Azione nonviolenta luglio 2005
– L’opinione
– Luci ed ombre del “Gandhi Project”per esportare la nonviolenza in Palestina
– Ma quanto ci costano le armi? Come impoverirsi ed essere meno sicuri
– Educare alla pace in tempo di guerra: conflitti planetari e diritti dei bambini
– Sindacato e nonviolenza: un confronto di lavoro
– L’appassionata difesa dell’avvocato difensore
– La disposizione al dialogo
– Camminando sul Pasubio con la speranza nel cuore
– Per esempio
– Economia
– Lilliput
– Educazione
– Libri
– Lettere
Srebreniza dieci anni dopo, ripensare per non dimenticare
Di Paolo Bergamaschi
Dei tragici avvenimenti di Srebreniza ho ricordi indelebili. Innanzitutto il collegamento alla scomparsa di Alex Langer avvenuta solo una settimana prima. In quei mesi al Parlamento Europeo ci si era logorati con discussioni interminabili sulla guerra in Bosnia per cercare di trovare una punto comune. I governi non volevano intervenire ed il Parlamento rifletteva fedelmente la passività di quella posizione accentuando le frustrazioni di chi non vedeva una via di uscita al conflitto. La caduta della città provocò una emozione profonda rinfocolando le polemiche e zittendo definitivamente i difensori dell’equidistanza che si traduceva sul terreno in un implicito via libera alle milizie serbe. Srebreniza come punto di svolta della guerra in Bosnia. Ma subito non ci si rese conto dell’orrore. Qualche foto degli imbelli soldati olandesi che con il mandato delle Nazioni Unite dovevano proteggere la città ed invece la consegnavano con un brindisi a Mladic e nulla più. Poi con il tempo cominciò a filtrare qualche notizia su cosa avvenne veramente in quelle ore. Dove era finita la popolazione maschile di Srebreniza? Ricordo una cena a Sarajevo, dove mi trovavo con Daniel Cohn-Bendit, assieme ad alcuni ambasciatori qualche mese dopo gli accordi di Dayton che posero solo formalmente fine al conflitto. Uno di questi ci raccontava la testimonianza di chi aveva visto le soldataglie serbe dividere le donne ed i bambini dagli uomini. I primi furono poi caricati su autobus che li avrebbero portati nelle zone controllate dai Musulmani mentre i secondi furono incamminati verso Tuzla. Sulle colline fra i boschi li attendevano gruppi di esecutori di una sentenza di morte di massa. Solo più tardi si scoprirono le fosse comuni che provarono il massacro. Ed era davvero tardi, troppo tardi. I filmati recuperati in questi mesi danno visibilità al più grande crimine contro l’umanità commesso in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale.
Fu la prima ed unica volta che ho invocato un intervento armato. Non vedevo alternative se si voleva almeno cercare di interrompere quel macello. Gli amici di Sarajevo del Verona Forum ci chiedevano insistentemente aiuto dopo anni di assedio sotto i bombardamenti dell’artiglieria serba. Non potevano fare nulla e salvo la straordinaria marcia dei “Beati i costruttori di pace” nessuno dall’esterno voleva rompere l’isolamento. Bastarono poi poche incursioni aeree per distruggere le batterie degli aggressori e portarli al tavolo negoziale dove Milosevic, il guerrafondaio Milosevic, sarebbe uscito come uomo di pace.
Srebreniza è ancora una ferita aperta, di quelle che nessuna medicina riesce a rimarginare. Lo è per la gente di Bosnia che si è sentita dimenticata. Lo è per l’Unione Europea che ha dimostrato tutta la sua incapacità di azione. Lo è per i pacifisti che si sono divisi fra interventisti ed ortodossi. Lo è per coloro che hanno esteso in modo spregiudicato lo schema bosniaco alle guerre che sono venute dopo, Kosovo ed Afghanistan in particolare. Io lo considero come il punto di svolta del movimento pacifista. Da quel giorno ho capito quanto fosse importante riformare le Nazioni Unite per metterle in condizioni di agire, quanto fosse importante dotare l’Unione Europea di una vera politica estera comune, quanto fosse importante un peace-keeping militare efficiente ed efficace, quanto fosse importante affiancare o sostituire i militari con corpi civili di pace.
La Bosnia-Erzegovina dagli accordi di Dayton è stata presidiata dalle forze della NATO sostituite lo scorso anno da un contingente dell’Unione Europea che garantisce alle popolazioni una sicurezza ancora molto precaria. Ho vissuto le frustrazioni di chi in questi anni ha visto i governi esaltare l’azione di pace dei propri militari nella ex Jugoslavia ignorando le migliaia di volontari che giorno dopo giorno in condizioni a volte disperate hanno cercato di ricostruire il paese non solo dal punto di vista materiale ma anche da quello sociale e morale ponendo le basi per un ritorno alla convivenza interetnica, interculturale ed interreligiosa. Di loro quasi non si è parlato come se la storia la facessero solo gli eserciti ed i politici. I costruttori di pace sono ridotti ad una metafora evangelica.
Le Nazioni Unite, adesso, hanno fretta di andarsene. Anche l’ufficio dell’Alto Rappresentante, che ha di fatto gestito la Bosnia come se fosse un protettorato internazionale, è in via di smobilitazione. Le emergenze sono oggi in Afghanistan ed Iraq sperando che nel frattempo non scoppino altre crisi. E le autorità di Sarajevo hanno giustamente voglia di provarci, di dimostrare che la guerra è finita davvero. Bisognerebbe, però, avere il coraggio di abbattere le gabbie etniche imposte dagli accordi di Dayton ma nessuno di loro si azzarda a farlo. Dieci anni dopo, ripensando a Srebreniza. Dieci anni dopo per non dimenticare.
Luci ed ombre del “Gandhi Project”
per esportare la nonviolenza in Palestina
A cura di Elena Buccoliero
Due fondazioni statunitensi hanno deciso di “spiegare” la nonviolenza ai palestinesi. Stiamo parlando del “Gandhi Project”, che da alcuni mesi si sta diffondendo in Palestina e nei paesi arabi, con la presenza di importanti nomi del mondo sia politico sia cinematografico (tra gli altri gli attori Richard Gere e Ben Kingsley, protagonista del film “Gandhi”). Ma non è detto che la nonviolenza sia merce d’esportazione – come la “democrazia”, del resto – e il progetto non è stato accolto a braccia aperte, per svariate ragioni.
Che cos’è il “Gandhi Project”
È un programma in diverse fasi, impegnativo, ben finanziato, di marca statunitense, che punta a diffondere tra i popoli arabi e soprattutto in Palestina la nonviolenza come strategia di lotta. Strumento principe sarà la proiezione del film “Gandhi” in ogni possibile angolo della Cisgiordania e di Gaza, campi profughi inclusi.
Il film, libero per l’occasione dai diritti d’autore, ha richiesto un anno di lavoro intenso e 129 attori palestinesi per il doppiaggio in lingua araba. I promotori del programma, le fondazioni Skoll e Global Catalyst, ne stanno promuovendo le visioni sia in forma diretta, sia donandone copia alle scuole, associazioni, ONG… allo scopo di diffondere il pensiero e l’azione del Mahatma.
“Gandhi era un uomo comune che aveva preso su di sé il compito di cambiare il mondo”, ha affermato Jeff Skoll, a capo della Skoll Foundation, “e parlare della sua storia è un modo per far sì che la gente si identifichi con lui”.
Il progetto presenta la nonviolenza come “una vera e propria voce con cui comunicare il trattamento costantemente disumano che il popolo palestinese riceve, le condizioni in cui vive. È stato derubato della propria voce. Fare passi di pace e indirizzare parole di libertà alla coscienza e all’umanità della comunità internazionale, indurrà gli altri ad unirsi ai palestinesi nel sentiero verso la verità e la pace”. Oltre alle proiezioni, Gandhi Project prevede azioni di partnership tra le fondazioni promotrici e le ONG locali, o le organizzazioni della società civile, per un lavoro educativo e culturale di formazione alla nonviolenza e per finanziare progetti di sviluppo economico.
Info: www.gandhiproject.org.
La prima proiezione
Il film “Gandhi” è stato proiettato per la prima volta a Ramallah nell’aprile scorso, alla presenza dell’attore premio Oscar e di importanti nomi della politica palestinese. Si faceva affidamento sui recenti risultati di un sondaggio tra la popolazione palestinese, secondo il quale il consenso generale ai kamikaze è passato dal 77% dello scorso anno al 29% odierno. Nonostante questo molte delle 300 persone che hanno assistito alla proiezione, al termine della pellicola non parevano convinte. E pensare che in oltre quattro anni di scontri, con la seconda Intifada, hanno perso la vita 3.469 palestinesi e 1.032 israeliani…
Obiezione1: i palestinesi sono già nonviolenti
Secondo alcuni commenti i palestinesi non hanno bisogno di un film per imparare la nonviolenza: la praticano già.
“Hanno combattuto la prima Intifada con le pietre e hanno avuto in risposta le pallottole israeliane. Hanno combattuto la seconda Intifada con le armi e hanno trovato in cambio i carri armati israeliani, bulldozer e aeroplani. E ora vogliono cominciare una terza Intifada, una lotta popolare, disarmata, nonviolenta contro il muro che li strangola, e si ritrovano soldati israeliani infiltrati che lanciano pietre e vogliono farci credere che siano i palestinesi a farlo”.
Il riferimento è ad una manifestazione dell’aprile scorso nel villaggio di Bil’in, dove la popolazione, sostenuta da gruppi pacifisti israeliani, manifestava senza violenza contro la costruzione del muro. In seguito alcuni soldati sulla tv israeliana hanno ammesso che loro infiltrati hanno lanciato le prime pietre contro l’esercito, “secondo una strategia consueta”. L’esercito ha risposto con i lacrimogeni e con un nuovo tipo di arma: pallottole di plastica ricoperte di sale.
Evidentemente, conclude il giornalista con una frase che vorrebbe svilire la nonviolenza, ma ne avvalora il peso, “la resistenza nonviolenta non è conveniente per Israele”, se “per allontanare questa minaccia impiega i suoi soldati per trasformare le manifestazioni pacifiste in scontri violenti”.
Obiezione2: la nonviolenza non è adatta / non è abbastanza efficace
Secondo una diversa obiezione, sostenuta ad esempio sul sito palestinese “Electronic Intifada”, la nonviolenza non merita considerazione perché è poco efficace. La liberazione dell’India, è scritto, “non è avvenuta per una via soltanto nonviolenta. Gli anticolonialisti hanno commesso un’ampia varietà di atti terroristici, il governo britannico era responsabile di massacri ed atrocità, e la violenza comune prima, durante e dopo l’indipendenza ha toccato milioni di persone”.
A sostegno di questa tesi vengono riprese alcune parole di Malcolm X: “Luther King e i suoi invitano a porgere l’altra guancia. Per quello che mi riguarda, è una perdita di tempo. Mai porgere l’altra guancia finché non vedi che L’ALTRO porge la propria”.
E sul problema di chi debba compiere il primo passo, il confronto potrebbe andare avanti all’infinito…
Obiezione3: la nonviolenza è un modo per fermare la resistenza
La terza accusa al Gandhi Project è quella di voler fiaccare la resistenza palestinese: “Il progetto, intenzionalmente o in modo ingenuo, è funzionale alla Road Map. È un modo per sradicare l’opposizione e neutralizzare il dissenso e la resistenza araba in tutto il Medio Oriente”.
Paradossalmente, il fatto che apra possibilità di finanziamento viene letto negativamente, come tentativo di comprare il consenso popolare.
“La disponibilità di fondi determina il consenso ed è un altro esempio dell’industria emergente dei processi di pace. Questo è il vero fallimento: che durante gli incontri con importanti politici americani e divi di Hollywood nessuna organizzazione palestinese abbia avuto la fiducia di dire loro che, come cittadini americani, sono direttamente responsabili per il coinvolgimento diretto e devastante del loro paese nel conflitto”.
Emerge sotterraneo il riconoscimento dell’importanza della nonviolenza, ma… in un altro punto del globo: “Le sanzioni degli Stati Uniti contro il regime dell’apartheid in Sudafrica erano state il diretto risultato delle azioni della società civile americana, che ora potrebbe utilizzare le stesse strategie contro Israele. Dov’è ora il supporto politico e diplomatico necessario per rappresentare un movimento contro l’occupazione in Cisgiordania e Gaza?”
E arriviamo alla proposta: “Se il Gandhi Project vuole aiutare davvero, io ho da suggerire un’idea migliore. Invece di proiettare “Gandhi” nei territori occupati, perché non mostrate in tutti gli Stati Uniti d’America le recenti manifestazioni nel villaggio palestinese di Bil’in? Gli americani potrebbero scoprire la realtà dell’occupazione, largamente finanziata con le loro tasse”.
Obiezione4: la nonviolenza palestinese c’è, ma non si vede
Altri autori ricordano che la resistenza palestinese è iniziata con la nonviolenza, ma ha dovuto tristemente accorgersi che questo la condannava all’invisibilità internazionale: “Prendiamo ad esempio il digiuno dei prigionieri politici palestinesi nelle carceri israeliane. I media lo hanno ignorato, tranne quando gli israeliani hanno deciso di piazzare dei kebab dentro alle celle”.
E Jonathan Cook, un giornalista dell’International Herald Tribune: “I palestinesi hanno capito che la violenza è il modo più sicuro perché la loro situazione venga conosciuta a livello internazionale. L’uso dei kamikaze è immorale, ma va in prima pagina e ricorda al mondo che c’è un conflitto. Quando i palestinesi restano vittime passive, il mondo si gira dall’altra parte”.
Obiezione5: la nonviolenza non può venire da fuori
In ultimo, c’è da chiedersi se pur con le migliori intenzioni sia stata seguita una strada veramente corretta per dialogare con il popolo palestinese e se non venga necessariamente osteggiato un “suggerimento” che entra nei campi profughi con la forza dei dollari americani e con scarso coinvolgimento dei movimenti nonviolenti locali. Certo non è il primo caso.
Nel periodo elettorale le emittenti tv hanno mostrato il seguente spot:
“Ciao, sono Richard Gere e parlo a nome del mondo intero. Siamo con voi durante questo periodo elettorale. È davvero importante. Uscite di casa e andate a votare”.
In seguito la Reuters ha riportato che molti palestinesi non hanno idea di chi sia Richard Gere, mentre altri hanno ironizzato sulla capacità degli americani di scegliere oculatamente il loro capo di stato… prima di dare lezioni ad altri.
Un giovane palestinese suggerisce la proiezione di “Paradise Now”, un film palestinese che ha ricevuto il primo premio al Festival di Berlino. Narra la storia di due ragazzi che hanno deciso di offrirsi come kamikaze ma poi arrivano, per strade diverse, a mettere in dubbio la loro scelta. Sarà la fidanzata di uno dei due protagonisti ad osservare: “Se uccidi, non ci sarà più differenza tra vittima e oppressore”.
Ma quanto ci costano le armi?
Come impoverirsi ed essere meno sicuri
A cura di Raffaele Barbiero*
Nel mondo oggi ci sono circa 639 milioni di armi leggere e di piccolo taglio e se ne producono otto milioni in più ogni anno.
Ci sono aziende che le fabbricano, intermediari che le mettono in commercio, governi e privati che le acquistano e le vendono e, all’ultimo anello di questa incontrollata catena, persone che le utilizzano contro altre persone
In questo stesso mondo, con queste stesse armi, ogni anno almeno 500.000 esseri umani vengono ammazzati, 300.000 bambini soldato sono costretti a imbracciarle e usarle in guerra come se fossero giocattoli, decine di conflitti vengono sostenuti e alimentati dal traffico incontrollato dei prodotti dell’industria militare. Milioni di persone pagano a caro prezzo le scelte sbagliate dei rispettivi governi, che preferiscono investire risorse e ingigantire il loro debito estero nella corsa agli armamenti piuttosto che sostenere programmi virtuosi, e spesso meno costosi, di sviluppo economico e lotta alla povertà.
Senza controlli severi, tali armi continueranno ad alimentare conflitti violenti, repressioni di stato, crimini e violenze domestiche. Se i governi non interverranno per fermare la diffusione delle armi, sempre più vite andranno perse, sempre più violazioni dei diritti umani saranno commesse e un numero sempre maggiore di persone si vedrà negata la possibilità di sfuggire alla povertà.
Le soluzioni concrete esistono e sono da tempo alla portata dei governi e della comunità internazionale: rafforzare i meccanismi di controllo nazionali, regionali e a livello globale sui trasferimenti irresponsabili di armi ed attrezzature militari, di sicurezza e di polizia; impedirne in ogni caso il commercio verso paesi in stato di conflitto o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani; adottare quanto prima un sistema globale di identificazione e tracciatura che consenta di risalire ai paesi che gestiscono la produzione e l’intermediazione illecita di armi.
Tutto ciò senza scordarci di un fenomeno che si è già da tempo affacciato sullo scenario internazionale dei conflitti e della “sicurezza globale”: quello delle aziende che vendono servizi di sicurezza, le ditte militari private che oltre a fornire servizi di sicurezza, danno anche supporto militare logistico, personale adeguatamente addestrato anche a compiere azioni di sabotaggio e di guerriglia. Si va così pericolosamente da un monopolio statale dell’uso della forza, sottoposto, almeno nei Paesi democratici al consenso dell’opinione pubblica e alle verifiche dei Parlamenti, alla possibilità per grandi multinazionali o stati di dubbia democrazia e/o legalità, di dotarsi di un apparato bellico in grado di affrontare molteplici situazioni di conflitto e o di guerra. Senza quasi nessun controllo e con il concreto rischio di moltiplicare le situazioni di ricorso alle armi e alla violenza.
Per chi vuole approfondire consiglio la lettura di: “MERCENARI SpA” di Francesco Vignarca, editore Bur Biblioteca Univ. Rizzoli, anno 2004.
Costi per la guerra
839 mld di dollari nel 2001, saliti a 956 nel 2004 come spese militari nel mondo
bilancio USA per la difesa: 364,6 mild di dollari nel 2003; 379,9 mld nel 2004; più di 400 mld nel 2005 (unica voce che cresce, dal 2001 è cresciuta del 41%)
accordo su elettronica per la difesa fra Finmeccanica (Italia) e Bae (Gran Bretagna) valore 3 mld di euro- 2,1 mld di dollari: costo di un bombardiere B2
750 milioni di dollari: costo dei missili Tomahawk lanciati dagli Usa dal 1991 al 2003 in Iraq, Bosnia, Sudan, Afghanistan
45 milioni di dollari: costo di un aereo F 117 Stealth Fighter- Africa, Asia, America Latina e Medio Oriente spendono in media 22 mld di dollari annui per acquisto di armi in questi ultimi anni
Paesi in possesso di bombe atomiche
Usa; Gran Bretagna, Cina; Francia; Russia; Israele; India; Pakistan; Corea del Nord e…..?
Paradisi fiscali (per società offshore) e banche “armate”
Isole Vergini Britanniche; Liechtenstein; Isola di Jersey; Panama; Isole Cayman; Bermuda; Andorra; Macao; Bahamas; Barbados; Gibilterra; Repubblica Domenicana; Belize; Liberia; Isole Maldive; Isole Marshall; Isola di Nauru; Isole Vanuatu; Isole Tonga; Isola di Niue; Isole Cook; Isole Samoa; Cipro; Hong Kong; Isola di Man (Gran Bretagna); Libano; Seychelles; Singapore.
Si calcola che ci siano da 40 a 80 paradisi fiscali per un giro di 1.800 mld di dollari all’anno. Pericolosi per riciclaggio di denaro, corruzione, connessioni con il terrorismo e speculazioni finanziarie
(per maggiori info: www.ares2000.net; www.grandinotizie.it; www.commercialistatelematico.com; www.narcomafie.it)
Inoltre bisogna tener conto delle numerose banche che in un modo o nell’altro sono coinvolte nella produzione e/o commercializzazione degli armamenti. Per avere informazioni delle banche coinvolte: www.banchearmate.it
Produttori di armi
Usa; Gran Bretagna; FranciA; Russia; Cina; Germania; Italia; Giappone; Brasile; India; Olanda; Svezia; Spagna;….
Costi difesa in ITALIA
– bilancio della difesa: da 19 mld di euro nel 2002 a 22 mld di euro nel 2005 di cui 2 mld per missioni di pace all’estero
– nuova portaerei “Andrea Doria” (abbiamo già la “Garibaldi”): 1,15 mld di euro; entro il 2008 nuova portaerei “Cavour” per 1,39 mld di euro
– industrializzazione e acquisizione di 56 elicotteri NH90 (compatibili per portaerei): 1,75 mld di euro (al 2003)
– acquisto 16 elicotteri EH 101 per 900 milioni di euro (al 2003)
– programmi vari di ricerca scientifica e tecnologica: 115 milioni di euro (al 2005)
Rammento che in Italia dal 1991 è cambiata la “filososfia” degli interventi militari: si è passati dal concetto di “difesa” al concetto di “sicurezza”.
Più precisamente nei “Lineamenti di sviluppo delle forze armate negli anni ‘90” documento ufficiale presentato in Parlamento nel 1991 si parla di “tutela degli interessi nazionali nell’accezione più vasta di tali termini, ovunque sia necessario” e per interessi nazionali e strategici da difendere si intende “la materie prime necessarie alle economie dei paesi industrializzati”.
Infine il 27 marzo 2003 il Parlamento ha ratificato le modifiche alla legge 185/90 sul commercio delle armi (disegno di legge 1547 divenuto Legge n. 148 del 17/06/2003) peggiorando la normativa di controllo sull’export di armi. Per esempio non verrà più reso noto il certificato di destinazione d’uso, sottraendo al Parlamento e all’opinione pubblica la possibilità di conoscere il destinatario finale di armi coprodotte da ditte italiane, tra le quali potrebbero esservi Paesi che commettono violazioni dei diritti umani considerate “non gravi”.
Per informazioni: www.disarmo.org; www.banchearmate.it; validissima è la lettura di: “ARMI D’ITALIA”, di Riccardo Bagnato e Benedetta Verrini, Fazi Editore, 2005 Roma; il settimanale VITA del settore no-profit è sempre puntuale nelle informazioni: www.vita.it
Costi per lo sviluppo
Che cosa si dovrebbe fare, per raggiungere gli obiettivi internazionali:
760 mld di dollari (in 11 anni): spesa complessiva per raggiungere gli obiettivi del millenio per lo sviluppo
50 mld di dollari: spesa annuale stimata dall’ONU necessaria a conseguire gli obiettivi internazionali di sviluppo.
Di cui ad esempio:
10 mld di dollari: spesa annuale stimata dall’UNICEF per garantire l’accesso universale all’istruzione primaria.
7/10 mld di dollari: spesa annua necessaria stimata da UNAIDS per rispondere efficacemente all’epidemia dell’AIDS.
12 mld di dollari: spesa annua stimata per ridurre mortalità infantile e materna
Un esempio da un paese africano
22.000 euro: il costo per la costruzione di una scuola in Burkina Faso.
8.000 euro: il costo per la costruzione di un pozzo in Burkina Faso.
Il 71% della popolazione del Burkina Faso non ha accesso all’acqua potabile.
Il 76.1% della popolazione del Burkina Faso non ha accesso all’istruzione primaria.
Info: www.manitese.it ; www.amnesty.it ; www.alon.it
* Associazione A.L.O.N. e gruppo Gan Forlì
Educare alla pace in tempi di guerra: conflitti planetari e diritti dei bambini
di Daniele Lugli
Educare…
È, in prima approssimazione, trar fuori, condurre. Il primo impulso, infatti, è stato di tirarli fuori, condurli in salvo, i bambini, dalla scuola di Beslan, la scuola dell’Ossezia, lontana e ignorata, fattasi dolorosamente vicina.
La violenza, anche non così estrema, è il contrario dell’educazione. Ci ricorda sobriamente Giuliano Pontara nel suo La personalità nonviolenta: “I minori oggetto di violenza rischiano di diventare adulti con poco senso della propria identità e valore, pronti alla sottomissione ed all’autodistruttività o al contrario a reagire con esasperata aggressività incapaci di fiducia negli altri”.
Il primo luogo di educazione è la famiglia, luogo non esente da violenza. Degli omicidi circa un terzo risulta compiuto in famiglia, ci ricorda il rapporto Eures 2004 sugli omicidi volontari in Italia. E del resto gli italiani non uccidono più degli altri europei, mentre negli USA il tasso degli omicidi è il quadruplo di quello che si riscontra nel nostro continente.
L’educatore, singolo o collettivo, dà al bambino in primo luogo il suo esempio. Spesso non è un bell’esempio. Il Nord è ricco e consumatore, il Sud fornisce la materia prima. Così i bimbi del Nord vengono, in tutti i modi, addestrati alla bulimia consumista. I bimbi del sud sono educati allo sfruttamento in ogni lavoro (compresi i più antichi: prostituzione e esercito) quando non sono essi stessi materia prima, deposito, provvisoriamente vivente, di organi da trapianto.
…alla pace
Educare è dunque tirarli fuori, tirarci fuori con i bambini, dalla violenza. È educarci alla pace. Con questo intento tutti i premi Nobel per la Pace sottoscrissero un appello all’ONU nel 1997. Il 2000, fu proclamato Anno internazionale per la cultura della pace
E, dal 2001 al 2010, fu proclamato il Decennio della cultura di pace e della nonviolenza per i bambini del mondo. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, adottò nel 1999 la Dichiarazione sulla cultura di pace, accompagnata da un Programma d’Azione. Ne venne anche un bel manifesto diffuso e sottoscritto, e iniziative sono in corso per dare una qualche traduzione anche in Italia a intenzioni solennemente affermate in documenti internazionali. Che siano possibili per adulti e bambini apprendimento e pratica della nonviolenza lo assicura Gandhi (Young India 5.11.1919): “A mio parere la bellezza e l’efficacia del Satyagraha (forza della verità – nonviolenza) sono tanto grandi e la dottrina è tanto semplice che può essere predicata perfino ai bambini”.
Qualche buon esempio l’abbiamo avuto, e l’abbiamo ancora, anche in Italia. Il pensiero va a don Lorenzo Milani e altri sarebbero da citare. Faccio solo un accenno ad Aldo Capitini con pochi pensieri tratti da i suoi Educazione aperta e Il fanciullo nella liberazione dell’uomo. L’educatore esprime una tensione profetica perché “vede nel bambino uno che porta nel mondo qualcosa di suo e non è un vivente informe da plasmare come si voglia”. Anzi “il loro crescere, la loro apertura, la loro novità e la loro certezza ci fa segno di una realtà liberata”. Per questo “un’educazione religiosa non sarà certo comunicazione di una verità religiosa, di una certa dottrina: questa dottrina concerne l’educatore, ed è lui che è arrivato a conoscerla, a viverla, a praticarla: essa è di qua della realtà liberata”. Nell’educazione si condivide “la gioia del raggiungimento e dell’attesa di una realtà migliore. La gioia che trabocca per il nuovo, per sottrarsi all’abituale”. La scuola può insegnare che “il bene è degno di continuare, il male merita di finire, e perciò bisogna non indugiare, raccogliere gli sforzi, proprio perchè non duri più nemmeno un minuto”. Può farlo una scuola di diversi ed eguali, una scuola pubblica (Capitini era presidente della “Associazione per la difesa e lo sviluppo della scuola pubblica in Italia”): “ecco l’importanza di una scuola di tutti, meglio dire così che statale”, per l’apertura alla vita, alla libertà, allo sviluppo.
“La scuola sarà sempre meglio della merda” dice un ragazzo di Barbiana. E questo richiama quelli che una scuola, quale che sia, non ce l’hanno. Nel 1990 si sono contati in 130 milioni (80 milioni le bambine). Una più recente stima di Terres des Hommes è a 121 milioni. E la guerra, le sue conseguenze, la fanno sparire anche dove prima c’era.
“Ma che ci fai tu in strada a quest’ora della mattina? Perché non vai a scuola?”. Immaginatevi una giovane donna italiana che rivolge questa domanda a un bambino di massimo otto anni per le strade polverose della grande Baghdad, con i suoi quasi sei milioni d’abitanti. E immaginatevi che il piccolo le risponda “Purtroppo non ce la faccio a seguire la scuola. La mia è una famiglia d’umili origini e non ci sono soldi per i libri, né per il bus…”. “Allora lavori”, fa la giovane donna e lui, serissimo, “Eh no, sa… al momento è difficile trovare un posto. Qui siamo tutti senza lavoro perché c’è un tasso di disoccupazione altissimo”. Bene, ora possiamo smettere di immaginare perché il dialogo è realmente avvenuto: il piccolo si chiama Jahid, la giovane donna Simona Pari e in quel momento è a Baghdad come cooperante di “Un ponte per…”. Nella grande Baghdad, di bambini come Jahid ce ne sono a migliaia, anzi a milioni. In base alle stime Unicef, sono due milioni e mezzo gli under 18 che vivono nella capitale, pari a circa il 50% della popolazione. Di sicuro c’è che, oggi, essere bambino a Baghdad non è facile, anzi: è una scommessa sin dalla nascita.
Dove è da tempo un dovere/diritto per bambini e giovani, la scuola sembra peggiorare. Né vale ficcarci le tre i per innovarla, né aprirla a finta concorrenzialità “privata”, pubblicamente sovvenzionata. C’è un incredibile parlamentare che attribuisce la colpa al boicottaggio della riforma (la chiamano così) da parte di un manipolo di insegnanti. Il guaio è più grave e serio. Quando va bene il sentimento prevalente tra i frequentanti, per ragioni di studio o di lavoro, è la noia. Si delinea una scuola pubblica che non aiuta ad acquisire capacità critica, distributrice di conoscenza usa e getta, espressione di una società incolta. Il 60% degli italiani non legge: non compra un libro all’anno. Due milioni sono gli analfabeti e 15 milioni i semianalfabeti, ci ricorda Tullio de Mauro in “La cultura degli italiani”, edito da Laterza.
C’è qualcosa che non va nel nostro rapporto con la scuola. Ci facciamo conoscere anche all’estero. In Germania, ad esempio, risulta che gli studenti italiani, circa 67 mila, espressi da una comunità di mezzo milione di immigrati (prima per insediamento e seconda per numero solo a quella turca) sono i peggiori di tutti. Non pare che la nostra scuola abbia voglia di apprendere e trasmettere i saperi necessari ai tempi nostri, sette secondo Edgar Morin. Sono saperi fondamentali per tessere (e ritessere) relazioni tra persone, conoscenze, culture. Senza di ciò non si dà vero progresso, né pace. I giovani che incontro nelle scuole mi sembra avvertano, spesso confusamente, questa carenza.
Certo la scuola che può seriamente contribuire ad educare alla pace è la scuola di tutti, una scuola che non abbiamo e dalla quale ci stiamo semmai allontanando.
…in tempi di guerra
La guerra è tornata, anche se non più invocata da giovani ardenti e salutata da folle festose, come novant’anni fa la prima guerra mondiale. Anche la seconda guerra non pare abbia insegnato molto. Joachim Fest ha scritto un libro, “La disfatta”, dal quale è stato tratto un film. Si teme che la vicenda (si tratta degli ultimi giorni di Hitler nel bunker di Berlino) e la, certamente ottima, interpretazione di Bruno Ganz nei panni del dittatore, possano rendere il personaggio troppo umano, in qualche modo accattivante e quindi, soprattutto per i giovani, disorientante.
L’autore ha giustamente osservato: “La cosa peggiore non è che Hitler fosse un mostro, ma che fosse un uomo. Il male fa parte dell’uomo, non possiamo più espellerlo parlando di mostri”. Ce lo aveva già ricordato nitidamente Albert Camus “Ci domandavamo dove vivesse la guerra, che cos’era che la rendeva così vile. E ora ci rendiamo conto che sappiamo dove vive, cioè dentro di noi”. È una constatazione che, nonostante le apparenze, invita all’ottimismo. La guerra è cosa nostra, possiamo farci qualcosa a partire da noi, dalla nostra capacità di comprensione, di noi stessi e degli altri, in particolare di chi ci appare (e magari è) nemico irriducibile. Dobbiamo conoscere noi stessi in profondità. Non è facile e la guerra non aiuta. Perfino Freud, all’epoca vicino ai sessant’anni, in un primo tempo si entusiasmò e disse di sentirsi austriaco per la prima volta in trent’anni. Possiamo evitare errori riconosciuti. Dobbiamo rivolgere la nostra attenzione profonda, oltre che a noi stessi, al “nemico”.
C’è un motto che accompagna la guerra: Taci, il nemico ti ascolta. Vorrei dire: Ascolta, il nemico ti parla.
Conflitti planetari…
Dal 1946 al 2001 si contano oltre 200 conflitti armati, 150 dei quali in paesi che continuano a chiamare in via di sviluppo. Solo 16 possono essere considerate guerre in senso classico, ci avverte Luigi Bonanate in “La politica internazionale tra terrorismo e guerra” (ed. Laterza 2004), con un nemico, un fronte, un vincitore riconoscibili. E i bambini ci sono dentro, vittime e protagonisti (o vittime due volte se si preferisce).
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu tiene una sessione annuale dedicata ai bambini nei conflitti armati. Nell’ultima il rapporto del Segretario generale e la relazione del Direttore dell’Unicef hanno evidenziato l’utilizzo di bambini soldato (300 mila in 30 conflitti armati in corso nel mondo), uccisione e ferimenti dei bambini, rapimenti e violenze sessuali a danno di bambini e bambine, attacchi alle scuole e agli ospedali. Il problema è enorme: in Liberia, ad esempio, si stima vi siano oltre 15.000 bambini soldato; una recente ricerca in Sierra Leone indica che in una su cinque, una su sei, famiglie sfollate si registrano abusi sessuali, incluso lo stupro, la tortura e la riduzione in schiavitù per scopi di sfruttamento sessuale. Non diversa la situazione nella Repubblica Democratica del Congo. Inoltre, nel solo 2003, i paesi il cui territorio risultava infestato da mine, particolarmente micidiali per i bambini, erano ben 82.
Nell’ultimo decennio questo è stato il bilancio dei bambini vittime della guerra:
· oltre 2 milioni di bambini sono stati uccisi;
· oltre 6 milioni sono rimasti invalidi o sono stati gravemente feriti;
· oltre 1 milione sono i bambini rimasti soli, orfani o che hanno perso i genitori nel caos della guerra;
· circa 20 milioni sono rimasti senzatetto, sfollati o rifugiati;
· oltre 10 milioni sono rimasti traumatizzati psicologicamente.
Ogni anno tra 8.000 e 10.000 bambini rimangono uccisi o mutilati dalle mine antiuomo.…e diritti dei bambini
C’è in vigore una Convenzione per i diritti dell’infanzia del 20.11.’89, in vigore dal settembre ’90, dopo una gestazione decennale. Suoi precedenti possono essere considerati dichiarazioni della Società delle Nazioni del 1929 e dell’Onu nel 1959. La Convenzione è stata ratificata da tutti gli stati, salvo la Somalia e gli Stati Uniti d’America. Sono 54 articoli, trattano dei diritti dall’articolo 1 al 41, delle garanzie dall’articolo 42 al 45, dell’attuazione dall’articolo 46 al 54. Si applicano ai minori di 18 anni. Fissano standard minimi di trattamento e principi, quali la non discriminazione (art. 2), il superiore interesse del fanciullo (art. 3), il diritto alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo (art. 6), il dovere di ascoltare l’opinione del fanciullo (art.12).
Come questi diritti siano rispettati è noto:
12 milioni all’anno sono i bimbi sotto i 5 anni che muoiono per malattie infantili facilmente prevedibili e curabili.
6 milioni muoiono proprio per fame.
250 milioni lavorano sotto età e in condizioni terribili (in Italia 300 mila, magari attività criminose, in Usa 5 milioni e mezzo. In espansione nell’Europa dell’est sono i bimbi di strada e la loro prostituzione). Infortuni e malattie professionali che colpiscono almeno un quarto dei giovani lavoratori. Povertà, mancanza di istruzione, costrizione tradizionale ne sono le cause principali.
4 bambini su 10 tra 0 e 5 anni hanno problemi di crescita e sviluppo
2 milioni di bambine all’anno subiscono mutilazioni genitali
3 milioni di bimbi morti a causa dell’Aids e 8 milioni sono gli orfani di genitori deceduti a causa dell’Aids.
La condizione è ancora peggiore per le bambine: la discriminazione di genere comincia ancor prima della nascita (aborto selettivo) e prosegue implacabile fino alla tomba.
Qualcosa si potrebbe fare. A proposito della connessione conflitti planetari e diritti dei bambini è stato osservato: “Prendiamo ad esempio le spese militari. Ogni giorno, il mondo devolve 2, 2 miliardi di dollari in produzione di morte. Più precisamente, il mondo destina questa cifra astronomica alla promozione di gigantesche partite di caccia in cui il cacciatore e la preda sono della stessa specie, e da cui risulta vincitore colui che avrà ucciso il maggior numero di propri simili. Basterebbero nove giorni di spese militari a procurare cibo, educazione e cure a tutti i bambini della Terra che ne sono sprovvisti”.
Chiudiamo questo repertorio di orrori considerando che ogni cittadino del mondo è costituito difensore dei diritti umani. L’ha proclamato l’Assemblea generale dell’Onu nel dicembre del ’98. A maggior ragione questo dovrebbe richiamare la nostra attenzione nei confronti dei diritti delle bambine e dei bambini.
“Qualcuno ha dichiarato guerra ai bambini”, ha osservato di recente la parlamentare Titti Valpiana. Farlo smettere non sarà facile, dentro ci siamo, con diverse responsabilità, anche noi. È un’opera collettiva e complessa alla quale siamo chiamati. Ci può essere utile l’esempio dei ragazzi di don Milani:
Così abbiamo capito cos’è l’arte. È voler male a qualcuno o a qualche cosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi.
Possiamo avvicinare un tempo in cui tutti i bambini, e noi con loro, godano dei loro diritti naturali. Quelli individuati da Zavalloni mi convincono 17). Siamo pronti a cogliere l’invito di Capitini:
“Su muoviamo con i fanciulli, con la stessa prontezza al mutamento, al distacco da leggi e abitudini che non hanno scavato solchi, con la festosità del riso e di grida, se l’acqua sprizza lieta nel mezzo, e giuochi muovono tutte le cose dintorno ad unirsi con loro, invidiose e vogliose come un giovane cane. Perché andare lontano se qui è il sommo che si apre?”
Manifesto 2000 per una cultura della pace e della nonviolenza
Perché l’anno 2000 deve rappresentare un nuovo punto di partenza, l’occasione di trasformare – insieme – la cultura della guerra e della violenza in una cultura di pace.
Perché una simile trasformazione esige la partecipazione di ognuno di noi, deve offrire ai giovani e alle generazioni future valori che li aiutino a formare un mondo più giusto, più solidale, più libero, degno e armonioso e più ricco per tutti.
Perché la cultura della Pace renda possibile lo sviluppo durevole, la protezione dell’ambiente e la valorizzazione di ciascuno. Poiché io sono cosciente della mia parte di responsabilità di fronte all’umanità, in particolare nei confronti dei bambini di oggi e di domani.
Io mi assumo l’impegno nella mia vita quotidiana, nella mia famiglia, nel mio lavoro, nella mia comunità, nel mio Paese e nella mia regione di:
1) Rispettare la vita e la dignità di ogni persona senza discriminazione o pregiudizio;
2) Rifiutare la violenza: praticare attivamente la nonviolenza, ripudiando la violenza in tutte le sue forme: fisica, sessuale, psicologica, economica e sociale, in particolare verso i più poveri e vulnerabili come i bambini e gli adolescenti;
3) Dare libera espressione alla mia generosità: condividere il mio tempo e le mie risorse materiali in uno spirito di generosità per porre un termine all’esclusione, all’ingiustizia e all’oppressione economica;
4) Ascoltare per comprendere: difendere la libertà di espressione e la diversità culturale, dando sempre la preferenza al dialogo e all’ascolto piuttosto che al fanatismo, alla menzogna e al rifiuto dell’altro;
5) Preservare il pianeta: promuovere un atteggiamento verso il consumo che sia responsabile e sviluppare pratiche che rispettino tutte le forme di vita e preservino l’equilibrio naturale nel pianeta;
6) Reinventare la solidarietà, contribuire allo sviluppo della propria comunità: contribuire allo sviluppo della mia comunità, con la piena partecipazione delle donne e il rispetto dei principi democratici, al fine di creare insieme nuove forme di solidarietà.
Secondo Edgar Morin I sette saperi necessari (ed. Cortina) sono i seguenti:
* Le cecità della conoscenza: l’errore e l’illusione
* I principi di una conoscenza pertinente
* Insegnare la condizione umana
* Insegnare l’identità terrestre
* Affrontare le incertezze
* Insegnare la comprensione
* L’etica del genere umano
I diritti naturali delle bambine e dei bambini, di Zavalloni
Il diritto all’ozio – a vivere momenti di tempo non programmati dagli adulti.
Il diritto all’uso delle mani – a piantare chiodi, segare e raspare legni, scartavetrare, incollare, plasmare la creta, legare corde, accendere un fuoco.
Il diritto agli odori – a percepire il gusto degli odori, riconoscere i profumi offerti dalla natura.
Il diritto al dialogo – ad ascoltare e poter prendere la parola, interloquire e dialogare.
Il diritto a sporcarsi – a giocare con la sabbia, la terra, l’erba, le foglie, l’acqua, i sassi, i rametti.
Il diritto ad un buon inizio – a mangiare cibi sani fin dalla nascita, bere acqua pulita e respirare aria pura.
Il diritto alla strada – a giocare in piazza liberamente, a camminare per le strade.
Il diritto al selvaggio – a costruire un rifugio-gioco nei boschetti, ad avere canneti in cui nascondersi, alberi su cui arrampicarsi.
Il diritto al silenzio – ad ascoltare il soffio del vento, il canto degli uccelli, il gorgogliare dell’acqua.
Il diritto alle sfumature – a vedere il sorgere del sole e il suo tramonto, ad ammirare, nella notte la luna e le stelle.
Sindacato e nonviolenza: un confronto di lavoro
Il Movimento Nonviolento è stato invitato al XVI° Congresso Nazionale della FIM/CISL, svoltosi a Carrara nei giorni 15/17 giugno. Il Movimento ha partecipato ai lavori del Congresso con una delegazione composta da Rocco POMPEO e Luca GIUSTI del Coordinamento e da SACCANI della Liguria, ed ha allestito un banco di materiali molto frequentato dai congressisti. Ai lavori del congresso ha portato il saluto del Movimento Rocco Pompeo, svolgendo l’ intervento che segue. Riconfermiamo tutta la nostra disponibilità ed il nostro interesse ad un lavoro con la FIM/CISL sui temi aperti dall’ intervento.
A cura di Rocco Pompeo
Cari amici della FIM / CISL,
grazie di averci invitato al vostro congresso, e di averci assicurato l’ opportunità di questo saluto. Non solo un saluto ed un augurio per i vostri lavori, per la verità, ma anche un intervento di lavoro. E’ la seconda volta che ci incontriamo nell’ ultimo anno, dopo il mio intervento al vostro Seminario di Bergamo su “Nonviolenza e conflitti sociali”. Intendo ancorare questa attenzione reciproca proponendovi qualche riflessione ed alcune indicazioni di lavoro, anche per far compiere un fruttuoso passo avanti alla significativa scelta della FIM per la nonviolenza, come si evince dalle tesi predisposte per i lavori congressuali. Grazie, dunque, alla FIM per questa scelta impegnativa, e permettetemi un grazie non di piaggeria al vostro segretario Giorgio Caprioli per la sua bella relazione : una relazione serena, severa, feconda ed impegnativa anche per noi.
1)
La conversione e la torsione verso la nonviolenza impongono un nuovo criterio di trasformazione sociale e di rivoluzione (è utile, forse, ricordare che in latino revolvo e converto hanno lo stesso significato!): una rivoluzione efficiente, di successo, ma anche efficace e di una qualche irreversibilità.
La prima consapevolezza che emerge, allora, è che una rivoluzione per essere positiva deve essere efficiente ed efficace. Ora, mentre la guerra può essere anche efficiente, cioè può avere successo – anche se per la verità sempre meno – ma non è mai efficace, perché determina sempre realtà di squilibri forieri di nuove guerre; la rivoluzione nonviolenta, invece, è sicuramente efficace, anche quando non appare del tutto efficiente, perché nelle sue metodologie coinvolge tutte le parti del conflitto, esprimendo un punto di vista più generale ed adottando soluzioni che vedono certamente parti perdenti, ma nessun sacrificato, sottomesso, o annientato.
2)
Partendo dalle parole d’ ordine del vostro congresso “capire le domande, trovare le risposte” ma giocando sull’ inversione dei colori delle scritte, vorrei provare a capovolgere i termini stessi per proporvi “trovare le domande, capire le risposte”. Voglio dire che è necessario leggere il presente per progettare il futuro, per elaborare appunto risposte adeguate: trovare le domande allora deve anche significare selezionale le richieste, i bisogni, le aspettative, le pressioni, ecc. per comprendere le risposte. Non si può aspettare che le situazioni e gli avvenimenti accadano per leggerne le complessità, le articolazioni, le contraddizioni, i conflitti, i possibili esiti (la situazione europea di queste ore non era forse leggibile nelle dinamiche dell’ ultimo decennio, con la centralità dell’ area del Pacifico e la decadenza dell’ area dell’ Atlantico?). Occorre, in altre parole, muovere una grande intelligenza del presente per guardare alla prospettiva, alle situazioni di un nuovo orizzonte. E’ stata molto efficace, ed anche molto bella, l’ immagine dataci da Caprioli dell’ orizzonte di ieri che oggi è l’accampamento, dell’orizzonte di oggi che sarà domani un nuovo accampamento, dal quale scorgere un nuovo orizzonte verso cui volgere il cammino. E senza nulla togliere alla creatività di Giorgio Caprioli voglio confortarlo segnalando che tutti i più grandi maestri della nonviolenza, a partire da Aldo Capitini, hanno utilizzato la stessa immagine ed hanno raccontato un percorso simile. Quando si ha a che fare con i valori avviene sempre che ogni conquista è transitoria perché essi non potranno mai essere realizzati compiutamente.
3)
Dalla storia del Movimento Operaio organizzato, e dal Sindacato in particolare, abbiamo imparato molto per la strategia e per le pratiche nonviolente; così come sappiamo bene che esso è portatore di una pratica concreta della teoria delle due fasi del potere (espressa da Capitini nel suo ultimo scritto Omnicrazia) : un potere che si esercita dall’ alto, ed insieme un potere che si costruisce prima della sua conquista, dal basso, in cammino, in solidarietà intersoggettiva. E’ in realtà la vera questione che abbiamo di fronte oggi, nell’ era della mondializzazione, ma anche nella dimensione della nostra quotidianità personale, sociale, politica, religiosa, economica, ecc. Siamo chiamati a scegliere tra una democrazia inclusiva ed un modello di società esclusiva. O, per dirla diversamente, la sfida che assumiamo oggi è quella di riuscire a coniugare sviluppo economico ed ampliamento della democrazia. Anche fondate su dati strutturali reali – ma assunti spesso in chiave ideologica e patinati di scientificità – si vanno sempre più diffondendo tesi di una inconciliabilità drammatica tra sviluppo ed emancipazione.
A far proprie tali tesi finiremmo per assumere come orizzonte del nostro lavoro un esito autoritario, sia che si acceda alla visione di quanti sostengono l’ urgenza e l’ opportunità di andare ad una sostanziale riduzione (se non addirittura una quasi cancellazione) del welfare state; sia che si condivida l’orientamento di coloro che al mantenimento di uno stato consolidato di benessere sociale ritengono comprimibili le libertà individuali, della persona, del cittadino e dell’ impresa. Dimenticando, invero, l’ammonimento di Lincoln che “un popolo che accetta limitazioni alla propria libertà per la sicurezza sociale, non merita né l’una né l’altra , e comunque alla lunga perderà entrambe”.
Il mercato, la competizione, la mondializzazione dell’economia, la centralità delle questioni monetarie non debbono, pur nella loro “oggettività”, soggiogare ed asservire le istituzioni e la politica producendo compressione sociale, emarginazione, sperequazioni incolmabili, divisioni territoriali, etnico-razziste.
4)
Le lotte sociali oggi hanno bisogno di superare le particolarità e le settorialità esclusive, per riaffermare con forza i criteri della territorialità, della partecipazione come fondamento del consenso sociale, della globalità della persona e del cittadino.
E se alla domanda se sia possibile assumere un criterio di nonviolenza da parte di una organizzazione sociale di massa, anche con valenze di tipo istituzionali come il Sindacato non è consentito fornire una risposta schematica e risolutiva, possiamo invece ben indicare un percorso comune, avviare un lavoro comune di confronto, di elaborazione, di iniziative, e di azioni pratiche.
Ecco quindi, alcune proposte di lavoro per far fare un passo avanti al nostro confronto:
a)avviare un gruppo di studio e di lavoro (anche come proposta unitaria alla FIOM ed alla UILM) sulla nonviolenza, e sui risvolti pratici della scelta per la nonviolenza: noi non faremo mancare la nostra presenza ed il nostro contributo.
b)promuovere a livello territoriale omogeneo un coordinamento per aree di settore (industria bellica, ad esempio, ma non solo) per esaminare le questioni dell’occupazione, delle riconversioni, della formazione, e della ricerca, in modo da essere coinvolti non solo dai problemi del lavoro e delle industrie nel momento della crisi, ma ponendosi anche come soggetti attivi e decisionali delle opportunità e delle opzioni.
c)Assicurare ed esprimere consenso e sostegno all’iniziativa del progetto di legge “Disposizioni per il riconoscimento di congedi ed aspettative per la partecipazione a missioni nell’ ambito dei Corpi Civili di Pace” (prima firmataria l’on. Tiziana Valpiana) presentato il 25 maggio scorso alla Camera dei Deputati anche con la nostra partecipazione.
d)Destinare una “quota” ( anche leggera all’inizio ) del proprio bilancio e delle proprie risorse – non solo finanziarie – all’ impegno reciproco da concretizzare:
– attraverso il sostegno e la promozione degli strumenti di lavoro e di informazione del Movimento Nonviolento (penso, ad esempio, ad azioni rivolte alla rivista fondata da Capitini Azione Nonviolenta, alle altre iniziative editoriali del movimento, ed al Centro Studi e Documentazione per la Nonviolenza);
– attraverso una conoscenza ed una discussione socialmente più ampia delle campagne del Movimento, come delle piattaforme e delle lotte sindacali;
– attraverso azioni e pratiche di lavoro di reciproco sostegno.
Non è retorica, credetemi, se con commozione personale richiamo le ricche esperienze personali di studente universitario con altri impegnato nel quartiere Corea di Livorno quando, coinvolti ed animati dalla guida e dall’ opera di don Alfredo Nesi, concretizzavamo la centralità e la dignità del lavoro nell’ organizzare sostegno concreto alle maestranze in sciopero o in occupazione, sfidando anche qualche denuncia.
Un Sindacato senza consenso sociale riduce fortemente la sua incidenza; gli amici della nonviolenza tendono al gruppetto senza incontrare il mondo del lavoro, e senza interagire con i suoi protagonisti.
Un fervido augurio per il lavoro e per la nonviolenza: due forze importanti e significative per contribuire all’emancipazione ed alla dignità delle persone, delle comunità, dei popoli, in Italia e nel mondo. Grazie.
Sandro Canestrini denunciato per “istigazione”
L’appassionata difesa dell’avvocato difensore
Per il valore che riveste, pubblichiamo alcuni stralci della memoria difensiva che l’avvocato Sandro Canestrini ha inviato alla Procura della Repubblica di Rovereto contro l’esposto di “Alleanza Nazionale” che lo ha denunciato per “istigazione di militari a disobbedire alle Leggi”.
Il 6 novembre 2004 gli amici della nonviolenza di Rovereto avevano voluto ricordare con un monumento i 470.000 uomini che non obbedirono alla chiamata alle armi per la Prima guerra mondiale (vedi “Azione nonviolenta”, dicembre 2004, pag. 19). Ad inaugurare il “Monumento al Disertore” era stato proprio l’avvocato Sandro Canestrini, storico difensore degli obiettori di coscienza al servizio e alle spese militari, fraterno amico, generoso compagno, presidente onorario del nostro Movimento.
MEMORIA DELL’AVVOCATO SANDRO CANESTRINI
(…)
Secondo la Costituzione della Repubblica italiana il ripudio della guerra è principio fondamentale.
Dallo stesso principio deriva l’obiezione di coscienza, come elemento fondamentale della nostra civiltà. Coloro che ci hanno denunciato, invece, respingono i valori della pace, della comprensione, della tolleranza. Si richiamano ad un articolo del codice penale, art. 266 “Istigazione di militari a disobbedire alle leggi”, che punisce chi lo viola con il carcere fino a sei anni.
Tutta la giurisprudenza, e in particolare quella legata alle denunce per manifestazioni pacifiste, osserva che l’art. 266, modernamente applicato, può invece convivere anche con le manifestazioni pacifiche e pacifiste.
L’articolo 266 è in contraddizione persino con una legge Regionale del Trentino – Alto Adige del 27 novembre 1995 n. 12, che cito:.. “equiparazione dei detenuti e prigionieri nei campi di concentramento, dei disertori e dei partigiani ai reduci e combattenti di cui alla legge regionale 19 dicembre 1994 n. 4”.
Nell’articolo 1 n. 4 si legge anche : “A tutte le persone che tra il 1939 e il 1945 si siano rifiutate di prestare servizio militare nel Trentino Alto Adige sottraendosi a tale servizio con la fuga, o che abbiano opposto resistenza passiva o attiva, nonché a quelle persone che per questo siano state vittime di persecuzioni violenza e prigionia, è riconosciuto lo stato di partigiano/a che ha combattuto nella resistenza contro il fascismo e il nazionalsocialismo”.
(…)
Diremmo che ad affossare la pretestuosa, infamante calunnia dei denuncianti basterebbe solo citare questa legge dove non solo la parola “disertori” assume una qualifica positiva di combattente per la libertà, ma addirittura viene indicata come situazione di chi ha sofferto persecuzioni per tale sua testimonianza. Anche i nostri denuncianti vivono in uno stato nato dalla Resistenza.
Il fascismo, e con lui i principi che hanno trascinato con le guerre al disastro l’Italia, che hanno causato morte di militari, di resistenti, di civili, di ebrei è condannato dalla Costituzione Italiana.
Ciò premesso vogliamo collocare l’episodio del novembre 2004.
L’avere segnalato al pubblico “il ricordo di coloro che abbandonando la divisa divennero uomini liberi” è una affermazione in linea con la civiltà e la Costituzione.
Gli eredi di un regime che fu servo di Hitler definirono “vigliacchi” gli obiettori e i nonviolenti.
Questa definizione è in linea con quanto dichiarò Benito Mussolini, che disse anche che la cultura era “un lusso inutile”.
La storia invece è piena di persone che in nome della cultura e dell’umanità si sono opposte alle guerre e alle ingiustizie: dal Papa che nel 1916 definì la guerra una “inutile strage”, alle persone che oggi si oppongono fermamente all’invasione dell’Iraq, anche se il loro governo l’ha appoggiata.
Intere generazioni si sacrificarono ad ideali di pace: come gli anabattisti nel 1500, l’ organizzazione religiosa dei “Testimoni di Geova”, decimata nei campi di concentramento nazisti, i ragazzi della “Rosa Bianca” che a Monaco vennero giustiziati, tutti i socialisti che si opposero alla guerra, gli antifascisti esuli che lottarono contro un regime guerrafondaio.
Forse chi ci ha denunciato non è a conoscenza delle sentenze pronunciate contro gli antifascisti imprigionati a Ventotene e nei campi di concentramento. Sono raccolte in volumi la cui lettura consiglieremmo ai nostri detrattori.
Chi ci denuncia forse non sa neppure che ventimila soldati tedeschi furono uccisi dal plotone di esecuzione per essersi opposti alla guerra e alle invasioni dei paesi limitrofi.
Sono anche questi dei vigliacchi? O non invece delle persone a cui l’Europa deve la libertà?
Si sta in questi giorni discutendo il processo per i massacri di Sant’Anna di Stazema: più di 500 i morti, per la maggior parte donne, vecchi e bambini. Sono degli eroi i militari che li hanno ammazzati? Anche qui si applica la teoria che chi era contro di loro era un vigliacco?
(…) “Battisti era un Patriota o un disertore?” chiedeva don Lorenzo Milani ai cappellani militari che avevano definito “l’obiezione di coscienza estranea al comandamento cristiano dell’amore” e “espressione di viltà” (1965). Don Milani sarebbe stato sicuramente d’accordo con il monumento incriminato: raffigura un elmetto abbandonato, dei piedi nudi che si allontanano, un fucile spezzato.
(…) Giá una volta un generale dell’esercito denunciò una cantante per una canzone popolare riproposta a Spoleto: si trattava di una canzone cantata dai soldati nella I° guerra mondiale dopo la battaglia attorno a Gorizia. Il testo “Oh Gorizia, tu sei maledetta” venne assolto assieme alla cantante. Un’altra canzone cantata dal popolo alla fine del 1800, edita dal Museo del Risorgimento e della Resistenza di Vicenza, dice: “Io son povero disertore/ abbandonai le mie bandiere/ di Ferdinando l’imperatore/ che mi ha perseguità “
Nel 1950 l’artista francese Boris Vian scrisse una canzone tradotta in italiano da Ivano Fossati. Inizia così: “In piena facoltà/ egregio presidente/ le scrivo la presente/ che spero leggerà / la cartolina qui/ mi dice terra terra/ di andare a far la guerra/ quest’altro lunedì./ Ma io non sono qui/ egregio presidente / per ammazzare la gente/ più o meno come me. / Io non ce l’ho con lei/ sia detto per inciso/ ma sento che ho deciso/ e che diserterò”.
Giorgio La Pira, Don Lorenzo Milani, padre Ernesto Balducci, Pietro Pinna, Aldo Capitini e il Movimento Nonviolento furono i padri delle leggi vigenti in materia di obiezione di coscienza, largamente condivise oggi da tutta la popolazione anche attraverso l’attività per la pace predicata da Padre Zanotelli.
Qualcuno, in relazione alla denuncia, scrive che noi abbiamo “gettato fango sulle istituzioni”.
Questa è solo una speculazione politica, così come è una speculazione definire il monumento “una barriera dissacrante dei valori e dell’impegno per la libertà”.
Persino negli Stati Uniti d’America il movimento dei disertori va sempre più ingrossandosi. Il numero dei disertori americani durante la guerra del Vietnam era stato imponente.
Darrell Anderson, artigliere USA, ha rilasciato poco tempo fa dal Canada, dove ha chiesto assieme ad altri asilo politico, queste dichiarazioni al giornale Paris Match. Dopo aver spiegato che egli si era arruolato per la guerra in Iraq ..“per pagare gli alimenti che versavo per mia figlia” fa scrivere all’intervistatore che ha preso la decisione di non tornare più alla sua unità. Il giornalista chiede: “In quel momento non le è parso di tradire? – L’interessato risponde così: “No, è il mio paese che ha tradito me. Questa guerra è illegale. Gli Iracheni che catturavamo con le armi in mano spesso ci dicevano che avevano impugnato le armi perché noi gli avevamo ucciso il fratello, o il figlio, o la moglie. Era la pura verità. Non ho paura di ciò che il governo potrà farmi se mi catturerà: niente potrà essere più terribile di quanto mi hanno già fatto”. Negli Stati Uniti Anderson rischia la pena di morte per queste dichiarazioni.
Si potrebbe finire citando Bertold Brecht: “Beato il paese che non ha bisogno di eroi”….
(…)
Con tali premesse e con riferimento a quanto qui sostenuto si confida che l’esposto – denuncia venga archiviato sia perchè, in primis, per la sostanza giuridica non contiene affatto l’incitamento di cui all’art. 266 del codice penale. Secondariamente esso contrasta la libertà di espressione, contrasta con la nostra civiltà liberale, contrasta con la Costituzione italiana.
Avv. Sandro Canestrini
Presidente onorario del Movimento Nonviolento
Rovereto, 11 aprile 2005
Le 10 caratteristiche della personalità nonviolenta 6
La disposizione al dialogo
di Elena Buccoliero
Il conflitto è risorsa, la diversità è ricchezza. È in quest’ottica che la disposizione al dialogo assume senso e prospettiva in quanto strumento di conoscenza dell’altro.
Giuliano Pontara nel suo Dieci caratteristiche della personalità nonviolenta ricorda che “…ha grandissima importanza la disposizione ad argomentare e ascoltare gli argomenti della parte opposta, e quindi lo sforzo di tenere continuamente aperti canali di comunicazione con essa”.
Nella tendenza generale all’evitamento del conflitto o al suo congelamento in equilibri provvisoriamente composti sul pregiudizio o il non ascolto dell’altro, parole come queste ci sollecitano ad ampliare lo sguardo e a ricordare che solo attraverso l’incontro con la diversità si cresce e si cambia.
Proviamo a ricominciare da principio. Il conflitto è risorsa, la diversità è ricchezza: sacrosanto. E parziale. Chi frequenta ambienti formativi o si occupa ad un qualunque titolo di gestione dei conflitti potrà forse condividere una noia o un’impazienza di fronte a questi che rischiano di restare ritornelli privi di spessore, se non provati da un affondo personale e vero.
Il conflitto è anche disagio, difficoltà, sofferenza. Ci sono ambienti dove c’è da vergognarsi a ricordarlo. Chi solo ci prova – l’ingenuo! – viene guardato con acuta disapprovazione dagli astanti, quasi avesse osato profanare un’acquisizione indiscutibile. E allora si potrebbe ripartire proprio da qui, dalla disposizione al dialogo con sé stessi, dall’ascolto e accoglienza del proprio vissuto e del proprio limite, per non rischiare di ridurre la presenza nel conflitto a qualcosa di asettico e vuoto, colmo di solitudine, irreale.
Il dialogo nel conflitto è un passo necessario e difficile, nel quale si cresce non senza fatica. Alla base di questa attitudine, scrive Giuliano Pontara, “è l’accettazione del principio del fallibilismo. Questo principio ci dice che siamo tutti mortali con poteri di conoscenza limitati onde nessuno può mai dirsi sicuro che quello che in un certo momento crede essere vero, in effetti sia tale: può benissimo darsi che sia falso”. Come può darsi – vorrei aggiungere – che non sia falso ma incompleto, cioè abbracci solo una parte di quello che può essere visto, perché strettamente legato al proprio punto di osservazione.
Il disegno di Sasha
La definizione che più mi piace di disposizione al dialogo mi viene dalle “Sette regole dell’arte di ascoltare” di Marianella Sclavi, e precisamente la terza: “Se vuoi comprendere quel che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva”.
Sasha ha disegnato una casa in mezzo al bosco e su quel foglio continua ad aggiungere segni e a cancellarli. Siamo in quarta elementare, nel pieno di un laboratorio di scrittura collettiva, e Sasha è un bambino bielorusso adottato da una famiglia italiana dopo alcuni anni di vita in un orfanotrofio. Non ha ancora dimestichezza con la nostra lingua e, per questo, ha faticato a prendere parte al dialogo da cui è scaturita la storia che ora stiamo per scrivere. Sasha che non parla bene l’italiano, tutti si aspettano che si dedichi alle illustrazioni, non che cincischi su di un foglio per due ore.
“L’ho visto subito”, conclude l’insegnante. “Non fa niente, non ha voglia di far niente…”.
Un po’ di attenzione e di ascolto per capire quello che sta facendo Sasha. Ha disegnato su un grande foglio l’ambientazione della storia e ora sottovoce la sta raccontando. I segni che traccia e cancella continuamente sono i personaggi che escono dalla casa o si muovono nel bosco. Ogni volta che si spostano Sasha li cancella per disegnarli nuovamente nella nuova collocazione.
Sasha ha capito perfettamente la storia, è dentro al lavoro quanto gli altri, semplicemente sta procedendo secondo una logica diversa da quella dell’insegnante. E lei, che pure è davvero un’ottima insegnante, presa dall’impegno di tenere a bada venticinque bambini e forse dalla stanchezza si sta perdendo un fatto meraviglioso e potente dal punto di vista educativo. Glielo faccio notare e quasi si commuove: “Chissà se mai qualcuno gli ha raccontato una favola prima che arrivasse qui…”.
Vedo spesso, nella scuola, questa fatica degli adulti di decentrarsi, di ammettere che un bambino o un ragazzo proceda secondo una strada diversa da quella prefigurata. Mi pare che l’errore della maestra stia nel “subito”. L’insegnante “ha visto subito”, cioè si è tolta la possibilità di guardare davvero.
Ancora Marianella – è la regola numero uno: “Non avere fretta di arrivare a delle conclusioni. Le conclusioni sono la parte più effimera della ricerca”.
Trasformare le ferite
Si raccontano storie per farsi compagnia, per superare le attese, per sciogliere nodi, per colmare distanze. Si raccontano storie – purché qualcuno le ascolti – per sopportare un’assenza amata, o la mancanza di una soluzione. “Quello che non ha una spiegazione ha però una storia”, ha detto qualcuno che non so.
“One by One”, uno ad uno, è l’associazione che promuove il dialogo tra sopravvissuti dei lager nazisti – o i loro figli, nipoti… – e nazisti – o i loro figli, nipoti…
L’orrore ha radici profonde, travalica le generazioni. In questi incontri, che a Berlino annualmente si ripetono, tutto quello che fanno, queste persone insieme, è raccontarsi la loro storia personale, mettere in comune la sofferenza in un cammino di liberazione che trasforma le ferite senza negarle o cancellarle. Esperienze come queste sono un’alternativa possibile, praticata, meravigliosa, durissima, alla vendetta e alla lacerazione. Ritorna nei percorsi di Verità e Riconciliazione come in Parents’ circle, l’associazione che riunisce i parenti delle vittime israeliane e palestinesi, o nel libro “La storia dell’altro” che giustappone la storia del conflitto mediorientale nelle due versioni, di giovani israeliani e di coetanei palestinesi, o in molto altro ancora… È l’opposto di qualunque muro e non ha niente di rassicurante perché è fragile, continuamente minato dal ribollire della violenza. Dà l’idea di una giustizia che per un attimo mette da parte pesi e misure e percorre la via del dialogo.
La partecipazione che vorrei
“Ascoltare e parlare, mai l’uno senza l’altro”, mi ricorda un amico il motto dei COS di Aldo Capitini, che ha un corollario di grande saggezza: “Chi può parlare ascolta con più attenzione”.
I COS, Centri di Orientamento Sociale, corrispondevano nel pensiero capitiniano all’antidoto contro l’inevitabile distanziamento dei partiti e delle istituzioni democratiche dalla gente. È commovente rileggere oggi gli argomenti in discussione: si va dal prezzo del latte ai dogmi del cattolicesimo, dalla difficoltà di trovare, alla bisogna, un idraulico, alle modalità di riapertura delle scuole o del Teatro Comunale, all’obiezione di coscienza. “Patate e ideali”, raccomandava Capitini.
Assistiamo ora ad una ripresa di attenzione delle istituzioni verso la partecipazione: agende 21, bilanci partecipati, piani di zona… Assemblee di tanti generi per sostenere, confermare, rimpolpare la legittimità di scelte già prese o – qualche volta – per suggerirne di altre.
Alcuni percorsi li vedo dall’interno. Si considera un successo che la sala sia piena e la gente prenda parte al dibattito. Se si teme un flop si sceglie una sala più piccola. Se si parla di giovani ci si incontra di mattina, coartando classi scolastiche per assicurarsi di riempire le sedie. Poca importanza alla qualità del processo, alla rappresentatività delle persone riunite, alla competenza con cui si interviene. Ho visto rappresentanti sindacali forzati nel gruppo sull’aggregazione giovanile perché quello sull’occupazione era già troppo numeroso e educatori discutere di politiche del lavoro di cui non avevano conoscenza. C’è sempre la scusa delle competenze diffuse, naturali, trasversali. Intanto un gruppo di ragazzi inventava un servizio di informazione e si dispiaceva di scoprire che gli Informagiovani esistono già, e da tempo. “Ma se avete inventato tutto, cosa volete da noi?”, sembravano dirci. Poi il tempo scade e i gruppi devono sciogliersi, a qualunque punto siano arrivati.
Resta il dubbio intorno ad una partecipazione senza competenza, che non sa ciò di cui si parla e, dunque, ha poco margine per portare un’aggiunta. E il dubbio è anche sulla partecipazione forzata, coartata appunto, perché se un’istituzione apre le sue porte non è affatto detto che i cittadini si mettano in fila per entrare – è molto più probabile, e scoraggiante, incontrare laghi di passività, assenza di richieste -, e se è l’istituzione a spingerli dentro probabilmente non sarà poi veramente interessata ad ascoltarli, né loro ad esprimersi.
L’urgenza del dialogo, dove il conflitto non c’è
Parla, Pontara, di “disposizione al dialogo” come attenzione nonviolenta da praticare nelle situazioni di conflitto. Ma se davvero il dialogo è “ascoltare e parlare”, bisognerà reclamarne l’urgenza dove il conflitto non c’è e al suo posto regna l’indifferenza. In una cultura televisiva dove la comunicazione procede da una sola direzione lasciando poco più che la possibilità di assistere, si spaccia per rivoluzionario tutto ciò che ribalta questo modello senza modificarlo. Avviene allora che si inventino spazi nei quali tutti possano dirsi artisti o opinionisti o altro, e che l’accento non vada posto su “che cosa” viene detto o su “chi” è stato ad ascoltare, ma sul fatto che si è avuta la possibilità di prendere la parola. Come dire: stavolta tocca a me. Che poi le parole cadano nel vuoto, questo è del tutto indifferente. Penso a volte: siamo troppo mediamente benestanti, mediamente comodi, mediamente foderati di fronte alla sofferenza nostra o altrui, siamo troppo al sicuro da una qualunque urgenza perché nascano idee, politica, curiosità, arte davvero.
Camminando sul Pasubio con la speranza nel cuore
Di Massimiliano Pilati
Domenica 22 maggio il Movimento Nonviolento del Trentino in collaborazione con il Forum Trentino per la Pace e con i Comuni di Trambileno e Vallarsa e con il patrocinio della “Tavola della Pace” e della “Marcia Perugia-Assisi”ha promosso la 1^ Camminata per la Pace – “Ricordando Aldo Capitini” lungo il Sentiero della Pace del Monte Pasubio. La manifestazione era organizzata nell’ambito della “Giornata italiana della Cima per la Pace” ed in occasione della ricorrenza dell’anniversario dei 90 anni dall’entrata in guerra dell’Italia.
Una sessantina di persone si sono date appuntamento a malga Giazzera e hanno camminato assieme fino al Rifugio Lancia per quei bellissimi luoghi tanto segnati dagli orrori della guerra e, come in una sorta di Via Crucis laica, hanno condiviso delle soste di riflessione e di lettura di brani significativi di Aldo Capitini. Con l’occasione si è cercato di far conoscere il pensiero e l’azione dell’ideatore della Marcia Perugia – Assisi e fondatore del Movimento Nonviolento. Dopo una sosta al Rifugio Lancia un gruppo di noi è poi salito fino alla cima del Monte Pasubio a far sventolare la multicolore bandiera della Pace con la consapevolezza che in altre centinaia di cime di tutta Italia altri militanti facevano la stessa cosa.
Questa la breve cronistoria di quella domenica, ma mi piacerebbe qui brevemente condividere alcune sensazioni che ho provato nel camminare assieme ai tanti amici della nonviolenza giunti da varie parti del Trentino e dell’Italia.
Nel 1915, verso fine maggio su Cima Col Santo, sul Monte Pasubio e per altri 200 km di fronte “montano” tuonavano i cannoni e spari di mitragliatrice, granate e mortai deturpavano per sempre quel paesaggio e si prendevano centinaia di vite nel fiore dei loro anni.
Una domenica di fine maggio del 2005, forse troppo suggestionato dalle letture sui fatti di quel posto mi sono messo ad “ascoltare quel luogo” e mi è parso di udire le urla dei soldati e i rumori di quell’inutile guerra. E’ stata, per me entusiasta organizzatore dell’iniziativa assieme all’amico Gigi Casanova, una domenica strana. Camminavo con gioia, conversavo amichevolmente con le amiche e gli amici presenti, ma allo stesso tempo provavo una profonda tristezza ed emozione nel percorre quei posti. I luoghi dove forte è stata l’impronta lasciata dalle guerre mi suggestionano, mi emozionano. Da quando, obiettore di coscienza, visitai i luoghi dell’eccidio di Monte Sole nel bolognese ho la netta sensazione che quei luoghi mi parlino. Parlano a me e a tutti quelli che hanno voglia e coraggio nel fermarsi ad ascoltare i loro orrendi racconti di morte e il grido finale che raccolgo è sempre lo stesso: “MAI PIU’!”.
Il piccolo cimitero austroungarico alla partenza, quegli scavi nella roccia subito sopra il Rifugio Lancia, i buchi delle granate in Cima, uniti ai racconti dettagliatissimi dell’amico Gigi incombevano come dei macigni e io m’immaginavo questi splendidi posti come dovevano essere 90 anni fa.
“Tanto dilagheranno violenza e materialismo, che ne verrà stanchezza e disgusto; e dalle gocce di sangue che colano dai ceppi della decapitazione salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’orrore, e di instaurare subito, a cominciare dal proprio animo (che è il primo progresso), un nuovo modo di sentire la vita: il sentimento che il mondo ci è estraneo se ci si deve stare senza amore, senza un’apertura infinita dell’uno verso l’altro, senza una unione di sopra a tante differenze e tanto soffrire. Questo è il varco attuale della storia”.
Sarà stata sempre la suggestione, ma nel momento in cui, a fianco della bandiera della Pace e quella col fucile spezzato si sono lette quelle parole di Aldo Capitini, le urla di quel luogo che continuavano a tormentarmi hanno taciuto e il luogo stesso mi pareva ascoltasse. E’ difficile spiegare come un luogo e le persone che lo hanno vissuto ti provochino sentimenti tanto forti e non oso nemmeno avventurarmi nella compresenza capitiniana tra vivi e morti, ma attorno a me mi è sembrato di percepire fiducia; fiducia nel pensiero e nell’azione di uomini come Capitini e di chi vorrà intraprendere la strada da lui indicata; ho visto la speranza tornare in quel luogo.
PER ESEMPIO
A cura di Maria G. Di Rienzo
Lo sciopero della fame delle detenute palestinesi
Era l’ora d’aria del 28 novembre 2004. Ma non era ancora trascorsa, quando le guardie ordinarono alle detenute palestinesi della prigione di Telmond di rientrare nelle loro celle. La loro rappresentante, Amna Mouna, lo disse alle guardie. Perciò fu pesantemente picchiata e trascinata in una “cella punitiva”, una stanza priva di letto, riscaldamento e luce.
Indignate, le altre detenute cominciarono ad urlare e a chiedere che la loro portavoce fosse immediatamente fatta uscire dall’isolamento. Le guardie carcerarie risposero con un brutale attacco in massa, armate di bastoni, e inondarono le prigioniere di acqua e gas. Tre di esse, Sana Amer, Suad Ghazal e Asma Hussain, riportarono fratture a gambe e braccia, mentre altre 13 donne furono condotte in isolamento. L’amministrazione carceraria non fornì alcun soccorso medico alle donne ferite, ne’ lo fornì per la persona che aveva sofferto di più, ovvero il piccolo Nor, nato in prigione da Manal Ghanem il 10 ottobre 2003. Dopo essere stato investito dai fiotti di acqua gelida e dal gas, Nor si è seriamente ammalato.
Ci furono altre misure repressive, che attendevano le donne al ritorno nelle loro celle: l’amministrazione carceraria aveva sospeso l’erogazione di elettricità ed acqua, ed aveva confiscato le loro scorte personali di cibo e sigarette (cose che le donne avevano pagato all’amministrazione con il proprio denaro); inoltre, nel deliberato tentativo di rendere ancora più miserabile la loro situazione, i materassi e le coperte erano stati inzuppati d’acqua. Essendo inverno, le donne non avevano alcun modo di far asciugare i loro letti e furono costrette a servirsene così com’erano, mentre il puzzo dei gas impregnava corpi e oggetti.
Le condizioni di vita nella prigione di Telmond non erano decenti neppure prima del “giro di vite” dell’amministrazione carceraria, con 86 detenute (di cui cinque minorenni) costrette ad affollare in cinque per volta celle disegnate per contenere al massimo due persone, ma l’attacco del 28 novembre spinse la totalità delle donne ad un’azione nonviolenta di protesta contro i maltrattamenti, molto comune alle prigioni di tutto il mondo: lo sciopero della fame. L’amministrazione carceraria venne a patti con le donne dopo tre giorni di protesta, il 1° dicembre 2004, incalzata anche dal fatto che la notizia dello sciopero aveva raggiunto l’esterno tramite un’avvocata della sezione palestinese di Defense Children International.
Lo sciopero della fame è un’azione allo stesso tempo potente, delicata e a volte controversa, che ha lo scopo di forzare gli oppositori a consultare la propria coscienza e il cui messaggio simbolico è: sono disposto/a a soffrire, e (qualora sia condotto ad oltranza) persino a rinunciare alla vita, purché mi si ascolti, purché questo problema venga alla luce, eccetera. Condotto collettivamente interessa di solito gruppi di ispirazione religiosa o comunità chiuse (prigioni, caserme, collegi) per le quali è anche una delle forme di azione più accessibili; condotto individualmente può essere collegato ad una campagna oppure configurarsi come un momento molto personale di riflessione e/o protesta. Lo sciopero della fame non va mai scelto con leggerezza, perché il rischio della sua banalizzazione è alto, soprattutto in Italia ove è collegato nell’immaginario collettivo ad alcuni personaggi che ne hanno fatto un uso spesso scriteriato. Nel caso delle detenute di Telmond lo sciopero della fame era appunto una delle scelte ovvie a disposizione, ma la chiave del successo consisté nel riuscire a proiettare la protesta all’esterno grazie all’intervento di Defense Children International: era difficile non solidarizzare con le prigioniere, qualunque fosse il motivo che le aveva portate in carcere, perché le loro rivendicazioni consistevano nella richiesta di un trattamento più umano; come era difficile guardare l’immagine di un bimbo di un anno e sostenere che avesse in qualche modo “meritato” il trattamento ricevuto.
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Sulle spiagge della Sardegna ignari dell’uranio americano
Nel luglio dello scorso anno, i giornali diedero ampio risalto ad una notizia riportata da un piccolo quotidiano di provincia americano, il The Day di New London, secondo il quale il sottomarino “Uss Hartford”, di stanza alla base statunitense della Maddalena, in Sardegna, spanciandosi nell’ottobre precedente sulla Secca dei Monaci, avrebbe rischiato di provocare un disastro nucleare nell’isola.
Come noto, la base della Maddalena è da anni al centro di furiose polemiche: aperta nel 1972 dopo un accordo segreto, siglato tra Pentagono e governo Andreotti, mai ratificato dal Parlamento Italiano e dal Presidente della Repubblica, ospita circa tremila uomini, diverse navi da guerra e due sommergibili nucleari. In Sardegna la presenza dei soldati è imponente: quasi 38mila ettari, il 60 per cento di tutte le servitù militari italiane, si trovano infatti nell’isola.
Il comando americano è situato su una nave al largo della costa, la Emory Land, da 22.600 tonnellate, con mille uomini di equipaggio, insieme officina e arsenale galleggiante, con a bordo i missili da crociera Cruise a testata nucleare. Visto che Emory Land è a tutti gli effetti territorio degli Stati Uniti d’America, ogni controllo non è possibile neanche da parte delle autorità militari italiane.
Nonostante la richiesta della Regione di smantellare progressivamente la base, per far posto a più redditizie attività di turismo in uno dei mari più trasparenti del mondo, la Camera dei Deputati aveva approvato nel febbraio 2004 un progetto di ampliamento delle strutture che ospitano le famiglie dei soldati USA. L’ambasciatore americano Sembler ha stimato in 35 milioni di euro la ricaduta economica sull’isola derivante dalla presenza del contingente, ma dando anche per vera questa cifra si può intuire facilmente il guadagno che deriverebbe dall’utilizzo a fini turistici di quei chilometri di coste. Il solo indennizzo ai pescatori che per i 184 giorni di fermo forzato della pesca hanno ottenuto 40 euro al giorno, è costato circa 1 milione di euro. Senza contare il pericolo delle contaminazioni: se verranno confermati i dati rilevati da Legambiente e dal CRIIRAD per conto del WWF lo scorso aprile, La Maddalena è contaminata da plutonio proveniente dalla base militare.
Il nuovo presidente della Regione, Renato Soru, si è presentato più volte in audizione davanti a Camera e Senato. “Noi continuiamo a dire in ogni sede che abbiamo già fatto la nostra parte per la difesa nazionale e per la difesa dell’occidente nell’Alleanza Atlantica. Adesso ci deve essere dato il cambio. Chiediamo che gli americani vengano da turisti, chiediamo che lascino la Sardegna con amicizia, come con amicizia sono venuti. Quell’area è uno dei punti di richiamo del turismo internazionale – ha ribadito – c’è un parco nazionale, uno internazionale delle Bocche di Bonifacio, un pregio ambientale elevatissimo, che rende incompatibile anche un lontano rischio di incidenti nucleari”. Fino ad ora, le sue richieste sono rimaste inascoltate. “La base americana della Maddalena garantisce oggi 180 posti di lavoro”, prosegue il presidente della Regione: “non siamo in grado, noi sardi, di fare meglio di quei 180 posti?”
Analoghe contestazioni coinvolgono i poligoni di tiro di Capo Frasca (Oristano), Perdasdefogu-Salto di Quirra (13 mila ettari), Capo Teulada (7 mila ettari) e Decimomannu (Cagliari), dove vengono esplose il 70% delle bombe utilizzate per addestramenti in Italia e l’utilizzo di proiettili all’uranio impoverito potrebbe aver causato l’incremento di nascite con malformazioni e l’inquinamento delle falde acquifere.
Secondo Greenpeace, ogni giorno sono in circolazione nel Mediterraneo dai 10 ai 13 reattori nucleari sui 167 presenti nel mondo (158 sommergibili e 7 portaerei), con punte di 22 quando arrivano gli “ospiti” della Flotta Americana. Reattori ambulanti di cui si sa poco o nulla.
Per approfondimenti:
http://freeweb.supereva.com/gettiamolebasi/index.htm?p
www.vialebasi.net
LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Exa condannata alla riconversione
Gli attivisti della Rete dei Gruppi di Azione Nonviolenta (Gan) lo scorso 17 aprile hanno processato la Fiera Exa di Brescia, rassegna di armi leggere terza al mondo per ampiezza espositiva e presentata come vetrina di armi sportive e dell’outdoor. Un processo in piena regola che vedeva oltre all’imputata Exa, in quanto rappresentante del fiorente commercio di armi leggere, anche i ruoli dell’accusa e della difesa che hanno inscenato con un dialogo argomentato e ironico le contraddizioni di una fiera che ha avuto anche quest’anno più di 35mila visitatori. Incorruttibile il giudice che con voce tuonante ha scandito i quattro momenti del dibattito processuale.
Il primo tra questi si basava sul fatto che Exa è l’unica fiera di armi al mondo a consentire l’accesso ai minori di 18 anni. In questo punto non è mancato un chiaro riferimento ai bambini soldato impegnati in conflitti armati e agli incidenti da armi da fuoco che coinvolgono i bambini in casa. E per dare un’alternativa ai figli di quei genitori ansiosi di vedere l’esposizione di armi i Gan hanno allestito il “Ludobus”, un accogliente punto di recupero dalla cultura di violenza e prepotenza che sta alla base dei rapporti armati dei conflitti.
Secondo capo d’accusa è stata l’esposizione all’interno della fiera di armi da difesa e attrezzature per la sicurezza, in violazione della delibera del comune di Brescia, con la quale nel 2004 si chiedeva che i due differenti tipi di armi venissero esposti separatamente. Ascoltate l’accusa e la difesa è arrivata la sentenza del giudice che ha condannato Exa a rispettare la delibera richiamando le organizzazioni pacifiste a segnalare ogni irregolarità alle autorità competenti. E così è stato visto che nella giornata si è tenuta una “visita guidata” degli attivisti del Brescia social forum, Gan e di Rete di Lilliput che hanno verificato che gli espositori quali Beretta, Benelli, Sako, Cop Shop, Browning international usavano espressioni tipo “sniper-cecchino” o “tiratore scelto” in aperta violazione dell’articolo 15 del regolamento stesso della fiera. E in merito a questo è partita una lettera-esposto sottoscritta da una cinquantina tra consiglieri, gruppi, associazioni – locali e nazionali – in cui si chiede la modifica chiara del regolamento in modo che non vengano più esposte armi da difesa e vengano presi provvedimenti verso le aziende che hanno violato l’attuale regolamento.
La diffusione di immagini di guerra è stato il terzo capo d’accusa che è stato comprovato dai depliants trovati all’intero della fiera che ritraevano i combattimenti della guerriglia militare nel mondo nonchè di stemmi della cerchia fascista della ‘X° Mas’ e di svastiche naziste. Di questo materiale assolutamente “fuori regolamento” si è parlato anche con i passanti che richiamati dal rullo dei tamburi e dalla scenografia del tribunale hanno colto vari spunti di riflessione e in certe occasioni interagito con il ‘processo’. Tra gli spettato del ‘processo’ ci sono stati anche vari espositori-armieri che sono usciti a sentire con le loro orecchie le chiare accuse che li vedevano coinvolti.
Exa si è vista accusare di incentivare la produzione e il commercio di armi. Ed è proprio su questo capo d’accusa che il giudice ha concluso il processo condannando Exa ad avviare un processo di riconversione dell’industria bellica e a firmare un trattato internazionale che regoli il commercio delle armi. In conclusione il giudice ha richiamato le associazioni pacifiste che hanno aderito alla campagna “Disarmiamo Exa” a promuovere il rilancio della legge 6/94 per la riconversione dell’industria bellica in Lombardia che istituiva un’Agenzia che non è mai stata finanziata e sostenuta. Il ‘processo a Exa’ si inserisce come tappa della campagna Controllarms che a livello internazionale chiede la ratifica di un trattato internazionale sul commercio delle armi e a livello italiano una legislazione più rigida in materia di armi leggere, rafforzando i vincoli all’export, aumentando gli standard di trasparenza e tracciabilità.
La pressione davanti a Exa ha trovato il sostegno del cartello di associazioni locali che per il secondo anno hanno organizzato Expa, l’Esposizione di Pace che sotto un tendone ha presentato ai passanti esperienze di interposizione nei conflitti oltre ad approfondire le possibili vie per dei percorsi di disarmo.
Andrea Trentini
redattore di Unimondo.org
EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Un laboratorio maieutico in Puglia
Nonviolenza tra educazione e politica
Il “Gruppo Educhiamoci alla Pace ”di Bari ha fortemente voluto promuovere un laboratorio maieutico con l’inossidabile e competente calabrese Raffaello Saffioti, collaboratore di Danilo Dolci, dell’Associazione Associazione Casa per la pace “D.A. Cardone” di Palmi. La tematica che ha fatto da sfondo integratore era impegnativa nonché ampia ed insidiosa: Il cammino della nonviolenza tra educazione e politica.
Immersi in un paesaggio rigoglioso proprio della stagione primaverile, tra ulivi, trulli e ciliegie, un motivato gruppo si è ritrovato per farsi interpellare su questioni vitali, rendendosi conto che viviamo una fase storica e sociale in movimento. Siamo partiti interrogandoci sull’importanza basilare delle relazioni umane, la cui faticosa e necessaria qualità, sempre da costruire, rende lo scandire del tempo della nostra vita quotidiana significativa e sensata. Sì, perché non si può pretendere di istaurare e fondare una nuova politica senza prendersi cura del benessere personale e collettivo. Segnali incoraggianti di cambiamento, in tale direzione, sono emersi dalle recenti elezioni regionali, specie nel sud, che ci spingono inevitabilmente a cambiare rotta, a partire da un auspicabile confronto per rilanciare lo sviluppo sostenibile tra la Puglia di Nichi Vendola e la Calabria di Agazio Loiero. Ci siamo chiesti, allora, come tra queste regioni si possono costruire ponti di giustizia e di democrazia partecipata, essere disponibili ad intravedere orizzonti intrisi di pace e di nonviolenza attiva, solida, dal basso. E quando ci siamo interrogati su quale nuova politica intraprendere, ci siamo rifatti a quella lapidaria ed attuale definizione dei ragazzi della scuola di Barbiana di don Milani “…ho imparato che il problema degli atri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. La politica, ci siamo detti, è uno straordinario strumento per risolvere e rendere sereni ed attivi i cittadini se è funzionale a garantire un benessere integrale, con il contributo e il coinvolgimento di tutti,senza avarizia e tentazioni di rinchiudersi nel proprio particolarismo privato che provoca indifferenza e pigrizia. E ci siamo convinti che la politica deve essere influenzata positivamente ed orientata da processi educativi permanenti, in grado di trasformare ed operare per la crescita e lo sviluppo. Costanti processi educativi, in tal senso, possono essere capaci di collegare l’etica all’estetica, l’utopia alla concretezza, la pace al realismo, i sogni alla quotidianità, la politica alla nonviolenza. Dopo aver prospettato una bibliografia mirata ed aver permesso ai partecipanti di sfogliare e vedere sul grande tavolo i libri, si è convenuto di puntare sulla necessità imprescindibile di creare un Centro Studi e documentazione, per ricercare, approfondire, riflettere ed esplorare strade, non ancora percorse. Tutto questo ci siamo domandati può essere molto utile per creare collegamenti tra gruppi, facilitare scambi di esperienze, promuovere reti virtuose. Il rievocare la vita e le opere di testimoni come Gandhi, Milani, Bello, Dolci, Capitini, Balducci e La Pira hanno spronato tutti noi a percorrere cammini impegnativi di liberazione e di pienezza. Abbiamo vissuto, perciò, un laboratorio maieutico intenso ed emozionante. Ognuno ha potuto esprimersi liberamente, sentirsi a proprio agio, senza essere giudicati. Ci siamo regalati pezzi di vita, scorci e colori dell’anima, tasselli di umanità, tralci di inquietudine, scambi di desideri, sprazzi di delusioni, voglia di condivisione di speranze. Abbiamo potuto con lealtà dichiarare i nostri limiti, abbiamo posto interrogativi e riformulato altre domande di senso. Insomma, senza sciocche pretese esaustive, abbiamo vissuto, grazie al raffinato coinvolgimento di tutti, un’esperienza di maieutica calda, non spiegata, asettica, che è riuscita a farci percorrere un tratto di strada,verso una consapevolezza scomoda ed utile allo steso tempo,capace di farci assumere un impegno politico ed educativo serio e rigoroso. In grado di rappresentare linfa vitale che scorre, scuote, agisce. Tenendo lontani gli inaffidabili e pericolosi compagni di viaggio quali il virus del dominio, della prevaricazione, dell’ingiustizia e di tutte le violenze. “Ciò che importa è che la nonviolenza si faccia strada, in ogni gruppo politico e a questo riguardo credo nel mantenimento di un contatto costante con persone che si augurano una trasformazione profonda, rivoluzionaria ma nonviolenta dei rapporti sociali” così scriveva Danilo Dolci nel 1958. Sulla scia di queste considerazioni, vogliamo con passione e convinzione far posto ad una pratica comunicativa creativa, gioiosa, contagiosa.
Eugenio Scardaccione
“Gruppo Educhiamoci alla Pace”-Bari
LIBRI
A cura di Sergio Albesano
ALBERTO TREVISAN, Ho spezzato il mio fucile, EDB, Bologna 2005, pag. 142, € 10,50.
Davvero, in quegli anni ormai lontani, un fantasma si aggirava tra i tribunali militari e le prigioni del nostro Paese.
Era quello di Alberto Trevisan, che ora, in questo libro, narra le prepotenze atroci del potere e le lusinghe che venivano affacciate per indurre gli obiettori di coscienza a desistere dal loro atteggiamento.
Narrazione precisa e puntuale dei luoghi dove la sua libertà è stata coartata, dei volti arcigni che credevano di umiliarlo, di situazioni che somigliavano troppo spesso alla lotta del topolino contro la montagna.
Il libro narra come il topolino ha vinto. È un libro nel quale si legge come la volontà onesta e serena e la persuasione di chi sa quello che sta facendo possono ancora e sempre vincere contro la bestialità. Appunto, contro la bestialità della guerra: che rappresenta da sé sola il concetto più orrendo che l’umanità abbia mai realizzato al posto della forza del diritto, cioè il diritto della forza.
Allora alcuni dicevano che “l’obiezione di coscienza è uno stupido sogno irrealizzabile”. Oppure addirittura che “l’obiezione di coscienza è l’arma dei vili, è l’arma dei servizi segreti di Mosca”. Tutto è stato detto contro Trevisan e contro chi la pensava come lui. Poi i tempi sono maturati in una situazione politica che ha visto spesso i partiti tradizionali anche di rinnovamento in ritardo, molto in ritardo.
Pochissime organizzazioni, e tra esse meritorio Il Movimento Nonviolento che trovava prima a Perugia e poi a Verona una voce per la diffusione degli ideali di nonviolenza, fino ai singoli che si ispiravano ad idee di pace, laiche o religiose.
Ora questa battaglia è stata vinta, anche se in una forma non certo soddisfacente e anche se alcuni grandi problemi sono ancora in discussione. Ma abbiamo Alberto Trevisan con noi, è qui, insieme alla sua splendida consorte e ai suoi ottimi ragazzi, è qui con noi e mostra a tutti il suo certificato penale dove ora al posto dell’elenco delle condanne che ha subito, vi è scritto un “nulla”, a testimonianza che anche il potere ha riconosciuto che “nulla” si poteva dire contro di lui. Quel “nulla” significa l’attestazione in una sola piccolissima parola della nobiltà di una vita.
Sandro Canestrini
Il libro di Alberto Trevisan può essere richiesto alla nostra Redazione.
Cinzia Picchioni, Semplicità volontaria, come inquinare e consumare di meno, Edizioni L’Età dell’Acquario, Torino 2003, pagg. 140, € 13,00
Troppo cemento, troppe automobili, troppo cibo, troppi rifiuti, troppi prodotti usa e getta non creano un mondo migliore.
La “semplicità volontaria” è una semplicità di vita scelta consapevolmente da milioni di persone in tutto il mondo, vuol dire consumare in modo equilibrato, rispettando l’ambiente e accrescendo l’autonomia personale. Questo libro spiega come fare giorno dopo giorno.
L’autrice ha raccolto in questo volume una miniera di informazioni, dati, consigli, riflessioni, accorgimenti utili a mettere in pratica nella vita quotidiana (dalla casa, agli acquisti, al viaggiare, al mangiare) quei principi di rispetto per l’ambiente, di sana amministrazione delle risorse naturali, di semplicità di vita, di minor consumo, di riutilizzo delle vecchie cose, di lotta agli sprechi, che sempre di più coinvolgono e interessano gli individui del nostro mondo occidentale, almeno quelli che non si rassegnano a un modello economico che sta raggiungendo inesorabilmente un punto di non ritorno rispetto alle risorse a disposizione.
Sviluppo sostenibile, ecologia profonda, commercio equo e solidale, risparmio etico rappresentano le nuove frontiere per un’umanità consapevole e solidale, anche e soprattutto nei comportamenti di tutti i giorni.
Riceviamo
Antonia Arcuri, I Colori dell’Armonia, ed. La Zisa, Palermo 2003, pp. 80
Antonia Arcuri, La pesatrice di Perle, Coppola Editore, Trapani 2005, pp. 68
Luigi Casanova, Il fiume di Renata. La battaglia civile di una donna, ed. Il Prato, Padova 2002, pp. 162
AA.VV, Sulla pena di morte, ed. Istituto di istruzione Cavalese, Trento 2001, pp. 203
Mountain Wilderness Italia, Proteggiamo le Alpi!, supplemento a Mountain Wilderness Notizie n. 1.2004
Jean-Louis Gaudet, «Baraka». Ovvero la cinquecento fatata, ed. gorée, Iesa (SI) 2005, pp. 113
Luigi Bettazzi, Giovani per la pace, ed. la meridiana, Molfetta (BA) 2004, pp. 47
Federico Faloppa, Parole Contro. La rappresentazione del «diverso» nella lingua italiana e nei dialetti, ed. Garzanti, Varese 2004, pp. 252
Jerome Liss, L’Ascolto Profondo. Manuale per le Relazioni d’aiuto, ed. la meridiana, Molfetta (BA) 2004, pp. 109
Enrico Euli, I dilemmi (dialetti) del gioco, ed. la meridiana, Molfetta (BA) 2004, pp. 87
Paolo Marcato, Giovanna Alfieri, Luciana Musumeci, Ascoltare e parlare, ed. la meridiana, Molfetta (BA) 2004, pp. 109
Emilia d’Onofrio de Ciocchis, L’amore di cui parliamo, Agnone 2000, pp. 21
Remo de Ciocchis, Pessimisme et foi, Agnone 1997, pp. 34
Remo de Ciocchis, Theodor Mommsen, ed. dell’Amicizia, Agnone 2004, pp. 54
Classe V sez. A Liceo Scientifico “Giovanni Paolo I” Agnone, La pace che vorrei, ed. Istituto Statale di Istruzione Secondaria Superiore, Agnone 2004, pp. 45
I.T.I.S. “Leonida Marinelli” I.P.S.I.A. Agnone, Giornata della pace. Martin Luther King. La forza di amare, Agnone1997, pp. 102
Lev Tolstoj, Come ruinare l’autorità, La Pecora Nera Edizioni VR
AA.VV, Pace non è solo assenza di guerra, ma dove la vita fiorisce, Erga edizioni, Marea n. 4/2004, Genova, pp. 95
Bassiano Moro, Il lontano grugnir di porci, Edizioni in proprio, Bassano, 2005, pp. 101
Nòvita Amadei, Con voce di donna. Migranti dall’Est, straniere di casa, Assessorato Pari opportunità della Provincia di Parma, Suppl. al nr. 5/2005 di Animazione Sociale, Torino, pp. 88
Lorenzo Guadagnucci, La seduzione autoritaria. Diritti civili e repressione del dissenso nell’Italia di oggi, Nonluoghi Libere Edizioni, Trento 2005, pp. 144
Cinzia Piccioni, Semplicità volontaria. Come inquinare e consumare di meno, Edizioni L’Età dell’Acquario, Torino 2003, pp. 140
Lev N. Tolstoj, Scritti politici. Per la liberazione nonviolenta dei popoli, Sankara Edizioni, Roma 2005, pp. 125
Mahatma Gandhi, Guida alla salute, Edizioni Archeios, Roma, pp. 152
Michael N. Nagler, Per un futuro nonviolento, Ponte alle grazie, Milano 2005, pp. 325
Franco Del Moro, Riposare nel cuore della tempesta. Il coraggio di esporsi alla sofferenza senza perdere la serenità, Ellin Selae, Cuneo 2005, pp. 167
A cura di Laura Operti e Laura Cometti, Verso un’educazione interculturale, Bollati Boringhieri editore, Torino 1992, pp. 169
A cura di Laura Operti, Sguardi sulle Americhe. Per un’educazione interculturale, Bollati Boringhieri editore, Torino 1995, pp. 175
A cura di Laura Operti, Cultura araba e società multietnica. Per un’educazione interculturale, Bollati Boringhieri editore, Torino 1998, pp. 224
LETTERE
Scrivere alla Redazione: via Spagna, 8 – 37123 Verona
Il diritto all’identità
anche dopo la morte
Tanti religiosi, politici, amministratori, tante varie associazioni, tanti mezzi di comunicazione di massa si sciacquano la bocca di paroloni a difesa dell’umana dignità, del diritto alla vita dell’embrione, del bambino, dell’adolescente, del giovane, dell’adulto, del vecchio, del disabile, del disoccupato, ma, di fronte a fondamentali casi concreti, in cui dovrebbe emergere un sincero e concreto sentimento di ‘pietas’ verso l’uomo, rivelano la loro vera natura di cuori di pietra e di presuntuosi e demoniaci interessati solo al potere, all’assoggettamento degli altri.
Lo dimostrano in modo esemplare le legislazioni nazionali e locali sulla gestione dei cimiteri e sul destino dei corpi degli esseri umani defunti e l’assoluta insensibilità delle autorità religiose, politiche, amministrative, dei mezzi di comunicazione di massa, delle associazioni più varie sul tema.
Da sempre, e ancora oggi, secondo le norme generali e locali, se un povero cittadino, una povera cittadina non hanno il privilegio di avere una cappella familiare, o un loculo, quando muoiono, i loro corpi sono interrati negli spazi cimiteriali comunali per dieci anni. Dopo questo periodo, se non hanno trovato familiari o eredi sensibili al destino di quei poveri, ma sacri resti, il Comune disseppellisce i cadaveri e li destina alla fossa comune, in base a un puro ragionamento di gestione economica degli spazi cimiteriali.
In questi passaggi/comportamenti amministrativi collettivi si annida una disumanità che da nessuno è stata mai contestata, per quanto ne so.
Avendo toccato con mano la questione, in quanto consigliere comunale liberalsocialista di sinistra, di opposizione all’Ulivo (DS-Popolari ora Margherita-SDI) e alla Casa delle Libertà (FI-AN), entrambi responsabili e insensibili su questo tema, come su tantissime altre questioni, mi sono battuto per anni, al fine di chiedere al Comune un intervento sul tema, costruendo dei colombari semplici, non costosi, presso i muri perimetrali del cimitero, per ospitare i poveri, sacri resti di alcune persone che avevano un nome, un cognome, anche la fotografia sulle croci di marmo delle fosse e che a, al termine dei dieci anni, per l’insensibilità di familiari ed eredi, rischiavano di finire nel profondo pozzo dell’ossario comune. Sono riuscito a far trovare all’assessore dei loculi che erano abbandonati e così ora al Cimitero del Comune di Parete (10.000 abitanti, in provincia di Caserta, dove sono nato e sono consigliere comunale) vi è un impegno solenne pubblico a non utilizzare l’ossario comune, se non per ospitare resti umani anonimi trovati per vari motivi sul territorio comunale.
Gli aspetti della questione sono gravi dal punto di visto etico-religioso e sociale. La legislazione attuale, nel comportamento disumano e disordinato degli enti locali, nel silenzio colpevole e disumano delle autorità religiose, che hanno tanti poteri e tanti spazi nei cimiteri, in realtà può nascondere un atteggiamento radicale di disinteresse verso la dignità dell’essere umano, che viene accompagnato con varie ritualità sospette fino al cancello del cimitero, poi viene abbandonato a se stesso, quasi come una ‘cosa’ senza valore.
Oltre al fatto che in molti cimiteri operano, dominano incontrastati solo interessi economici (edilizi, di marmisti, di fiorai, di elettricisti, di pompe funebri), scandalizzano con le loro ignavie e insensibilità le autorità comunali, che vengono meno ad una sostanziale ragione della loro esistenza, e le autorità religiose, che hanno assunto un secolare silenzio.
C’è poi l’aspetto sociale disumano e drammatico: chi è povero finisce nell’ossario comune, chi è ricco, per accumuli leciti e spesso illeciti, ha il diritto alla memoria e all’identità.
Questo scandalo deve finire e spero che il mondo nonviolento per i poteri, anche limitati, che possa avere, non dimentichi questa battaglia di umanità e di pietà, per imporre la revisione delle norme nazionali e dei regolamenti degli 8101 Comuni italiani, affinché nessun essere umano che abbia un nome, un cognome, entrando in un cimitero da morto, finisca nell’indegna fossa comune, come è capitato a tanti poveri, onesti esseri umani, o anche a grandi senza potere, come Mozart.
Oltre questa semplice modifica normativa, occorre che, a livello del governo nazionale, vi sia una struttura specifica, che tenga sotto controllo le migliaia di cimiteri italiani, affinchè siano tenuti nel massimo ordine e rispetto, e intervenga decisamente di fronte a insensibilità, ignavie e abusi.
Nicola Terracciano
Formia
La moda sospetta
del revisionismo storico
E’ di moda, oggi, per alcuni politici e storici in cerca di notorietà e di sponsor influenti, cimentarsi (con un fine ben diverso dalla ricerca storica) in un “revisionismo” (non revisione) della nostra storia più recente: la guerra di liberazione.
La revisione della storia è cosa seria se fatta da studiosi seri, su fatti seri ed oggettivi; come cosa seria, ma diversa dal revisionismo, è la critica storica onesta, che non è solo utile, ma necessaria.
Ma la revisione non è. E non può essere, una diversa interessata ricostruzione dei fatti, storicamente accertati, al fine di puntellare e sostenere, uno schieramento politico che vuol trarre legittimità e sostegno dalla distorsione dei fatti e da una interessata rilettura degli stessi, per arrivare al ribaltamento della verità o comunque per porre sullo stesso piano etico e politico la dittatura sconfitta, con la democrazia conquistata.
E’ impossibile, ed immorale, fare ciò. Non si tratta infatti di capire e giustificare sul piano umano chi, in buona fede, scelse nel 1943 di difendere un regime ed il suo protettore nazista, ma di parificare sul piano etico e politico le due scelte: chi insorse per la difesa delle libertà civili e per abbattere la dittatura e chi si mise alla difesa di questa, combattendo chi lottava per la libertà e la democrazia.
Non si può parlare di revisione, per mettere sullo stesso piano i partigiano ed i militari combattenti per la libertà, con chi combatteva per il fascismo, alleato dei nazi-tedeschi, torturando ed uccidendo partigiani e civili inermi ed indifesi.
Su questo piano non ci può essere né revisione, né pacificazione; si mescolano solo le carte, per consentire ad alcuni politicanti di riabilitarsi con i voti di chi non ancora si è convinto che questa democrazia è una conquista definitiva del popolo italiano. Si vogliono sollecitare i risentimenti di chi è stato sconfitto dalla storia, di chi ha paura che libertà e democrazia portino a forme di governo che ritengono prioritarie le esigenze ed i diritti dei più deboli e dei meno fortunati e che tengono ad assicurare una ripartizione delle ricchezze più equa tra i cittadini.
A prescindere da una seria revisione storica, sempre possibile, occorre che gli sconfitti di ieri prendano atto, e si convincano, delle ragioni politiche della propria sconfitta, salutare per tutti; ma prima di tutto per loro stessi (se in buona fede).
Occorre quindi che prendano atto, per esempio, delle ragioni per cui il 25 aprile è festa per tutti gli italiani, non riducibile a “giorno della memoria”. Così come il 14 luglio per i francesi, ed il 4 luglio per gli americani, sono feste condivise, che si riferiscono ad eventi fondanti per quelle nazioni. Nessuno in Francia rivendica i privilegi della Corte, dei nobili, del clero, né in America si rimpiange la schiavitù o si rivendica la secessione degli ex stati. Così oggi in Italia nessuno, salvo alcuni leghisti con posizioni strumentali, pone in discussione del nostro paese. La revisione della nostra storia più recente non può avere il fine di ribaltare le scelte politiche della nostra Repubblica nata dalla lotta per la libertà, che hanno portato all’abbattimento del fascismo. Né si può, con il “revisionismo”, cambiare la Costituzione nata da quella lotta al fascismo.
A chi, diciottenne, si è arruolato nella milizia fascista, o a chi per necessità o per un’errata valutazione storica, ha militato con la Repubblica Sociale, va la comprensione umana (non politica) di tutti noi; costoro vanno aiutati socialmente o economicamente se necessario, ma non possono essere parificati, nel nostro ricordo e nelle scelte politiche, a chi ha combattuto contro il regime sconfitto.
Per una vera pacificazione occorre che chi combatté, o militò, dalla parte del fascismo prenda atto, coerentemente e senza riserve, che quel regime è stato sconfitto dal popolo italiano non in una comune guerra, ma in uno scontro di valori e di civiltà (ben diverso da una guerra fra nazioni), che ha consentito alla parte vincente di creare uno stato su fondamenta opposte rispetto a quelle cui si ispirava il regime sconfitto; fondamenta che hanno consentito la costruzione di uno Stato democratico, libero ed avanzato socialmente.
Solo su questa base si può parlare di una vera pacificazione; non con un “revisionismo” d’accatto ed interessato per politici che, dalla sconfitta del 1945, con un vittimismo indegno, e mutando solo la pelle, vogliono avere potere e sostituire i valori fondanti dalla Costituzione.
Avv. Giuseppe Ramadori
Roma
Cosa c’è dietro le rivoluzioni
non violente nei paesi dell’Est?
Ho letto un articolo del Corriere della Sera del 25 maggio che parlava di Peter Ackerman, tra i finanziatori e i promotori delle rivolte nonviolente soprattutto nell’Est europeo negli ultimi anni (da Otpor in Serbia a Pora in Ucraina). Nonostante siano mesi che sto approfondendo la questione mi rimangono dei dubbi. Dico la verità, instintivamente mi viene un moto di approvazione e di sostegno verso lui e la sua opera. Dice di ispirarsi a Gandhi, è stato allievo di Gene Sharp e la sua opera appare essere la dimostrazione che investire sulla non violenza (la scrivo volutamente con due parole) è possibile, così come oggi si investe su bombe e armi. Il vento che, grazie a lui, Soros e altri, sta investendo l’Est europeo sembra sia in grado di dare una speranza di libertà a coloro che ancora oggi, al dispetto del cambio di facciata, restano stalinisti e sovietici. E non mi dimentico che gli studenti di Otpor, da cui tutto è nato, sono gli stessi che dieci anni fa manifestavano contro Milosevic insieme alla società civile anche italiana che nei Balcani cercava di costruire dal basso la Pace (come dimenticare gli scritti di Tom Benetollo su tante riviste e giornali, con i quali io ventenne abruzzese sono cresciuto). Quindi mi verrebbe spontaneo schierarmi dalla loro parte, così come si fece con gli studenti di Piazza Tien An Men e la Primavera di Praga tanti anni fa.
Ma mi guardo intorno, nel campo degli amici della nonviolenza come del pacifismo. E noto che invece tanta è la diffidenza. Si ricorda che sono sostenuti finanziariamente da think tank statunitensi non proprio cristallini.
E varie altre cose, compresi di voler in realtà cedere i paesi dell’Est agli USA, nella strategia quasi da nuova guerra fredde che si sta instaurando con la Russia. Mi viene spontaneo domandarmi quindi se non è stata sbagliata la mia reazione, ingannata dal mio giovanile entusiasmo. Se forse non è supporto non violento, ma sempre supporto al nuovo ordine mondiale, bellicista, militarista e guerrafondaio dei governanti a stelle e strisce. E quindi sia ben lontana dalla nonviolenza e dai suoi insegnamenti (da Gandhi a Gene Sharp). Se molti la pensano così un motivo ci sarà. Senza dimenticare che, se fossero democratici e nonviolenti probabilmente non si sarebbe così freddi nei loro confronti tra coloro che da decenni portano avanti la crescita della nonviolenza in Italia e in Europa.
Alessio Di Florio
Chieti
BOX riquadrato
In ricordo di Pio Baldelli
Vent’anni aveva Pio Baldelli quando incontrò Capitini, che così lo ricorda: “Nel 1943 conobbi un giovane perugino, Pio Baldelli, che poi vidi spessissimo (mi veniva a trovare anche in campagna dove ero rifugiato nel periodo nazista), e fu stretto collaboratore dopo la Liberazione nell’attività del C.O.S. di Perugia”.
L’attività del Centro di orientamento Sociale inizia a Perugia il 17 luglio 1944, con una rassegna delle posizioni dei partiti ricostituiti, o di nuova costituzione, dopo la dittatura fascista. In questa iniziativa, ricorda infatti Capitini “Un mio amico e coadiutore nella direzione del C.O.S., Pio Baldelli, si prese l’incarico di fare come una presentazione critica di ogni programma, stimolando in questo modo i rappresentanti dei partiti ad ampie difese”. Il futuro docente di Teoria e tecnica delle Comunicazioni di massa si cura inoltre della diffusione dell’esperienza dei C.O.S. e ne è il referente organizzativo. A lui si rivolge infatti, con una lettera del 9 dicembre 1945, il coetaneo Silvano Balboni, che qualche tempo dopo avvierà a Ferrara uno dei C.O.S. più costanti e attivi e sostituirà Baldelli, come collaboratore di Capitini nella promozione, sostegno e collegamento dei C.O.S. in diverse città.
Nell’agosto del ’60 è ancora Baldelli ad accompagnare, con Lanfranco Mencaroni, Capitini nella sua prima visita a Barbina, alla scuola di Don Milani. Ne nasce l’idea del Giornale Scuola, un semplice foglio del quale usciranno solo quattro numeri, il primo già da novembre. L’ispirazione è legata all’esperienza di educazione sociale dei C.O.S. e della scuola di Barbiana. Direttore responsabile è Mencaroni e Baldelli fa parte della redazione.
Baldelli è infine nel ristretto gruppo di persone con le quali Capitini mette a punto l’idea della prima marcia Perugia Assisi, annunciata, con le prime circolari, fin dall’estate del ’60. Da quell’iniziativa, 24 settembre 1961, e dall’esigenza di non disperderne l’ispirazione nascerà il Movimento Nonviolento e, poco dopo, la rivista mensile Azione nonviolenta.
Dal 1964 al 1967 Pio Baldelli è attivo anche nel comitato di redazione del periodico mensile “Il potere di tutti”, fondato da Capitini allo scopo di “stimolare la partecipazione di tutta la popolazione ai problemi della vita pubblica, politici, amministrativi, economici, culturali e sociali, e di aiutare la formazione ed il funzionamento di tutti quegli organismi democratici necessari per concretare questa partecipazione: in primo luogo i Centri di Orientamento Sociale”.
Pio Baldelli, nato a Perugia nel 1923, è morto a Firenze il 19 giugno 2005.
Daniele Lugli