e ogni fatto musicale ha generalmente una forte carica di ambiguità: può essere interpretato e usato con significati anche opposti. Le caratteristiche ambivalenti della musica hanno conseguenze di grande importanza dal punto di vista nonviolento: provocano dibattito e aprono la possibilità di dialogo basandosi su un’esperienza comune.
E’ proprio questo che ha cercato di fare Paolo Predieri, collaboratore della nostra rivista, assieme ai partecipanti: ha offerto un momento di discussione sul tema musicale come supporto al messaggio politico-ideologico. Partendo dalle esperienze musicali di ciascuno, attraverso l’ascolto di brani, si è aperta un’analisi sui diversi generi musicali e l’impatto che essi hanno sull’individuo. Confrontando la musica del passato e del presente sono emerse diversità socio-culturali e comunicative. Sperando in un mondo migliore….Imagine!

Quarta tappa: PITTURA
Il fare creativo, legato alla realizzazione di immagini con segni, forme, colori, predispone il nostro animo alla leggerezza, al gioco, ad un certo silenzio interiore. Si ha un po’ l’impressione che il tempo rallenti e quando si finisce, sembra di essere tornati da un posto lontano, da un altrove, che in realtà è la parte di noi più intima. Ci si sente un po’ più felici. E di questo contatto intimo con noi stessi, rimane una traccia visibile agli occhi. Comunicazione quindi non con il corpo o con le parole, ma con segni, colori, forme. Il tema di questo laboratorio sono state le foglie, attraverso il ricordo che noi abbiamo di loro, delle loro forme, dei loro profili. Con la guida della professoressa e pittrice Loretta Viscuso è stato realizzato un grande erbario, un po’ vero, un po’ fantastico, su un pannello lungo più di 4 metri, che ora arreda la Casa per la nonviolenza. Ognuno ha scelto di ritagliare forme di foglie differenti, per poi incollarle sul cartellone, cercando il giusto equilibrio nello spazio.

Quinta tappa: SCRITTURA
La scrittura racconta i fatti, restituisce le voci o crea nuove trame fino a dare vita – e libertà, e sviluppo – ad una storia che prima non c’era e che ora può esserci soprattutto se qualcuno, lì o dopo, la scriverà. La conduttrice del laboratorio e nostra redattrice Elena Buccoliero, aveva inviato i partecipanti a portare con sé un oggetto magico o simbolico, una fotografia, un dono… attraverso il quale presentarsi agli altri e una parola da condividere, in cui si doveva riflettere la propria idea o esperienza di nonviolenza. Nella seconda parte dell’incontro è stata sviluppata la tecnica della scrittura collettiva, che consisteva nel creare una storia con il prezioso aiuto della fantasia di ciascuno e con la partecipazione degli oggetti inizialmente presentati. Come risultato concreto, si è ottenuto da un partecipante (Guido) un racconto coinvolgente che vedeva come protagonisti le persone presenti al laboratorio.

Ultima tappa: CINEMA
Abbiamo visto insieme il film “E Johnny prese il fucile”, diretto e sceneggiato dallo scrittore Dalton Trumbo nel 1971, vera e propria denuncia cinematografica contro la guerra e il sistema militarista in cui viviamo. La storia racconta l’esperienza di un diciannovenne, John Bonham, che durante la prima guerra mondiale si arruola come volontario nell’esercito statunitense. Un esplosione lo riduce cieco, sordomuto e privo degli arti, ma perfettamente cosciente. La mente è l’unica cosa che gli è rimasta: Johnny rievoca il suo passato, le prime esperienze, l’amore, l’amicizia e la superficialità con cui una guerra senza chiari motivi può travolgere gli individui, trascinandoli in un irresponsabile e complice stato di incoscienza. Il ragazzo mostra di potersi esprimere con l’alfabeto Morse sillabato con movimenti della testa, chiede o la morte o l’esposizione al pubblico in un circo, ma i medici rifiutano la richiesta, tenendolo in vita nascosto al mondo intero.
Al termine del film il professor Mario Guidorizzi, docente all’Università di Verona, ha introdotto e guidato un momento di riflessione in cui i partecipanti hanno raccontato e condiviso le proprie impressioni.

Il corso si è svolto nei mesi di Marzo e Aprile. Ogni laboratorio (dalle 19 alle 22) comprendeva la cena comune, preparata da noi e apprezzata da tutti, come opportunità di conoscenza, convivialità e socializzazione.

Elena, Daria, Matteo, Gabriela, Fabiana
in Servizio civile volontario al Movimento Nonviolento

Danzare…
Lasciare il proprio corpo libero, fluido, a seguire il ritmo della musica
Sprigionare energia attraverso i movimenti
Permettere alle nostre emozioni di uscire all’esterno per liberarsi da ansie e preoccupazioni
Entrare in contatto con l’altro e condividere spazi assieme
Recitare…
Abbandonare sé stessi per ritrovarsi in un personaggio
Dimenticare chi siamo
Creare nuovi legami
Essere capaci di adattarsi ad una nuova scena
Suonare…
Liberare la mente, lasciarsi andare ad altri pensieri…
Far uscire quello che preme dentro: rabbia o gioia
Vivere il testo della canzone…riportarlo alla propria vita
Dipingere…
Permettere alle immagini che affiorano alla memoria di trovar spazio su un foglio
Accostare colori e forme
Entrare in contatto con il nostro io più profondo e farlo parlare attraverso il pennello
Scrivere…
Dare alla fantasia uno spazio libero in cui poter emergere totalmente
Condividere con il lettore sensazioni proprie
Fissare sulla carta momenti fuggevoli
Guardare un film…
Lasciarsi coinvolgere dalle emozioni degli attori
Proiettarsi in contesti diversi dal quotidiano
Rendersi conto che la pellicola ci sta regalando spunti per riflettere e mettersi in discussione

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Comprensione musicale come veicolo di pace

Il Centro Studi Sereno Regis di Torino, sede locale Mir-Movimento Nonviolento, ha avviato un interessante progetto su “Musica e Pace”. Ce ne parla il principale artefice, l’obiettore musicista Alessandro Di Paola, studente di composizione al Conservatorio.

L’opera musicale, per sua natura, è potenzialmente comprensibile a persone di nazionalità diverse in quanto non vi è bisogno di traduzione. In sostanza, persone di differenti paesi “interpretano” lo stesso oggetto significante con mezzi che trascendono le differenze linguistiche. Il musicista può quindi rivolgersi, contemporaneamente con lo stesso oggetto, ad un pubblico più ampio.
Proprio questa peculiarità dell’oggetto musicale è in grado di creare una forte empatia nel momento in cui un gruppo di esseri umani senza distinzione di lingua o di nazionalità, può riunirsi in un unico luogo animato unicamente dal desiderio di entrare in relazione con la stessa opera d’arte che parla un’unica lingua per tutti: il linguaggio dei suoni.
Questa forza implicita nell’opera musicale è un punto di partenza nel contributo che la musica può dare alla pace.
E’evidente però che a sua volta, questo linguaggio dei suoni sia molto vario nei suoi mezzi di espressione: infatti esistono molti generi musicali, addirittura ogni cultura ha un modo diverso di fare musica.
E’ una domanda che si pone e ci si sente porre di frequente: “che musica ascolti”? questo proprio a testimonianza del fatto che ogni individuo si sente attratto da tipi di musica differenti e che, in qualche modo, i suoi gusti musicali forse ci dicono qualcosa sulla sua personalità. Abbiamo quindi enormi varietà di culture musicali, ma anche all’interno della stessa cultura musicale (soprattutto in quella occidentale), una grande quantità di generi e di pubblici diversi. La questione che ci si pone è: come può la musica contribuire alla pace fra i popoli?
Il passo decisivo che bisogna compiere è capire che nonostante le differenze, la musica in quanto arte è una: quindi ogni cultura e ogni genere musicale ha la propria validità.
E’un compito estremamente difficile in quanto, comunemente, gli individui provano indifferenza, diffidenza, se non addirittura repulsione nei confronti di generi che sentono diversi da quelli che frequentano abitualmente e, soprattutto, di musiche che non risultano immediatamente comprensibili.
Più in generale, lo stesso dissidio è presente all’interno delle relazioni sociali fra popolazioni diverse nel momento in cui l’individuo prova ostilità nei confronti di altri individui appartenenti ad altre culture, delle quali non riesce ad accettarne le diversità.
Ricomporre il dissidio nel campo musicale, quindi educare alla comprensione della musica nella globalità delle sue possibilità e dei suoi mezzi di espressione, è un passo che può dare un contributo fondamentale nel ricomporre i dissidi fra popolazioni, quindi nell’accettazione dell’essere umano in quanto tale, nella globalità delle sue culture.
Da questo discorso sorgono diverse domande che possono fungere da ipotesi di un progetto di studio:
Come educare gli individui alla musica, in modo tale che possano essere in grado di comprenderla e di apprezzarla nella totalità dei suoi modi e mezzi di espressione?
Per quale motivo la musica è in grado di unire? Come può essere usata per educare alla nonviolenza?
Quali tipi di musica si prestano meglio a comunicare messaggi di pace?
Per quale motivo il messaggio contenuto nelle parole unite alla musica in una canzone, è più immediato ed incisivo di un semplice messaggio discorsivo?
Si può in un’opera musicale senza testo, che si esprime unicamente con i suoni, portare lo stesso un messaggio di pace?
Può la musica trasmettere messaggi di violenza? In tal caso è colpa della musica o di chi la utilizza in modo distorto per trasmettere un messaggio negativo?
In relazione a questo progetto, analizzeremo alcune opere musicali che affrontano temi di pace, come ad esempio il finale della ”Nona” di Beethoven (“Inno alla gioia”), “Un sopravvissuto di Varsavia” di Schonberg, il “War Requiem” di Britten, “Satyagraha” di Glass, ma anche generi come il jazz, le canzoni di vari cantautori i cui testi risultino significativi nella divulgazione dei concetti di pace e nonviolenza, nonché musiche appartenenti a civiltà diverse da quella occidentale.

Alessandro Di Paola

Per notizie e aggiornamenti sul progetto “Musica e Pace”: www.cssr-pas.org

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina

Fregarsene dei diritti umani e vendere armi alla Cina…

Come tutte le superpotenze che si rispettino, la Cina, membro permanente nel consiglio di sicurezza dell’Onu, è in conflitto più o meno latente con quasi tutti i suoi numerosi vicini: con il Giappone è in corso una lite a causa del non riconosciuto errore storico nell’invasione subita gli anni ’30 e ’40 ad opera dell’esercito dell’imperatore; con l’India da 43 anni va avanti una guerra lungo la linea di confine che per oltre tremila chilometri segna la frontiera himalayana, con scontri di artiglieria e morti, e che solo recenti accordi in aprile hanno stemperato; con Taiwan, l’isola che non ha voluto sottostare alla legge imposta da Pechino, è stata emanata una legge che ne vieta la secessione, pena il ristabilimento della sovranità con la forza; il Tibet infine risulta invaso dagli anni ‘50, con deportazioni di attivisti politici, importazione massiccia di coloni in perfetto stile israeliano e condanne sommarie ai leader religiosi.
Ma è al suo interno che il governo dirige le repressioni più cruente: Amnesty ricorda come “la situazione dei diritti umani in Cina presenta ancora un quadro terrificante: centinaia di migliaia di persone continuano ad essere arrestate in tutto il Paese in violazione dei fondamentali diritti umani; condanne a morte ed esecuzioni hanno luogo regolarmente al termine di processi irregolari; maltrattamenti e torture sono tuttora diffusi e sistematici; la libertà di espressione e di informazione resta fortemente limitata”.
Amnesty ha potuto documentare nel corso del 2004 ben 3.400 condanne a morte (per esempio, negli USA sono state “solo” 59) ma, secondo le affermazioni di un parlamentare cinese, ogni anno nel paese vengono eseguite 10.000 condanne: dopo aver introdotto il metodo di esecuzione dell’iniezione di veleno, le autorità cinesi stanno convertendo veicoli commerciali in camere mobili di esecuzione allo scopo di eseguire le condanne immediatamente dopo il verdetto.
L’embargo dell’Unione Europea alla vendita di armi alla Cina scattò all’indomani della repressione di Tien An Men del 4 giugno 1989. L’embargo non prevede però sanzioni e controlli particolari, cosicchè diversi paesi hanno in questi anni continuato ad avere rapporti d’affari con il governo cinese vista l’enorme potenzialità di sviluppo che esso rappresenta per le aziende occidentali. Per esempio, nel 2002 la Cina ha acquistato armi e tecnologie dall’Europa per una cifra pari a 280 milioni di dollari.
Ora Chirac e Schroder sono i paladini della richiesta di revoca, e recentemente il nostro presidente della Repubblica, durante un viaggio in Cina, ha speso assurde parole in favore di una abolizione della norma. Il nostro governo si è subito accodato, proponendo una mozione poi bloccata dalla Lega Nord. Anche il Parlamento Europeo, a larga maggioranza, nel novembre scorso ha fatto altrettanto, grazie alla ferma opposizione di Gran Bretagna, Svezia e Olanda. La Russia si conferma invece il partner più generoso: fornisce aerei, sottomarini e carri armati, ricevendo in cambio preziosa valuta che le consente di evitare il fallimento.
In Cina le spese per la difesa nel 2005 dovrebbero sfiorare i 230 miliardi di yuan (poco più di 20 miliardi di euro), mantenendo il tasso di crescita a cifra doppia. Nelle previsioni di bilancio, il Centro di informazioni statale annuncia che non ci saranno tagli nella spesa per gli armamenti dell’Esercito di liberazione popolare (che conta 2 milioni di soldati), per gli organismi di pubblica sicurezza e nel settore dell’amministrazione.
Ma le banche italiane si sono già velocemente adeguate. La Cina ha ricevuto nel 2002, tramite istituti di credito italiani, esportazioni di armi per 23 milioni di euro. Nel 2003 l’esportazione ha riguardato tre progetti per oltre 127 milioni di euro. Nel 2004 altre sei, per un ammontare di 2 milioni. Se prevalesse il buon senso, invece di importare manufatti prodotti da gente in schiavitù oppure esportare armi per favorirne la bellicosità, occorrerebbe esportare in Cina diritti umani. Purtroppo, trattasi di merce non disponibile sui banchi del supermercato. Proprio come il buon senso. E il nostro governo già guarda verso nuovi orizzonti di profitto: nel febbraio scorso, è stato ratificato un corposo memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione nel settore militare (http://gruppi.camera.it/ rifondazione/interventi/mozioni%5Cint253.htm).

PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo

Un’azione mondiale per la giustizia climatica

Proteste durante la Conferenza sul Clima di Marrakech (COP7):
una coalizione internazionale dà vita al Giorno d’Azione Mondiale (9 novembre 2004)

“Clima per la vita, non per il profitto” e “Ratificate il protocollo di Kyoto ora!” erano due dei grandi striscioni prodotti dagli attivisti australiani di “Friends of the Earth” (Amici della Terra), riuniti nel gruppo d’affinità “Climate Justice” (Giustizia climatica). Il gruppo era particolarmente preoccupato a causa della posizione ostruzionista presentata dal proprio governo durante la 7^ Conferenza sul Clima tenutasi sotto l’egida dell’ONU a Marrakech, in Marocco. Alle 7.30 del mattino, a Melbourne, gli striscioni erano già ben visibili dalla Torre del centro artistico della città e sulla facciata del palazzo federale; altri, disposti in modo da formare un’isola pedonale nel mezzo dell’intenso traffico di Swanston sono stati il punto attraverso il quale i manifestanti hanno distribuito migliaia di volantini agli automobilisti. Lungi dall’essere disturbati, molti automobilisti hanno manifestato concretamente il loro sostegno. A mezzogiorno il presidio si è spostato davanti all’ufficio postale, e all’una alcuni attivisti sono entrati nella sede della multinazionale HQ St. Collins, per distribuire volantini e parlare con gli impiegati. Il materiale di “Climate Justice”, di comune accordo con i lavoratori, è stato affisso alle bacheche. Il responso degli impiegati all’inattesa visita è stato cordiale, e molti hanno voluto discutere delle politiche della multinazionale, che costruisce e finanzia impianti a gas dall’alto impatto ambientale, e spesso inefficienti oltre che dannosi. Mentre gli attivisti lasciavano l’edificio, c’è infatti stato un blackout, che ha sottolineato ironicamente come i piani energetici della HQ, che ha contratti con il governo australiano, siano assai deboli.
Nel frattempo, in Corea, gli attivisti locali di Friends of the Earth criticavano similmente la posizione del proprio governo in materia ambientale. La loro azione si è dispiegata durante più giorni, in cui il gruppo si è impegnato in un’intensa campagna di informazione (“Information tour”) che ha toccato, fra l’altro, la maggior parte delle università del paese. Il 7 novembre vi sono state cinque testimonianze simultanee davanti alle sedi delle istituzioni responsabili per la posizione del governo coreano a Marrakech: il ministero del commercio (che comprende industria ed energia), la Shell Corea, l’ambasciata statunitense, la KCC, il palazzo del congresso. In fila per uno, gli attivisti hanno silenziosamente continuato a muoversi mostrando i loro cartelli di protesta. Il 9 novembre, in accordo con le linee guida del Giorno d’Azione mondiale, si è tenuto invece un corteo di massa a Seoul, che ha effettuato una notevole distribuzione di materiale informativo, ed è terminato con canti, performance teatrali e danze. Gli “Amici della Terra” hanno organizzato eventi anche in altri paesi, europei e non, e tutti avevano la medesima “chiave” concordata con gli alleati: l’informazione. In Australia e Corea, riferendomi ai due esempi più riusciti del Giorno d’Azione Mondiale, i non attivisti potevano ovviamente conoscere, tramite i media tradizionali, le posizioni espresse dai loro governi (poco attente alla tutela ambientale e accondiscendenti verso gli interessi delle multinazionali del gas, del carbone e del petrolio): il 9 novembre 2004 hanno avuto modo di conoscere le conseguenze immediate e future di tali posizioni. Sebbene l’informazione non sia di per sé sufficiente a muovere le persone all’azione (è necessario facilitare il processo) è sempre il primo irrinunciabile passo di una campagna efficace. Ciò è ancora più vero nella nostra epoca, che è segnata da una grande circolazione di informazioni su cui spesso non è possibile avere alcun riscontro o verifica, e che vengono per così dire “macinate” durante il loro percorso (troppi stimoli, spesso contemporanei, tutti velocissimi: situazione che vanifica la tenuta della nostra attenzione e il tentativo di approfondimento e riflessione) o sensibilmente modificate a seconda del media di provenienza o diffusione. Inoltre, i mezzi tramite i quali le riceviamo non ci permettono di interagire, di esprimere i nostri pareri o di chiarire i nostri dubbi: non hanno un volto umano al quale possiamo rivolgerci. Gli “Amici della Terra” hanno messo a disposizione i propri volti, la disponibilità alla relazione ed al confronto, e in questo modo, assieme ai dati, le informazioni hanno veicolato un giudizio positivo sugli attivisti e le attiviste.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Smettere di tradire se stesso per opporsi al “destino” segnato

Saimir
di Francesco Munzi, Italia, 2004
61. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia
Menzione Speciale Opera Prima

Il film dell’esordiente Francesco Munzi, vincitore a Venezia del premio come miglior opera prima è, a mio giudizio, una delle pellicole italiane più convincenti della stagione, nonostante il plot sia molto simile a quello già sviluppato dai fratelli Dardenne nel film La Promesse: Saimir1, è un giovane sedicenne albanese che vive in Italia sul litorale laziale. Il padre Edmond è dedito al traffico di immigrati clandestini e Saimir gli dà una mano. Giorno dopo giorno si manifesta in lui la difficoltà di accettare un simile lavoro e la volontà di integrarsi con i coetanei italiani che svolgono un’esistenza “normale”. Gli unici con i quali riesce a costruire rapporti sono i rom2, che lo avviano, però, alla piccola criminalità. La vicenda di Saimir prosegue in questi termini fino a quando scopre che Edmond è coinvolto nell’avviamento alla prostituzione di una minorenne e, nel tentativo di salvarla, arriverà a “rinnegare” il padre e ad opporsi al “destino” di illegalità verso il quale lo stava indirizzando la figura paterna.
La pellicola di Munzi, ha il coraggio di porsi interrogativi tanto ineludibili per l’esistenza di una persona quanto, troppo spesso trascurati; e cerca, nel contempo, di darne una difficile risposta: “Perché un individuo diventa un criminale? Come si forma il suo sistema di valori? E se quello stesso individuo fosse nato da altri genitori o cresciuto in un ambiente più agiato, sarebbe la stessa persona?”3. Saimir non conduce la stessa esistenza dei suoi coetanei adolescenti ma prova la stessa insofferenza nei confronti del mondo, la stessa ansia di entrare in relazione con gli altri, le stesse esplosive pulsioni affettive, la stessa volontà di ribellione nei confronti dei padri; Edmon è un padre che Saimir non si è scelto ma che gli è stato donato dal “destino”: quella sorta di rassegnazione ed indolenza che il padre definisce “destino”. Come spesso avviene in questa età ( e in molte altre pellicole simili a questa), è l’elemento affettivo (legato all’universo di sesso opposto – femminile, in questo caso), inteso come scoperta dell’”altro”, completamento del “sé” e presa di coscienza del proprio diventare adulti, ad innescare la miccia di tale ribellione: è l’innamoramento per una coetanea italiana a far vacillare i già fragili equilibri; ed è la scoperta della mercificazione sessuale di un’altra coetanea (stavolta albanese) a scatenare la rottura padre-figlio. Che è anche una rottura nei confronti di un sistema identitario di dis-valori nel quale Saimir non accetta più di riconoscersi; al punto da mettere a repentaglio la sua stessa esistenza e il suo futuro. Smette di tradire se stesso: “Saimir compie un gesto eroico (…) taglia i legami più forti, quelli familiari che lo proteggono e lo condannano. Sceglie di essere diverso. Nasce per la seconda volta, che è la prima, la più importante. E pagherà, però, un caro prezzo: la solitudine, il futuro ancora più incerto e la “bolla” dell’infame e del traditore”4.
Girato con pudore e discrezione l’opera di Munzi, oltre a mostrare una buona coesione narrativa, riesce ad essere ampia ed esaustiva senza cadere nella prolissità e nell’affastellamento dei dialoghi e delle situazioni. La collocazione della vicenda sul litorale tirrenico (con una fotografia sgranata avvolta in una luce fredda, tagliente e malinconica), al confine tra terra e mare restituiscono alle esistenze dei personaggi sullo schermo quel particolare senso di provvisorietà e precarietà tale da rendere ancora più “disperato” e ineluttabile l’intenso e drammatico epilogo.
Gianluca Casadei

LIBRI
A cura di Sergio Albesano
La guerra è una malattia
La vittoria è una sconfitta

ENRICO PEYRETTI, Dov’è la vittoria?, Il Segno dei Gabrielli editori, Negarine (VR) 2005, pagg. 112, euro 10.

E’ una raccolta di centoquindici testi, note, pensieri sulla vacuità della vittoria in guerra e nei rapporti quotidiani violenti o imperiosi.
Perché attaccare la vittoria? C’è forse qui un amore del perdere, dell’esser vittime? O si pensa solo a una vittoria nel mondo spirituale futuro, consegnando alla violenza la vittoria in questo mondo? Denunciando l’inganno della vittoria, si vuole proporre una ragione e un diritto senza forza? Niente affatto! La nonviolenza è forza. La forza costruisce, la violenza distrugge.
Nell’opinione dominante, viziata dall’ideologia della violenza, il guadagno del vincitore è il danno del vinto. Nel pensiero e nella strategia della forza nonviolenta il guadagno è invece condiviso, magari minore, ma senza danni. Maggiore è soprattutto la qualità umana, la soddisfazione, se non la felicità comune. La gestione dei conflitti con la forza dei mezzi costruttivi è l’alternativa alla guerra, sia pubblica sia privata.
Qui si intende smascherare l’inganno e l’illusione della vittoria: tentativo non superfluo, perché nei nostri anni l’idolatria mortale della guerra è tornata con arroganza a guidare i potenti e i folli detentori di leve omicide. Chiamano vittoria quella che è la massima sconfitta umana: essere nemici gli uni contro gli altri, perciò senza gli altri, dunque meno umani che mai.
Questo libro è un’alta lezione morale espressa con uno stile aforistico di grande concentrazione, convocando in colloquio corale alcune delle più autorevoli voci degli antichi e dei moderni.
Le voci qui raccolte (oltre ottanta, ordinate per epoche storiche) comprendono testi di Buddha, della Bibbia, del Corano, di Erasmo, di Kant, di Voltaire, di Tolstoj, di Simone Weil, di tanti scrittori e testimoni molto, poco o per niente famosi e ovviamente di Gandhi.
Per eventuali ordinazioni rivolgersi alla nostra Redazione.

A. SCHLUMBERGER, 50 piccole cose da fare per salvare il mondo e risparmiare denaro, Apogeo, Milano 2005, pagg. 141, € 9,50.

Nella nostra società tutti, chi più chi meno, sprechiamo molto e consumiamo male. Ne siamo consapevoli, ma cambiare abitudini è impresa difficile. Ce ne accorgiamo quando un black out energetico ci priva dei privilegi a cui ci siamo abituati e ci fa precipitare in un incubo. La qualità dell’aria che respiriamo in città è scadente, eppure alle proposte di utilizzare di più la bicicletta si storce il naso. Sembra quasi che in generale sia ormai diffusa la rassegnazione ad accettare quel che c’è e a tentare di conviverci. Contro questa filosofia dell’impotenza si scaglia Andreas Schlumberger, giornalista e consulente di comunicazione per lo sviluppo sostenibile. In un agile libretto, finalmente tradotto in italiano dalla coraggiosa casa editrice Apogeo, egli prende in esame cinquanta casi di vita pratica, domestica e pubblica, in cui una maggiore sensibilità del cittadino consentirebbe di portare un piccolo contributo (che sommato a quello degli altri darebbe un efficace risultato finale) alla difesa dell’ambiente e al miglioramento della qualità della vita personale e collettiva. Accortezze e leggeri cambiamenti di stile di vita che non stravolgono le abitudini, ma che sono molto utili. Qualche esempio: spegnere gli interruttori, usare lampadine a risparmio energetico, utilizzare il detersivo giusto nelle dosi giuste, evitare l’uso delle asciugatrici, acquistare cibi di regione e stagionali e così via.

ALBERTO MANZI, E venne il sabato, Gorée, Iesa SI 2005, pagg. 481, € 22,00.

Per molti fra i nostri lettori più giovani il nome di Alberto Manzi non dirà nulla. Chi invece ha superato da qualche anno la quarantina probabilmente si ricorderà della trasmissione “Non è mai troppo tardi” che questo maestro teneva in televisione negli anni Sessanta. L’Italia di allora era molto diversa da quella di oggi e l’analfabetismo era ancora sviluppato. Attraverso questo programma e con la sua capacità di interessare un pubblico adulto Manzi riuscì a portare all’alfabetizzazione un milione e mezzo di italiani. Il metodo che usava, in un periodo in cui non esistevano tutti i ritrovati elettronici di oggi, era soprattutto quello del disegno; un disegno grezzo, che partiva da linee sconosciute e che solo alla fine approdava a un’immagine compiuta. Così l’interesse del telespettatore non andava perduto ed egli poteva trasmettere l’insegnamento della lingua.
Accanto a quest’opera conosciuta, Manzi ne perseguiva un’altra che finora è rimasta in sordina: ogni anno trascorreva le vacanza in America meridionale, dove insegnava a leggere e a scrivere agli indios. La sua iniziativa non era ben vista dalle autorità locali, era quasi proibita e, proprio per questo, egli affermava che lo interessava ancora di più. Manzi aveva capito che la lotta per l’emancipazione è anche una battaglia per l’appropriamento delle conoscenze culturali, perché, ad esempio, se non sai leggere il padrone può farti firmare contratti capestro. Come non ricordare a questo proposito le parole di don Lorenzo Milani, quando sosteneva che l’operaio conosce trecento parole e il padrone mille e questo è il motivo per cui uno è operaio e l’altro padrone. In una realtà di oppressione Alberto Manzi comprese che la reazione violenta è inutile, spesso dannosa. L’unica vera possibilità di riscatto percorre le vie della nonviolenza. “Ogni altro sono io” era il suo motto e a distanza di una decina d’anni dalla sua morte queste parole rimangono ancora valide e descrivono l’animo di una persona intelligente, capace e umile.
Quello che viene ora presentato non è un saggio, ma un testo di narrativa, che descrive questa sua esperienza sudamericana. La forma di romanzo offre un attrattiva in più rispetto ai saggi, che talvolta rischiano di essere un po’ freddi: qui invece il lettore è condotto attraverso una trama e una storia a riflettere su una situazione di ingiustizia e su come fare per abbatterla.
Una parola anche per la casa editrice che ha pubblicato il testo. Si tratta di un nuovo editore, che ha in programma di stampare testi di narrativa di impegno sociale e politico: una scelta interessante e dunque una casa editrice da tenere d’occhio.
Per eventuali acquisti: tel. 0577 75 81 50; e-mail: info@edizionigoree.it

EUGEN DREWERMANN, La guerra è la malattia non la soluzione, Claudiana, Torino 2005, pagg. 208, € 17,50.

Non esistono guerre giuste né utili. La nonviolenza cristiana del teologo cattolico tedesco e psicanalista Eugen Drewermann vuole rompere con la tradizione politica dell’uso della forza e della vendetta. Il male si vince soltanto con il bene. Il libro, di facile lettura, ben tradotto da Oscar Platone e preceduto da una densa introduzione di Gianni Vattimo, è stato scritto nel 2002, ai tempi dell’intervento militare in Afghanistan e dunque ben prima della seconda guerra in Iraq, ma non per questo ha perso d’attualità. Infatti Drewermann non prende posizione contro una guerra particolare, ma contro qualsiasi guerra ed esprime un netto rifiuto della violenza come mezzo per risolvere le controversie tra i popoli.
L’argomentazione di Drewermann è così riassumibile: la guerra è immorale, disumanizza l’uomo e lo costringe a ripiombare in uno stato di violenza primitiva. Anche da un punto di vista utilitaristico la decisione di rispondere alla violenza con la violenza è destinata al fallimento: la guerra è inefficace, a maggior ragione nella nostra epoca caratterizzata dalla diffusione del potere di annientamento. La sicurezza non può più essere garantita attraverso il riarmo.
La nonviolenza non è figlia della paura. Proprio qui sta la differenza tra la nonviolenza dell’autore e il pacifismo alla Chirac, alla Schroeder, alla Zapatero, figlio del timore che il conflitto si allarghi all’Europa. L’amico della nonviolenza è contro la guerra per un motivo assoluto.
Non è casuale che la pubblicazione del libro di Drewermann avvenga grazie alla Claudiana, una casa editrice piccola ma attivissima, espressione della minoranza religiosa valdese: le peculiarità del suo ragionamento ruota attorno alla tesi che la condanna della guerra e una scelta di vita cristiana siano inseparabili. La nonviolenza di Drewermann, insomma, è radicale perché cristiana.
Drewermann dice che anche la vittima di un’aggressione deve liberarsi dalla tentazione di reagire con la violenza. Per l’autore colui che agisce politicamente e non religiosamente risponde alla violenza con la violenza, cerca di misurare il torto esigendone la riparazione e resta incapace di perdonare. Ragionare in questo modo è naturale, ma l’intera storia del pensiero politico occidentale è costruita su un modello primitivo di reazione psicologica (qui a parlare è il Drewermann psicanalista). Bisogna invece prendere atto che la giustizia non può nascere dall’automatismo della vendetta e che dal male e dalla violenza non possono che nascere male e violenza. In questione non è soltanto la dottrina cristiana della guerra giusta, che rappresenta un tradimento della nonviolenza assoluta di Gesù e del cristianesimo delle origini. Il vero bersaglio sono coloro che pensano legittimo il monopolio della violenza da parte dello Stato su un dato territorio e l’atteggiamento di coloro che sostengono che talvolta la violenza è necessaria per migliorare il mondo.
L’opzione di Drewermann è la nonviolenza: il tentativo di formulare i principi di un’educazione alla pace e di una politica di pacificazione.
Il limite delle tesi dell’autore sta nel collegamento indissolubile tra nonviolenza e religione, ma il loro fascino è quello di una proposta profetica che ha la forza di trasfigurare il mondo.

Di Fabio