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Azione nonviolenta – Maggio 2003

DiFabio

Feb 4, 2003

Azione nonoviolenta maggio 2003

– La guerra è finita o infinita? Dipende tutto solo da noi, di Mao Valpiana
– Dopo la guerra in Iraq, l’Onu è ad una svolta: morire o rinascere, di Antonio Papisca
– Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune: potere di tutti, di Aldo Capitini
– Sono un soldato ebreo. Amo israele. Mi dichiaro obiettore, di Elena Buccoliero
– Ad ottant’anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, di Giuseppe Barone

Rubriche

– Lilliput
– Educazione
– Alternative
– L’azione
– Economia
– Cinema
– Musica
– Storia
– Lettere

La guerra è finita o infinita?
Dipende solo da tutti noi

Di Mao Valpiana

Mi sia concesso un ricordo personale. C’era ancora la guerra nel Viet-Nam e John Lennon fece affiggere sui muri delle principali capitali del mondo, da Atene a Londra, da New York a San Francisco, un enorme manifesto con la scritta “La guerra è finita, se tu lo vuoi. La guerra è finita, adesso”. L’iniziativa fece scalpore. Anni dopo Lennon spiegò cosa voleva dire: ‘la guerra non termina quando i politici firmano il trattato di pace o quando i generali danno l’ordine ai soldati di tornare a casa, ma finisce solo quando la gente le toglie il consenso’. Questo accadeva trent’anni fa.
Oggi un’altra guerra è finita, ma in realtà prosegue. La guerra in Iraq non è stata fermata, ma i cortei della pace non si fanno più. Che confusione! Molta gente non sa se ritirare o lasciare la bandiera della pace al balcone, se bisogna essere contenti o tristi. La guerra è finita, ma si spara ancora in Afganistan, in Iraq, in Palestina, in Sudan… Dunque, la guerra non è finita.
Lasciamo perdere per un momento la geo politica internazionale, lo scacchiere mediorientale, il futuro dell’Iraq o la sorte dell’Onu, la politica di Bush o il ruolo dell’Europa, e pensiamo invece allo stato di salute del movimento per la pace.
La parola d’ordine “fermiamo il conflitto” è stata sconfitta. La guerra c’è stata e ha vinto. L’esercito anglo americano ha neutralizzato l’armata di Saddam Hussein (anche se le tanto temute armi di sterminio di massa non si sono ancora trovate e forse non si troveranno mai) e la dittatura è caduta. Dunque, hanno avuto torto i pacifisti e hanno avuto ragione i sostenitori dell’intervento armato? Non è proprio così.
In questa tragica vicenda, ci sono alcune ambiguità che vanno chiarite.
Nel ricchissimo dibattito che ha accompagnato i giorni della guerra in Iraq, due interventi mi sono sembrati particolarmente emblematici: quelli di Ingrao e di Sofri.
Pietro Ingrao in un’intervista su la Repubblica del 3 aprile ha detto: “Chi vuole veramente fermare la guerra prima di tutto deve aiutare gli iracheni nella loro resistenza civile e armata”.
Nello stesso numero de la Repubblica Adriano Sofri interveniva dicendo: “(…) ‘fermare la guerra’ adesso vuol dire rassegnarsi alla vittoria di Saddam Hussein”.
Due punti di vista opposti. Per Ingrao bisognava augurarsi una guerra lunga, con la resistenza degli iracheni. Per Sofri bisognava augurarsi una guerra breve, con la vittoria degli americani. Questo dibattito non mi ha appassionato. Augurarsi una guerra lunga mi è apparso abominevole. Augurarsi la vittoria di chi ha scatenato una guerra d’attacco mi è apparso cinico. Penso che alla guerra bisogna opporsi e basta. Sempre e comunque. Questa volta mi sono trovato d’accordo con Marcello Veneziani (com’è imprevedibile il mondo!), che su Il Giornale ha scritto della sua passione per i perdenti: “A chi dice che questa passione per i vinti è pura retorica da anime belle, io rispondo che se per questo è pura retorica illudersi che abbiano trionfato la libertà, la pace e la democrazia o i diritti dell’uomo: in realtà hanno trionfato la forza, la tecnologia, la superiorità delle armi, a prescindere dalla causa”. Anche Simone Weil aveva una propensione per gli sconfitti, perché diceva che la verità è “fuggiasca dal campo dei vincitori”.
L’ambiguità di una parte del variegato movimento pacifista stava proprio nello slogan ‘fermiamo la guerra’ perché del tutto irrealizzabile, senz’altro più irrealizzabile del tentativo di prevenire lo scoppio della guerra stessa. La guerra non la si ferma, la guerra la si previene (innanzitutto opponendosi in tempo di pace alla preparazione della guerra futura, dentro e fuori di noi). E nemmeno ‘fuori l’Italia dalla guerra’ era un bel messaggio, perché suonava quasi come un chiamarsi fuori. Come scriveva Sofri nel citato articolo: “Non è questo il nostro stemma. Noi siamo quelli che si mettono in mezzo, quelli del mondo intero”. Ogni guerra è un crimine contro l’intera umanità: non basta che il nostro paese non sia coinvolto per non sentirci interpellati. La nonviolenza ci chiama a mobilitarci fin da oggi contro il prossimo conflitto armato, lavorando da subito per il disarmo e ricercando quali siano le concrete alternative alla guerra e quale sia la forza legittima che le può sostenere.

In questo senso va l’iniziativa delle 10 parole della nonviolenza che ci sta accompagnando da qualche mese e che si avvia alla conclusione nel prossimo mese di settembre con la camminata nonviolenta da Assisi a Gubbio. Percorreremo per due giorni (giovedì 4 e venerdì 5 settembre) il sentiero francescano della pace e poi ci incontreremo per due giorni a Gubbio (sabato 6 e domenica 7 settembre) per un convegno sulla risoluzione nonviolenta dei conflitti (come fece Francesco ammansendo il lupo) e per una festa della nonviolenza.
Nel prossimo numero di Azione nonviolenta pubblicheremo il programma dettagliato ed inizieremo a raccogliere le prenotazioni

Dopo la guerra in Iraq, l’ONU è ad una svolta:
morire o rinascere. In una nuova sede, a Gerusalemme.

di Antonio Papisca*

Sviluppo umano e sicurezza globale possono essere garantite da un’Onu rafforzata e democratizzata. La società civile sta sostenendo da anni questo processo. Mentre i potenti della terra continuano ad affidarsi alla ragion di stato e alla guerra.
Si parla con insistenza della centralità delle Nazioni Unite: alla buon’ora, vien da dire. Ma occorre usare lungimiranza e prudenza nell’appellarsi a questo principio. Lungimiranza, perché le Nazioni Unite costituiscono lo snodo ineludibile e irrinunciabile della governabilità nell’era della globalizzazione. Prudenza, perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite non è ancora stata messa nella condizione di agire al riparo delle strumentalizzazioni dell’”usa e getta” e del “due pesi due misure”.
Dieci anni fa, Nigrizia mi diede l’occasione di curare, per molti mesi, una rubrica intitolata “Onu dei Popoli”. È appena il caso di ricordare che la Carta delle Nazioni Unite si apre con una solenne affermazione di soggettività democratica e pacifista: «Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra…».
Va anche ricordato che a partire dal 1995, con cadenza biennale e alla vigilia della marcia Perugia-Assisi, si riunisce l’Assemblea dell’Onu dei Popoli. Ancora prima, nel 1985, l’associazione Mani Tese organizzava a Firenze, a Palazzo Vecchio, un grande convegno internazionale dal quale scaturì il vibrante appello “Per una costituente mondiale per la pace e lo sviluppo”, dove puntuali sono i riferimenti all’Onu. Rileggendo oggi questo documento, non si può non rimanere impressionati dall’attualità del messaggio di “ordine mondiale democratico” in esso contenuto.
Il richiamo di questi fatti serve per sottolineare che le formazioni solidaristiche di società civile hanno anticipato – inascoltate – le classi governanti nell’affermare l’importanza delle Nazioni Unite. Ancora una volta, i potenti fautori della “ragion di stato” e della realpolitik sono contraddetti dalla “ragion di promozione umana”.
La diagnosi dell’attuale stato di cose è fin troppo chiara. Il mondo è pervaso da miseria e da violenza armata dentro, e fra, gli stati. Nessun paese, nessuna società può dirsi sicura dalle incursioni, palesi o opache che siano, della criminalità transnazionale. Il terrorismo si presenta con una vasta gamma di modalità. L’ingiustizia economica e sociale va di pari passo con la dilagante insicurezza. Se grandi furono le attese suscitate dal crollo del Muro, ancor più pungenti sono le odierne delusioni e lo sconforto.
Il disarmo appare oggi, paradossalmente, come una chimera. Ancor più di prima, urge dunque controllare la produzione e il commercio delle armi, prevenire e gestire pacificamente i conflitti, far funzionare un sistema di sicurezza collettiva sotto legittima autorità sopranazionale, instaurare una nuova divisione internazionale del lavoro che rispetti le esigenze della giustizia sociale ed economica nel mondo.

Mobilitarsi per la riforma

L’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di “tutti i diritti umani per tutti” e per un’economia di giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti gli stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli, anche i più lontani e diseredati, possano far sentire la loro voce. Quale istituzione può perseguire i molteplici e complessi obiettivi dello human development e della human security, se non una Onu messa nella condizione di farlo? E chi deve metterla in questa condizione se non gli stati che ne sono membri, in particolare i più potenti?
In occasione del “Millennium Forum” di società civile globale, svoltosi nel maggio 2000 a New York, nel Palazzo di Vetro, è risuonata la parola d’ordine: strengthening and democratising the United Nations, cioè rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite.
Se si è sinceri nel proclamare oggi la centralità delle Nazioni Unite, occorre senza indugio perseguire il duplice obiettivo del potenziamento e della democratizzazione della massima organizzazione mondiale. Il dibattito sulla sua riforma, che pareva bene avviato in occasione del cinquantesimo anniversario dell’Onu, ha purtroppo dimostrato di non avere raggiunto quella massa critica sufficiente a far precipitare, una volta per tutte, la riforma.
Questo significa che devono mobilitarsi, ancor più massicciamente e puntualmente che nel passato, le forze di società civile globale, esercitando pressione sui governi e sulle classi politiche perché facciano funzionare, tempestivamente ed efficacemente, l’Onu.
Tra i tanti argomenti da usare nei confronti di chi ha responsabilità istituzionali, ce ne sono due particolarmente convincenti, uno di carattere giuridico, l’altro di carattere per così dire utilitarista. Il primo è che far funzionare bene le Nazioni Unite costituisce per gli stati ”obbligo giuridico”, non un optional: se non si rispetta la Carta delle Nazioni Unite, ci si pone in una condizione di persistente illegalità. In altre parole, il diritto internazionale è violato non soltanto quando si fa la guerra preventiva, ma anche quando non si alimenta l’Onu di supporto politico, di risorse finanziarie (in particolare, con puntuale versamento delle quote annuali), di personale.
Il secondo è che far funzionare bene le Nazioni Unite costa molto meno che procedere individualmente o a ranghi sparsi in un mondo che è sempre più interdipendente, disordinato e insicuro.

Che cosa deve cambiare

Insomma il calcolo costi-benefici pende a favore dell’Onu, è questione di razionalità economicistica, oltre che di ragionevolezza e di buon senso comune. In quest’ottica, tra le cose che occorre fare con la massima urgenza perché l’Onu possa adempiere al suo alto mandato sono: la creazione di un corpo permanente di polizia civile e militare sotto la diretta autorità sopranazionale delle Nazioni Unite; il conferimento di maggiori poteri al Consiglio economico e sociale (Ecosoc) per quanto riguarda l’orientamento sociale dell’economia mondiale e la sorveglianza sulle organizzazioni internazionali economiche (insomma, l’Ecosoc come un Consiglio di sicurezza economica e sociale); il ricambio di buona parte dell’attuale personale Onu, burocratizzato e privo di tensione ideale, con personale adeguatamente formato e motivato (coi diritti umani nella testa e nel cuore); l’aumento delle risorse destinate agli organi specializzati in materia di diritti umani ed emergenze varie – a cominciare dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani – e ai programmi per lo sviluppo umano nei paesi ad economia povera; la dotazione della Corte penale internazionale di tutte le risorse, finanziarie e umane che le sono necessarie per bene avviare le proprie attività; l’allargamento della composizione del Consiglio di sicurezza, in funzione di una sua più adeguata maggiore rappresentatività.
Ma dare il pur indispensabile “più potere” all’Onu lasciando questa nelle mani esclusive degli stati, cioè dei vertici governativi e delle diplomazie, è rischioso. Ecco dunque la necessità di accompagnare il potenziamento con la democratizzazione, la quale, nei suoi termini essenziali, comporta: la creazione di un’Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite che affianchi l’attuale Assemblea generale composta dagli stati membri: sarebbe l’embrione di un processo che porterebbe gradualmente alla istituzione di un vero e proprio Parlamento delle Nazioni Unite; per le materie attinenti ai diritti umani, allo sviluppo e all’ambiente, l’attribuzione di uno status di “co-decisionalità” a favore delle organizzazioni non governative (ong) che già godono dello status ”consultivo” presso l’Ecosoc; l’estensione dell’esercizio di questo status consultivo anche presso il Consiglio di sicurezza.

Onu a Gerusalemme

Un’ultima riflessione, sempre in chiave strategica. La campagna per la democrazia internazionale comporta che si difendano le istituzioni internazionali multilaterali, quali “siti” essenziali per l’estensione della pratica democratica dalla città fino all’Onu. Se non ci sono le istituzioni, non c’è lo spazio, legittimo e trasparente, per l’esercizio di ruoli democratici.
Dietro la strategia della de-regulation economica lanciata da Reagan all’inizio degli anni ottanta si nascondeva la de-regulation istituzionale: in altri termini, l’insistenza nel togliere lacci e lacciuoli al libero gioco del mercato nascondeva la volontà di svincolarsi dai precetti del diritto e dalla trasparenza delle istituzioni. Un modo nostrano di cadere in questa trappola è consistito nel proclamare “più società, meno stato” (quanti ci sono cascati in buona fede…).
Questo disegno è oggi drammaticamente disvelato in tutta la sua dissennatezza (a ratione alienum, parafrasando la Pacem in terris): la cosiddetta nuova teoria della guerra preventiva – che è poi vecchia di millenni… – ben si spiega con la metafora del “giù la maschera”. A tanta spudoratezza di governanti, la società civile deve rispondere proclamando, responsabilmente: “più società, più istituzioni, più democrazia, più trasparenza, più politiche sociali, più azioni positive”.
Per quanto riguarda il futuro dell’Onu, diventa sempre più necessario porre, anche fisicamente, la sua sede al riparo dalle infiltrazioni e dalle pressioni che l’amministrazione Usa quotidianamente esercita. La sede a New York è a rischio di… sudditanza. Se l’amministrazione Usa non vuole una Onu super partes, democratica, efficiente ed efficace, se non vuole né la Corte penale internazionale né corpi permanenti di polizia delle Nazioni Unite né istituzioni economiche internazionali in funzione di giustizia sociale, se non vuole le ong tra i piedi alle grandi conferenze mondiali, se vuole soltanto un Fondo Monetario Internazionale capace di quell’accanimento terapeutico che si chiama “aggiustamento strutturale costi-quel-che-costi”, se vuole un ordine mondiale gerarchico e belligeno informato al principio del si vis pacem para bellum, ebbene non si indugi oltre, si scuota la polvere dai calzari e si offra una nuova casa all’Onu, magari installando una parte significativa dei suoi uffici a Gerusalemme. L’Onu a Gerusalemme: pietra di contraddizione, ma anche pietra angolare di un nuovo ordine mondiale fondato sul rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali che a questa ineriscono.

* Direttore del Centro interpartimentale sui diritti della persona e dei popoli all’Università di Padova.

Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 11 giugno 2003
La parola del mese: “Potere di tutti”

Dal controllo al potere

di Aldo Capitini

Come passare dal controllo al potere? Il controllo, nelle sue tre forme: informazione esatta, critica adatta, progettazione progrediente, è già potere; accrescere l’una o l’altra delle forme, secondo la propria capacità, è sviluppare l’omnicrazia.
Alcuni sociologi distinguono il “potere” dalla “autorità”, nel senso che il primo è la probabilità che la volontà vinca gli ostacoli che incontra, la seconda è la probabilità che un gruppo trovi obbedienza per i suoi comandi. Ma noi, che non consideriamo che l’ambito sociale, possiamo mettere in disparte il fatto semplice della volontà individuale che riesce a realizzare qualche cosa. Qui dobbiamo vedere come il controllo si fa potere entro la società, o acquista “autorità”.
Usiamo, dunque, il termine in senso generico: il potere come capacità di realizzare progetti (tra cui proporre norme), con la probabilità di vedere realizzati i progetti e le norme ubbidite.
Qui interviene, con un suo contributo, la persuasione della compresenza in questi due modi:
1. se i progetti e le norme hanno un fondamento evidente e puro nella realtà di tutti, è più probabile che essi incontrino il consenso di molti; la persuasione della compresenza e della omnicrazia è una garanzia che pesa a favore dell’accettazione dei progetti e delle norme, quindi esse hanno un potere, in virtù non del loro riferimento all’interesse individuale, ma di un riferimento alla realtà di tutti;
2. esiste un ordine sociale che è la convivenza di tutti e non è il semplice interesse individuale; un persuaso della compresenza e dell’omnicrazia può tralasciare la difesa di tale ordine sociale in quanto egli teme di sottoporre tale ordine al proprio vantaggio individuale, e può tralasciare di vedere la difesa dell’ordine sul piano della guerra, la quale oramai viene condotta come strage e può arrivare all’uso, oltre che delle armi chimiche, delle armi nucleari, il che deforma ogni carattere umano della lotta. Ma rimane il semplice ordine sociale come convivenza pubblica, come rispetto di quelle istituzioni che spesso sono strumenti del potere di tutti. E qui è possibile collaborare con chi usa quelli strumenti coercitivi che sono semplicemente applicati a frenare e sviare l’individuo che attenti a tali “strumenti che sono di tutti”, e che non segua, quando potrebbe, la pressione intima della compresenza che lo indurrebbe a tale rispetto.
Mentre non è possibile collaborare sul piano della guerra o guerriglia, che porta a stragi, terrorismo, tortura, cioè ad una violenza che prende mano rispetto al motivo originario, è possibile stare accanto a chi semplicemente usi la violenza entro stretta disciplina di giovare alla convivenza di tutti nella loro evoluzione, una violenza in ambito modesto, strettamente condizionata dai modi (quante armi si possono usare che non uccidono!), accompagnata costantemente da un soffio omnicratico; il persuaso della nonviolenza può, personalmente, non usare nemmeno questo tipo di violenza, se il suo compito è di richiamare costantemente al fine; ma comprende che c’è violenza e violenza, e quella per mantenere la convivenza di tutti è più giustificata di ogni altra.
Io non potrei stare in un governo che può dichiarare la guerra, ma non avrei difficoltà a stare in un’amministrazione di ente locale. Questo rispetto dell’ordine locale:
1. non significa accettazione dell’ordine costituito, da difendere ad oltranza, ma il riconoscimento che si può mantenere la convivenza nonviolenta tra gli abitanti di una località, che è ambito modesto, mentre si può, nello stesso tempo, portare avanti la rivoluzione nonviolenta con le sue tecniche per trasformare le strutture e tutta la situazione locale;
2. mette in primo piano l’”ente locale” (in Italia la borgata, la frazione, il comune, la provincia, la regione), perchè in queste dimensioni può meglio realizzarsi l’ispirazione nonviolenta e omnicratica, nella diretta conoscenza delle persone e dei problemi, nella permanente democrazia diretta, ricca di profondi motivi etici ed educativi, e aliena da imperialismi atomici!

Il potere di Aldo Capitini

A noi interessa non il tutto di ora, ma interessano i tutti per arrivare ad un tutto migliore, che è quello della compresenza sempre più attuata.

La solidarietà aperta e il sacrificio resistente conferiscono un potere a tutti, dànno cioè una capacità di influire, di presentare efficacemente la propria volontà, di essere, sia pure inizialmente in piccolo, ascoltati e fors’anche obbediti.

Un centro che attua un’apertura nonviolenta mostra che è possibile avere un potere, senza bisogno di sostenerlo con la violenza.

Il potere di M. K. Gandhi

Per me il potere politico non è un fine, ma uno dei mezzi per permettere al popolo di migliorare le sue condizioni in ogni settore della vita.

Spero di dimostrare che il vero swaraj si avrà non già con l’acquisizione dell’autorità da parte di pochi, ma con l’acquisizione da parte di tutti della capacità di opporsi all’autorità quando è usata male.

L’intera nostra concezione di vita viene trasformata e tutto ciò che intraprendiamo non è più finalizzato al bene del nostro piccolo io ma al bene di tutti.

Il potere di M. L. King

Il nostro potere scientifico ha sorpassato il nostro potere spirituale. Noi abbiamo guidato bene i missili e guidato male gli uomini.

Io non posso mai essere quello che dovrei essere finché voi non siete ciò che dovreste essere, e voi non potete mai essere quello che dovreste essere finché io non sono ciò che dovrei essere.

Cercate ardentemente di scoprire a che cosa siete chiamati, e poi mettetevi a farlo appassionatamente. Questo limpido sguardo in avanti, verso la realizzazione di sé, è la lunghezza della vita umana.

Per approfondire

Il Potere di tutti

Teoria del potere
B. Barnes, La natura del potere, Bologna, Il Mulino, 1995.
G. M. Chiodi, La menzogna del potere. La struttura elementare del potere nel sistema politico, Milano, Giuffré, 1979.
N. Chomsky, Capire il potere, Milano, Tropea, 2002.
G. Duso, Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Roma, Carocci, 1999.
A. Honneth, Critica del potere. La teoria della società in Adorno, Foucault, e Habermas, Bari, Dedalo, 2002.
B. de Jouvenel, Del potere. Storia naturale della sua crescita, Milano, SugarCo, 1991.
D. C. McClelland, Il potere. Processi e strutture: un’analisi dall’interno, Roma, Armando, 1988.
V. Pareto, Un’analisi della democrazia e del potere. Antologia, Lecce, Manni, 1993,
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L. Ferrara (a cura di), Porto Alegre. Il movimento dei movimenti. Una nuova narrazione del mondo, Napoli, Intra Moenia, 2002.
E. A. Mance, La rivoluzione delle reti. L’economia solidale per un’altra globalizzazione, Bologna, EMI, 2003.
A. Nanni (a cura di), Comunità e democrazia associativa per una globalizzazione dal basso, Piacenza, Monti, 2002.
A. Papisca, Democrazia internazionale, via di pace. Per un nuovo ordine internazionale democratico, 5a ed., Milano, Franco Angeli,. 1995.
M. Pianta, Globalizzazione dal basso. Economia mondiale e movimenti sociali, Roma, Manifestolibri, 2001.

( a cura di Matteo Soccio)
Sono un soldato ebreo. Mi sento sionista. Voglio il Giudaismo. Amo Israele.
E per questo mi sono dichiarato obiettore, con “il coraggio di rifiutare”

Di Elena Buccoliero

Incontro con Uri Dotan, refusenik israeliano

“Mi considero un essere umano, un israeliano e un ebreo. Sono stato sergente di fanteria nell’esercito israeliano negli ultimi sei anni, tre anni nel servizio di leva e tre come riservista. Quando è stata pubblicata la lettera dei riservisti, ho capito che dovevo smettere di esitare e fare quella che io riconosco come l’unica opzione morale e politica possibile in questa realtà. Mi sono unito al gruppo dei refusenik una settimana dopo la pubblicazione della lettera e sono diventato uno degli attivisti più impegnati in questo nuovo movimento, Ometz Lesarev, che significa appunto “Il coraggio di rifiutare”.
Uri Dotan, israeliano, 26 anni, sta per terminare la scuola per assistente sociale. È un obiettore di coscienza selettivo. Racconta la sua storia con lucidità e semplicità ad un pubblico di studenti, in uno dei tanti incontri che nel dicembre scorso lo hanno visto protagonista nel tour di testimonianza organizzato da Rete Lilliput e da molte altre realtà locali, in diverse città dell’Emilia Romagna, e poi a Trento e a Prato.
“Sono nato in Israele, mio padre è un veterano di guerra. Rimase ferito da una pallottola alla testa durante uno scontro dopo che dei terroristi palestinesi erano penetrati in Israele dal confine con la Giordania. Questa situazione familiare mi ha insegnato qual è il vero prezzo della guerra.
In Israele i bambini imparano l’importanza del servizio militare per la difesa del paese. È ancora il maggior contributo che un cittadino può dare al suo Stato e alla società in cui vive. Così, negli anni che precedettero la chiamata alla leva, decisi che avrei seguito le orme di mio padre, che sarei stato un combattente e mi sarei offerto volontario per le unità militari più importanti e a rischio, per dare al mio paese il meglio che posso”.
Il piccolo Uri cresce, ha 19 anni, l’età per il servizio di leva, e il sogno diventa realtà. Sulle orme del padre, entra in un corpo speciale dell’esercito israeliano, lo stesso dove il babbo ha combattuto.
“Ho prestato servizio un po’ dappertutto, in Cisgiordania e in Gaza. Dovunque guardi, trovi i segni dell’occupazione. A quel tempo eravamo fuori dalle città ma le controllavamo dall’esterno. Era il 1996, erano in corso gli accordi di Oslo e credevo che perfino Biniamin Netaniau, appena eletto, non avrebbe potuto fermare questo momento magico. Ero sicuro che fossimo sulla strada giusta per arrivare alla fine dell’occupazione, credevo che i politici delle due parti stessero facendo il necessario per chiudere questa orribile situazione, e ogni volta che dovevo fare qualcosa che andava contro i miei principi, mettevo una sorta di maschera per resistere. Eseguivo gli ordini, pensando che la situazione fosse temporanea”.
E invece l’occupazione perdura e Uri è sempre più consapevole degli orrori che porta con sé. Racconta di essere entrato in una casa palestinese, armato, insieme ai suoi uomini, ricorda la pena provata quando ha visto una mamma palestinese difendere con il suo corpo un figlio poco più che ragazzo, ha tremato al pensiero di avere tanto potere, lui ragazzo, sulla vita di un altro ragazzo. E poi il suo racconto ci trasferisce ad un posto di blocco, e dall’orrore ci mettiamo a parlare di responsabilità, di costrizione e di impotenza.
“Eravamo ad un piccolo checkpoint all’entrata di Hebron. Il giorno prima c’era stato un attacco terrotistico, e avevamo avuto l’ordine di chiudere la città, nessuno doveva uscire tranne le situazioni umanitarie. Quando stai seduto ad un checkpoint per otto ore, dopo un po’ cominci a diventare paranoico. Tutti quelli che vogliono passare dichiarano un probelma umanitario, ma tu hai l’ordine di accettare solo i casi estremi. Ti convinci che stai proteggendo il paese dal prossimo attacco suicida, anche se sai che i terroristi non passano dai checkpoint ma li aggirano. Vuoi essere un buon soldato, perciò non lasci passare nessuno. Finché un’auto si ferma, uno dei miei soldati si avvicina e la donna dice che è incinta. Il soldato non le crede, il ventre della donna non è molto pronunciato, non mostra di avere dolore, non sembra particolarmente nervosa. Il soldato decide di non lasciarla passare.
Qualche ora dopo riceviamo una comunicazione dalla parte palestinese: l’automobile ha vagato per tre ore lungo vie secondarie cercando di raggiungere un ospedale, e il bambino è morto durante il percorso.
Ora mi chiedo: siamo noi, i soldati israeliani, i cattivi? Io credo di no. Conosco quel soldato, è un’ottima persona, crede nella pace. Il problema è che questa situazione mette lui e me in una condizione in cui non abbiamo gli strumenti per fare la cosa giusta”.
E ancora: “Ho scelto una storia estrema, ma cosa succede se non permetti alla gente di andare a lavorare? O agli studenti di raggiungere la scuola? Non sono anche queste situazioni umanitarie?”

Dall’attesa di una “pace politica” alla scelta personale di non collaborazione

Tra mille dubbi Uri Dotan compie il servizio di leva e poi parte per un lungo viaggio. Il Lontano Oriente e gli Stati Uniti come terapia per allontanare i pensieri da quello che ha visto e vissuto. Oggi Uri guarda sui giornali le fotografie di Israele, riconosce i soldati israeliani durante azioni di guerra e impallidisce, pensando d’essere stato parte di scene come queste. Ma allora rientrava pieno di speranze nel paese che aveva lasciato durante gli accordi di Oslo, sulla strada giusta.
“Dopo circa un anno in giro per il mondo, stavo ritornando a casa. Era la fine di “Yom Hakipurim”, la festa sacra più importante per gli ebrei e al tempo stesso un momento riservato alla ricerca spirituale. Ero in aeroplano. Prendo un quotidiano israeliano, guardo le fotografie di prima pagina, leggo qualcosa qua e là e mi rendo conto che sto tornando ad un paese molto diverso da quello che ho lasciato. Alla mia partenza, Israele era in un periodo di grande speranza di pace, stavamo andando nella giusta direzione. Ora ritornavo ad una terra piena di violenza, odio e spirito di vendetta. Ero triste, arrabbiato soprattutto confuso. Come aveva potuto accadere? Chi aveva distrutto il sogno?
Mi è occorso un po’ di tempo per capire che non ci sono buoni o cattivi in questa storia, solo cattivi ed altri più cattivi. Mi è occorso del tempo per decidere di non prendere mai più parte in questa orribile situazione”.
Dal dubbio, alla consapevolezza, alla scelta di obiezione parziale. Un passaggio difficile, ricco di implicazioni personali, sociali e politiche.
“Chi pensa alla nostra obiezione di coscienza, probabilmente pensa che la conseguenza più pesante sia il carcere militare. Non sto dicendo che si tratti di un’esperienza piacevole, ma altri fattori sono ancora più pesanti. Prima di tutto ci sono gli amici dell’unità militare. Quando decidi di obiettare abbandoni i tuoi compagni, li lasci ad affrontare i problemi più difficili senza il tuo aiuto.
Poi ci sono aspetti più personali, di responsabilità. Israele ha sempre combattuto per la sua sopravvivenza. Sono cresciuto su valori che santificano il sacrificio di sé per la salvezza del paese e per molti anni questo è stato anche giustificato. Quando tutto intorno a te senti il ritornello “stiamo combattendo per il diritto di vivere sicuri”, quando ogni giorno vedi i kamikaze che esplodono tutto intorno, dici a te stesso “ho il diritto di lasciare tutto e dire di no?”, anche quando ti accorgi che si sta andando nella direzione opposta, che con le tue azioni l’odio si gonfia e si approfondisce.
Ma puoi continuare a giocare alla democrazia quando governi su 3 milioni e mezzo di persone in modo per nulla democratico, quando neghi tutti i loro diritti umani di base?”
Qual è stata la scintilla che ti ha persuaso all’obiezione?
“Non si è trattato di una decisione improvvisa, ha richiesto tempo. Prima ho deciso di smettere di essere un combattente. L’ultima volta che ho servito l’esercito nei territori occupati, sono rimasto alla base come radio operatore, e ho capito che passare gli ordini via radio non mi rendeva meno complice dell’occupazione. Così, quando è stata pubblicata la lettera dei riservisti, nel gennaio 2002, ho deciso che era il momento di superare tutte le esitazioni e di unirmi a loro.
Cinque mesi più tardi sono stato chiamato come riservista nell’area di Hebron. Ho rifiutato e sono stato condannato a 28 giorni di carcere militare per aver disobbedito ad un ordine”.
L’esperienza del carcere potrebbe ripetersi ancora.
“Sì, ogni volta che mi destineranno ai Territori Occupati. Del resto, io continuo il mio servizio come riservista. Due mesi dopo il carcere militare sono stato chiamato ancora come riservista e ho trascorso tre settimane nella difesa di un kibbutz nel nord di Israele”.

Il “lusso” di essere pacifista

Come definiresti la tua posizione di fronte al conflitto?
“Non ho ricette da dare, io non sono un politico, tutto quello che posso fare è portare la mia esperienza. Certo, non posso permettermi il lusso di essere un pacifista, credo che Israele abbia bisogno di un esercito forte per difendersi, ma credo anche che quanto stiamo facendo nei Territori Occupati non abbia niente a che fare con la difesa”.
Chi sceglie l’obiezione, totale o parziale, sa di dover affrontare forte ripercussioni sociali, vicine e lontane. Nel tuo caso, i tuoi familiari cos’hanno pensato della tua scelta?
“Mia madre era molto preoccupata di sapermi in carcere militare, ma ancora peggiore sarebbe stato per lei pensarmi nei territori occupati. Quanto agli altri, tutto sommato ho avuto fortuna, hanno rispettato la mia scelta, forse perché hanno visto la mia decisione, la determinazione ad affrontare un prezzo personale per ciò in cui credo”.
Seguendo da lontano i movimenti pacifisti israeliani, si ha l’impressione che l’obiezione sia una realtà quasi esclusivamente maschile. È proprio così?
“Beh, è piuttosto raro che le ragazze vengono impiegate in servizi difficili nei Territori Occupati, quindi hanno meno ragioni per scegliere l’obiezione selettiva. Però spesso le donne pagano il prezzo più alto, restano a casa mentre il loro compagno viene rinchiuso in un carcere militare, magari hanno già dei bambini da crescere… Non credo che per le donne sia più facile”.
Cosa è successo in Israele dopo la petizione dei 52 ufficiali e riservisti?
“Nel giro di tre mesi abbiamo raggiunto 200 firme, e oggi siamo a oltre 500. Ogni firmatario che si aggiunge significa, per noi, avvicinarsi alla fine dell’occupazione. Non che l’esercito non possa fare a meno di 500 soldati – starebbe in piedi anche fossimo 2000 – ma la nostra scelta demoralizza gli altri, squalifica l’occupazione, la colora di nero. Questa è l’efficacia della nostra scelta.
La petizione dice ai decisori: non chiederci come abbiamo osato sottrarci, domanda piuttosto a te stesso come è possibile che 500 tra i tuoi migliori ufficiali stiano facendo questo, e perché.
Nel contempo si rivolge alla gente di Israele, per ricordare che il vero oggetto dell’occupazione è un popolo, sono esseri umani. Parliamo di quando scortiamo i bambini dei coloni alle loro lezioni private, parliamo della chiusura delle strade. Ricordiamo alla gente che non esiste una soluzione militare al conflitto e dovremmo piuttosto uscire dai territori. Rimarchiamo che il modo migliore per sconfiggere il terrorismo è eliminare le ragioni dell’odio, e che il terrorismo non è una scusa per investire altro denaro nei territori”.
Si dice che uno dei mezzi per il mantenimento del conflitto sia la non comunicazione tra gli avversari. Il tuo movimento è in contatto con movimenti palestinesi? Tu stesso hai degli amici arabi?
“Ho diversi amici arabi di cittadinanza israeliana, questo sì. Avevo contatti con arabi palestinesi, si lavorava insieme, ma ultimamente i rapporti sono stati forzatamente interrotti e si limitano a qualche rara telefonata, perché loro rischierebbero di essere uccisi in quanto collaborano con degli israeliani, ed anche io. E così, per il momento non possiamo sentirci”.
In Israele ci sono molte associazioni contrarie all’occupazione dei territori. Qual è la particolarità di Ometz Lesarev?
“Credo sia il fatto che noi ci definiamo sionisti, totalmente fedeli al nostro paese e pronti a lottare per esso, in ogni luogo o momento, ma non ad opprimere un intero popolo. Il nostro NO è un messaggio positivo. Proprio allo scopo di salvare Israele, la nostra amata terra, dalla spaccatura più irrimediabile, chiediamo di ritornare al vero Sionismo, al vero Giudaismo. Siamo centinaia di giovani ben determinati a pagare un alto prezzo personale perché questo avvenga. Spero che la mia scelta e quella di altri porterà alla fine dell’occupazione, leverà una voce di equilibrio che spezzi questo circolo di violenza”.
Quale pensi debba essere il ruolo della comunità internazionale di fronte al conflitto arabo-israeliano?
“Assolutamente determinante. I popoli di Israele e Palestina hanno dimostrato da tempo di non riuscire a spezzare questo fluire di vendette e di violenze contrapposte, e per quanto tanta parte dell’opinione pubblica israeliana desideri la fine dell’occupazione, ogni volta che si ripete un fatto di sangue le persone non riescono a prendere le distanze, a rinunciare alla vendetta. Perciò non possiamo essere lasciati soli. La gente di Israele e Palestina non è in grado di fermarsi, di rinunciare. Solo un forte intervento politico esterno può persuaderci”.

A ottant’anni dalla nascita del priore di Barbiana

Di Giuseppe Barone

L’inattualità di Don Lorenzo Milani (27 maggio 1923 – 26 giugno 1967)

Quella di don Lorenzo Milani è la storia di un uomo integro e rigoroso, abituato a guardare alla radice dei problemi, animato dall’esigenza di orientare sempre eticamente il proprio agire, senza scadere mai nel moralismo. Alle pacche sulle spalle, alle infinite furberie, alle faccende da accomodare (e che sempre, in qualche modo, si accomodano), don Milani risponde con la provocazione, i toni bruschi, l’irruenza. Pure è lontanissimo da tanti insulsi pseudo-provocatori prezzolati dei nostri giorni.
Sta lavorando alla stesura delle Esperienze pastorali (date alle stampe con tanto di imprimatur nel 1958, e presto ritirate dal mercato per ordine del Sant’Uffizio perché «inopportune»), quando, a causa dei frequenti conflitti con i superiori, viene allontanato dalle attività presso la scuola per operai e contadini di Calenzano e spedito al “confino” in un minuscolo borgo di montagna, ove non possa dare fastidio. Tentano di zittire la sua parola alta e scomoda. Lui prima reagisce male (alla madre, col consueto linguaggio schietto, scrive: «Un prete isolato è inutile»), poi accetta, senza risparmiarsi, la nuova sfida. Inizia l’esperienza singolarissima, luminosa, irripetibile di Barbiana: le alterne vicende, l’impegno sociale ed educativo, i “suoi” ragazzi, ai quali, in punto di morte, confesserà: «ho voluto più bene a voi che a Dio». Soprattutto arrivano le prese di posizione coraggiose, le polemiche, la Lettera a una professoressa.
Don Milani è così: sincero, duro, aspro, tagliente. Ma sa essere tenero, dolce, attento. Cattolico fervente, sacerdote, sa dialogare con tutti e si inventa una scuola dove si studiano le lingue straniere ma non si parla di Dio. È critico verso la Chiesa e lo Stato, ma rispettoso del ruolo dell’una e dell’altro. Conduce la sua lotta non contro, ma in nome del cattolicesimo più autentico, radicale e della fedeltà alla Costituzione repubblicana. Ha il coraggio di dichiarare apertamente che l’obbedienza non è una virtù, che spesso disobbedire è un diritto – anzi: un dovere – del buon cristiano come del buon cittadino, e lo fa, tra l’altro, ripescando un documento del Concilio di Trento. Come punti di riferimento elegge san Francesco e la Rivoluzione francese.
Se ritiene di dover impegnare una battaglia, non si cura delle conseguenze: sa rischiare – e accettare – l’impopolarità e la punizione, l’isolamento e persino il processo in un’aula di Tribunale. Neppure si preoccupa di guadagnarsi alleati: inviso alle gerarchie cattoliche, non prova a ingraziarsi le forze di sinistra che, dal canto loro, faticano a capirlo. Quando viene resa nota, con grande scandalo, la sua Risposta ai cappellani militari toscani, che avevano definito l’obiezione di coscienza «un insulto alla Patria e ai suoi caduti, estranea al comandamento cristiano dell’amore e espressione di viltà», non si astiene dall’affermare a proposito della rivista “Rinascita” che l’aveva pubblicata integralmente: «essa non meritava l’onore di essere fatta bandiera di idee che non le si addicono come la libertà di coscienza e la nonviolenza». Intanto, guarda con interesse e rispetto all’ordinamento democratico e a quello socialista («i due sistemi politici più nobili che l’umanità si sia data»), ammira i grandi partiti popolari e i sindacati.
Più ancora che per le cose che dice, don Milani è avversato per come le dice. E le fa.
Attento al punto di vista di ciascuno, ama il parlar chiaro, il prender posizione, lo schierarsi, in un paese uso al compromesso a tutti i costi, se non alla compromissione; dove tutti sanno che se qualcuno tuona “mai” può trattarsi al più di un “forse”. Un paese fatto di brava gente, di buoni, che sa chiudere un occhio e, quando necessario, entrambi.
Cosa ci rimane – nel balbettio confuso e inquietante dei nostri giorni – di quella vicenda, dell’impegno, del parlar chiaro, della coerenza, del radicalismo, delle provocazioni? A cosa può servire un personaggio così scomodo, spigoloso, diverso, attento, aperto, «segno di contraddizione»? A molto poco, temo. Anzi: a tantissimo.

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati

Teniamo le bandiere sui nostri balconi!

Il Coordinamento della Campagna “Pace da tutti i balconi” ha lanciato il seguente appello.

Sette mesi fa nasceva “Pace da tutti i Balconi!”, una campagna che è riuscita in un’impresa che solo un gruppo di sognatori poteva credere realizzabile: cambiare il volto delle nostre città e dei nostri paesi, cambiare il corso della storia. In questo momento, stimiamo ci siano tre milioni di bandiere della pace sventolanti sulle case, ma anche sulle chiese, sulle scuole, sui municipi, che è come dire che almeno dieci milioni di persone si sono riconosciute in questo simbolo.
Quello che questi numeri dicono è il risultato di una campagna che il mondo intero guarda stupefatto. Le lettere che ci giungono da chi ha avuto occasione di visitare il nostro paese ultimamente ne sono testimonianza. Quello che le cifre non possono descrivere è il popolo dell’arcobaleno, nato e cresciuto in questi mesi. Un popolo che non è una massa indistinta, ma una folla di volti, ciascuno unico ed irripetibile. Volti, persone che hanno preso posizione sul tema della guerra, con un gesto semplice ma non per questo meno impegnativo o importante.
Questa mobilitazione non è riuscita ad impedire la guerra, ma siamo coscienti che mai come in questo caso l’opinione pubblica abbia influito in maniera determinante sugli eventi: il nostro governo, nonostante abbia sostenuto politicamente la guerra e fornito basi e supporto logistico è stato impossibilitato a intervenire nel conflitto con una partecipazione diretta di soldati e mezzi militari italiani.
Anche a livello europeo si è innescata una reazione a catena che ha isolato e messo in minoranza gli Stati che hanno appoggiato la guerra. La guerra stessa, nelle riflessioni degli interventisti è stata vista come guerra ingiusta ma dolorosamente necessaria! Ciò ha portato ad includere nei piani di chi ha preparato l’attacco il dovere di limitare al massimo le perdite fre i civili, per non perdere del tutto la faccia. Può sembrare poco, ma tutto questo non era affatto scontato, ed è stato possibile grazie ad ogni singola famiglia, scuola, parrocchia, associazione, movimento, istituzione, che ha esposto e mantenuto esposto il vessillo della pace per tutti questi mesi.
Grazie a questo impegno, è cresciuta la consapevolezza rispetto alla guerra ed al problema della giustizia nei Paesi del Sud del Mondo. Sono state smascherate le ipocrisie di chi voleva giustificare la guerra con la lotta al terrorismo o con l’impegno per la libertà e la democrazia. Molta gente ha capito che questa guerra, come tutte le guerre, nasce per soddisfare gli interessi di pochi, mentre crea morte e sofferenze indicibili per i popoli che la subiscono. Il no a questa guerra è diventato il no a tutte le guerre, anche quelle più lontane e dimenticate. Il sì alla pace ha aperto le porte all’impegno quotidiano per nuovi stili di vita più attenti alla giustizia e all’impatto dei nostri comportamenti sull’ambiente e sulle condizioni di vita in tutto il pianeta.
Il frutto più bello della campagna “Pace da tutti i balconi!” è però aver fatto capire una cosa fondamentale: che la pace si costruisce con il contributo di tutti e di ciascuno, per quanto piccolo possa sembrare. Insieme si può arrivare a risultati grandi, a piccoli passi e con sacrificio si possono modificare situazioni che sembravano fuori portata. Ora è importante che questa inestimabile ricchezza umana non si disperda.
Il valore politico di questo movimento non può e non deve essere ingabbiato all’interno di partiti e schieramenti elettorali. Il popolo dell’arcobaleno è e deve restare trasversale, capace di spronare tutti i partiti a compiere gesti di pace, incoraggiando tutti e ciascuno a testimoniare i valori della pace all’interno dei programmi elettorali che vorranno proporre al vaglio degli elettori. Ci auguriamo infatti che i partiti politici facciano tutti la loro parte, dando sempre maggiore spazio alla fame e sete di giustizia e pace che i cittadini in maniera così eterogenea, hanno voluto testimoniare.
Sappiamo che forte potrebbe essere la tentazione da parte delle forze politiche di appropriarsi della bandiera della pace per scopi elettorali. Non è così che potranno rispondere ai cittadini! In Italia tutti hanno percepito che la Pace, lungi dall’essere una parola d’ordine di alcuni partiti politici, era ed è un valore che può essere condiviso da tutti, credenti e non, di destra, centro o sinistra, di qualsiasi razza e ceto sociale.
Le risposte che ci attendiamo dai partiti politici sono altre: vorremmo sapere cosa ne pensano della liberalizzazione del commercio internazionale delle armi (con le modifiche alla legge 185), approvata proprio durante la guerra e passata sotto silenzio; vorremmo sapere qual è la loro posizione sui progetti di difesa comune europea, che prevedono la creazione di altri eserciti ed un ulteriore aumento delle spese militari; vorremmo sapere se si impegneranno affinché, nella futura Convenzione Europea, sia sancito il diritto alla pace, il ripudio della guerra, la neutralità attiva dell’Unione; vorremmo sapere come intendano implementare concretamente il dettato costituzionale che all’art. 11 dice: “L’Italia ripudia la guerra come strumento per la risoluzione dei conflitti internazionali”.
Ma non solo. Vorremmo anche capire perché ci siamo fermati (dopo le promesse) nel programma di riduzione del debito dei Paesi del Sud del mondo; vorremmo capire quali sono (se ci sono) le proposte per garantire a tutti i popoli l’accesso al cibo, all’acqua, alle cure mediche e sanitarie; vorremmo sapere come i partiti intendono accogliere chi arriva in Italia fuggendo dalle guerre e dalla fame; vorremmo sapere cosa intendono fare di fronte ad un modello economico socialmente ed ecologicamente insostenibile; vorremmo capire che ruolo hanno in mente per il nostro Paese rispetto alle guerre più o meno dimenticate che continuano ad insanguinare il pianeta.
Tutto questo lo vorremmo vedere scritto chiaramente nei programmi dei partiti politici e soprattutto, fin da adesso, lo vorremmo vedere nel loro agire quotidiano in Parlamento e in tutte le sedi Istituzionali. Crediamo che gli Italiani abbiano diritto a queste risposte, per poter decidere di conseguenza. Siamo certi che questa volta non si accontenteranno di barattare queste risposte con qualche bandiera arcobaleno su manifesti e volantini elettorali.

Hanno aderito, fra gli altri,:
Padre Arnaldo De Vidi, direttore del Movimento CEM Mondialità
Padre Alex Zanotelli, missionario Comboniano
Don Luigi Ciotti, Gruppo Abele, Presidente Associazione Libera
Teresa Strada, Presidente di Emergency
Flavio Lotti, Tavola della Pace
Ernesto Olivero, Sermig, Torino
Don Albino Bizzotto, Fondatore Beati i Costruttori di Pace
Padre Giorgio Beretta, Campagna di pressione “Banche armate”
Padre Marcello Storgato, Direttore del mensile “Missionari Saveriani”
Padre Agostino Rigon, CIMI, Conferenza degli Istituti Missionari in Italia
Don Alessandro Santoro, Comunità delle Piagge, Firenze
Padre Ottavio Raimondo, EMI
Daniele Lugli, Segretario nazionale Movimento Nonviolento
Giovanni Turiano, Presidente Nazionale Gioventù Francescana Minori
Emanuela Imbriaco, Delegata Nazionale Giustizia e Pace Gifra Minori
Antonio Vermigli, Direttore Notiziario Rete Radiè Resch
Alessandro Marescotti, fondatore di PeaceLink
Mao Valpiana, direttore della rivista “Azione Nonviolenta”

Prendiamo la bicicletta, lasciamo l’automobile!

31 Maggio, Giornata nazionale dell’auto-boicottaggio. Biciclettate Nonviolente in tutta Italia

Oggi il petrolio è al centro di almeno tre guerre.
La prima guerra, la più appariscente, è quella per il controllo strategico delle ultime riserve di combustibile fossile: è questa una delle principali ragioni delle guerre contro la Cecenia, l’Afghanistan e l’Iraq, aldilà della propaganda che ce le presenta come una lotta contro il terrorismo.
La seconda guerra è quella contro l’ambiente: l’uso scriteriato del petrolio e dei suoi derivati è tra le maggiori cause di inquinamento, sia a livello locale (nelle otto maggiori città italiane muoiono dieci persone al giorno a causa di malattie polmonari riconducibili allo smog) che a livello planetario (basti pensare all’effetto serra provocato dalle massicce emissioni di CO2).
La terza guerra è quella che si combatte ogni giorno nelle strade: l’attuale sistema di mobilità caratterizzato dal trasporto privato su gomma ha preteso un pesantissimo tributo di sangue (mezzo milione di morti a causa degli incidenti stradali negli ultimi dieci anni nella sola Europa) ed ha causato guasti enormi su tutto il tessuto urbano e sociale.Contro tutte queste guerre, ciascuno di noi può fare molto, ogni giorno ed in ogni luogo. Ciascuno di noi può contribuire, agendo dal basso ed in pieno stile nonviolento, a disintossicare le nostre società, le nostre strade, le nostre vite, dalla dipendenza del petrolio e dell’automobile.In questi mesi, la coscienza popolare dei disastri prodotti dalla guerra è cresciuta enormemente, così come è cresciuta la volontà di impegnarsi in prima persona. E’ giunto ora il momento di passare dalla protesta alla proposta, dalla resistenza all’azione, boicottando oggi tutti l’uso dell’automobile – cominciando dalla propria – per ottenere domani la netta riduzione dei consumi petroliferi, fondamentale per la costruzione di stili di vita sostenibili.
Per questo Rete Lilliput lancia la proposta di una giornata nazionale dell’auto-boicottaggio, invitando tutto il grande movimento per la pace a operare per spezzare il legame perverso tra l’attuale sistema dei trasporti, il bisogno di petrolio e le guerre.
Sabato 31 maggio 2003 lasciamo a casa l’automobile ed invadiamo tutte le città ed i paesi d’Italia con lunghe file indiane di biciclette arcobaleno. Facciamo toccare con gli occhi e vedere con il cuore che muoversi in bicicletta è meglio che spostarsi in automobile. Per noi stessi, per chi ci sta intorno, per tutto il pianeta, per l’oggi e per il domani.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Marasso

Il ruolo dei cittadini e degli enti locali per prevenire la guerra
Le iniziative del Decennio per una cultura di pace e nonviolenza

Il periodo 2001-2010, in seguito all’importante risoluzione n.53/25 del 10 Novembre 1998 della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, impegna gli Enti Locali ad azioni per favorire e rafforzare la creazione di una diversa cultura che valorizzi la condivisione invece dello scontro, la comprensione invece della paura, che favorisca appunto l’incontro e il reciproco rispetto, strumenti fondamentali per sconfiggere il terrorismo e i fondamentalismi.
A questa importante opportunità che investe globalmente la realtà del nostro pianeta non poteva mancare l’adesione del Movimento Nonviolento che, assieme al Movimento Internazionale della Riconciliazione, Beati Costruttori di Pace, Associazione per la Pace, Gruppo Autonomo di Volontariato Civile in Italia e da ultima l’importante adesione della Banca Popolare Etica, ha costituito il Comitato italiano per il decennio.
Si è svolta a Padova ai primi giorni di aprile l’importante riunione per programmare il lavoro operativo, per realizzare questo ambizioso programma ma terribilmente attuale in tempi di atroci confronti, di ipotesi di “guerre preventive”, dove come sempre i bambini e le loro madri, sono le vittime più colpite da queste guerre.
L’accordo è stato unanime sull’informazione immediata dell’iniziativa attraverso un manifesto e materiale informativo e, in particolare, una costante pressione nei confronti dell’Ente Locale, soggetto istituzionale principale chiamato a sviluppare, promuovere, mettere a disposizione risorse per la costruzione di un vera cultura di pace, l’unica in grado di “prevenire” i conflitti e non solo pensare al cessate il fuoco o alla ricostruzione di interi Paesi distrutti dai conflitti.
Un grande messaggero di pace come Giorgio La Pira, siciliano ma sindaco della sua amata Firenze, centro universale di colloqui di pace, costituente, strenuo assertore di una Costituzione basata sul rispetto della persona umana e, con altri padri costituenti come Dossetti e Scalfaro, quasi estensore dell’articolo 11 della Costituzione dove la guerra viene assolutamente “ripudiata”, ci ha lasciato una frase quasi profetica: “Gli Stati spariscono. Le città restano”. Ecco l’attualità del ruolo dell’Ente Locale, in particolare il Comune, come soggetto principale per la formazione di cittadini amanti della pace, del dialogo e a difesa e garanzia dei soggetti più deboli come i bambini.
Purtroppo gli Stati che pur partecipando con grande potere agli organismi internazionali come Onu e le sue varie diramazioni come Unesco, Fao, Alto Commissariato per i profughi, sono i primi a non finanziare questi enti , quando persino non sono i principali fautori dell’inutilità di tali organismi.
Per questo il ripartire a costituire una nuova Onu non può che partire dalle piccole Comunità espressioni dirette dei primari delle persone, delle genti, come da anni ci suggerisce il Prof. Antonio Papisca dell’Università di Padova e del Centro Diritti umani e dei popoli.
Già nell’ambito della importante manifestazione Civitas a Padova (1-4 Maggio) che da anni rappresenta l’appuntamento più importante per il mondo del volontariato e del terzo settore, del non profit, delle Ong , anche se ultimamente assomiglia più ad una vetrina , si è deciso di essere presenti con uno stand che Banca Etica ha già predisposto e con l’organizzazione di un dibattito sul Decennio, in data ancora da fissare secondo il calendario delle manifestazioni in Civitas.
Inoltre ci si attiverà immediatamente presso l’Ente locale, in questo caso specifico della realtà padovana, il comune di Padova per chiedere la riapertura dell’ufficio Pace e soprattutto il ripristino della importante Consulta della Pace che riuniva tutte le associazioni interessati ai temi della cultura della pace e della nonviolenza.
Una equa divisione dei compiti e delle spese, avvenuta in un clima di sereno confronto, promette un buon inizio per questo importante decennio che dovrà estendersi in gran parte delle realtà del nostro paese, anche sull’onda di un nuovo movimento pacifista che si è mobilitato in tutti i modi possibili per evitare la guerra contro l’Irak .
E’ stata data l’adesione al Comitato Internazionale che si riunisce a Parigi e che dovrebbe essere il centro di Coordinamento europeo per il decennio: esiste già una bozza di statuto, una proposta di segreteria che saranno sottoposte alla discussione nelle prossime riunioni già fissate in calendario.
Per chi volesse avere informazioni più precise e aggiornate cercare il sito www.decennio.org o www.unesco.org o MIR.decennio@unimondo.org.
La riunione ha segnato, a mio parere, un punto di partenza importante di qualità e non rimane che continuare questo impegno perché siamo ormai tutti d’accordo che se non si “previene” la guerra con una cultura di pace, con atti di disarmo anche unilaterale, non resta che la deriva delle guerre “preventive” contro questi stati “canaglia” che già definirli con questo linguaggio fa a dir poco inorridire come “distruggi e terrorizza” intere popolazioni inermi, donne e bambini compresi, oggi dell’Irak, domani non si sa……

Alberto Trevisan

Dalle storie alla storia

E’ solo ritrovando la nostra identità, le nostre radici (il locale) che potremo confrontarci con la nuova era (il globale). Attraverso la ricostruzione della memoria è possibile capire il cambiamento ed essere soggetti attivi, in grado di partecipare in modo critico e consapevole. La presenza del male nel divenire storico non deve indurre allo sconforto, ma spingere ad affermare la missione dell’uomo, di ogni uomo (o donna) ad operare dentro il mistero della storia. Inoltre solo coloro che hanno avuto il coraggio di sognare sono riusciti a coltivare una profonda aspirazione, un ideale, una tensione e perché no, un’utopia.
Oggi l’insegnamento storico declina a poco a poco e prevale il disorientamento delle nuove generazioni insieme alla mancanza di consapevolezza sulle comuni radici soggettive e collettive. A questo si accompagna, tra le numerose riflessioni che affollano il secolo breve, una pericolosa confusione tra vittime e carnefici (spesso risolta nelle aule dei tribunali), certamente decisiva nel dare il colpo di grazia ad una Clio ormai inerme.
Il coraggio deve animarci in una visione quasi profetica. Chi vuole salvare lo spirito profondo dell’insegnamento della storia e della trasmissione del sapere dovrebbe negare la conoscenza oggettiva paragonandola alla conoscenza di un’altra persona, la quale non sarà mai pienamente esaustiva e soddisfacente: Non esiste alcuna conoscenza storica realmente oggettiva, universalmente valida, cogente. L’ io storico inoltre si incontra con l’Altro e queste diverse soggettività entrano in relazione per cercare di comprendere la realtà: come non ricordare il concetto di storico militante, l’uso delle fonti orali, la critica femminista? Entra in gioco una nuova visione del mondo, non è solamente questione di metodologie. Lo storico è lì ben presente, uomo tra gli uomini, animato da passioni, costretto a fare una scelta necessariamente arbitraria, poiché dipende da una “teoria” la cui verità non sarà mai d’ordine scientifico, ma soltanto filosofico.
Chi fa ricerca storica si sceglie il suo passato perché si gioca il suo presente.
Non accettare il fatto compiuto, non ripetere il giudizio dei primi venuti, ma svelare cause sotterranee che nessuno aveva potuto scorgere, appare una sfida per tutti i volgarizzatori, gli imbonitori, quei maestri saccenti che tendono a dare una visione manichea dei fatti storici.
Scrivere, raccontare, conoscere, salvare la memoria storica diventa un monito per le giovani generazioni; sperimentare le fonti, tutte le fonti, per rendersi contemporanei degli avvenimenti che si narrano, assume un alto valore pedagogico ed etico, è un’educazione della volontà e del coraggio, che restituisce all’uomo il senso della responsabilità per poter combattere il fatalismo.
Alla fine, in un mondo globalizzato, dove qualche volta la paura del diverso proietta lugubramente il passato sul presente, dichiarare che il recupero della memoria rinnova ed arricchisce, connota la storia come amicizia e fratellanza, e non è cosa da poco.

Maria Teresa Gavazza
Associazione “Comunicando”

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Ripensare la politica estera, mettere in discussione la Nato

La guerra annunciata si è compiuta. È ancora troppo presto per valutare appieno le conseguenze dell’attacco angloamericano all’Irak. Mentre la guerra è stata più breve di quanto molti si aspettavano, i primi giorni del dopoguerra, con l’anarchia e i saccheggi nelle grandi città irachene, mostrano che al momento le forze occupanti non hanno né l’interesse, né la capacità di garantire un minimo di ordine al paese. Intanto gli strateghi folli dell’amministrazione statunitense sembrano già affilare le armi contro il prossimo nemico, la Siria: e speriamo che rimangano soltanto esercizi retorici.
Quel che è certo è che gli Stati Uniti hanno dato un colpo micidiale a un pilastro dell’insieme di regole che governava il sistema internazionale dal dopoguerra. Certo la superpotenza era già intervenuta militarmente, in maniera diretta o indiretta, in tanti stati. Ma la sensazione è che oggi una soglia sia stata superata, che il modo di agire degli Stati Uniti sia diventato quello di una potenza imperiale, che sfrutta come e quando vuole la sua superiorità militare. Questa mutazione sembra essersi compiuta nel giro di pochi mesi.
Se questo è vero, vuol dire che è arrivato il momento di ridiscutere i rapporti con la superpotenza alleata dell’Italia, ed in particolare riesaminare il senso della NATO, che del vecchio ordine era parte integrante, e la necessità della concessione di basi alle forze militari statunitensi.
Due erano le caratteristiche portanti dell’alleanza nel passato: il fatto di inquadrarsi nel sistema delle Nazioni Unite e la sua natura difensiva. Tralasciamo per brevità il fatto che in sostanza nemmeno in passato questi principi erano rispettati e che la mutazione è stata a lungo preparata. Il comportamento dell’alleato dominante oggi ha definitivamente affossato quei principi. La dottrina della guerra preventiva fa strame della funzione difensiva delle forze armate atlantiche; l’unilateralismo della superpotenza ha messo in un angolo le istituzioni internazionali.

Da una idea di difesa militare collettiva ci ritroviamo dentro un sistema di sicurezza imperiale, dove il partner più potente può fare quel che vuole, incluso prendere decisioni (come la guerra di oggi) che in prospettiva mettono a rischio la sicurezza interna dell’alleato più debole. Perché è chiaro che, anche se volessimo definire l’interesse del nostro paese alla maniera degli “esperti di sicurezza”, questa guerra può farci solo male, esacerbando le frange estremiste del fondamentalismo e preparando il terreno a nuovi attentati terroristici in tutto il mondo – Italia inclusa.
Sono perciò venuti a mancare del tutto i presupposti che erano alla base della stretta alleanza militare tra Italia e Stati Uniti. Per questo è urgente aprire una discussione nella politica e nella società italiana sulla permanenza del nostro paese nell’alleanza e sulla concessione delle basi militari agli USA.

La nonviolenza offre una strada radicalmente diversa alla sicurezza: questa non viene intesa come garantita dalla strapotenza delle armi, ma dalla solidità interna e dalla capacità di instaurare rapporti costruttivi con l’esterno. Solidità interna vuol dire diverse cose: resilienza nei confronti di eventuali attacchi esterni, capacità di offrire una difesa popolare nonviolenza, una economica non dedita allo sfruttamento e alla rapina altrui. La creazione di rapporti costruttivi con altri popoli e paesi presuppone la costruzione di una politica estera di pace, della quale abbiamo già parlato e di cui certamente continueremo a occuparci.
Ma non dimentichiamo che la novità non è solo la guerra, ma anche il movimento diffuso, capillare, senza pari che abbiamo di fronte oggi. Milioni di persone con cui parlare, le paure, speranze e idee per un mondo nuovo da condividere, da capire, una capacità di pace da far crescere e maturare.
È urgente parlare di nuovo, a tutti, di difesa alternativa, di sicurezza alternativa. Trovare spazi, nei media, nella società, nella politica, per rimettere in questione la NATO e la concessione delle basi agli Stati Uniti. Se riusciamo a innescare un confronto ampio su una nuova sicurezza, su una politica estera di pace, e in definitiva sul superamento della nostra dipendenza militare dall’impero, forse scopriremo di poter raggiungere molte più persone di quanto crediamo. In fondo sappiamo bene che la nonviolenza fa miracoli!

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Non solo corteo
Agire con il teatro
Azione teatrale di controinaugurazione della mostra bellica EXA del 2002. Ne parliamo con Floriana Colombo del GAN di Milano ( casapace@tiscalinet.it www.mademake.it/gdaforg8 ).
(Parte seconda)

PREPARAZIONE
In che modo avete preparato l’opinione pubblica?
Animazione in piazza, teatro di strada, culminata con “banche trasparenti”, simbolico lavaggio dei vetri delle banche più coinvolte, mostre itineranti, banchetti, convegno-forum su questi temi.

Avete rivolto appelli alla società civile e ai rappresentanti istituzionali?
Sì, per richiedere la modifica del regolamento di Exa 2003.

Come avete informato le forze dell’ordine dell’azione?
Abbiamo contrattato con il questore le relative autorizzazioni, nell’ambito di una più ampia manifestazione prevista per quel giorno nella tradizionale forma del corteo dalla città alla mostra. I banchetti di Emergency e Amnesty più una piccola delegazione di 200 manifestanti sono stati autorizzati ad avvicinarsi alla mostra.

Particolari ruoli?
Sì, ripartiti tra i membri del Gan di Milano: 2 si occupavano dei contatti con la stampa; 2 con la polizia; 3 con gli altri gruppi. 1 persona da Milano teneva il ponte telefonico per informazioni; 1 faceva lo speaker della controinaugurazione; 2 scattavano fotografie.

Avete messo per iscritto norme di comportamento?
Sì, le norme sono state proposte da noi, condivise nella riunione dei partecipanti e messe per iscritto, con le indicazioni sul “canovaccio” dell’azione teatrale da svolgersi al termine del corteo, e i nomi e i numeri di cellulare dei membri del Gan Milano referenti dei vari ruoli concordati per l’azione. Abbiamo preparato anche un volantino-vademecum che elencava altre attenzioni da tenere durante il corteo, specie nel momento in cui la testa dei 200 delegati autorizzati doveva deviare verso i cancelli della fiera. Questo volantino era pensato soprattutto in funzione di chi si ritrovasse lì con noi all’ultimo momento, senza aver partecipato alla riunione preparatoria, e magari senza aver mai partecipato ad azioni dirette.

VALUTAZIONE
Visibilità sui media?
Riteniamo raggiunto l’obiettivo: tutte le principali testate giornalistiche (locali e nazionali) hanno pubblicato la foto delle “maschere bianche”. E’ stata l’immagine più ripresa e diffusa, anche dalle agenzie di informazione alternativa (es. Indymedia). Questo ha rinforzato in noi l’idea che le azioni simboliche sono quelle di maggior impatto comunicativo e possono veicolare messaggi con maggiore efficacia in quanto predispongono ad un ascolto e dialogo più attivi.

Reazioni dei visitatori della mostra?
Le maschere bianche hanno favorevolmente stupito e sono rimaste impresse a molte persone. Molti dei presenti si sono avvicinati a noi per chiederci chi eravamo. All’efficacia comunicativa ha contribuito anche il volantino pieghevole che si accompagnava all’azione, che riportava un iceberg con in cima gli slogan del sito di Exa e con i dati “sommersi” su produzione e commercio di armi.

Cosa non ha funzionato?
Qualche difficoltà l’abbiamo riscontrata nel mantenere i rapporti e la compattezza tra gruppi diversi e con diseguale competenza rispetto alla realizzazione di azioni dirette. In particolare dovevamo posizionarci in testa al corteo (dietro il furgone di apertura) per potere successivamente distaccarci da esso e confluire verso l’ingresso di Exa. Fin dai primi passi alla partenza della manifestazione è risultato difficile mantenere la posizione perchè le altre componenti del corteo non erano state informate dello svolgimento imminente dell’azione simbolica e rifiutavano la nostra richiesta di rimanere in testa.
Questo ci ha costretto a continue contrattazioni sul mantenimento della nostra posizione. I tre portavoce del Gan Milano durante il corteo hanno fatto un po’ di fatica a tenere le fila con i portavoce-referenti dei singoli gruppetti partecipanti, specie nei momenti in cui il nostro spezzone rischiava di sfilacciarsi, dietro la pressione degli altri manifestanti. Per evitare ulteriori tensioni e fraintendimenti, a metà del percorso abbiamo insistito più volte perché dal furgone si annunciasse che all’altezza dell’Ortomercato ci saremmo staccati con gli altri delegati per svolgere un’azione teatrale. L’abbiamo ottenuto solo alla fine del percorso. E abbiamo dovuto comunque attuare un’escamotage: una fermata “diversiva”, nel punto in cui il corteo piegava a “U” nella parte finale del percorso, per riconnetterci rapidamente alla testa che già sfilava in senso opposto!

(La prima parte è stata pubblicata sul numero di Aprile)

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Segreti e misteri della Certificazione Sociale SA8000

L’ultima azienda in ordine di tempo è stata la Granarolo, uno dei più grandi produttori di latte in Italia. Coerentemente con il tipo di azionariato che la gestisce, e facilitata dal tipo di prodotto che produce e vende, ha deciso di acquisire la certificazione SA8000 che garantisce ai consumatori il rispetto, da parte dell’azienda, di alcune norme a difesa dei diritti civili nella filiera che porta alla produzione del bene (in questo caso il latte e i suoi derivati).
I punti che un’azienda certificata si impegna a rispettare, e a far rispettare ai suoi fornitori, sono i seguenti:
esclusione del ricorso al lavoro minorile (sotto i 15 anni)
assenza di lavoro coercitivo
standard minimi di salute e sicurezza sul luogo di lavoro
libertà di associazione e diritto alla contrattazione collettiva
assenza di discriminazione
assenza di pratiche disciplinari, punizioni corporali o mentali
orario di lavoro settimanale massimo di 48 ore con almeno 1 giorno festivo
retribuzione al disopra del salario minimo previsto dall’OIL
presenza di un management disposto a conformarsi alle leggi esistenti in materia di diritti umani e a seguire le indicazioni dell’ente certificatore per migliorare.

L’ente certificatore effettua una raccolta di informazioni attraverso interviste mirate con le parti interessate (le interviste con i lavoratori sono la parte più critica), avvalendosi inoltre di reclami o appelli pervenuti all’azienda, all’ente di accreditamento o all’ente verificatore stesso.
Come le altre aziende che hanno intrapreso questa via, anche la Granarolo ha assegnato questo lavoro alla più famosa società di certificazione mondiale (in tutto le società accreditate sono 5).
Ma qual è la più famosa società di certificazione esistente al mondo? Sicuramente la svizzera SGS, Société Générale de Surveillance (www.sgs.com), quotata alla borsa di Zurigo, famosa anche per essere stata al fianco di Coop per la questione Del Monte (www.altreconomia.it/numero2/Campagna.html) e per aver contribuito a far emergere il lavoro minorile nelle fabbriche di palloni pakistani (www.saveriani.bs.it/cem/Rivista/globalexpress/2002_06/faccia.htm).
Ultimamente sta seguendo la Chiquita, sempre per il raggiungimento dell’agognata certificazione SA8000 (www.chiquita.com/chiquitacr1/References/pdfs/Italian.pdf).
Tra parentesi, la società è accusata di aver corrotto il governo di Benazir Bhutto nel 1999 (www.unipv.it/cspe/am9910.htm) per ottenere delle consulenze, mentre il suo precedente proprietario, Jacques Salmanovitz, fu coinvolto nell’occultamento dei beni appartenenti agli ebrei svizzeri durante la II Guerra Mondiale (www.abbc.com/aaargh/ital/fink/holind/olind3a.html). Ma questa è acqua passata.
Chi sono gli attuali proprietari di SGS? Fa certamente un po’ impressione sapere che, dal 2000, il 21% di questa società è in mano all’IFIL degli Agnelli, che inizialmente hanno sborsato ben 328 milioni di euro per accaparrarsi il primo 10%, per poi arrotondare la quota l’anno seguente (www.ifil.it/comunicati_stampa/ifil14_11_2000_ita.pdf ; www.borsaitalia.it/media/borsa/db/ pdf/ 2173.pdf)
Un altro azionista è, con il 23,5%, il miliardario tedesco August Von Finck, proprietario di consistenti quote di Lowenbrau, Allianz e Movenpick e socio degli Agnelli nella gestione aziendale. Siede nel consiglio direttivo con suo figlio ed il rappresentante IFIL. Il terzo maggior azionista è infine la Swisse Life, che però ha ridotto l’anno scorso la propria quota dal 16% al 5%.
L’IFIL, di fronte alla perdurante crisi del gruppo FIAT che rappresenta ancora la maggior parte delle sue attività, ha deciso di dismettere (e far dismettere a FIAT) molte aziende per far fronte alle consistenti perdite del settore automobilistico: in breve tempo sono stati venduti il settore assicurativo, parte di quello energetico, quasi tutto il settore finanziario e il 34% della Ferrari; persino la storica sede del Lingotto e i prestigiosi vigneti francesi di Chateau Margaux hanno cambiato proprietario, ma la partecipazione in SGS, che pure potrebbe fruttare all’incirca 700 milioni di euro, non è tra gli asset in vendita.
Non ci sarà ovviamente nulla di male ma, in fin dei conti, quasi la metà del capitale di chi dovrebbe vigilare sull’operato delle aziende è in mano ad industriali che potrebbero in teoria influenzarne l’operato per loro tornaconto. E che in ogni caso intascheranno metà dei profitti di fine anno ottenuti grazie alle proteste dei consumatori critici. Un corto circuito che allunga un’ombra anche su quello che dovrebbe essere lo strumento migliore in mano a chi richiede un’etica della responsabilità delle imprese.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Anche ad Hollywood sono anti-americani?

Dopo i bombardamenti su Baghdad, ecco la seconda fase: “l’esportazione della democrazia”. In Iraq, a dire il vero, non sembrano essersene ancora resi conto, ma gli strateghi e gli esperti di geopolitica ci insegnano che ci vuole del tempo; e così in Somalia, in Kosovo e in Afghanisthan (le ultime nazioni “liberate” dagli americani) stanno ancora pazientemente aspettando. Ad essersene, invece, accorti sono alcuni tra i più noti protagonisti del mondo cinematografico statunitense.
All’inizio del 2003 Sean Penn, attore e regista cinematografico (l’ultimo suo lungometraggio è il bellissimo “La promessa” con Jack Nicholson) si è recato a Baghdad per verificare direttamente, e non attraverso la “mediazione” dei network statunitensi, la drammatica situazione di un popolo piegato da trent’anni di regime e da dieci di embargo. Il 16 febbraio ad Hollywood si è tenuta una marcia anti-guerra che ha sorpreso per le dimensioni e per il numero di “celebrità” coinvolte. Il 10 marzo un gruppo di “stars” di Hollywood, tra cui Jessica Lange, Steve Buscemi ed Ethan Hawke ha consegnato una petizione all’Onu e ai quindici membri del Consiglio di Sicurezza contro l’intervento militare anglo-americano in Iraq; petizione che in soli cinque giorni ha raccolto su Internet oltre un milione di firme.
Le conseguenze di tali atti si sono rivelate, da subito, alquanto inquietanti. L’attore Martin Sheen, uno dei più ferventi oppositori alla linea Bush ha dichiarato di essere stato oggetto di numerose manifestazioni di ostilità: avrebbe ricevuto, infatti, una montagna di lettere piene di odio e di minacce e sarebbe stato, in varie occasioni, oggetto anche per strada di insulti del tipo “traditore”, “vigliacco”… da parte di persone comuni. Anche il network televisivo NBC che manda in onda la serie “West King” interpretata dall’attore avrebbe ricevuto moltissime lettere di reclamo che chiedevano, nella maggior parte dei casi, l’allontanamento e l’isolamento di Martin Sheen. Una delle organizzazioni dello spettacolo favorevoli alla guerra, la “Citizen Against Celebrità Pundits” ha continuato per tutto il conflitto, a chiedere il boicottaggio di Sean Penn, Mike Farrell, Martin Sheen, Susan Sarandon, Edward Norton, Tyne Daly, Danny Glover, Rob Reiner, Penelope Cruz, Alec Balwin, Jeneane Garofano, Woody Harrelson e Rosario Dawson; ma contro di essa si è schierato il SAG (Sindacato degli attori americani) “…alcuni esponenti del mondo imprenditoriale hanno recentemente suggerito che alcuni noti individui contrari all’intervento, dovrebbero essere puniti perdendo il loro diritto al lavoro. Questo scioccante ragionamento mostra che per alcuni le lezioni della storia non sono servite a nulla…” a dimostrazione di come esista, comunque, una società civile americana che non ha del tutto “esportato” dal proprio cervello, il concetto di democrazia. Una buona parte di tale società si è in quest’ultimo periodo sentita validamente e coraggiosamente rappresentata, non già da un politico o da un intellettuale di area democratica, bensì da un regista: Michael Moore, l’autore di “Roger & me” e dell’ormai film di culto “Bowling a Colombine”, feroce atto d’accusa contro la cultura delle armi da fuoco negli States già recensito sulle pagine di questo periodico. Il documentarista Michael Moore si è recato a ricevere l’Oscar per Bowling e di fronte ad una platea imbellettata a festa ha ripetuto per tre volte il suo “Vergogna, Mr Bush! Hai finito!”, aggiungendo, così, un ulteriore tassello a quella personale polemica nei confronti del presidente degli Stati Uniti inaugurata con il libro best-seller “Stupid white man” (una requisitoria nei confronti di Bush e della sua “cricca” rea di aver “rubato” le elezioni – il libro è uscito in Italia per Mondatori); tale polemica vedrà scritto un ulteriore capitolo a Cannes 2004 con l’uscita del lungometraggio provvisoriamente intitolato “Fahrenheit 9/11”, sui legami tra la famiglia Bush e i Bin Laden, prodotto e finanziato dalla casa produttrice di Mel Gibson. Ma l’irriverente provocatore si è dimostrato anche un attento e quasi “profetico” analista politico come si evince dalla chiusura di questa lettera aperta a George W. Bush del marzo 2003: “…Quando avrà “vinto” la guerra, la sua popolarità salirà alle stelle perché tutti amano un vincitore – e a chi non piace vedere qualche bel calcio in culo di tanto in tanto (soprattutto se il culo è del terzo mondo!). Perciò faccia del suo meglio per cavalcare questa vittoria fino alle elezioni dell’anno prossimo. Certo, sono ancora molto lontane… Ma, chi lo sa, magari troverà Osama prima delle elezioni! Su, cominci a pensarla cosi! Non perda la speranza! Uccida gli iracheni. Loro hanno il nostro petrolio. Suo, Michael Moore.”

Gianluca Casadei
Cooperativa Fuorischermo – Cinema & Dintorni

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Mi sento disarmato e canto Il disertore

Giorgio Cordini è uno dei chitarristi italiani più apprezzati e richiesti. Non a caso ha suonato con tanti artisti importanti: Fabrizio De Andrè, Massimo Ranieri, Vasco Rossi, Gino Paoli, Celentano, Ornella Vanoni, Zucchero. Veneziano trapiantato a Brescia, alla fine degli anni sessanta ha suonato con Mauro Pagani nella “Forneria Marconi” prima che nascesse la PFM. Ha ideato e prodotto“Disarmati”, album principalmente strumentale con canzoni d’autore legate al tema della pace e della lotta contro ogni tipo di guerra. Al cd è seguito uno spettacolo che sta attualmente girando per l’Italia in appoggio ad Emergency. Il disco è distribuito in alcuni negozi, ma soprattutto ai concerti o tramite il sito www.giorgiocordini.it dove è possibile anche scaricare tablature di diversi pezzi per chitarra.

Come è nato il tuo progetto musicale contro la guerra?
Sono pacifista da sempre. Ho vissuto la stagione del ’68, della guerra del Vietnam, di Martin Luther King, sono cresciuto con Dylan e Lennon. Sono rimasto fedele a quelle idee mentre molti sono tornati a credere che la guerra possa diventare accettabile per imporre la pace. Volevo proseguire sulla strada di “Chitarre d’autore”, un disco di canzoni anche famose, senza testo con miei arrangiamenti. In questo caso, il tema è la guerra e la pace.

“Disarmati”, un titolo volutamente senza accento con due possibili significati ?
Ho sempre pensato “Disarmàti”. Poi non è stato messo l’accento e si può anche pensare “Disàrmati” quasi fosse un imperativo. Ma io non volevo dire questo anche perché non intendo obbligare nessuno. Le mie erano considerazioni sul fatto che siamo disarmati di fronte ai soprusi, alle violenze, a come siamo aggrediti da tutto quello che abbiamo intorno. Sulla copertina c’è una marionetta coi fili e sul retro c’è un’altra marionetta vestita da militare, che simboleggia chi ci comanda, marionetta a sua volta nelle mani di quelle poche persone che tengono i fili del mondo.

Che tipo di canzoni hai scelto?
Ho messo “Girotondo”e “La ballata dell’eroe” di De Andrè e altre canzoni che hanno a che fare con la vigliaccheria del potere sulle persone deboli. E’ un tema antico, infinito che non finirà di farci cantare e di farci riflettere. In più ci sono pezzi miei strumentali, legati sempre al discorso della guerra. In particolare c’è quello che da il titolo al cd, che riprende un brano del “Coriolano” di Shakespeare ritradotto in modo funzionale per la canzone. C’è questo soldato di ritorno da una campagna di guerra che rifiuta di accettare premi e onori per aver ammazzato della gente. La parte musicale unita alla recitazione a tempo dell’attore Luca Quaia ha un effetto molto suggestivo.

C’è qualcos’altro che avresti voluto mettere?
Ho dovuto scegliere canzoni che si adattassero alla chitarra. Nei primi provini avevo anche “C’era un ragazzo…” suonata col bouzouki, diventata quasi una canzone greca. Scritta da Mauro Lusini, ripresa anche da Joan Baez, è una canzone importante a tutti gli effetti. All’ultimo momento non mi sembrava venisse bene. Ho un po’ di rimpianto per non averla messa, magari mi organizzerò per farla dal vivo.

A proposito degli spettacoli dal vivo. Hai cominciato a dicembre dopo l’uscita del cd…
La prima uscita è stata a Brescia in piazza Loggia. Per me è stato un onore suonare lì, mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Ci hanno suonato nomi famosissmi. E’ una piazza importante per quello che è successo, per quello che rappresenta. Da lì poi ho fatto diverse presentazioni, col quartetto, ma anche da solo. Per ora 24 e in diverse parti d’Italia. Sono andato spesso nelle scuole. Alla musica aggiungo una serie di immagini proiettate: foto didascaliche, frasi del testo per far capire meglio di cosa stiamo parlando, parole e poesie di guerra come per esempio dal diario di Anna Frank. Poi dal vivo metto qualche pezzo cantato che non c’è nel cd: “La guerra di Piero”, “Generale” e“Non insegnate ai bambini” di Giorgio Gaber.

Una tua riflessione sulla nonviolenza?
Termino il concerto con “Il disertore”. Racconto che spesso sento dire che è facile essere contro la guerra, ma a volte è indispensabile farla. “Come fai a non farla?”- dicono… Come si fa te lo canto: quelle centinaia di migliaia di soldati americani che sono andati in Iraq, non potevano starsene a casa? La guerra non si sarebbe fatta! E’ semplice: se uno davvero non la vuole non la fa.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Quando il Parlamento voleva fare a pezzi l’obiezione

All’inizio di maggio 1995 Carlo Maria Santoro, a con­clusione del seminario di studio organizzato dal Comitato di parlamentari per l’innovazione tecnologica e lo sviluppo so­stenibile, affermò che il progetto di legge sull’obiezione di coscienza approvato dal Senato era “un mostro alla Franken­stein, che mette in pericolo la sicurezza nazionale e che mi auguro la Camera faccia a pezzi”. Santoro sottolineò inoltre che a suo parere l’istituzione del servizio civile rischiava di sottrarre risorse finanziarie e umane alle strutture della Difesa (1).
Dal 6 al 9 luglio si tenne presso Cà Fornelletti a Valeggio sul Mincio un seminario estivo di formazione pro­mosso dal Movimento Nonviolento e dal Movimento Internazio­nale della Riconciliazione. Una delle aree tematiche affron­tate riguardava il tema “Difesa e nonviolenza”, al termine dei lavori fu presentata una nota dedicata all’obiezione di coscienza e al servizio civile di pace, che cominciava con la seguente dichiarazione: “Si potrà pen­sare realmente a una società diversa in cui la guerra, i golpe e le rivoluzioni armate siano eccezioni e non la re­gola solo quando le obiezioni di coscienza all’uso, alla co­struzione e alla vendita delle armi saranno molto diffuse” (2).
Il 18 ottobre, dopo sette mesi dall’approvazione da parte del Senato, si concluse alla Camera il dibattito generale sulla riforma della legge 772 e si decise di aprire il comitato ri­stretto per rivedere il testo. Alleanza Nazionale presentò circa quattromila emendamenti, Forza Italia una settantina, una ventina il relatore pattista Pietro Milio e altrettanti il Governo. Sia il relatore che il Ministero della Difesa proponevano di aumentare di due mesi il servizio civile, di obbligare i giovani a presentare la domanda di obiezione en­tro trenta giorni dall’arruolamento, di stipulare conven­zioni nel limite delle disponibilità economiche previste dalla legge, di sostituire fra le cause ostative le condanne in primo grado con i rinvii a giudizio, di assegnare gli obiettori in esubero agli enti locali del Comune di resi­denza, che potevano disporne come meglio credevano, soste­nendo però a proprie spese il costo del servizio. Questi emendamenti furono recepiti nel testo base presentato dal relatore al comitato ristretto. Rispetto allo schieramento che aveva approvato il disegno al Senato, alla Camera la Lega Nord non fu più disponibile a votare a favore e molte polemiche suscitò il giudizio del capogruppo del P.D.S. in commissione difesa Elvio Ruffino sugli emendamenti presen­tati dal governo, definiti “fondati e accettabili”.
Il fatto che la Camera si apprestasse a modificare il testo di legge approvato dal Senato, accogliendo gli emendamenti del Governo, fu stigmatizzato dalla L.O.C. “La Lega Obiettori di Coscienza”, scriveva un rappresentante dell’associazione “non è disposta ad accettare una riforma qualsiasi, perché non sempre il nuovo è meglio del vecchio e, in questo caso, la nuova legge si presenta sicuramente peggiore della pur criticatissima 772” (3).
Il 22 novembre il comitato ristretto concluse i propri lavori, adottando un nuovo testo elaborato dal rela­tore Pietro Milio, che non eliminava il meccanismo che pre­vedeva per gli esuberi del servizio militare l’assegnazione al servizio civile. Alleanza Nazionale presentò soltanto una ventina di emendamenti, ma i lavori si bloccarono per l’arrivo alla Camera della legge finanziaria.
Il 1° dicembre fu condannato Massimiliano Terzi dal tribunale civile a cinque mesi con la condizionale per non aver cominciato il servizio civile (4).
Il 15 dicembre Valerio Pignatta di Varzi in pro­vincia di Pavia, riprendendo un’iniziativa dei primi anni Settanta che aveva però riscosso allora scarso successo, re­stituì il suo congedo militare, intendendo con tale gesto rompere il legame che continuava a unirlo alle Forze armate e dichiarando che come obiettore di coscienza non sarebbe stato disponibile a qualsiasi richiamo di carattere militare (5). Qualche mese dopo anche Mario Corso di Creazzo in pro­vincia di Vicenza attuò il medesimo gesto di protesta. Egli aveva svolto il servizio militare nel 1973 e in seguito aveva maturato una coscienza nonviolenta; pertanto con la restituzione del congedo intendeva dimostrare il suo rifiuto della logica delle armi e della violenza (6).

(8 – continua)

LETTERE

La Cina di ieri, il Tibet di oggi, e la storia dei popoli

Dall’ Associazione Italia-Cina (Piazza Grazioli, 18 – Roma), riceviamo e pubblichiamo.

Gentile Direttore,
abbiamo letto il suo editoriale del numero di Marzo 2003 in cui è scritto: “la Cina, per dare credibilità al veto alla guerra di Bush dovrebbe iniziare a ritirarsi dal Tibet e chiedere scusa al mondo intero per l’infamia di quell’invasione”.
Come Associazione che lavora alla conoscenza e all’amicizia con la Repubblica Cinese e con il suo popolo vorremmo precisare alcuni fatti.
Il Tibet fa parte dello Stato Cinese dal XVI secolo, come Taiwan, tuttora diviso dalla madre patria.
Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, nel 1949, il Dalai Lama e altri dirigenti hanno accettato di far parte dell’Assemblea Nazionale e il Tibet come le altre regioni autonome, poté godere di piena autonomia in politica interna.
Nel 1956, quando la Repubblica Cinese volle allargare anche al Tibet la riforma agraria intrapresa in tutte le regioni, i proprietari terrieri sostenuti dai monaci buddisti promossero una rivolta armata che fu repressa.
Il Tibet era un paese retto da una teocrazia feudale che fu spodestata; i suoi contadini si liberarono dallo stato di servi della gleba.
Dal 1993 il Dalai Lama ha ripreso i contatti con il governo cinese, riconoscendo che il Tibet non può essere associato allo stato cinese, chiedendo piena autonomia, schierandosi per una lotta nonviolenta su questo obiettivo.
Alla fine del 2002 rappresentanti del governo tibetano in esilio si sono recati a Pechino a proseguire le trattative.
Gli Usa hanno ripetutamente scritto che la Cina rappresenta il loro unico avversario mondiale nel futuro e che occorre fare tutto il possibile per destabilizzarla, usando anche le rivendicazioni nazionalistiche delle minoranze etniche e religiose.
Se il Movimento Nonviolento vuole lavorare per la pace nel mondo, sarebbe bene che non assecondasse questa campagna di destabilizzazione.
Il Tibet è aperto al turismo e anche la nostra associazione vi compie numerosi viaggi che permettono ai turisti di ammirare migliaia di templi buddisti, rasi al suolo dalla propaganda americana.
Speriamo che il Movimento Nonviolento vorrà in futuro appoggiare l’azione pacificatrice del Dalai Lama senza soffiare sul fuoco dell’odio contro la Cina.
Cordiali saluti
Vittoria Mancini
segretario nazionale Associazione Italia – Cina

Risponde il Direttore

Cara Signora Vittoria Mancini,
la ringrazio per la Sua attenzione e considerazione; bene volentieri accettiamo un franco dibattito sul Tibet, di cui ci occupiamo da molto (vedi numero speciale del giugno 1992).
Prima di entrare nel merito delle questioni da Lei poste, vorrei ribadire un principio a noi molto caro: ogni popolo ha il diritto di vivere liberamente nella propria terra. Per questo siamo contrari alle conquiste e alle occupazioni (della Cecenia da parte della Russia, della Palestina da parte di Israele, dell’Iraq da parte degli angloamericani, ecc.) e per questo abbiamo sempre difeso i diritti di autonomia dei popoli indios, a partire dagli indiani d’America, popolo nativo vittima di un vero e proprio genocidio. La conquista militare di un territorio che si rifaccia a presunti diritti acquisiti nel passato, non ha alcuna validità (se così fosse l’Italia potrebbe rivendicare la Somalia, l’Eritrea, l’Albania…). Noi riteniamo che cinesi e tibetani siano due popoli molto diversi tra loro e quindi ogni forma di dominio di uno sull’altro è illegittimo e pertanto la presenza della Cina sul suolo tibetano fa parte di un dominio coloniale.
Nel merito delle Sue argomentazioni:
1. Il 1° ottobre del 1949 segna la nascita della Cina di Mao Tse-tung ed uno dei primi atti del nuovo governo fu la decisione di “liberare” il suolo del Tibet perché in alcuni momenti della sua lunga storia, aveva esercitato su quella terra un qualche diritto di sovranità. Che cosa abbia in comune la Repubblica Popolare Cinese con la Dinastia Ming o la Dinastia Ch’ing del XVI e XVII secolo è difficile immaginare. Comunque penso sia interessante ricordare come lo stesso Mao riconosceva che tali territori avevano ben poco a che fare con i cinesi, quando diceva: «Il Tibet e il Sinkiang sono tra loro diversi. Nel vecchio Sinkiang c’erano 2/300.000 cinesi, mentre in Tibet non ce n’è nemmeno uno, quindi i nostri soldati si trovano in un luogo dove in passato non ci fu mai alcun cinese».
2. Sicuramente quando Lei parla di un Tibet che “poté godere di piena autonomia in politica interna”, si riferisce al famoso Accordo in 17 punti per la liberazione pacifica del Tibet del 1951, con il quale, per la prima volta nei suoi tredici secoli di storia, il Tibet metteva per iscritto il riconoscimento della sovranità cinese (sotto la minaccia di invasione del Tibet centrale e senza l’assenso del Dalai Lama). Tale Accordo diceva che il sistema tradizionale politico ed economico del Tibet doveva rimanere intatto, e così le funzioni e il potere del Dalai Lama ed inoltre che «le credenze religiose, i costumi, le abitudini del popolo tibetano saranno rispettati e i monasteri protetti» (punto 7). Ciò che è successo in realtà negli anni successivi costringe a dubitare fortemente sull’attuazione anche solo parziale di tale Accordo.
3. La politica dei “piccoli passi” di Mao, riconosceva al Tibet non solo una “diversità” geografica, ma anche una diversità politica rispetto alle altre regioni “autonome”, intrattenendo il Tibet rapporti diretti con le altre nazioni, firmando accordi internazionali, emettendo passaporti, ecc. Questo portò dal ’51 al ’59 a sviluppare una politica “moderata” nel tentativo di arrivare ad una pacifica, lenta integrazione del Paese delle Nevi nella “Madre – Cina”. Ma ben presto questa politica ebbe parecchi avversari, sia in Tibet che a Pechino. Così, quando in tutta la Cina iniziò la “trasformazione socialista dell’agricoltura”, si ebbe come conseguenza una sanguinosa ribellione che dal Sichuan si diffuse verso Lhasa preparando l’insurrezione del ’59 e la conseguente fuga del Dalai Lama in India. La politica dei “piccoli passi” di Mao purtroppo fallì e il governo cinese rinnegò l’Accordo, cominciando la confisca delle proprietà, chiudendo la maggior parte dei monasteri, creando le basi per un contrasto sempre più insanabile.
4. La società tibetana, all’arrivo dei cinesi, era di tipo teocratico e feudale, è vero. Tuttavia: a) la pena di morte era stata abolita già nel VII secolo; b) l’omicidio era punito solo con un risarcimento alla famiglia della vittima e solo eccezionalmente il colpevole veniva incarcerato; c) grazie ai monasteri (6254 sono quelli distrutti catalogati dalle organizzazioni internazionali, sui 9000 esistenti) nel vecchio Tibet la fame era sconosciuta, essendo essi veri e propri granai (oltre che templi e scuole di sapere interiore) che, posti in posizioni quasi sempre inattaccabili, proteggevano il raccolto di tutti; d) i contadini tibetani nelle loro e nelle altrui terre erano liberi di spostarsi ovunque (popolo nomade); soltanto chi possedeva terreni o mandrie pagava i tributi, non in denaro ma in servizi.
5. Che il Tibet sia oggi aperto al turismo è pur vero, anche se con pesanti limitazioni a causa di continui “permessi” necessari per visitare il paese. Che si possano visitare molti templi Buddhisti è anche vero. Che la propaganda americana sia nefasta, sono d’accordo con Lei. Ma che sia così impetuosa da distruggere le mura poderose di un monastero tibetano mi pare poco attendibile. Risulta invece (e non solo a me) che siano stati i cannoni e la furia della guardie rosse, negli anni ’60, a portare a termine questo triste scempio.
6. Dei contatti che il Dalai Lama ha con il governo cinese per arrivare ad una piena autonomia e del suo fermo proposito di appoggio alla lotta nonviolenta del popolo tibetano, non posso che rallegrarmi assieme a Lei.
Per concludere, una nota sulla realtà attuale. L’arrivo dei cinesi ha provocato un drammatico esodo di massa dei tibetani attraverso l’Himalaya, sopraffatti dalla fame e dalle malattie (alcuni storici parlano di due milioni di morti su un popolo di otto milioni). Oggi la maggior parte dei tibetani fuoriusciti si trova in India del Sud, nello stato del Kerala, dove vive nei campi profughi in condizioni di povertà e miseria. L’Associazione Italia-Tibet ha promosso una campagna di adozioni a distanza dei bambini profughi, per garantire loro il mantenimento e gli studi in scuole tibetane, nel rispetto della loro cultura. Una lodevole iniziativa che ci fa piacere segnalare ai nostri lettori.
La ringrazio ancora, signora Mancini, e Le assicuro che il Movimento Nonviolento non nutre alcun sentimento anti-cinese; anzi, le nostre critiche al governo di Pechino (come ad esempio sulla pena di morte o la mancanza di libertà politica) non intaccano l’amore che abbiamo per i cinesi e la loro cultura, consci come siamo che il futuro dell’umanità dipenderà molto dalle scelte che compirà questo grande popolo.
Cordiali saluti.

Le galline, le uova e l’arroganza degli occidentali

Caro Direttore,
può darsi che il lettore conosca già il seguente vecchio problema: se una gallina fa un uovo e mezzo in un giorno e mezzo, quante uova producono nove galline in nove giorni? Una linea di soluzione per risolvere il problema può essere la seguente. Raddoppiando il numero di galline raddoppia il numero di uova prodotte, perciò tre galline producono tre uova in un giorno e mezzo. Dunque, in un giorno e mezzo nove galline producono nove uova. Raddoppiando, ora, il tempo, troveremo che nove galline producono diciotto uova in tre giorni. Allora, in sei giorni nove galline producono trentasei uova e in nove giorni le nove galline producono il triplo di uova che producono in tre giorni, cioè cinquantaquattro uova.
Ha qualche importanza sapere che se una gallina e mezza in un giorno e mezzo produce un uovo e mezzo, nove galline in nove giorni ne producono cinquantaquattro? E ha qualche importanza per la nonviolenza? Sì, ce l’ha!
La maggior parte delle persone non sa risolvere un problema come questo. Provare per credere. Proponetelo, se volete, a qualche amico o amica, e vedrete: la maggior parte della gente si confonde fin dalle prime riflessioni, e non sa più come venirne fuori. E’ grave? No, non è grave. Si può vivere benissimo senza sapere quante uova fanno nove galline in nove giorni. Però questo vivere benissimo dovrebbe includere l’umile coscienza che ci sono molti problemi che non sappiamo come risolvere. Perfino un problema a base di galline, uova e giorni può metterci in imbarazzo. La coscienza della vastità della nostra ignoranza potrebbe, almeno, indurci in uno stato d’animo di prudenza socratica. Sapendo di non sapere e di non capire molte cose, potremmo essere indotti a rendere più prudenti i nostri giudizi e le nostre proposte. Invece, la propaganda politica ci induce a comportarci in modo completamente diverso. Ad esempio, alcuni personaggi hanno un particolare interesse ad impossessarsi dell’Iraq, e per mesi la propaganda di guerra cerca di costringere tutti a pensare che bisogna risolvere un problema Iraq, e a prendere posizione.
Spero non si sfuggito al lettore il fatto che il problema Iraq è infinitamente più complesso di quello delle uova e delle galline. Da cui il ridicolo… In un modo di persone che si inciampano davanti ad un banale problema di galline e uova, tutti si sentono in dovere di spiegare cosa bisognerebbe fare con l’Iraq. Il dubbio che le soluzioni proposte siano, in primo luogo, completamente idiote non li tocca. Eppure tutti si sentono in dovere di dire qualcosa, di proporre… Ancora una volta gli occidentali mostrano la loro infinita arroganza, la loro sterminata presunzione, che servono a coprire la loro ignoranza. E’ come con le partite della nazionale di calcio: a parole tutti sanno perché e dove l’allenatore ha sbagliato. Ma l’Iraq non è una partita di calcio. L’Iraq è una delle tante tragedie occidentali.

Vincenzo Zamboni
Verona

Voglio abbonarmi, ma non ho soldi: come faccio?

Caro Direttore,
da decenni sono abbonato alla sua rivista. Dovrei rinnovare per il 2003, ma non ne sono in grado, finanziariamente, perché ormai negli ultimi mesi fuoriesco, e abbondantemente, dalla somma che ricevo come stipendio da professore. Il motivo è che sono molto impegnato e collaborativo con il sociale: marocchini, albanesi, moldavi e famiglie (ospitalità, bollette, rateazioni pesanti lasciatemi in eredità presso alcune banche in seguito a mie firme da garante). Ma poiché sono molto affezionato ad Azione nonviolenta e nel 2004, andando in pensione, avrò il TFR, oso proporre, se è possibile, di continuare a ritenermi abbonato, e di ricevere per tutto il 2003 la sua rivista, e di accettare che manderò cumulativamente le somme per il 2003 e 2004 a inizio del prossimo anno. Il fatto è che da voi ricevo molto!

Lettera firmata
Padova

Caro amico,
ovviamente la risposta è positiva. Grazie per la fiducia e la testimonianza.

Botta e riposta fra un socio perplesso e il Touring Club

Spettabile Redazione Touring Club, Milano.
Alcune associazioni pacifiste hanno promosso la campagna “per la pace / stop ESSO war”. La ESSO infatti rifornisce il carburante per la guerra in Iraq. Come socio ventennale del Touring chiedo che dal prossimo 2004 non vi sia alcun accordo con questa multinazionale. Difendere il paesaggio è segno di civiltà, la guerra in Iraq distruggerà la civiltà plurisecolare di quel paese e, con maggior orrore provocherà la morte di persone indifese.
Credo che su questo punto si dovrà aprire un dialogo con tutti i soci.

Distinti saluti
Avvocato Maurizio Corticelli
Verona

Risponde il Touring Club

Egregio Avvocato Corticelli,
naturalmente seguiamo attentamente gli atteggiamenti dell’amministrazione USA circa la politica ambientale e gli accordi di Kyoto.
Da associazione attenta e sensibile alla difesa dell’ambiente, del resto e per fortuna come tutti gli europei, guardiamo con preoccupazione a questo atteggiamento.
Lei ci invita a rifiutare il servizio e la convenzione con la ESSO e noi rispettiamo il suo pensiero; per il momento tuttavia non riteniamo di rinunciare a un accordo che procura vantaggi interessanti a numerosissimi soci.
Siamo tradizionalmente moderati e prudenti, ma siamo sempre stati coerenti con il nostro dettato istituzionale e non mancheremo, se necessario, di prendere posizioni conseguenti.
Il più sentito grazie per il suo scritto.
Con viva cordialità
Claudia Greco
Servizio Relazioni Soci

Comprendiamo che il Touring Club voglia avere una politica moderata a prudente. Ma pensiamo che la moderazione e la prudenza, davanti alla guerra, dovrebbero lasciar posto alla coerenza. La difesa della vita e dell’ambiente sono valori più importanti di alcuni “vantaggi interessanti” per i soci. Non le pare, signora Greco?

Di Fabio