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Azione nonviolenta – Ottobre 2004

DiFabio

Feb 3, 2004

Azione nonviolenta ottobre 2004

– Il crollo degli USA (di Johan Galtung)
– Dall’Islam a Prometeo (di Maria Buizza)
– Iraq: il suicidio degli eroi e la caduta degli dei (di Paolo Fusar Poli)
– Vivere quando è già troppo tardi (di Christoph Baker)
– Il silenzio dei vivi. La flebile voce di Elisa Springer (di Elena Buccoliero)
– Educare alla nonviolenza oggi (di Angela Dogliotti Marasso)
– Un decennio per la cultura di pace (Comitato italiano)

LE RUBRICHE
– L’arte dello spiazzamento (Giorgio Barazza)
– Fare politica tra pannolini e pomodori (Massimiliano Pilati)
– La moneta miracolosa del Parco Aspromonte (Paolo Macina)
– I retroscena di quel maledetto 11 settembre (Gianluca Casadei)
– Satyagraha, un’opera di Glass su Gandhi (Paolo Predieri)
– La danza del Sole degli indiani Sioux (Sergio Albesano)
– Da Perugia a Nuova Delhi (Renzo Craighero)

EDITORIALE
Mahatma on line
Gandhi e la pubblicità

Di Mao Valpiana

”Se avesse potuto comunicare così, oggi che mondo sarebbe?”. E’ la domanda che compare al termine dello spot realizzato dal regista Spike Lee per Telecom Italia, in onda sulle principali reti nazionali. Uno spot che ha come protagonista Gandhi. La sua voce e il suo volto arrivano nel mondo, dal Colosseo alla Piazza Rossa, attraverso computer, megaschermi, telefonini. Militari e uomini d’affari, gente comuni e autorità, ascoltano il suo invito alla pace.
Lo spot, realizzato dall’agenzia di pubblicità Young & Rubicam sostiene la tesi che se gli attuali mezzi di comunicazione fossero esistiti ai tempi di Gandhi avrebbero potuto modificarne gli eventi in chiave positiva.
Diverse sono le possibili reazioni davanti a questo spot (che è ben fatto, efficace, stilisticamente perfetto). E molte, e controverse, le valutazioni che sono state fatte.
Partiamo da un dato certo. La pubblicità è fatta per vendere.
Cosa vende lo spot con il Mahatma? Non vende il telefono, né l’abbonamento, e nemmeno una tariffa, o una carta telefonica o la linea adsl. Vende un marchio: Telecom (quella di Tronchetti Provera). Si vende dunque una cosa che non è in vendita: la fiducia che oggi, grazie alla comunicazione globale, tutto è possibile.
Non saprei dire se l’immagine di Gandhi fa vendere più cellulari, connessioni a internet, suonerie o altre diavolerie. Sicuro è che i precedenti testimoni della Telecom erano top model dai cachet milionari. L’uso dell’immagine di Gandhi è invece “gratis”. Ma perché è stato scelto proprio Gandhi? Sicuramente sono stati fatti sondaggi di opinione, sono stati pagati consulenti, esperti, sono intervenuti psicologi e sociologi, che hanno sentenziato che Gandhi oggi ha un’immagine positiva, che “tira”. Da Busch a Putin tutti sono pronti ad inchinarsi davanti a Gandhi. Quando un personaggio è scomodo, o lo si ammazza o lo si mette sugli altari. L’importante è renderlo innocuo. Ma non credo sia solo questo il motivo della scelta.
Da quando ci si è accorti che esiste una “seconda potenza mondiale”, cioè che l’opinione pubblica prevalente è contro l’idea della guerra (salvo poi essere totalmente impotente per impedirla realmente), anche i pubblicitari hanno capito che il pacifismo rappresenta un mercato. E ci si sono buttati a capofitto.
Dunque, via allo spot pacifista, schierato, ideologico. Tuttavia, la stessa azienda continua a programmare contemporaneamente spot con modelle sensuali, ammiccanti, o giovinastri totalmente idioti, sgrammaticati, che si rivolgono a loro coetanei per vendere suonerie demenziali. Si tratta di un’azienda globale, che vende una comunicazione globale e che quindi ha molti pubblici diversi, dai dodici a novant’anni, fascisti o comunisti, non importa. E anche l’opinione pubblica pacifista, genericamente contro la guerra, fa parte del pacchetto. Persino alle manifestazioni pacifiste il telefonino la fa da padrone: “io sono alla testa del corteo, qui è tutto tranquillo, e lì in fondo, come va?”. Chi si è indignato per l’appropriazione indebita di Gandhi deve considerare che anche i cosiddetti pacifisti per Telecom sono solo dei clienti. E il cliente ha sempre ragione.
Un’ultima considerazione, accettando di scendere sul terreno dello spot: Gandhi, avrebbe davvero usato le nuove tecnologie? Questo non lo sappiamo, e non possiamo dirlo. Sappiamo però che Gandhi ha sicuramente usato la comunicazione di massa: ha fondato due quotidiani, utilizzava i microfoni per ampliare la sua voce, utilizzava il telefono, la radio, e quando doveva viaggiare prendeva la nave, il treno, l’automobile. Avrebbe utilizzato anche la televisione, il digitale, internet? Difficile rispondere, ma certamente sappiamo che gran parte di ciò che oggi passa in tv e in internet è spazzatura, chiacchiera, finzione. E su questo Gandhi aveva le idee chiare: “Il rumore non può imporsi sul rumore. Il silenzio sì”.
Revisionismo storico per il povero Francesco

di Mao Valpiana

Dovevamo sentire anche questa!
Dopo Gandhi assunto come testimonial di una multinazionale capitalista, ora San Francesco viene arruolato come garante dell’unità nazionale. Cosa sta succedendo? Dobbiamo aspettarci un Capitini ispiratore del liberismo di Forza Italia? Non c’è da stupirsi: nella storia abbiamo già visto crociate fatte nel nome di Gesù Cristo, e persino Dio alleato dei nazisti. Verrebbe da urlare per l’indignazione e la rabbia, ma forse è meglio non curarsi di loro, guardare e passare, togliersi la polvere dai sandali e andarsene, senza voltarsi indietro.

Il 4 ottobre, festa di San Francesco, patrono d’Italia, il vicepresidente del Consiglio, Gianfranco Fini, è intervenuto alla celebrazione ufficiale ad Assisi proponendo di istituire, quel giorno, una festa nazionale. Parole testuali di Fini riferite a Francesco: “Da vero operatore di pace considera la pace non un fine ma un mezzo a servizio del bene comune (…) mentre la regola francescana proibì l’aggressione armata, non condannò mai l’uso delle armi per legittima difesa (…) il santo, grande riformatore sociale del suo tempo, non istigò mai alla rivolta sociale né aizzò l’invidia dei deboli contro i potenti, né predicò la lotta di classe, tenendo con i potenti un atteggiamento di sano realismo”.

Ce n’è abbastanza per sobbalzare. Ci piacerebbe sapere da quale biografo l’onorevole Fini ha ricostruito questa visione di Francesco; probabilmente si è ispirato a padre Agostino Gemelli, ex interventista della prima guerra mondiale e noto antisemita (accolse con entusiasmo le leggi razziali di Mussolini e definì gli ebrei “una genìa di gente malvagia”), che scrisse il volume “Francescanesimo”, dove proponeva una figura francescana ad uso bellicistico del tempo, quando i cappellani militari facevano il saluto romano…

Che dire? Lasciamo la parola a chi ha riflettuto seriamente sulla nonviolenza francescana.

Norberto Bobbio: San Francesco, più moderno di Dante e di San Tommaso, pone veramente fine al feudalesimo. Reintroduce nella spiritualità cristiana il tema della nonviolenza: il metodo di Francesco fu ‘quello di andare a parlare con i Saraceni piuttosto che sterminarli nelle crociate, nelle quali il sangue talvolta arrivava ai ginocchi’. (Introduzione a “Il potere di tutti”).

Aldo Capitini: Davanti al potere della violenza (…) mi trovai costretto a risalire direttamente ai maestri di vita religiosa, a contatto prossimo con quello spirito e quel metodo: Gesù Cristo, Buddha, San Francesco, Gandhi”. (Da “Religione aperta”).

Che San Francesco esprimesse una maggiore apertura a tutti gli esseri anche subumani, è un incremento della compresenza, è opera di tutti. (Da “La compresenza dei morti e dei viventi”).

Cercammo la religione nelle affermazioni più pure di anime intrepide, nelle fonti del Vangelo, di San Francesco, di Gandhi, e ci salvammo in una assoluta fedeltà ai principi di nonviolenza, nonmenzogna, noncollaborazione. (Da “Atti del primo congresso per la riforma religiosa in Italia”).

Due grandi nonviolenti come Gesù Cristo e San Francesco si collocano dalla parte degli umiliati e degli offesi. (Da “Il problema religioso attuale”).

Fra quelli che hanno approfondito l’impegno per la nonviolenza, oltre ad averne fatto la sostanza della propria anima, hanno dispiegato un insieme di modi complessi, sono stati San Francesco e Gandhi. In questi la nonviolenza è stata più che una tensione individuale, o un’affermazione insieme con altre: in essi è stata l’ispiratrice di un metodo dentro il mondo, ma non preso dal mondo. (Da “Italia nonviolenta”).

Pace e bene a tutti (… anche all’onorevole Fini)!

Dopo il crollo degli USA

di Johan Galtung *

Non sono l’unico a sostenere la tesi del crollo degli USA, ma è meglio pensare a cosa succederà dopo. Perché abbiamo un mondo complesso: l’impero statunitense è come il coperchio di una scatola… il problema è che cosa succede quando si toglie il coperchio?

Terrorismo di stato, terrorismo del non-stato

Dopo la caduta dell’impero britannico abbiamo visto alcune spedizioni punitive: durante l’imperialismo USA ve ne sono state almeno 200, e non mi aspetto che si riducano a zero immediatamente. Dal 1945 ad oggi l’impero statunitense è responsabile del massimo terrorismo compiuto da uno stato: tra i 12 e 16 milioni di persone ammazzate dagli americani (6 milioni dovuti ad interventi della CIA, e gli altri ad interventi del Pentagono attraverso operazioni segrete).
Il terrorismo che conosciamo oggi si deve, in gran parte, a quello di stato degli USA. Siamo tutti vittime. Siamo e stiamo in una catena causale dove le ragioni più importanti provengono da Washington. Una delle conseguenze principali della caduta dell’impero USA sarà il venir meno di questo terrorismo di stato. È un bene che l’impero degli Stati Uniti sparisca, per la sicurezza dell’umanità, per porre fine al circolo vizioso della violenza.

La violenza strutturale

Il capitalismo selvaggio ha tre elementi: globalizzazione, monetizzazione, privatizzazione. Globalizzazione: il mercato si fa globale; monetizzazione: la domanda si concretizza soltanto con il denaro; privatizzazione: l’eliminazione della protezione dello stato, che può esserci anche in uno stato burocrate, dittatoriale.
Purtroppo ogni giorno muoiono di fame venticinquemila persone e settantacinquemila di malattie che sarebbe possibile debellare, ma non hanno i soldi per nutrirsi e curarsi. Gli USA non sono gli unici responsabili, anche noi lo siamo. Ma gli USA hanno un’ulteriore responsabilità: quella militare. L’imperialismo è un insieme di quattro fattori – sfruttamento economico, penetrazione militare per mantenere lo sfruttamento, penetrazione culturale e dominazione politica – e gli USA li utilizzano tutti e quattro.

Un evento molto positivo è la possibilità di avere zone libere da globalizzazione, monetizzazione, privatizzazione, zone protette. Il protocollo di Kyoto ad esempio esenta alcuni paesi dal protocollo stesso e questa zona si chiama terzo mondo. L’idea di avere un convegno, un trattato per individuare zone che costituiscono un’eccezione non è nuova. Se ne può discutere e si possono introdurre altri esempi anche molto prima della caduta dell’impero.

Gli USA: un gigante che si difende da se stesso

Il costo militare del progetto militare degli USA tra 1945 e il 2001 supera di un 20-30% l’intero valore di tutte le case e di tutte le fabbriche degli USA. Questo significa che con il denaro speso potrebbero ricostruire interamente le loro città, escluse le infrastrutture (strade, ferrovie ecc.).
Un costo immenso, assolutamente immenso. Riducendo la spesa militare, che l’anno scorso è stata pari a 450 miliardi di dollari, vivrebbero molto meglio.
La popolazione ha accettato questo livello di spesa perché è stato detto loro che serve per la libertà, l’indipendenza e la difesa; ma in realtà è una difesa contro forze che sono in larga misura create dagli stessi USA.

La possibilità di un golpe militare

Il golpe militare negli Stati Uniti è una possibilità concreta, data questa immensa componente militare permanente, strutturale. In un libro di Seymour Melman (War Ltd), che verrà pubblicato in Italia dal Manifesto, l’autore riferisce che tutte le principali aziende statunitensi hanno un ufficio centrale di coordinamento presso il Pentagono dal quale possono ricevere ogni giorno un appoggio o una sovvenzione, se lavorano per l’industria militare.
Questo è capitalismo militare di stato, sovvenzionato. È un tipo di centralizzazione a confronto del quale i leader dell’Unione Sovietica erano dei dilettanti, e tutto ciò che si dice del mercato libero, delle decisioni razionali e via discorrendo, non è vero. Riequilibrare questo potere è quasi impensabile; un golpe militare è molto, molto probabile.
Il geofascismo degli statunitensi – che abbiamo già – si trasformerebbe in un fascismo totale. È iniziato in tono minore con Thomas Jefferson nel 1804, con il primo intervento militare, ora siamo a quota 240: l’ultimo è quello di Haiti, 239 l’Iraq, 238 l’Afghanistan, 237 la Jugoslavia…

Uno scenario probabile

Immaginiamo che un giorno un presidente degli USA dica: “Per il bene degli americani sono giunto alla conclusione di chiudere tutte le basi nei paesi fuori degli USA e di ridurre la presenza dell’american business, perché gran parte di questa presenza è illegittima e non desiderata dalla popolazione locale che deve essere tenuta sotto controllo proprio mediante questa presenza militare”.
Appena terminato di parlare si sente uno sparo, il presidente muore e i programmi televisivi vengono interrotti. È uno scenario conosciuto, che si è già verificato più volte. Subentra un altro presidente il quale annuncia che gli USA sono in una situazione molto pericolosa e per mantenere le libertà, soprattutto quelle di mercato, occorre prendere il potere in una fase di transizione.
Questo è a mio parere lo scenario più probabile. Nel 1932 gli Stati Uniti sono stati molto, molto vicini al golpe militare. Tutte le aziende più conosciute hanno utilizzato un generale per proteggersi contro Franklin D. Roosvelt. Ma lo hanno scelto male, perché questo generale anziché fare il lavoro sporco si è recato alla stampa e ha rivelato tutto – ma questa è una pagina di storia statunitense poco conosciuta. Vi sono quindi dei precedenti e penso che per tutti noi sia importante mantenerci in un dialogo permanente con i nostri amici americani, anche per allertarli contro questa possibilità.

Migliori speranze con Kerry?

Kerry ha un nomignolo significativo: lo chiamano BushLight, come Coca Cola Light, è una versione con meno calorie, ma l’ideologia è quasi esattamente la stessa. È una scelta di testa e cuore, non molto piacevole per la verità. Quindi il pronostico per gli USA non è tanto buono.

Verso gli Stati Uniti dell’America Latina

Secondo la mia previsione si apprestano a costituire gli Stati Uniti dell’America Latina, pertanto è importante aprire un dialogo per evitare rappresaglie.
Dei 240 interventi militari, credo che 94 siano stati fatti in America Latina ogni volta che c’è un tentativo di redistribuzione economica. Prendiamo l’esempio del Venezuela. Chavez sta tentando una redistribuzione del reddito in generale: scuole, ospedali, ecc. a favore delle persone più povere e gli americani sono contrari. Ed allora si sono inventati questo referendum nel mese di agosto che probabilmente Chavez vincerà, e in tal caso l’intervento militare è quasi certo: numero 241.
Il rischio è aumentato dal fatto che le elezioni presidenziali USA si terranno pochi mesi dopo, in novembre, e già gli Stati Uniti stanno perdendo in Iraq: una formula per non perdere le elezioni è quella di vincere una guerra. Ma il Venezuela potrebbe essere complicato, molto complicato per gli USA. Gli Stati Uniti Latino Americani avrebbero la possibilità di realizzare mille e mille progetti con una politica socialdemocratica. Sono progetti molto semplici, per esempio non privatizzare l’acqua. Forse però non sono sufficientemente bene preparati; nella mia esperienza ho constatato che il settore della vita latinoamericana che ha pensato di più è quello militare: un esercito comune da coordinare in una prospettiva bolivariana (Simòn Bolìvar).

Due percorsi possibili per l’Unione Europea

Nella mia visione il crollo dell’impero USA è previsto per il settembre 2020, forse agosto, forse ottobre, anche prima ma non troppo. Credo che in quel momento avremo due possibilità:
1) Una UE magnifica, di pace, in cui la Turchia entra come ulteriore membro tra 5 anni, come sostiene Prodi, che ha avuto una funzione molto importante. Una convivenza pacifica con un’Unione russa, azioni molto buone con il Sud-Est Asiatico, l’Asia Orientale e il mondo islamico.
2) È evidente il pericolo che l’Unione Europea si presenti come successore dell’impero di satana, intanto perché 11 dei 15 paesi membri sono stati colonialisti, compresa l’Italia. I quattro che restano sono Grecia, Lussemburgo, Irlanda e Finlandia (il mio paese, la Norvegia ha un passato coloniale, ma lontano nel tempo). Il Lussemburgo è un piccolo imperialista che ha usato il Belgio come protezione, e il Belgio a sua volta ha guadagnato moltissimo dal Congo dove ha ucciso 10 milioni di persone. Pertanto nell’Unione Europea dei 15 abbiamo due paesi decenti, Irlanda e Finlandia.
Per gli altri paesi la previsione pessimistica è che tutti i geni colonialisti non spariscono immediatamente: è improbabile che il discendente di vecchi leoni e aquile sia un piccolo cane innocente.
La versione ottimista è quella di avere solo truppe per mantenere la pace (peacekeeping) e utilizzarle unicamente con un mandato delle Nazioni Unite (capitolo VI della carta delle Nazioni Unite). Questo è il pensiero di Prodi ma non di Solana, suo possibile successore. È chiaro che non tutto dipende dal Presidente della Commissione. Il potere maggiore è nelle mani del consiglio dei ministri, un po’ meno in quelle del parlamento.
Non è facile fare una previsione. Spero ovviamente in un’Unione Europea non imperialista, ma questo è un progetto più facile per la pace interna che per quella esterna.

L’Asia Orientale: un progetto di comunità ancora in bozzolo

Quando cadrà l’impero USA crescerà non solo la comunità europea ma anche quella dell’Asia Orientale. In quell’area è presente un progetto latente implicito di comunità tra quattro paesi: Cina, Giappone, Corea, Vietnam. Si tratta dei quattro paesi buddisti/confuciani con cultura cinese, con il Vietnam come ponte verso un Sud-Est asiatico costituito da 10 membri. I politici locali sognano questa possibilità, ma sanno che questo è lo scenario peggiore che possano immaginarsi per gli USA. Kissinger, Rostock, e tanti altri hanno detto di avere una paura incredibile che il Giappone faccia amicizia con la Cina: hanno pertanto bisogno della Corea del Nord come nemico, mantenendone viva la minaccia. I coreani lavorano giorno e notte per l’unificazione e per questo hanno promesso di inviare altri 3000 uomini in Iraq.

Il Giappone: una riconciliazione ostacolata dagli USA

Nel 1999 sono stato invitato alla conferenza del “Gruppo di prospettiva” dell’Unione Europea come relatore principale per una comparazione tra comunità europea e comunità asiatica, con Coreani, Giapponesi, Cinesi, ecc. Una conferenza importantissima, interessantissima, volta a identificare alcuni dei principali problemi. E tutti hanno detto: “È impossibile giungere a una comunità a causa dell’invasione giapponese, degli esperimenti di vivisezione dei prigionieri condotti dall’unità 731, dello “stupro di Nanchino”, della brutalità impensabile dei giapponesi in Corea, della loro incapacità di riconciliarsi”.
Penso di poter affermare che gli USA hanno bisogno di questo conflitto e perciò non intendono consentire al Giappone di riconciliarsi con gli altri paesi, ma con la caduta dell’impero USA questa possibilità diventa più concreta: 1500 milioni di persone che lavorano come pazzi e hanno tutte le risorse naturali necessarie, con l’eccezione del petrolio – un problema superabile.
L’Unione Europea ne è consapevole e sta allacciando buone relazioni con loro. Gli USA invece non capiscono la situazione e con i loro sforzi cercano di evitare questo sviluppo. Credo siano destinati a perdere. Ma possono anche sostenere che non è così importante: più importanti sono Russia, Cina, India, l’espansione della NATO a Oriente e dell’AMPO (il sistema di sicurezza del Giappone con l’Occidente). Negli ultimi dieci anni gli USA si sono impegnati a fondo per realizzare questo progetto. Si tratta del 40% dell’umanità e dominare l’Asia Centrale significa dominare il mondo: è il progetto di pax americana mondiale. È una follia, ma costituisce l’idea centrale del Project for a New American Century.

“A New American Century”

Chiunque conosca la geopolitica sa che questa tesi si deve a un professore inglese di geografia politica, Halford John Mackinder, che nel 1904 pubblicò un articolo dove sosteneva tre tesi famose: 1) chi domina l’Europa Orientale domina l’Asia Centrale; 2) chi domina l’Asia Centrale domina l’isola mondiale dell’Eurasia; 3) chi domina l’Eurasia domina il mondo.
Gli USA stanno seguendo questa politica. Questo è imperialismo al mille percento. Quando questa politica verrà meno nasceranno l’Unione russa, l’Unione indiana e la Cina farà parte della comunità dell’Asia Orientale e sorgerà un pericolo di guerra nel triangolo Russia-Cina-India. Per ora stanno insieme per far fronte alla minaccia degli USA. Non sappiamo cosa succederà quando questa minaccia verrà meno, ma sono più fiducioso nella comunità dell’Asia Orientale che in una pace duratura tra Russia, Cina e India.

Mondo musulmano e conflitto israelo-palestinese

Senza l’appoggio degli USA, Israele dovrà cambiare la sua politica. Fino ad ora in realtà è Israele che domina gli USA: “The tail is wagging the dog” Questa è naturalmente una situazione insostenibile. La guerra in Iraq ha tre scopi principali: il petrolio con basi militari; la geopolitica dell’Asia Centrale e di Israele; l’evangelizzazione degli iracheni (hanno inviato 10000 missionari, il cui capo è il figlio di Billy Grave, e distribuito un milione di bibbie). Non credo che questa sia una politica molto ragionevole e chi parla di crociata non fa che confermarlo. Ma la cosa importante è che con il crollo dell’impero USA, e ancor prima, non sarà possibile mantenere Israele. Dovranno utilizzare una formula già usata in precedenza, per la quale Marcos nelle Filippine, lo Scià in Iran, il governo dell’apartheid sono, secondo un’espressione dell’inglese americano, dei goner (go, went, gone), persone passate, di cui bisogna disfarsi.

Perché la politica USA è destinata al fallimento

La politica USA in Medio Oriente è fallimentare per tre ragioni molto semplici:
1)è una politica impossibile: non è rivolta contro la piccolissima Palestina ma contro 350 milioni di arabi e 1300 milioni di musulmani, tutti quanti in linea di principio mobilitabili perché c’è una guerra santa contro il Sionismo, dichiarata molti anni fa, e loro non si definiscono come stranieri ma come cittadini della stessa nazione araba o della stessa nazione musulmana. Trecentocinquanta milioni e milletrecento milioni di persone sono molti anche per gli USA.
2)per mantenere relazioni buone con 56 paesi musulmani, 22 dei quali arabi, la relazione con Israele è l’impedimento numero uno. È esattamente la stessa situazione che si aveva in Africa quando la relazione con il regime di apartheid del Sudafrica era l’impedimento numero uno per mantenere buoni rapporti con 51 stati africani.
3)il predominio degli ebrei americani nella politica USA. Temo che quando gli americani si renderanno conto di tutto questo si scatenerà un’ondata di antisemitismo come mai si è visto nella storia. Sarà duro per loro scoprire di essere stati dominati da una minoranza dell’1,9% della popolazione. Spero che questa politica cambi prima che esploda l’antisemitismo.

Una previsione per Israele e Palestina

Un giorno, entro 5 anni, ci sarà un comunicato di Washington molto simile a quelli che hanno posto fine all’apartheid, ai regimi di Fernando Marcos e dello Scià. (Per quest’ultimo sono giunti troppo tardi, c’era già Khomeini, ma contro l’apartheid hanno fatto un buon lavoro).
Spero e credo in una comunità del Medio Oriente simile alla Comunità Europea, con sei paesi: Israele, Siria, Libano, Palestina riconosciuta e non con questo muro, Giordania ed Egitto. Una comunità con confini relativamente aperti e una cooperazione culturale, economica, politica e nel campo della sicurezza. Lo strumento per giungere a questo risultato è una Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione nel Medio Oriente, del tutto realistica. Negli ultimi quattro anni Transcend ha propagandato questa idea e ho letto con interesse che il ministro tedesco degli Affari Esteri, Joschka Fischer, ha detto che è giunto il momento per una Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Medio Oriente.

L’impatto del crollo USA sul continente africano

Il predominio degli USA in Africa è minore, rispetto a quello dell’UE. I paesi africani stanno anch’essi cercando di realizzare un’Unione africana. Naturalmente i due presidenti principali sono Gheddafi e Mandela, soprattutto quest’ultimo: estremo Nord ed estremo Sud. Gli USA sono contro, esplicitamente. Hanno molti progetti in un’ottica Est-Ovest invece che Nord-Sud, perché il colonialismo europeo utilizza come bussola questa direzione mentre loro pensano soprattutto in termini Est-Ovest. Per esempio una confederazione tra Tanzania-Uganda-Burundi-Rwanda, e naturalmente i due Congo, che commerci con America Latina, India e Penisola Araba.

Il successore dell’impero degli USA

Non sarà la Cina, questa è soltanto una paranoia propagandistica degli USA. Fino ad oggi la Cina ha sopravvissuto molto bene con la sua mappatura del mondo, molto semplice, con il mondo diviso in 5 parti: il loro paese al centro e tutto il resto diviso in barbari del Nord, barbari dell’Est, barbari del Sud e barbari dell’Ovest. Naturalmente nessuno desidera imperializzare i barbari che non sono degni di essere imperializzati. Non ho nessuna paura della Cina, ma conosco bene la dottrina anglosassone: negli ultimi tre/quattro secoli si è fondata sull’idea che il potere più pericoloso a questo mondo è il potere numero due e hanno elevato la Cina al rango di numero due: questa è la paranoia anglosassone. Prima era la Francia, poi la Germania e in seguito l’Unione Sovietica.

Una riforma delle Nazioni Unite

Possiamo definirle come una sorta di governo gentile. Sono del tutto realistiche ma hanno bisogno di qualche riforma.
1)Consiglio di Sicurezza. Credo che, per essere più rappresentativo, dovrebbe ispirarsi al Consiglio Economico e Sociale, costituito da 54 membri, che amministra le agenzie specializzate. Sviluppa il 90% dei progetti delle Nazioni Unite ma riceve solo il 10% dei commenti della stampa. Perché così poco? Perché funziona. Quando una cosa funziona i giornalisti dormono. Il Consiglio di Sicurezza, con soli 15 membri, amministra il 10% dei fondi di progetti e ha il 90% dell’attenzione dei giornali, perché non funziona. Che possiamo fare? Tre cose, che per ora sono solo oggetto di discussioni di corridoio, non saranno in agenda per l’anno prossimo ma forse entro 20 anni, prima del 2020. 54 membri per essere più rappresentativi. E tra i 54 naturalmente dovrebbero esservi molti paesi musulmani (sono 56), mentre oggi nessuno di loro ha il diritto di veto, che spetta invece a quattro paesi cristiani e uno confuciano.
2)Abolire il diritto di veto. Non c’è nessun diritto di veto nel Consiglio Economico e Sociale: va abolito dappertutto. Se questo è inaccettabile per i cinque paesi, essi possono uscire dalle Nazioni Unite e costituire una organizzazione in cui possono utilizzare il veto ogni ora, come desiderano. Ma i loro seggi dovrebbero rimanere sempre disponibili per quando vorranno sottoscrivere un nuovo trattato.
3)Abolire l’articolo 12/a della carta delle Nazioni Unite. L’articolo 12/a stabilisce che quando una questione è discussa nel Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale non ha nessun diritto di discuterne. Ciò significa che quando c’è un problema grave un paese può inserirlo all’ordine del giorno del Consiglio di Sicurezza e paralizzare l’Assemblea Generale. Questo non va, ma è quanto stanno facendo. C’è una finestra, una piccola finestra chiamata Uniting for Peace, che è stata utilizzata una decina di volte.

Democratizzare l’ONU, parlare di problemi mondiali

Si stava organizzando un’iniziativa nell’Assemblea Generale per utilizzare la procedura Unitine for Peace ai fini di votare contro l’invasione degli USA e dell’Inghilterra in Iraq. Vi sono 192 paesi membri delle Nazioni Unite: gli Usa hanno inviato 191 delegazioni per minacciare tutti quanti di non intraprendere questa iniziativa. Conosco il contenuto di queste minacce. Significa che gli USA hanno paura, ma nessun paese ha avuto il coraggio di disobbedire, perché hanno avuto ancora più paura. Paura fisica. Pertanto il punto tre è: democratizzare le Nazioni Unite. Avere un Parlamento con elezioni libere, in cui ogni paese ha il diritto di eleggere un numero di rappresentanti pari al numero di abitanti, con un minimo di un rappresentante, utilizzando gli stessi meccanismi dell’UE e dell’Unione Indiana.
L’Unione Europea non ha funzionato troppo bene. Ma non sono d’accordo con l’analisi dei giornalisti per una ragione molto semplice: la responsabilità non si deve attribuire alla scarsa affluenza alle urne dei votanti, ma ai politici, perché essi non hanno discusso i problemi europei, ma quelli nazionali. Hanno utilizzato in modo perverso le elezioni europee come un sostituto delle elezioni nazionali. Questa è una grave colpa, meritano il carcere, almeno un mese ciascuno. I candidati che si presenteranno alle elezioni mondiali dovranno discutere i problemi mondiali importanti: globalizzazione, monetizzazione, privatizzazione.

Le possibili difficoltà con il mondo arabo

I paesi del mondo musulmano sono convinti di avere il diritto ad un unico stato grande come la Cina: da Casablanca a Mindanao. Sono 56 stati e 57 membri della Organization of Islamic Conference (Organizzazione della Conferenza Islamica), compresa la delegazione dei musulmani presenti in India che costituisce il gruppo più numeroso dopo quello indonesiano. È una richiesta un po’ difficile da accettare per il mondo occidentale. Credo comunque che sia preferibile abituarsi a questa prospettiva.
Siamo troppo abituati ad avere paura. Purtroppo noi cristiani, colonizzatori, abbiamo tracciato quasi tutti i confini dei 56 paesi musulmani, e loro ne sono coscienti. Quando cadrà l’impero USA è possibile che nascano molte nuove soluzioni. Meglio essere preparati, discutere, aiutare, cooperare invece che avere paura.
Viviamo relativamente bene con 1300 milioni di Cinesi, possiamo vivere altrettanto bene con 1300 milioni di musulmani. È possibile, ma per farlo è meglio conoscere un po’ l’Islam.

* Tratto dalla conferenza tenuta presso il Centro Studi Sereno Regis, domenica 27 giugno 2004
Testo non rivisto dall’autore

Scontro di civiltà? Dall’Islam a Prometeo, sul rapporto tra Oriente ed Occidente.

Di Maria Buizza

Emmanuele Severino rappresenta una tra le più importanti coscienze critiche del nostro tempo.
Con Dall’Islam a Prometeo (Rizzoli, Milano, 2003, p. 249), Severino pone l’attenzione sul travagliato rapporto tra Occidente ed Oriente e su quello che pare essere il comun denominatore tra le due civiltà: la tecnica. Punto di forza dell’opera è, dunque, il concetto di tecnica quale orizzonte ultimo di senso di due civiltà solo apparentemente contrapposte. “La convinzione che la tecnica sia in se stessa neutrale (…). Per questo motivo esse (le culture non occidentali) hanno accettato incondizionatamente questa forma di tecnica (…). Quelle culture hanno accettato incondizionatamente il principio della propria rovina perchè è inevitabile che la tecnica si trasformi, da semplice mezzo per realizzare qualsiasi scopo, nello scopo supremo dell’umanità (…). Un esito negativo per l’Islam che ha ormai inoculato nelle proprie vene il principio della propria distruzione” (p. 62).
Gli anni della guerra fredda, tradizionalmente considerati come quelli del pericolo estremo, sono visti da Severino come gli anni della protezione dell’URSS sull’Occidente. Come voce delle istanze dei poveri, l’Unione Sovietica ne controllava e, in qualche senso, ne frenava la ribellione. Con la fine del duopolio USA-URSS questa protezione viene meno; la grande conflittualità planetaria si sposta dall’asse Est-Ovest a quello Nord-Sud e, così, la “spinta dal basso” porta le società ricche nell’era del pericolo permanente in cui il terrorismo rimane incubo continuo.
È il popolo arabo ad essere portavoce delle istanze di emancipazione del sud del mondo e, su questo punto, Severino sottolinea una riflessione particolarmente rilevante. La religione islamica si fonda sulla filosofia greca ma se l’Occidente, dall’antichità ad oggi, ha percorso molta strada, fino alla “morte di Dio”, l’Islam è rimasto ciò che la sua etimologia esprime ossia “sottomissione a Dio”. Ecco, pertanto, che il contrasto tra le due culture non può non tenere conto di tale, profonda diversità. E, altresì, deve considerare ciò a cui l’Occidente è arrivato e ciò verso cui l’Islam si sta muovendo: la razionalità scientifico-tecnologica: “è inevitabile che lo stesso Islam, a contatto con la razionalità scientifico-tecnologica e critico-filosofica dell’Occidente, perda terreno ed arrivi al tramonto” (p. 18). La tecnica è, dunque, destino comune dell’Occidente, da tempo contaminato da essa, e dell’Oriente che ha inoculato quel virus.
La tecnica diventa inevitabilmente fine ultimo di se stessa. Il mezzo che appare neutrale, semplicemente condizionato dal suo scopo, diventa fine ultimo. Il capitalismo ha come scopo il profitto, che si attua alimentando la scarsità di beni, e vuole evitare che il prodotto divenga “un bene naturale”. La tecnica si pone, invece, uno scopo opposto ossia l’incremento infinito della potenza. Capitalismo e tecnica si oppongono ed in tale opposizione c’è la morte del capitalismo.
In questa situazione l’Occidente vive da anni mentre l’Islam è solo ai primi passi ma il suo destino è certo: la tecnica va sempre più definendosi come l’unica forza capace di soddisfare i bisogni dei poveri. Ecco, allora, la paradossalità della situazione attuale in cui l’Islam s’illude di potersi servire della tecnica contro l’Occidente, simbolo della “morte di Dio”. “S’illude l’Islam di potersi servire dell’arma contro la mano che solidamente la impugna. La tecnica rappresenta la “morte di Dio” ed è il cavallo di Troia contro chi vuole seminare perchè sia fatta la volontà di Dio” (p. 25).
Lì, dunque, è la violenza; lì è la guerra.
La filosofia della tradizione consolava l’uomo perchè si poneva come episteme, ossia come sapienza assoluta di una verità incontrovertibile; oggi la filosofia del nostro tempo si fonda sull’essenza del divenire che è passaggio dalle cose dall’essere al nulla (tecnica). “Qui, la filosofia del nostro tempo ha mostrato che tutto l’essere è in linea di principio dominabile, assoggettabile agli scopo che l’uomo via via si propone” (p. 95). Se non c’è più un limite, se scompare la conoscenza dell’episteme (sapere assoluto) o la tensione ad essa, allora tutto è guerra, tutto è prevaricazione.
Ecco il passaggio dall’Islam (sottomissione a dio) a Prometeo, portatore della tecnica. Un passaggio che, però, non va banalizzato: il Prometeo di Severino rappresenta la tradizione occidentale, non la tecnica moderna. Se l’Islam è l’assoggettamento incondizionato a dio, Prometeo è l’emergere di una coscienza critica: egli dà la tecnica agli uomini ma, secondo questa interpretazione, rimane consapevole della sua parzialità. Da eroe della technè, si trasforma in eroe dell’episteme, della sapienza. Egli sente l’angoscia ed il terrore di fronte al divenire del mondo e, per questo, si rende sapiente dell’esistenza di una verità assoluta, unica consolazione. Tale è la tradizione dell’Occidente, che si avvia al tramonto poiché l’uomo, sempre più, ripone nella tecnica l’assolutezza ma, così facendo, pone le basi per il dominio della violenza.

Iraq: il suicidio degli eroi e la caduta degli dei.
Il nemico dentro. Quando Rambo si spara.

di Paolo Fusar Poli

Correva la data del 9 aprile 2003 e la statua del dittatore irakeno si piegava all’ingresso delle truppe alleate in una Baghdad ormai allo stremo. Colpire le effigi del potere, annientare il simbolo dell’Impero del Male, creare nell’inconscio collettivo un’immagine con cui rimuovere il terrore globalizzato dell’11 settembre: “attraverso le immagini delle statue che venivano abbattute, abbiamo assistito all’avvento di una nuova era”1. Suggestioni di futuro per un popolo smarrito, per una nazione che ricercava la propria identità nella polvere alzata dal frantumarsi dei cocci bronzei di Saddam. Frammenti di paura ricomposti nell’apologia delle Forze Armate, così celebrate dalle parole del presidente: “tutti voi, in questa generazione di militari, avete accettato la più grande responsabilità della storia” 1.
Il mito della forza ed il consenso di un popolo, eppure passano solo pochi mesi dalla fine dei combattimenti e qualcosa comincia a scricchiolare. Il tredici ottobre duemilatre il quotidiano Usa Today batte un titolo: “esercito indaga suicidio soldati Iraq” 2. Secondo tale fonte negli ultimi mesi almeno undici fanti e tre marines si sarebbero tolti la vita con armi da fuoco ma il totale dei casi sospetti dovrebbe raggiungere complessivamente le due decine. È proprio il suicidio degli eroi e la caduta degli dei il punto di vista da cui interrogarci per cercare significati più umani al nostro essere operatori di pace.

I numeri

Nel corso delle ultime vicende irachene il mondo dei “pacifisti” poco si è occupato della qualità della vita -intesa anche come salute psicologica e mentale- degli uomini al fronte, di cui l’evento suicidario si pone come termometro altamente indicativo. Il tasso di suicidi negli ultimi sette mesi in Iraq sarebbe del 17 per 100.000, superiore al valore di 13 per 100.000 registrato in passato nell’esercito e nella popolazione generale, ma per ora non è possibile azzardare conclusioni generali. Ciononostante lo stesso Pentagono, tramite la portavoce M. Rudd, si è dichiarato estremamente preoccupato ed ha subito potenziato il Programma di Prevenzione dei Suicidi (per il quale nel 2002 erano stati spesi almeno un milione di dollari). 478 Militari sono stati rimpatriati dall’Irak per disturbi mentali, mentre un team di esperti (psichiatri, psicologi, educatori) è stato subito inviato sul campo per valutare le condizioni di 700 militari e per redigere un rapporto sulla situazione, nell’intento dichiarato di raggiungere per il prossimo futuro quota “zero” suicidi3.
In tale contesto l’elemento più inquietante risiederebbe nel fatto che la maggior parte degli episodi di suicidio si sono verificati proprio dopo il primo maggio, ovvero dopo quel giorno in cui Gorge Bush atterrò sulla portaerei Lincoln mascherato da pilota per annunciare la fine delle grandi operazioni militari. Lo stesso giorno inizia lo stillicidio quotidiano delle morti tra i soldati occupanti e così il nemico appena sconfitto si rende invisibile nel popolo non proprio festante. La delusione per una guerra celebrata in pompa magna, il prolungarsi della lontananza da casa e la scomparsa di un avversario ben visibile verso cui dirigere la propria aggressività configurano un nuovo terrore senza volto. Un terrore indecifrabile, interno, che tormenta l’intimità degli uomini al fronte. Il nemico adesso era dentro di loro e per eliminarlo potevano solo uccidersi.

Le cause

La letteratura medica che si occupa di catastrofi, emergenze e problemi socio-assistenziali nei campi profughi evidenzia come l’esperienza del trauma e della perdita possano avere effetti profondi sulle persone che hanno vissuto una situazione di guerra. Il trauma, rappresentato anche dalla morte improvvisa di una persona cara, da un stupro o da un’aggressione violenta, si configura come una brusca interruzione della continuità dell’esperienza, una sorta di lacerazione psichica. Già nel 1976 Horowitz identificò le tematiche psicologiche comuni che conseguono ad un grave trauma: dolore o tristezza, colpa per i proprio impulsi di rabbia o distruttivi, paura di diventare distruttivi, sentimenti di colpa per essere sopravvissuti, paura di identificarsi con le vittime, vergogna rispetto ad un sentimento di impotenza e di vuoto, paura di ripetere il trauma, intensa rabbia diretta verso la fonte del trauma. Da un punto di vista più clinico invece, oggi si parla di “Post Traumatic Stress Disorder (PTSD)”, successore di formulazioni come “sindrome dei campi di concentramento”, “sindrome dei sopravvissuti”, “nevrosi da guerra”. I sintomi comprendono ansia, flashbacks, disturbi dissociativi (distacco ed amnesia rispetto all’evento traumatico) che permettono a chi ha subito un trauma di compartimentalizzare l’esperienza in modo da non renderla più accessibile alla coscienza –come se il trauma non si fosse mai verificato-. Uno studio recente effettuato su 30.000 veterani della prima guerra del Golfo ha evidenziato un tasso di PTSD significativamente più alto rispetto a personale non schierato nel Golfo e quindi non esposto agli stessi stimoli stressanti4. Ciononostante la relazione tra esperienza traumatica e PTSD non è così lineare e si ritiene condizionata a diversi fattori di rischio personali.

La pillola del diavolo

Si chiama “Propanolol” e secondo recenti ricerche condotte negli Stai Uniti ed in Francia potrebbe aiutare chi è costretto a convivere ogni giorno con paure e terrori da shock postraumatico5. La comunità scientifica è divisa per le implicazioni etiche e per le preoccupazioni sull’uso militare di un farmaco che potrebbe “normalizzare” anche i vissuti più insopportabili. Uno dei membri dell’Enola Gay (l’aereo che bombardò Hiroshima) arrivò a suicidarsi perché non riusciva più a convivere con il rimorso di quell’evento.
D’altra parte non c’è nulla di nuovo nell’uso di sostanze stupefacenti prima della battaglia. È stata la stessa Bayer, a fine 800, a mettere a punto l’”eroina”, così chiamata proprio per la capacità di accrescere lo sprezzo del pericolo nei soldati tedeschi. Dalla guerra in Vietnam l’esercito americano ha iniziato ad utilizzare farmaci psicotropi: psicostimolanti detti “go-pills” e sedativi da utilizzare dopo le missioni chiamati “no-go pills”. Per la prima volta, durante la guerra in Afghanistan, il Pentagono ha ufficializzato l’uso di amfetamine (Dexedrina) nei piloti in un documento di 58 pagine dal titolo: “il mantenimento della prestazione durante le operazioni di volo continuato” 5. Al di là di ogni riflessione di natura etica, le pesanti alterazioni psichiche indotte da tali sostanze sarebbero addirittura chiamate in causa dall’aeronautica militare nelle indagini su incidenti causati dal “fuoco amico”, come nel caso del pilota americano che nell’aprile 2002, durante le operazioni in Afghanistan, ha sganciato per errore 500 libbre di bombe su una postazione della fanteria canadese uccidendo quattro soldati alleati.

La storia del “soldato scelto” Corey Small

È il 3 luglio 2003 e ad East Berlin, in Pennsylvania giunge la notizia della morte del “soldato scelto” Small, ventenne della “502nd Military Intelligence Company”, accampato in un ospedale abbandonato di Baghdad, senza luce ed elettricità. Il paese intero si stringe intorno all’eroe: l’evento scatena le prime pagine dei giornali locali, in centinaia partecipano ai funerali, si apre un fondo bancario, si organizzano aste benefiche in sostegno alla vedova ed al figlio di quattro anni (si parla addirittura di un sandwich venduto per trecento dollari), l’“American Legion” decide di intitolargli la propria caserma6. Poi, d’improvviso, ogni fervore caritatevole si interrompe. Si scopre pian piano che il “soldato scelto” dalla collettività -prima come perfetto robot di guerra, poi come icona martire in cui riconoscersi-, non è caduto in modo onorevole sul campo di battaglia. Vergognosamente suicida con un colpo d’arma da fuoco, proprio davanti ai commilitoni, nell’attesa di utilizzare il telefono. Una telefonata mai fatta, un dolore così tragicamente espresso, un’accusa disperata che mette a nudo tutta la distruttività ed il demoniaco nascosti nelle ipocrisie di ogni East Berlin e di ogni disumana retorica di guerra.

Gli orrori e i massacri si ripetono finché diventano normalità.
Vivere quando è già troppo tardi, ma il sole tramonta lo stesso.

di Christoph Baker

Una carneficina in una scuola. Centinaia di bambini piccoli e vecchi sotto le macerie o stesi nudi in una chiazza di sangue. Le foto di tanta atrocità proposte e riproposte ad nauseam.
Tutto l’orrore umano. Tutta la miseria. Tutto la cruda verità.
Noi essere umani facciamo veramente schifo. In toto. Perché non ci basta la nuda tragedia. Ci vogliono immediatamente considerazioni, spiegazioni, accuse, scuse. Consolazioni varie. Come se anche la più mirata analisi potesse cancellare l’orrore o restituire una singola vita.
Il nostro riflesso nello specchio coperto di sangue di una scuola distrutta rimanda immagini terrificanti di vigliaccheria e di superbia. Arroganza. Sui cadaveri ancora caldi, partiamo lancia in resta per bandire l’ennesima crociata, l’ennesima vendetta, l’ennesimo giudizio finale. Ci avviamo ad un nuovo massacro, fosse quella l’unica via che veramente conosciamo.
Perché così siamo fatti. Perché così è tutto più facile. Ripetere l’orrore finché diventa normalità. Massacro di innocenti, massacro dell’innocenza. Anche la propria. Ci hanno obbligati a bere il sangue del nemico e ci è piaciuto. Quel gusto amaro ha cacciato via qualsiasi sentimento di rivolta verso la nostra condizione. Il sangue deve scorrere perché così ci sentiamo al sicuro. Niente di nuovo sotto il sole. Non è forse a questo che ogni civiltà ha sempre aspirato? Di miseria in miseria le nonne e le mamme dormono sonni tranquilli. Quando tutto è così prevedibile è più facile gestire il quotidiano. Controllare il proprio piccolo pezzo di immondizia filosofica.

E ricordare che la colpa – la colpa – è degli altri. Sempre.

Ora una volta asciugate le lacrime si faranno appelli alla speranza, all’ottimismo, al volontarismo. Si dirà “abbiamo toccato il fondo” e “che sia l’ultima volta” e “la ragione deve prevalere”. Come ogni volta. Come se il passato fosse pieno di ragionevolezza, di lungimiranza e di compassione! La verità è molto più crudele. Essa parla di un essere vivente che avendo paura della morte usa la morte come esorcizzazione. Ammazzare con l’illusione così di domare la Grande Falciatrice. Poi metteteci pure la vernice filosofica, religiosa, ideologica che volete. Non cambia la sostanza.
Guardo giocare i miei figli. L’assurdità è di casa. Non sappiamo perché si nasce a Roma piuttosto che a Beslan. Non sappiamo neppure se oggi Beslan vuol dire domani Roma. Parole sovra-masticate riempiono la mente. Impotenza disgusto rifiuto indifferenza. E così via. Parole inutili ormai. Sono vocaboli di un mondo in putrefazione. Il più grande castello di carte mai esistito sta per crollare definitivamente: la civiltà (!) moderna. Con il rischio di cadere nell’ennesima patetica speranza: che ci siano altre civiltà più umane.
Ma un uomo in piedi deve ricordare la coerenza. Aggrapparsi alla coerenza. Un uomo in piedi deve guardare l’orrore primordiale in faccia, spazzare via tutte le consolazioni di questo mondo, smantellare certezze e sicurezze. Un uomo in piedi non può avere paura del deserto gelido che aspetta chi non vuole più vivere di miraggi nè di favole. Un uomo in piedi deve andare incontro al caos accettando tutta la sua infinita assurdità.

E se è già troppo tardi, così sia. Intanto l’imperativo è vivere.

Non esistere, non tirare avanti, non dare un senso, non cercare una ragione. Vivere. Semplicemente vivere. Ogni passo infinitamente cauto infinitamente dolce. Provare a non disturbare. Provare a rispettare. Provare ad accettare. Anche gli schiaffi più sferzanti, le delusioni più cocenti, le sconfitte più crudeli. Perché di questo pure è fatta la vita umana. Vivere non il meglio ma il più. Cercare nuove parole. Parole belle, parole pacifiche. Parole ricche di soggezione. Parole che aprono le braccia. Parole che invitano a bere alla sorgente. Parole che cullano. Parole che tolgono il torpore. Parole che non uccidono il silenzio.
Vivere quando è già troppo tardi, spogliarsi dei troppi luoghi comuni, sbarazzarsi dalle false profezie, mollare la presa filosofica. Liberarsi dalla forza della ragione. Oggi sul banco degli imputati è lei la prima indiziata. Dopo secoli di primato assoluto, di dominio incontrastato, di potere dilagante, la ragione si mostra in tutto il suo orrore. Nel nome della ragione abbiamo buttato via le emozioni, i sentimenti, il mistero, lo stupore, il salutare senso d’inadeguatezza di fronte ai grandi misteri della vita. La ragione ci ha drogato, ci ha lavato il cervello, ci ha fatto pensare che potevamo capire tutto. Ah! A colpi di definizioni, di teorie, di ideologie, la ragione ha fatto tabula rasa nelle nostre menti, per non parlare del deserto e della desolazione nel cuore e nell’anima.
E cosa ci ha dato indietro la ragione, qual è il premio per avere calato le braghe di fronte al suo strapotere? Il pensiero unico… la visione economica della vita… l’uomo carburante… l’uomo predatore… Risultato patetico. Robetta. Scemenze.

Liberi dalla ragione, possiamo recuperare la ragionevolezza

Possiamo tornare a ragionare con i sogni, con la poesia, con gli accordi minori, con le tinte soffuse, con i chiaroscuri, con le braccia tese. Liberi dalla pretesa di controllare tutto, possiamo scoprire l’immensità sconvolgente della vita che scorre tranquilla, là a due passi da noi. Contemplare non è mica una tara psicologica. Ascoltare non è mica una perdita di tempo. E chi l’ha detto che le mani, i piedi, le trippe, il cuore e lo spirito non sanno pensare, che sono deficienti a paragone della famigerata mente razionale?
E se è purtroppo probabile che l’essere umana abbia un serio difetto di costruzione in partenza, che sia cioè innanzitutto un animale crudele, questa crudeltà non avrebbe mai raggiunto livelli di perversione come quelli che ci urlano in faccia oggi giorno, se le altre voci dentro di noi avessero avuto pari diritto alla parola. O meglio, al canto. Pensare di potere domare la perversione della ragione è fuorviante. Quel che occorre è un recupero di tutte le altre nostre fragili qualità. Per controbilanciare. Per disarmare lo strapotere. Per ridurre la nostra pericolosità. Questo e solo questo è salvezza.
Duro rinunciare al progetto, al programma, al controllo, alla cooptazione dell’avvenire. Duro, lo so. Ma inevitabile, se vogliamo definitivamente girare i tacchi e voltare le spalle a questa folle visione della vita, questa buffonata spacciata per modernità che non fa altro che seminare sopraffazione, sfruttamento, alienazione, distruzione e morte in giro per le campagne della Terra.
Non si tratta più di chiedersi ancora quanto orrore servirà per cambiare finalmente rotta. Non basta l’orrore che ha invaso il mondo intero e in modo permanente oggi? Allora allontaniamoci, piuttosto, dai luoghi del macello. Marciamo indietro per un po’, prendiamo le distanze, fermiamoci, non inventiamoci un bel niente, cerchiamo solo di recuperare un po’ di forza interiore, un po’ di saggezza comune. Respiriamo a fondo.

Prepariamo le lettere di dimissioni da questo folle andazzo.

Anche se è già troppo tardi, questo non vuole dire che non possiamo vivere. Se penso al Titanic, e dovessi scegliere, non sarei fra quelli inferociti e impazziti che sgomitano e calpestano per arruffarsi un posto sulla scialuppa sapendo che ce n’è solo per pochi. Sarei piuttosto fra quelli che ballano al ritmo dell’orchestrina, se non potessi addirittura essere uno dei musicanti. O forse salirei lentamente sul ponte più alto, per riempirmi gli occhi il cuore e l’anima con le luci di stelle di una notte polare di luna piena mentre naufraghiamo.
Abbiamo tutto il diritto di essere malinconici oggi, senza che questo debba subito indurci a scelte patetiche. E’ evidente che le cose potevano andare in un altro modo. Così non è stato. Pazienza. Ci resta comunque l’incredibile fortuna di fare parte di una cosa gigantesca che non capiremo mai, ma che ci dà tutte le energie e tutta la forza per andare incontro all’incognito senza tremare troppo. Basta che non cerchiamo più di sistemare tutto per tranquillizzare le nostre paure ataviche. Basta che queste paure le invitiamo a camminare con noi nel nostro peregrinare terrestre. Basta che osiamo essere un po’ più coraggiosi.

Alla fine della giornata, che tu abbia l’illusione di avere tutto sotto controllo o che tu sia consapevole che il caos e l’assurdo sono i veri specchi della nostra vita, sappi che il sole tramonterà lo stesso a milioni di milioni di chilometri da noi, laddove la nostra miseria di essere umani non disturba il grande svolgersi dell’universo. Il sogno è che finalmente anche noi uomini ci mettiamo a non disturbare più il grande svolgersi delle nostre vite.
In fondo, non sarebbe bello svegliarci una mattina liberi di tutte le pretese di protagonismo? Non sarebbe bello inseguire finalmente felici il volo leggero e fragile della farfalla o quello del pesce volante?
Dai, si tratta solamente di abbandonare un po’ di superbia, un po’ di arroganza. Non è così complicato dopo tutto…

La flebile voce di Elisa per raccontare la Shoah ai giovani.
Il silenzio dei vivi. Il dolore del mondo. Il coraggio della memoria.

Elisa Springer è morta il 19 settembre scorso all’età di 86 anni. Austriaca, ormai italiana di adozione, era sopravvissuta all’inferno di Auschwitz e, solo dopo un lunghissimo silenzio durato oltre cinquant’anni, aveva deciso di raccontare la sua storia. Decisiva nella sua scelta di apertura era stata la gentile pressione del figlio Silvio che aveva dedicato parte del suo tempo ad affiancarla nella ricerca e nella testimonianza.
Abbiamo avuto l’occasione di ospitarli entrambi per la presentazione del primo libro di Elisa, Il silenzio dei vivi edito da Marsilio, cui ha fatto seguito L’eco del silenzio. La Shoah raccontata ai giovani, per lo stesso editore. Ricordo il suo sorriso, la leggera pressione sul mio braccio richiesto quasi per vezzo o per un affetto spontaneo, e la fermezza, la dignità, la forza con la quale camminava al mio fianco. Luminosa, intera, senza cedimenti, trasmetteva una consapevolezza sobria e senza odio duramente scavata dagli anni.
Elisa Springer era fermamente convinta che il male passato, anche il più atroce, debba essere compreso – innanzitutto compreso, prima che odiato, esecrato, vendicato… – e che solo così si possa sperare di non vederlo riprodursi nel presente. Per questo negli ultimi anni aveva ripreso la sua peregrinazione di scuola in scuola, di città in città, anche dopo la scomparsa del figlio e nonostante la malattia. Vogliamo ricordarla con le parole che lei stessa usava per presentarsi ai giovani che la ascoltavano.

Il 2 agosto del 1944 sono stata, insieme ad altri, prelevata dal carcere di Milano e caricata su un treno a destinazione sconosciuta. Quando il 6 agosto sono arrivata ad Auschwitz – perché tanto è durato il viaggio – non avrei mai immaginato che un giorno sarei stata in grado di raccontare la mia storia e tanto meno di scriverla in un libro. Pensavo che la mia vita sarebbe finita lì, ad Auschwitz, dove ho lasciato la mia gioventù, i miei sogni, le mie speranze. Avrei voluto volare in alto ma mi hanno tagliato le ali, lì ho lasciato il mio aspetto fisico e anche i miei sentimenti umani, perché ad Auschwitz era proibito nutrire sentimenti umani.
Eravamo soltanto numeri, o per meglio dire, pezzi, come ci definivano loro, pezzi da sfruttare al massimo e poi gettare nelle camere a gas.
Descrivere la vita nel campo non è possibile. Non ci sono vocabolari sufficienti. Tutto quello che si vede nei filmati io l’ho vissuto, io quei cadaveri li ho scavalcati tutti i giorni. Qualche volta alla mattina ho ancora paura di svegliarmi e di trovarmi un cadavere a fianco. È importante dire questo perché molto spesso sento dire: tutti i film che si vedono, tutto quello che si legge, è vero?
È vero e non è abbastanza. Non si può descrivere quello che noi provavamo aspettando e vivendo la morte minuto per minuto. Non sapevamo mai quanto tempo potevamo ancora sopravvivere. Da un momento all’altro si sentiva il fischietto, veniva il dottor Mengele a perquisire il reparto. Lui ci faceva uscire dalla baracca nude, ci guardava davanti a dietro e bastava un foruncolo un pochettino più infiammato per essere eliminate.
Ho detto che non era concesso nutrire sentimenti umani. Ad Auschwitz gli appelli duravano, secondo il tempo atmosferico, dalle due alle dodici ore. Se il tempo era bello potevano bastare anche due ore, ma se faceva freddo d’inverno, o molto caldo d’estate, o se pioveva – e pioveva quasi sempre – ci lasciavano all’aperto, dritte, con le braccia lungo il corpo, obbligate a guardare al di sopra delle teste dei guardiani oppure a terra, perché non eravamo degne di guardarli in faccia.
Un giorno durante uno di questi lunghi appelli la compagna accanto a me ha rischiato di svenire e io, soltanto per avere fatto il gesto di sorreggerla, sono stata chiamata fuori dalla fila, il tedesco si è assentato per un po’ ed è tornato con un ferro rovente con il quale, a monito, davanti a tutti, mi ha fatto una bruciatura nella parte posteriore della coscia destra, dove è ancora ben visibile la cicatrice.
Ma le ferite del corpo, le ferite fisiche, col tempo si cicatrizzano e a volte pure spariscono. Le ferite che rimangono per sempre sono quelle morali. E loro facevano di tutto per farci morire prima moralmente e poi fisicamente.
Io ho taciuto per tanti anni perché nessuno voleva sapere. Avrei avuto tanto bisogno di aprirmi, di parlare, di liberarmi di quel fardello che mi trascinavo dietro, ma mi ridevano in faccia, non mi credevano. Per me quel silenzio significava la morte.
Oggi, in tanti anni di conferenze, visite nelle scuole, ovunque io vado incontro un altro silenzio che è come il vostro, questo silenzio di che mi ha ridato la vita e di cui vi sono infinitamente grata.
Esiste un dolore profondo, amaro, elevato, eterno e silenzioso. Il dolore di coloro che hanno sofferto e che soffrono, che hanno subito e subiscono le atrocità della guerra. Di coloro che muoiono e di quelli, invece, che vivono con la morte nel cuore. Il dolore profondo di dirsi vivi anche quando i ricordi sono straziati e si è avuta comunque la fortuna di vedere ancora la primavera.
Il dolore di chi, come me, è sopravvissuto a quel grande massacro chiamato Shoà, l’orrido abisso dove gli uomini hanno cercato di sradicare per sempre un popolo. Inferno indicibile, dove neppure i resti di donne, uomini, vecchi e bambini potevano essere sepolti dalla terra. Quel fumo attraverso i camini, quel fumo salito fino ad oscurare il cielo.
Più di 50’anni fa i gemiti delle vittime sono riecheggiati dappertutto e il mondo civile ha avuto un fremito. Immenso oceano di lacrime e di dolore, correvano i treni piombati carichi di disperazione. Inghiottiti da Auschwitz e da Buckenwald, Dachau, Treblinken, Mauthausen e tanti, tanti altri. Buchi neri nella storia dell’umanità.
Nei campi di sterminio tutto era difficile, tremendamente difficile. Era difficile vivere e quasi impossibile restare in vita. L’unica cosa facile era morire, e la morte era padrona. E la cosa triste, terribilmente triste, è che queste cose oggi ancora, in quasi tutto il mondo, si stanno ripetendo.

Io Elisa Springer oggi sono qui per aprirvi un angolo del mio cuore. È questo l’insegnamento che io posso trarre dal mio dolore: hanno tentato di distruggermi, di cancellarmi dalla vita, e hanno invece salvato la mia anima, la mia forza e i miei ricordi. Ecco perché il Dio ammirabile, il nostro unico Dio, ha avuto pietà di me facendomi vivere quando gli uomini mi negavano la vita. Ed è quel Dio di amore e di speranza che ha scritto il mio libro, che vuole essere un messaggio d’amore, un grido disperato di speranza che vuole scuotere le coscienze, perché siamo tutti quanti figli di un unico Dio e apparteniamo tutti quanti alla stessa razza, quella umana.
La nostra dignità umana si ribella alla negazione delle nefandezze di un mondo che non ha il coraggio di guardarsi dentro e di ammettere la propria vergogna. La nostra dignità silenziosa ha dato senso alla nostra esistenza. Oggi la gridiamo e la doniamo alla coscienza delle giovani generazioni, perché dia un senso alla speranza e perché abbia un senso la nostra sofferenza. Oggi la raccontiamo per ricordare i martiri, perché non muoiano una seconda volta. Quei martiri che passarono attraverso inferni di sofferenza e degradazioni, quei martiri anonimi dei campi di concentramento, quegli eroi che nessuno ha cantato, sono il simbolo dell’umanità che lotta per venire alla luce. Solo svegliando il coraggio delle coscienze si potrà rendere giustizia e dignità ai morti nei lager e a tutti quei morti che non hanno memoria. È questo l’impegno e il coraggio che io chiedo: non abbiate paura della memoria ma custodite attraverso essa il vostro domani, date dignità alla vita e restituite l’uomo all’uomo. Non abbiate paura del vostro presente, non barattate la vostra dignità. Non barattate la vostra anima con il nulla che a volte vi circonda cercando di impossessarsi delle vostre debolezze e confinandovi invece in nuovi recinti e in nuovi lager. Siate voi la luce e la forza della mia speranza.
Vedete, in tutte le esperienze, anche in quelle più negative, c’è pur sempre qualcosa di positivo. La mia triste esperienza mi ha insegnato che bisogna sempre affrontare la vita, che è il dono grande che il Signore ci ha fatto. Poi un giorno tutti quanti dobbiamo affrontare lo stesso tragitto, e io sarei contenta se potessimo farlo tenendoci tutti quanti per mano.

(a cura di Elena Buccoliero)

Dibattito pre congressuale
Educare alla nonviolenza oggi: uno sguardo d’insieme
per un radicale cambiamento di vita, produzione e consumo

di Angela Dogliotti Marasso

In questi ultimi anni l’educazione alla pace si è sempre più frequentemente identificata con l’educazione al conflitto e alla sua trasformazione nonviolenta.
E’ certamente, questo, un processo molto positivo; sembra tuttavia giunto il momento di ampliare ulteriormente lo sguardo , per arricchire di nuovi percorsi la strada che porta alla costruzione di una cultura di pace e nonviolenza, nel decennio a ciò preposto anche dalle Nazioni Unite. Oggi, infatti, il conflitto a livello macro ha assunto due dimensioni sempre più evidenti e ineludibili, dalle quali non si può prescindere perché comportano rilevanti conseguenze, anche in ambito educativo. Potremmo chiamare queste due dimensioni quelle della sostenibilità economico-sociale e della sostenibilità ambientale della globalizzazione neo-liberista nel sistema-mondo.
La sostenibilità economico-sociale.
Conosciamo tutti la situazione di grave disuguaglianza esistente tra i 4/5 degli abitanti del globo che consumano 1/5 delle risorse e il restante quinto che ne consuma i 4/5. Non è questa la sede per fornire i dettagli, ma sappiamo che tale divario è andato crescendo negli ultimi decenni, al punto che l’indice di sviluppo umano (ISU), indicatore utilizzato dal programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, calcolato in funzione di tre variabili (speranza di vita, livello di istruzione, reddito per abitante a parità di potere d’acquisto), nel 2000 vedeva buona parte del continente africano tra lo 0,26 e lo 0,50, mentre Europa, USA e Australia erano oltre lo 0,90. (Ma bisogna ricordare che anche all’interno delle aree ricche e delle aree povere esistono grandi disuguaglianze, tra un “centro” privilegiato e “periferie” diseredate. Nei paesi ricchi, dove più ampia è la fascia dei ceti medio-alti, è in costante crescita l’area delle nuove povertà, mentre nei paesi poveri, a fronte di una ristretta èlite privilegiata, la precarietà delle condizioni di vita della maggioranza della popolazione induce forti e inarrestabili movimenti migratori, cui assistiamo ormai da alcuni decenni.) Basterebbe un solo dato per evidenziare l’assurdità e l’insostenibilità di tale situazione: in un mondo che vede ogni anno “da 40 a 60 milioni di esseri umani morire di fame o di patologie legate alla malnutrizione” , circa la metà delle risorse alimentari prodotte nei paesi ricchi viene distrutta per i meccanismi protezionistici del “libero” mercato. Il modello sudafricano dell’apartheid serviva per difendere i privilegi della minoranza bianca dalla maggioranza nera, costretta a vivere al di sotto del livello di sussistenza: la situazione internazionale può essere rappresentata oggi come una estensione a livello mondiale del sistema dell’apartheid.
La minoranza privilegiata del globo può garantirsi la possibilità di mantenere il proprio livello di vita e di consumo attraverso la guerra. La guerra è oggi rilegittimata, dunque, perché appare come un mezzo per imporre la globalizzazione neoliberista al resto del mondo e per allontanare la resa dei conti.
Dire NO alla guerra significa perciò non solo affermare che essa è in ogni caso un mezzo miope e illusorio per affrontare i conflitti, ma significa in primo luogo dire NO anche a questo modello di sviluppo insostenibile e ingiusto.
La sostenibilità ambientale.
Questo stesso modello di sviluppo è caratterizzato dal mito della crescita illimitata.
Già il Club di Roma aveva evidenziato nell’ormai storico testo “I limiti dello sviluppo” (1972) l’insostenibilità di una economia fondata sulla crescita illimitata in un mondo finito.
Ma il paradigma economico prevalente è rimasto quello, e con la crescita quantitativa della produzione e dei consumi sono cresciuti a vista d’occhio i problemi ad essa collegati (smaltimento dei rifiuti, rarefazione delle risorse primarie come l’acqua, effetto serra, cambiamenti climatici….)
Oggi alcuni grandi paesi come la Cina si affacciano a questo modello di sviluppo . Sul mercato cinese si prevede un forte aumento del tasso di vendita delle automobili private. Secondo il paradigma della crescita illimitata questa potrebbe essere una buona occasione per il rilancio di aziende in crisi come la FIAT, ad esempio, che si potrebbe assicurare una fetta cospicua di mercato, o trovare manodopera a basso prezzo delocalizzando la produzione….Ma se i cinesi nei prossimi anni avranno in proporzione il nostro stesso consumo di automobili non vi è chi non veda quale disastrose conseguenza ciò potrebbe avere a livello ambientale. Un modello di sviluppo energivoro e a forte impatto ambientale come il nostro non sarebbe sostenibile a livello planetario. Bisogna allora impedire ai cinesi di avere anche loro la loro utilitaria e al resto del mondo di raggiungere il livello di vita dei paesi ricchi? Chi vuole difendere il nostro livello di vita contro la concorrenza delle maggioranze “in via di sviluppo” lo deve fare armi in pugno e comunque non può consentire che tutto il mondo abbia gli stessi standard di consumo dei paesi ricchi, pena l’invivibilità del pianeta.
Se si rifiutano simili prospettive non c’è che una strada: quella del radicale cambiamento del nostro tipo di vita, di produzione e di consumo. Essere per la pace oggi sempre più significa per noi, abitanti dei paesi ricchi, scegliere la strada della semplicità volontaria e un modello di economia eco-compatibile, se vogliamo che condizioni di vita dignitose siano accessibili a tutti.
Anche il terrorismo, presentato e vissuto con paura come la maggiore fonte di insicurezza in ogni parte del mondo, non può essere contrastato senza averne comprese le radici profonde, che trovano alimento nell’humus di questi squilibri globali , in questo fertile terreno si propagano rapidamente e non potranno essere disseccate fintanto che esso non sarà stato bonificato da profonde trasformazioni.
Ecco allora che da questi due cruciali processi del mondo contemporaneo scaturiscono chiare indicazioni su ciò che può voler dire oggi educare alla pace.
Educare alla pace e alla nonviolenza
Per passare dal paradigma della crescita illimitata a quello della sostenibilità ambientale e sociale, che non ha bisogno della guerra per la difesa di privilegi, disparità e disuguaglianze e la rapina legalizzata di risorse, occorre agire a più livelli e coinvolgere attori e processi diversi.
Ci sono importanti trasformazioni strutturali che devono essere realizzate sia a livello locale, sia in ambito internazionale (comprese le riforme delle istituzioni internazionali come l’ONU).
Ma c’è un livello più profondo, quello culturale, che agisce anche attraverso i modelli di socializzazione e l’educazione dei giovani a nuove prospettive di futuro, ad essere sfidato da questi problemi, da tempo sul tappeto, ma oggi particolarmente rilevanti.
La delegittimazione della guerra , la sua denuncia come prodotto del sistema militare-industriale, parte essenziale del modello di sviluppo che ha portato alla globalizzazione neoliberista, è il primo passo di un percorso culturale orientato alla pace, passo che potremmo chiamare di “Educazione al disarmo”. Ciò deve tradursi anche in un radicale rifiuto della cultura della violenza in tutte le sue forme, e mettere in discussione i miti e i presupposti del “pensiero armato” come l’ idea di “nemico”, la sindrome DMA (dualismo, manicheismo, armageddon) e la tendenza alla polarizzazione “noi” (buoni), “loro” (cattivi)
La nonviolenza come scienza del conflitto offre poi le riflessioni e gli strumenti per trovare alternative alla violenza negli inevitabili conflitti che attraversano tutti i livelli della convivenza umana, da quelli micro, a quelli macro. (Educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti).
Il programma costruttivo ci può aiutare , infine, a immaginare, qui e ora, scelte di vita fondate sulla responsabilità personale nei consumi, nel modo di vivere, nella vita civile e nella partecipazione politica, a partire dalla consapevolezza di queste grandi sfide che il mondo contemporaneo ci pone (educazione alla sostenibilità e alla sobrietà).
Come tradurre tutto ciò in concreti ed efficaci percorsi di lavoro formativo è il compito che ci attende.

Se vuoi la pace educa alla pace

Quello che avrebbe dovuto essere il “Decennio per una cultura di pace e nonviolenza per i bambini del mondo” si è aperto nel 2001 con l’atto di guerra terroristico a New York e sta proseguendo con il terrorismo infinito della guerra su scala planetaria.
Le nostre società, al loro interno, diventano sempre più complesse e conflittuali a tutti i livelli, da quelli interpersonali e sociali, contrassegnati anche dalla necessità di gestire nuove convivenze tra persone provenienti da culture diverse, a quelli strutturali, legati ai processi di globalizzazione economica, che triturano lavoro, ambiente, energia e democrazia.
La scuola e i luoghi di educazione extrascolastica diventano sempre più gli ambiti in cui si riflettono in maniera massiccia il disagio e la conflittualità diffusa e ciò li rende luoghi privilegiati nei quali sperimentare la sfida di nuove aperture culturali e di nuove prassi educative nella prospettiva della nonviolenza.
A partire da questo contesto, abbiamo raccolto alcuni interrogativi, spunti, idee che proponiamo alla riflessione di tutti, per sollecitare un proficuo confronto tra i partecipanti al seminario sui nodi cruciali per una educazione alla nonviolenza oggi e sui modi per realizzarla.
La rilegittimazione della guerra sulla scena internazionale appare come la logica conseguenza di uno scenario mondiale che si presenta come una proiezione ingrandita del Sudafrica pre-Mandela: minoranze ricche chiuse nelle loro fortezze privilegiate e immense maggioranze povere confinate e controllate in grandi “bantustan” attraverso le leve dei poteri economico, politico e strategico, a livello internazionale.
Come si connette questa macro-realtà con la micro-realtà della nostra vita quotidiana? Quali percorsi di consapevolezza, riflessione ed azione si possono attivare per superare il senso di impotenza e paura del futuro e per avviare, dal basso, processi di cambiamento?
In un pianeta finito, con risorse limitate, l’unica sostenibilità possibile è quella di modelli di sviluppo ecocompatibili e fondati sulla semplicità volontaria, che unisce sostenibilità ed equità.
Come tradurre a livello educativo tale proposta, in un contesto di consumismo non solo stimolato, ma legittimato e valorizzato ? (più si compra e più si sostiene l’economia….)
La nonviolenza è anche, essenzialmente, una strada per:
– sperimentare relazioni positive tra diversi
– trasformare la distruttività, da un lato, e la passività, dall’altro, in combattività e forza assertiva per giungere, nei conflitti, a riconoscere le parziali verità di ciascuno e per trovare soluzioni capaci di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti.
Quali percorsi educativi possono meglio contribuire a sviluppare le competenze specifiche di una personalità nonviolenta?
La Coalizione internazionale per il Decennio vorrebbe creare un gruppo di lavoro sugli interventi civili di pace, come proposta concreta di intervento nonviolento in situazioni di conflitto macro: ci interessa partecipare ?

Sabato 16 ottobre, a Torino,
seminario – incontro per uno scambio di esperienze e riflessioni nell’ambito del Decennio Onu, presso la sede del Centro Studi Sereno Regis (vedi il programma completo nel sito www.nonviolenti.org)

Il Comitato Italiano per il Decennio è nato in seguito alle risoluzioni ONU (52/15 del 20 novembre 1997, 53/25 del 10 novembre 1998; 53/243 del 13 settembre 1999) con cui si istituiva il Decennio 2001-2010 per una cultura di pace e di nonviolenza.
Il Comitato, che raccoglie alcune tra le più importanti associazioni che da anni lavorano per la diffusione dei valori della nonviolenza e della pace, tra le varie attività sta realizzando un CD-ROM, destinato ai ragazzi delle scuole medie superiori.

Segreteria presso il M.I.R. di Padova, Via Cornaro 1/A, 35128 PADOVA, Tel. e fax 049 8075964
e-mail: decennio@unimondo.org
www.unimondo.org/decennio

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso.

A chi ti toglie la tunica, tu dai anche il mantello

Walter Wink (“Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio”, edizioni EMI – sezione biblica) ci aiuta a comprendere cosa Gesù intendesse offrire ai suoi interlocutori attraverso i suoi racconti: la possibilità di uscire dagli schemi, spiazzare l’oppressore e aprire nuovi orizzonti possibili. La lotta nonviolenta per il cambiamento sociale richiede una forte creatività da parte delle vittime.

Giorgio Barazza
L’arte dello spiazzamento

A qualcuno si sta pignorando la veste esterna. Solo i più poveri dei poveri potevano avere soltanto la veste da dare in pegno per un prestito. La situazione cui accenna Gesù è fin troppo nota ai suoi uditori: il debitore si è impoverito ulteriormente, non riesce a pagare il suo debito, e il suo creditore l’ha citato in giudizio per ottenere risarcimento.
L’indebitamento era un fenomeno endemico nella Palestina del primo secolo. Era una conseguenza diretta della politica imperiale romana. Gli imperatori tassavano così pesantemente i nobili per finanziare le loro guerre, che i ricchi cominciarono a investire in immobili per mettere al sicuro le loro sostanze. La terra era il bene più ambito, ma da tempo immemorabile veniva trasmessa da padre in figlio e nessun contadino era disposto a venderla volontariamente.
Si perseguì dunque una politica di innalzamento degli interessi, per rendere sempre più difficile ai contadini il saldo dei loro debiti. L’indebitamento, unito alle tasse elevatissime imposte da Erode Antipa per pagare il suo tributo a Roma, divenne così l’arma economica utilizzata per privare i contadini galilei della loro terra.
Al tempo di Gesù questo processo era già in fase avanzata.
Gli ascoltatori di Gesù sono dunque poveri e condividono un risentimento bruciante nei confronti di un sistema che li umilia privandoli della loro terra, dei beni e infine dei vestiti.
Perché allora Gesù consiglia loro di dare via anche la sottoveste?
Significherebbe togliersi tutti i vestiti e uscire dal tribunale completamente nudi! Immaginate le risate suscitate da Gesù.
Immaginate il creditore, pieno di imbarazzo, con la sopraveste del debitore in una mano e la sottoveste nell’altra. La situazione si ribalta improvvisamente a vantaggio del debitore.
Il debitore non aveva alcuna possibilità di vincere la causa; la legge era totalmente dalla parte del creditore. Ma, proprio denudandosi, il povero riesce a evitare di essere umiliato. Ad andare al di là della propria vergogna.
Nello stesso tempo riesce a elevare un’aspra protesta contro il sistema che ha causato il suo debito.
Egli afferma di fatto: “Vuoi la mia sottoveste? Ecco: prendi tutto. Ora hai proprio tutto ciò che era mio, eccettuato il corpo: vorrai mica pignorarmi anche quello?”
La nudità era tabù in Israele, e la censura colpiva meno la parte denudata che quella che la guardava o ne aveva provocato la nudità.
Proprio come Isaia aveva “camminato nudo e scalzo per tre anni” come segno di denuncia profetica, così il debitore fa della sua nudità una protesta profetica contro un sistema che l’ha reso inadempiente di proposito.
Immaginiamolo mentre lascia il tribunale, nudo. I suoi amici e vicini, stupefatti, gli si avvicinano per chiedergli cosa mai è accaduto. Lui glielo spiega. Si forma presto una processione, sempre più nutrita che piano piano si muta in un corteo di vittoria. L’intero sistema che opprime i piccoli proprietari terrieri indebitati è stato smascherato pubblicamente.
Il creditore non è apparso più come legittimo prestatore di denaro, ma come uno di quelli che hanno voluto portare alla rovina un’intera classe sociale, in passato del tutto autosufficiente.
Questo smascheramento, si aggiunga, non è di carattere esclusivamente punitivo: offre allo stesso creditore una chance di rendersi conto, forse per la prima volta, dell’iniquità del sistema a cui presta il suo appoggio ed, eventualmente di pentirsi.
I poteri-che-sono si reggono letteralmente sul senso di dignità. Non c’è nulla che li corroda più a fondo del fatto di essere messi impietosamente in ridicolo.
Rifiutando di lasciarsi terrorizzare da loro, chi prima si riteneva impotente scopre di poter riprendere l’iniziativa, anche là dove un cambiamento strutturale immediato è assolutamente impossibile.
Questo consiglio di Gesù offre una misura pratica e strategica per dare potere agli oppressi. Gesù qui dà una chiave per affrontare l’intero sistema smascherandone la crudeltà e ridicolizzando il suo modo di scimmiottare la giustizia.
Nell’esempio c’è un pover’uomo che non verrà più trattato dai ricchi come una spugna da strizzare.
Egli accetta le leggi vigenti, ma le spinge fino all’assurdo rivelando così il loro stato di decadenza.
Si denuda, esce dal tribunale incontro ai suoi compagni, ed espone più nudi di lui il creditore e l’intero sistema economico che rappresenta agli sguardi di tutti.

2 (segue)

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Fare politica, con pannolini e passata di pomodoro

La prima cosa che colpisce arrivati all’incontro nazionale dei “Bilanci di Giustizia” sono i bambini: centinaia, in ogni dove e di ogni età! Ne parlo con Dario, uno degli organizzatori, e mi dice che su 400 partecipanti ben 200 sono bimbi. Rispetto ai soliti convegni, interessanti ma grigi, si percepisce subito la differenza; mentre si parla di politica, di stili di vita, di consumo critico, di energie alternative,i bambini scorazzano amorevolmente tra le file del teatro, nelle sale dei gruppi di lavoro, nel giardino e in ogni dove senza però che nessuno si infastidisca, anzi, sono un’aggiunta, sono il colore. Un’altra differenza da altri contesti “di movimento” è anche la presenza di moltissime donne. La maggior parte di loro mamme e vere “artefici” della vita bilancista della famiglia. Donne che non ci stanno a delegare ai loro uomini la politica e a stare sole con i loro bimbi; ecco un bel gruppo di loro che discute attorno al tema “la passata è delle donne e la politica degli uomini?” e a cercare di capire come si possa fare a trovare nuovi spazi ma soprattutto tempi diversi per fare azione politica e continuare a essere mamme, mogli e donne. Qui si respira realmente il “lentamente , dolcemente, profondamente” di Alex, e infatti, forse non a caso, ai partecipanti dell’incontro viene regalato proprio un libretto di Langer.
Si sta bene con queste persone: un attimo prima ti trovi a parlare dei pannolini lavabili dei figli, sul come autoprodursi dei giochi, se sia meglio scegliere un’auto a metano piuttosto che a gpl o su come farsi dei pannelli solari in casa e un attimo dopo ti trovi a parlare di come questo tipo di scelte incida sulla gestione dei rifiuti della tua provincia, sui problemi legati alle multinazionali gulliver che sfruttano i bambini del Sud del Mondo per produrre giochi per i nostri figli e ancora su come incidano pesantemente i nostri consumi di energia e di petrolio nelle attuali guerre sparse per il Mondo.
Durante l’incontro con un gruppo di politici mi colpisce molto l’intervento di Cesare che riprende il Presidente della Provincia di Trento che aveva parlato di radicalità delle scelte bilanciste; Cesare infatti ci tiene a dire che la scelta di essere bilancisti non è di radicalità, ma di normalità… la radicalità, dicono i bilancisti, è di chi vuole ad ogni costo vendere e mercificare tutto quello che c’è a disposizione, da chi pretende che la legge del mercato sia ineluttabile come la legge di gravità e non una semplice convenzione umana… normale, sì! O per lo meno dovrebbe essere normale vivere in maniera semplice, cercando di alleggerire lo zaino ecologico che ognuno di noi si porta dietro, privilegiando la convivialità alla mercificazione del divertimento. Scelte normali.
Forse è proprio questo ultimo aspetto che ti fa piacere questa gente: la semplicità volontaria con cui cercano di affrontare la loro quotidianità e allo stesso tempo lo sforzo di trasformare questa in azione politica capace di lasciare un’impronta nella società. E’ in corso un grosso sforzo per ragionare sul peso politico del “produrre la passata di pomodoro in casa”. Il filo conduttore di questo loro incontro nazionale era proprio, infatti, un continuo interrogarsi sull’azione politica dell’essere bilancisti.
Ho sempre pensato che i bilancisti, attraverso le loro scelte di vita si “limitassero”a fare della mera testimonianza di vita alternativa… in questi tre giorni ho dovuto, piacevolmente, ricredermi dato che, durante i gruppi di lavoro e durante la tavola rotonda con i politici sono emerse delle serie proposte politiche che vanno molto oltre la mera testimonianza di vita. Proposte incisive come le reti di economia solidale, i bandi per i condomini sostenibili e solidali, la richiesta di mense scolastiche con cibo biologico e locale molte altre ancora, tutte reali e, volendo, realizzabili.
D’altro canto l’intento dei Bilanci di Giustizia appariva chiaro già dal titolo scelto per il loro incontro che non era un disfattista “la politica E’ la passata di pomodoro” e non portava ad un bivio affermando “la politica O la passata di pomodoro”… no, il loro motto è un tondo: “la politica E la passata di pomodoro, come facciamo politica con le scelte di tutti i giorni”, ovvero una continua ricerca di incisività politica attraverso piccole, medie e grandi azioni quotidiane.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
La moneta miracolosa del Parco dell’Aspromonte

Cosa evoca nell’immaginario comune l’Aspromonte? Sicuramente luoghi impervi, selvaggi, dove la natura è rigogliosa, ma anche località tristemente famose per episodi criminali radicati in un contesto sociale difficile. Non viene in mente, in prima battuta, di accostarlo a temi economici, tantomeno alternativi.
Invece, oltre alla bella esperienza del Riace Village (www.cittafuturariace.it) e al fiorire delle cooperative agricole fondate dal Vescovo di Locri Giancarlo Bregantini (www.naturanetwork.it/nat_valori_037.asp), la Calabria si propone in questo periodo all’attenzione dei giornali finanziari per un’altra iniziativa eticamente orientata, nata all’interno del Parco dell’Aspromonte.
Il Parco nazionale dell’Aspromonte venne creato nel 1994 con l’intento di proteggere più di 76.000 ettari, appartenenti a 37 comuni della provincia di Reggio Calabria. Nel 1999 l’incarico di presidente fu affidato a Tonino Perna, docente di Sociologia economica all’Università di Messina. Perna è stato presidente del comitato etico di Banca Etica e presidente del Centro Regionale di Intervento per la Cooperazione (CRIC). Negli anni ’80 ha progettato e concorso a realizzare progetti di sviluppo locale in Nicaragua, Cile, Equador, Eritrea, Palestina, e negli anni ’90 il suo impegno nella cooperazione internazionale si è concentrato nell’area dei Balcani, con particolare riguardo all’Albania ed alla Macedonia.
“Quando sono arrivato – racconta Perna – otto Comuni volevano uscire dal Parco e la Provincia di Reggio Calabria aveva votato per un ridimensionamento dei confini. Oggi tre Comuni chiedono invece di allargare l’area di protezione e penso che la questione dei limiti del Parco verrà conclusa con un ampliamento dell’area”. Ma come si è arrivati a questo risultato?
Il sistema adottato da Perna è stato quello di far leva sulle cooperative di volontari per la pulizia del parco e la salvaguardia dagli incendi, corrispondendo loro una paga oraria proporzionale a quanti rifiuti riuscivano a smaltire o quanta parte del territorio riuscivano, a fine anno, a difendere dai fuochi. In breve la piaga degli incendi si è drasticamente ridotta (dai 4.000 ettari del’98 ai 125 del 2003), i turisti hanno ripreso ad affollare il Parco (tra gli ultimi il presidente del parlamento danese), e al presidente è sembrato il momento di affondare un colpo ad effetto: l’istituzione di una moneta locale.
Stampata dalla Zecca dello Stato e presentata ufficialmente alla Borsa di Milano nel dicembre scorso assieme al presidente di Banca Etica (che ne garantisce l’operazione) Fabio Salviato, la moneta ha valore 1:1 con l’euro e solo validità all’interno del Parco. Permette di acquistare prodotti tipici del territorio, nonchè di pagare le strutture alberghiere della zona: in cambio, gli esercenti si impegnano a mantenere fissi i prezzi per tutto l’anno, concedendo uno sconto del 5%.
Caratteristica della moneta è la sua scadenza a fine anno, al termine del quale può essere convertita in euro oppure in EcoAspromonte dell’anno successivo. In questo modo le monete non convertite rappresentano un guadagno netto per l’Ente, che può usare questi fondi per progetti di rilancio delle zone che si stanno spopolando.
“L’EcoAspromonte è una moneta che nasce per qualcosa e non contro qualcosa. Non vuole essere una contestazione dell’Euro, che riteniamo vada difeso come una pietra miliare nella costruzione dell’Europa, né vuol rappresentare una qualche forma di secessionismo locale, che riteniamo ridicolo e fuori dal nostro periodo storico”, precisa Perna. Quest’anno ne sono stati acquistati per un controvalore di 400 mila euro e la speranza è quella di farla adottare da tutti i parchi nazionali italiani.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
I retroscena di quel maledetto 11 settembre

Fahrenheit 9/11
di Michael Moore
USA, 2004

Il film concentra la sua indagine sul presidente USA e sulla cerchia più ristretta dei suoi collaboratori, su come abbiano ignorato la connessione saudita nell’attentato dell’11 settembre e precipitato la nazione nella guerra con l’Iraq.
Solo Michael Moore ha il sarcasmo necessario per trovare l’ironia in una materia così drammatica, sia che incoraggi i parlamentari a leggere una legge già approvata a scatola chiusa, sia che riveli l’ipocrisia della retorica politica, cercando di far arruolare i figli dei membri del Congresso nell’esercito in Iraq.

Rischiava di non trovare una casa che lo distribuisse l’ultimo “scomodo” documentario di Michael Moore. Ma per una volta anche una vicenda che stava per essere annoverata tra quelle deprecabili ha avuto un epilogo felice: il trionfo al Festival di Cannes, forse, la Mostra d’Arte Cinematografica più importante dell’universo colonizzato dalla specie umana. E, di conseguenza, la manifesta impossibilità da parte delle case di distribuzione di negare la commercializzazione della pellicola. Quentin Tarantino, il presidente della giuria, ha tenuto a sottolineare come il film fosse stato premiato esclusivamente per il suo valore artistico; ma è naturale che in un festival si dovrebbe “impalmare” una pellicola per il suo valore artistico: in fondo, “d’arte” cinematografica si tratta! Il fatto che il regista più “pulp” del globo abbia voluto dichiarare espressamente una tale motivazione sta tutto nei contenuti del documentario: quasi due ore di esplicito e diretto “assalto” alla persona del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, alla sua famiglia e alla sua politica estera (oltre che alla sua “non” politica interna) bellica ed “imperialista”. Di fronte a questo è facile immaginare quale tipo di pressioni, se non intimidazioni, siano piovute su chi avrebbe dovuto assumersi il compito di distribuire il film in patria e nel resto del mondo; per di più, a pochi mesi da una scadenza elettorale tra le più delicate dalla fine della seconda guerra mondiale. La libertà di pensiero e di espressione, che è alla base della Costituzione americana, è stata quindi salvata in terra di Francia; e ancora una volta, verrebbe da dire, ripensando ai principi della Rivoluzione più importante della Storia Moderna. E proprio di libertà vuole parlare Moore perché Fahrenheit 9/11 è la temperatura a cui bruciano le libertà. Quella libertà calpestata dall’amministrazione Bush con il Patriotic Act che, come ci fa vedere Moore, impedisce a un tranquillo pensionato della provincia americana di criticare, tra gli amici in palestra, l’intervento militare in Iraq; ma, soprattutto, la libertà di tutti gli esseri umani, a qualsiasi classe sociale appartengano, di scegliere autonomamente il proprio destino: che non può essere che di pace.
Fahrenheit 9/11 è un’altra di quelle pellicole da inserire nella casella “film necessari”. E’ necessario che qualcuno, fuori dagli schemi convenzionali, “gridi” al mondo, attraverso un mezzo “potente” qual’è quello cinematografico, la triste natura delle ambigue manovre di chi governa le politiche mondiali.
Tutto ciò non ci impedisce di rilevarne i difetti.
Moore realizza un film “a tesi” che non lascia spazio al dubbio, all’interrogativo, unica via che conduce alla verità. Nel suo fare “contropropaganda” utilizza tutte le tecniche, i facili effetti e le strategie persuasive per immagine, anche quelle meno “oneste”, utilizzate della “propaganda”: è dai tempi dei filmati Luce mussoliniani che lo spettatore ha imparato a non prendere per oro colato l’accoppiata “immagine+voce fuoricampo”: combinando assieme questi due fondamentali elementi del linguaggio audiovisivo si può affermare tutto e il suo contrario: anche tentare di far passare allo spettatore che prima dell’intervento militare in Iraq i bambini iracheni vivevano in pace correndo per le vie di Bagdad dietro ai loro aquiloni!
Ma il film, tra le pieghe di una disputa quasi personale tra Moore e Bush (che lo invita, in una sequenza a trovarsi “un vero lavoro”) ha il grande merito di invitarci a scoprire che cosa si nasconda realmente dietro le “guerre preventive al terrorismo”; quali siano i veri interessi che muovono gli eserciti; ma, soprattutto, in un grandioso ed emozionate finale, Moore ha il merito di “urlare” a tutti la ragione più profonda di ogni conflitto: la guerra, qualunque essa sia, si nutre di povertà e indigenza, reperisce la sua manovalanza tra le classi più disagiate di ogni popolo o nazione e ha come fondamentale scopo, in un circolo perverso e vizioso, il mantenimento dello status quo sociale, politico ed economico.

Gianluca Casadei

MUSICA
A cura di Paolo predieri
Satyagraha, un’opera di Glass su Gandhi

Un’opera di musica contemporanea intitolata “Satyagraha”, dovrebbe almeno stuzzicare la nostra curiosità. Se poi scopriamo che l’autore, considerando tutta la storia, ha pensato a Gandhi come l’innovatore più importante nel campo della politica, allora dobbiamo dedicare un po’ di spazio a questa singolare composizione.

Philip Glass è uno degli autori contemporanei più conosciuti ed apprezzati, grazie alla sua capacità di collegarsi a tutto campo con svariate culture musicali e con diverse forme di espressione artistica, in particolare col teatro e il cinema. Nato a Baltimora nel 1937, laureatosi poi in matematica e filosofia all’Università di Chicago ma già con la decisione di diventare un compositore, ha studiato negli Usa e in Europa. Abbandonata presto la scuola dodecafonica, ha rivolto la sua attenzione su compositori americani più tradizionali come Charles Ives e Aaron Copland. A Parigi ha frequentato la scuola di Nadia Boulanger, spingendo la sua ricerca verso le musiche indiane, himalayane e nordafricane. Ha collaborato con Ravi Shankar e scritto opere che hanno ripreso testi e musiche di Allen Gisberg, Paul Simon, David Byrne, Laurie Anderson, Susanne Vega, David Bowie e Brian Eno. E’ autore di colonne sonore di film famosi come “Kundun” e “The Truman Show” e di lavori sperimentali che hanno saputo saldare musica e immagini in modo indissolubile, ottenendo risultati di grande impatto e suggestione, come “Koyaanisqatsi” e “Powaqqatsi”, dove si mettono a confronto la natura incontaminata e la “civiltà squilibrata” che la invade e la annulla in un crescendo ossessivo.

Scorrendo l’elenco delle opere di Philip Glass, troviamo una trilogia dedicata agli uomini che hanno cambiato il mondo con la forza delle loro idee. E’ significativo notare che Glass sceglie tre personalità che hanno segnato rispettivamente la scienza, la politica e la religione. La prima opera dunque è dedicata ad Albert Einstein (“Einstein on the beach” del 1976); la seconda è dedicata a Gandhi (“Satyagraha” del 1980); la terza è dedicata al primo monoteista che la storia ricordi, Akhnaten, il Faraone che salito al potere, sostituisce alla religione politeista in uso ai suoi tempi una religione basata su un unico dio, attirandosi contro una violenta rivolta (“Akhnaten”, 1983).

“Satyagraha” è un’opera in tre atti della durata di circa due ore, con orchestra, voci soliste e cori. Il libretto si basa su testi in Sanscrito tratti dalla Bhagavad-Gita. E’ un’opera semi-narrativa che tratta dei primi anni di Gandhi in Sud Africa con lo sviluppo della strategia nonviolenta attraverso strumenti estranei alla politica del tempo, il “Satyagraha”, appunto. I primi due atti sono composti da tre scene, l’ultimo è un’unica scena continua. Ogni atto è dominato da una singola figura storica impersonata da una figura non cantante che osserva l’azione dall’esterno: il poeta indiano Rabindranat Tagore nel primo atto, lo scrittore Leone Tolstoi nel secondo e Martin Luther King jr nel terzo.
L’opera è reperibile in un cofanetto di 3 cd nei Sony Masterworks.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
La danza del sole degli indiani Sioux

Il viaggio che Catlin stava per incominciare, con l’idea di risalire l’Upper Missouri per duemila miglia, si può paragonare a una missione odierna con lo space shuttle. Nel 1832 iniziò il viaggio a bordo del primo battello a vapore che tentava il passaggio sul Missouri fino a fort Union. Nei tre mesi che il battello impiegò a risalire la corrente, Catlin dipinse i paesaggi che apparivano ai suoi occhi, che sono la prima rappresentazione della topografia della vallata. La prima fermata fu effettuata al villaggio dei Ponca, dove uno dei capitribù si lamentò del fatto che i bianchi cominciavano a occupare il territorio della sua gente; di conseguenza il popolo Ponca si stava preparando a spostarsi ancora più a ovest. Le parole dell’uomo confermarono i timori di Catlin: lo stile di vita degli indiani stava cambiando così rapidamente che in pochi anni sarebbe scomparso per sempre. Il viaggio riprese, finché un giorno la nave non si incagliò e dopo un’intera giornata trascorsa a scandagliare il fondale i marinai si convinsero che non c’era modo di proseguire, a meno che il livello dell’acqua non si fosse alzato. Insieme a una ventina di uomini Catlin continuò a piedi, camminando per duecento miglia. Dopo una marcia di una settimana, nutrendosi con la carne dei bisonti cacciati per via, il drappello giunse a fort Pierre, che era una palizzata di legno circondata da quasi seicento pelli di bisonte. Qui Catlin ebbe l’occasione di dipingere molti ritratti di indiani Lakota e di apprendere i loro usi e costumi. L’artista era angosciato dalla mancanza di tempo e, temendo di non riuscire a lavorare abbastanza in fretta per ritrarre l’aspetto di tutte quelle genti che aveva l’opportunità di vedere, tratteggiava rapidamente le caratteristiche del soggetto e poi si concentrava sul volto, curando i tratti fisionomici di ogni modello. Era comunque attento anche ai dettagli dell’abbigliamento, dell’acconciatura, degli equipaggiamenti. Inizialmente utilizzava soltanto una dozzina di colori, ma poi, influenzato dagli abiti multicolori e dalle decorazioni indossate dagli indiani, passò a una gamma cromatica più vivace e brillante. Conservava le tele arrotolate in un grande cilindro rigido e diluiva i colori con olio di semi di lino, così che le tele si asciugassero in fretta e non si rovinassero quando le arrotolava. Da principio i Lakota si mostrarono sospettosi dell’abilità del pittore nel rappresentare in modo realistico e riconoscibile gli esseri umani, ma poi uno dei capi li convinse che la magia dell’artista era buona e non dannosa. Catlin descrisse i Lakota, chiamati anche Sioux, come una nazione indiana di circa cinquantamila individui, con diecimila guerrieri che utilizzavano ancora l’arco, le frecce e lunghe lance. Catlin ebbe la possibilità di assistere e di fissare sulla carta sport, giochi e danze dei Sioux. Tra queste cerimonie c’era la danza del sole, un rito nel corso del quale gli uomini sopportavano dolore, fame e sete, cercando di avere visioni. Il loro petto veniva trafitto da schegge, che erano assicurate a un palo con corregge di cuoio; le corde restavano tese grazie ai movimenti della danza. I giovani riuscivano a liberarsi dopo molte ore di questa autotortura, quando il peso del corpo strappava dalla carne gli spilloni.
Quando il battello riuscì finalmente a disincagliarsi e raggiunse fort Pierre, Catlin riprese il viaggio e nel mese di giugno arrivò a fort Union. Qui Catlin dipinse i ritratti dei capitribù a una media di cinque o sei quadri al giorno, solo in parte portati a termine sul campo, in quanto era suo intendimento completare i quadri in studio. Quando il battello riprese il viaggio di ritorno verso St. Louis, Catlin decise di rimanere al forte. Partecipò a qualche battuta di caccia al bisonte e ne ricavò schizzi e dipinti. I suoi ritratti, molto somiglianti, lo resero una leggenda tra gli indigeni e folle di dignitari, provenienti da diverse tribù, si recarono al forte, dove Catlin allestì uno studio. Uno sciamano dei Piedineri, che acconsentì a lasciarsi ritrarre, fu così soddisfatto del risultato da donare all’artista il suo costume tradizionale, gesto che per il pittore segnò l’inizio della sua collezione di oggetti indiani. A luglio iniziò il viaggio di ritorno con una piroga guidata da due francocanadesi e durante il tragitto si fermò un mese presso la tribù dei Mandan, continuando a dipingere i suoi ritratti e partecipando ai riti degli indiani. Catlin provava un autentico affetto per questo popolo e fu colpito dal fatto che, a dispetto delle affermazioni di altri bianchi, gli indiani erano persone oneste che non mentivano, non rubavano e non ingannavano. Quando, cinque anni dopo, seppe che un’epidemia di vaiolo portata dai mercanti di pellicce aveva ucciso quasi tutti i Mandan provò un immenso dolore.

(2 – continua)

Da Capitini a Gandhi
Da Perugia a Nuova Delhi

E’ transitata per Bologna la Carovana della pace Perugia – Nuova Delhi !

L’11 settembre, data emblematica d’avvio della nuova spirale di violenze nel mondo, è partito da Perugia ed ha fatto la sua prima tappa a Bologna il pulman camperizzato dei partecipanti al viaggio “Da Capitini a Gandhi: una strada per la nonviolenza” promosso dal Gruppo Teatrale ALIA.

Il gruppo – composto da una quindicina di persone fra musicisti, attori di teatro di strada, burattinai, ballerini, clown, pittori, tecnici audio-video,registi e sceneggiatori – si propone di comunicare agli “altri” – diversi da noi per razza, religione, condizioni di vita – sentimenti di fratellanza, di solidarietà, di pace, di speranza. Lungo il tragitto di circa 8000 km. incontreranno rappresentanti di associazioni e istituzioni locali, scolaresche ma soprattutto la gente nelle piazze dove sosteranno improvvisando spettacoli. La loro convinzione è che la nonviolenza e l’universalità dei linguaggi comunicativi dell’arte umana possano unire uomini divisi da concetti territoriali e politici diversi.

In India, dove arriveranno alla fine di ottobre dopo aver attraversato l’est Europa, la Turchia, l’Iran e il Pakistan, saranno ricevuti dalla Fondazione Gandhi, cui saranno donati dei quadri dipinti da artisti italiani sul tema della nonviolenza.

A Bologna Rete Lilliput e Donne in nero li hanno attesi nella centralissima P.zza Nettuno disponendosi a semicerchio in un variopinto abbraccio di bandiere della pace e assistendo, insieme alla gente attirata dall’evento, alle loro performance. Ci è parso opportuno conoscerli e rendere partecipe la città di questo loro progetto di speranza e di impegno nonviolento, tanto più significativo in questi momenti preoccupanti e tragici per i conflitti armati diffusi nel mondo e per gli atti di terrorismo sempre più devastanti e cinici.

Nel salutarli li abbiamo vincolati alla promessa di comunicarci, al ritorno, i risultati di questa loro esperienza.

Renzo Craighero

Di Fabio