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Azione nonviolenta – Giugno 2003

DiFabio

Feb 4, 2003

Azione nonviolenta giugno 2003

– Gandhi o la nonviolenza del forte, di Remo de Ciocchis
– Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune: bellezza, di Christoph Baker
– Invito a Gubbio in cammino per la nonviolenza
– I ponti uniscono poi in guerra si abbattono, di Andrea Rossigni
– In ricordo di Enzo Melegari, di Alberto Trevisan
– Viaggio sui luoghi degli obiettori al nazismo

Rubriche

– Alternative
– Economia
– L’azione
– Educazione
– Cinema
– Musica
– Storia
– Lilliput
– Libri
– Lettere

Gandhi o la nonviolenza interiore del forte

Quando si pensa a Gandhi viene subito in mente il personaggio politico che si è battuto per l’indipendenza dell’India usando il metodo della nonviolenza. Si ha quindi di lui l’idea di una persona che ha voluto e saputo incidere nella storia della sua patria utilizzando tecniche nonviolente vincenti di resistenza al male politico, economico e sociale. Più precisamente egli ha lottato per rimuoverre l’ingiustizia e per promuovere la riconciliazione e la pace con le armi dell’amore e della verità.
Questa immagine di Gandhi, come nonviolento politico, è nota a tutti, ma coglie solo esteriormente l’importanza dell’uomo, perché c’è una realtà interiore di lui, non ben conosciuta, e che costituisce, a mio avviso, la vera identità del Mahatma. Ci si sintonizza certamente meglio con l’anima di Gandhi se lo si considera un santo che si interessò di politica, un saggio orientale a cui stava a cuore il bene degli uomini.
In verità per conoscere veramente Gandhi bisogna sondare il suo intimo e comprendere le lotte che ha sostenuto per liberarsi dalle sue debolezze. Un suo attento biografo, Clemente Fusero, affermava: «Cento volte più a cuore della libertà politica dell’India, gli stava a cuore la libertà interiore dell’uomo, intesa come affrancamento dall’odio, dalla paura, dalla cupidigia, da tutte le passioni che riducono in servitù lo spirito degli individui e che portano a sanguinose esplosioni la vita dei popoli». Gandhi soleva anche dire: «Debbo confessare che l’autopurificazione mi sta cento volte più a cuore della cosiddetta attività politica».
Per comprendere la spiritualità di Gandhi bisogna partire dal fatto che la nonviolenza del forte era la sua verità. Si tratta di trasformare la volontà di bene in vita concreta. Secondo lui «ogni verità astratta è priva di valore, se non si incarna in uomini che la rappresentino». Ecco perché affermava: «Io non ho messaggi da darvi, la mia vita è il mio messaggio». Egli era solito anche distinguere la nonviolenza del forte da quella del debole e del codardo. Queste due ultime erano da rigettare perché a caratterizzare il nonviolento devono essere la fortezza e l’eroismo.
E’ bene precisare che la nonviolenza del forte per Gandhi aveva due fronti: quello interiore e quello esteriore. Nel primo il nonviolento doveva estinguere in se stesso il male interiore che si manifestava nei peccati di gola, di lussuria, di ira, di avidità, di potere e di vanità. Nel secondo il nonviolento doveva essere capace di combattere il male presente nella società lottando con tutti i mezzi possibili, purché privi di violenza fisica. Per Gandhi la resistenza al male interiore era propedeutica rispetto alla resistenza al male sociale.
Ma come egli è riuscito a sprigionare tanta energia pur essendo fisicamente una persona piccola ed esile? Come è stato possibile tanto attivismo nella sua vita?
Si potrebbe dire che Dio lo aveva dotato di resistenze non comuni. Ma non è proprio così. In un capitolo della sua autobiografia parla a lungo della sua timidezza e rileva anche in altre occasioni le sue debolezze e i suoi insuccessi. Ci troviamo quindi di fronte ad una persona che non nasconde i suoi smarrimenti e la sua fragilità. Non bisogna poi dimenticare che Gandhi ha sempre affermato di non essere una persona eccezionale e diversa dagli altri e che chiunque poteva percorrere, come lui, la strada della verità.
Si può certamente dire che la forza spirituale acquisita da Gandhi è stata il risultato di un cambiamento interiore e di un rigoroso riordine della sua vita personale. Si è trattata di una prodigiosa ascesi individuale che ha trasformato l’impacciato giovane indù che si era recato a studiare giurisprudenza in Inghilterra nella ‘Grande Anima’ che ha sconfitto l’Impero Britannico. Ma i gradini di questa ascesi furono saliti con difficoltà e un po’ alla volta, e forse non tutti se è vero che verso la fine della sua vita Gandhi ebbe a dire rivolgendosi a se stesso: «Che diritto ha di vivere chi non è ancora riuscito a dominare sufficientemente l’ira e l’attaccamento?».
Quali erano dunque gli aspetti salienti di questa ‘nonviolenza del forte’ sul fronte interiore a cui Gandhi diede fondamentale importanza? Egli ha sempre insistito sulla necessità dell’autocontrollo, che permetteva di soggiogare con la forza dello spirito le debolezze della natura umana, fonti dell’ incapacità di agire. Tra gli aspetti fondamentali della nonviolenza del forte sono anzitutto da sottolineare il digiuno, il silenzio settimanale e il brahmacharya. Col primo controllava il palato, col secondo la parola e l’ira e col terzo il sesso. Il controllo di questi tre ‘demoni’ gli permise un rinvigorimento spirituale e fisico, nonché una maggiore certezza nelle sue capacità. Si sentì così in grado di affrontare con vigore e pace interiori le prove della lotta nonviolenta per promuovere il bene politico e sociale.
La pratica del digiuno l’aveva imparata da sua madre Putlibai, una donna straordinaria, di cui Gandhi parlava sempre con commozione: «Era profondamente religiosa…Faceva i voti più severi e li osservava senza deflettere. Nemmeno l’infermità era una scusa per mitigarli». Quando nel 1888 andò in Inghilterra a studiare giurisprudenza, tra l’altro promise, per seguire la tradizione indù e i consigli di sua madre, di non mangiare carne. Gandhi non solo si attenne al voto ma frequentò il circolo vegetariano londinese, per il cui giornale scrisse anche degli articoli. Fu soprattutto nel Sud-Africa che la sua pratica del digiuno cominciò a configurarsi e a consolidarsi in maniera razionale e definitiva. Il digiuno venne da Gandhi prima di tutto utilizzato come mezzo per eliminare il superfluo da tutti quegli alimenti che usava per l’alimentazione. Era questo un importante esperimento per aderire alla verità, cioè al bene. Solo successivamente Gandhi comincerà ad adoperare il digiuno come mezzo di sacrificio personale per emendare gli errori degli altri. Il primo digiuno di questo tipo ebbe luogo in Sud Africa nel 1913, nella colonia di Phoenix, per alcune colpe commesse da fanciulli di cui era educatore. Il quattordicesimo e ultimo digiuno avvenne a Delhi nel gennaio del 1948 per impedire le violenze tra indù e mussulmani. In particolare bisogna ricordare il successo del digiuno a morte, intrapreso il 20 settembre 1932, affinché i templi indiani venissero aperti agli Intoccabili, rompendo una barriera millenaria che, come ebbe a dire J.Monchanin, fu «una vittoria dello spirito che non ha mai avuto l’uguale, certamente in tutta la storia dell’India e forse in tutta la storia umana».
Col silenzio settimanale Gandhi tendeva invece all’autocontrollo della parola e dell’ira. Egli aveva scelto il lunedì come giorno durante il quale non comunicava con la parola, ma con domande e risposte scritte su un taccuino o in qualche altro modo. Pierre Meile, autore dello scritto intitolato “Gandhi ou la sagesse déchaînée” (Gandhi o la saggezza scatenata), pubblicato come introduzione all’autobiografia in francese del Mahatma, apparsa nel 1964, ha affermato che questo silenzio settimanale non poteva essere turbato o violato nemmeno dalla presenza di un re. A questo proposito è bene ricordare che quando Gandhi andò in Svizzera e fu ricevuto dal suo biografo Romain Roland si attenne, anche in quel momento, scrupolosamente al suo silenzio del lunedi, limitandosi ad ascoltare e rispondendo dettagliatamente il giorno successivo.
Il voto di brahmacharya, cioè di rinuncia alla vita sessuale, avvenne sempre nel Sud Africa nel 1906 a Phoenix. Esso fu concordato con la moglie Kasturbai. Gandhi ha dedicato due capitoli dell’ autobiografia al ricordo del suo voto di brahmacharya. Nel primo di essi afferma che per questa sua decisione «il fattore predominante era stata l’influenza di Raychandbhai», il suo saggio amico e poeta di Bombay che gli aveva fatto comprendere come la fedeltà più grande ad una donna era quella che era priva di concupiscenza. Il controllo del palato e del pensiero contribuirono ad indurlo decisamente al controllo della sessualità.
Si può certamente sostenere che nell’ambito del fronte interiore della nonviolenza del forte Gandhi faceva rientrare anche la preghiera, che gli era sempre stata di sostegno nei momenti più bui della sua esistenza. Una volta ebbe a dire: « La preghiera mi ha salvato la vita». Un’altra volta affermò: «Come il cibo è indispensabile al corpo, la preghiera è indispensabile all’anima». Credeva sia nella preghiera individuale che sociale. Infatti la sua uccisione si verificò mentre andava in pubblico a pregare.
In tutti i suoi atteggiamenti Gandhi fondamentalmente era proteso al perseguimento della Moksha, cioè della redenzione, della salvezza, o meglio della liberazione dal vincolo terreno. Questo cammino era continuamente presente in lui. Infatti egli afferma nella significativa introduzione alla sua autobiografia: « Ciò che voglio raggiungere e l’auto-percezione, trovarmi faccia a faccia con Dio, arrivare alla Moksha. Io vivo, agisco e sono a questo scopo, tutto ciò che dico e che scrivo, tutti i miei sforzi in campo politico hanno questo fine ultimo». Poi a conforto di queste parole, che rivelano il suo profondo sentimento religioso, aggiunge: «Colui che cerca la verità dovrebbe essere meno che polvere, la gente calpesta la polvere, ma l’umiltà di colui che cerca la verità dovrebbe essere tale da indurlo a lasciarsi schiacciare anche dalla polvere. Allora e non prima riuscirà a scorgere la verità».
Anche questa insistenza sull’umiltà fu cruciale per la sua fortificazione perché lo indusse a distaccarsi da qualsiasi richiamo della vanità o del potere.
Liberare la società dall’iniquità rientrava in questa visione religiosa della vita. E’ significativo che il Mahatma nel 1906 iniziò il satyagraha (ovvero l’uso della forza della verità nella lotta per la giustizia) appena dopo il voto di brahmacharya.
Gandhi aveva combattuto a lungo e spesso vinto sul fronte interiore la violenza prodotta dagli errori che commetteva. Questa ardua lotta lo liberò da molte passioni e lo rafforzò. Acquisendo la nonviolenza interiore del forte gli fu più facile passare sul fronte esteriore. E da allora egli fu capace di affrontare con coraggio le più difficili ‘esperienze di verità’ politiche e sociali, alle quali si interessò il mondo intero, cioè prima quelle a favore della tolleranza razziale nel Sud Africa e poi quelle che portarono all’indipendenza dell’India.

Remo de Ciocchis

Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 9 luglio 2003
La parola del mese: “Bellezza”

di Christoph Baker*

“Christoph, scrivi qualcosa sulla bellezza!”. L’invito è allettante. Dopo tutto da un po’ di tempo viviamo in una marea di brutture. Dal marciapiede sotto casa al fiume che scorre lì vicino, dai cieli grigi di smog alle immagini di guerra che passano alla tivù: è il trionfo della spazzatura reale e morale.
Si ha un bel dire che non bisogna mollare, che è importante resistere, che passeranno anche questi tempi bui. Ma se non si ha qualche spiaggia incontaminata, qualche isola felice su cui rifugiarsi, allora anche la resistenza è solo un lento suicidio. E non si può più appellarsi solo alla forza della ragione per allontanare le nuvole nere che si addensano all’orizzonte dei nostri sogni.
Abbiamo tutti un grande bisogno di essere ancora stupiti, meravigliati, sconvolti dalla vita, come quando da bambini ci catturava il volo delle farfalle, il vento che scompigliava l’erba alta nei prati incolti, il sole che tramontava in mezzo ai palazzi come l’occhio di un dio allegro che ci salutava e ci diceva di stare tranquilli, che domani sarebbe stato un altro giorno.
Ma poi i giorni sono diventati anni e il lento scorrere del tempo ci ha portato nelle paludi dell’abitudine, della routine. Di quel quotidiano così riempito di programmi, di cose da fare, di appuntamenti e scadenze, da farci smarrire il giusto sentiero, dimenticando di alzare la testa ogni tanto per vedere dov’eravamo diretti. Finché un giorno ci ha colto la desolazione delle cose intorno a noi e la dèbacle dei nostri affetti.
Allora ci aggrappiamo alle poche cose rimaste a portata di mano, quasi sempre avvolte nei tessuti soffici della memoria , laddove il tempo ha fatto il suo lavoro di pulizia, lasciando che gli angoli si smussino, che i dettagli stonati sfumino e, guarda caso, che rimanga un quadro di colori ed emozioni coinvolgenti.
Non c’è niente da fare: l’essere umano ha bisogno della bellezza nella sua concezione più completa. Come rapporto con la propria vita, come richiamo alle cose essenziali, come sentimento di appartenenza a qualcosa più grande di noi.
Certo, l’essere umano tende naturalmente a fare riferimento alle impronte della propria specie. Si riconosce facilmente nell’opera dei suoi simili, che essa sia architettonica, artistica o gastronomica. Non nascondo un mio senso di profonda appartenenza alla specie umana, quando si tratta di condividere il frutto della creatività e del genio dell’uomo. Una ricetta sublime nella sua semplicità (che so’? una spigola all’acqua pazza), un quadro di Rouault, la linea eterea di una Bugatti 57C Atlante, o ancora una bottiglia di Château de Beaucastel 1959… Per non parlare del tesoro che rappresentano la musica e le canzoni. Sono tutte cose, queste, che mi riempiono il cuore, oltre ad appagare i miei sensi.
Eppure, ho avuto la fortuna di scoprire che ci sono cose extra umane che possono altrettanto scombussolarmi, e farmi perdere le mie sicurezze. Sarà forse dovuta al fatto di essere cresciuto in campagna, se oggi sento un legame così forte con la natura. Più che la reazione alla distruzione dell’ambiente che io ed i miei simili andiamo compiendo da sempre (e oggi in modo sempre più micidiale), è la sconvolgente bellezza di Gaia che mi prende per mano. Spesso, è stata lei a farmi uscire dalla retta via. Non ho mai saputo ignorare il richiamo ancestrale della foresta, della montagna o (e soprattutto) del mare aperto.
Lungo il cammino della mia vita, la natura ha saputo offrirmi stupore, meraviglia, sgomento e paura. E anche i paesaggi più domestici, come le colline del Senese, toccano direttamente il cuore, senza cadere nelle fogne della ragione. Quindi, a maggiore ragione (!) i dirupi vertiginosi delle Alpi, la maestà oscura del Schwarzwald, o il sortilegio dell’Atlantico a Sud della Groenlandia. Vi sono, stampati nella memoria, immagini forti di tempeste oceaniche, nebbie che viaggiano alla velocità del giaguaro, venti essenziali e crudeli, soli infuocati e senza misericordia.
Vi è nella gratuità di queste cose la prima lezione di comunione con la vita; prima di quando, crescendo, cominciamo ad accettare tutte le codificazioni che ci inculcano a scuola. Infatti bisognerebbe sempre tenere ben presente il danno inflitto a Bach, Rembrandt, Shakespeare o Botticelli da certi riduzionisti della didattica! E poi gioire del fatto che non sono riusciti ad ammazzarli completamente….
La bellezza rimane fonte primordiale di creatività. Sì, certo, anche l’obbrobrio, la bruttura, la nullità, il grigiore possono scatenare in noi un senso di ribellione liberatrice. Ma rimane sempre l’estetica la vera dea dei nostri sentimenti, quella che guida la voce del cuore, delle viscere, dell’anima verso un domani danzante e cantante, che ci parla di armonia, di pace, di condivisione dell’invisibile; finché, trasportati dalle emozioni, troviamo anche noi qualche piccolo guizzo, qualche ispirazione, qualche pennellata improvvisa che porta un po’ di sole nelle nostre gabbie abituali.
Ecco perché è così duro andare avanti in mezzo al brutto, sopravivere senza il richiamo della bellezza. Ci viene a mancare proprio il respiro vero nelle nostre vene. Certo, possiamo far finta; possiamo scappare nei paradisi artificiali, scambiando lo schiamazzo per musica e i neon per aurore boreali. Resterà però come un pugno nello stomaco per non aver più saputo trovare la via d’uscita da tanto squallore.
Da oggi dobbiamo aggiungere alla battaglia per i diritti umani, il diritto alla bellezza. Dobbiamo rivendicare una valutazione di impatto estetico su tutte le azioni e le attività dell’uomo. Dobbiamo introdurre nei piani regolatori e nei progetti di sviluppo l’occhio dell’artista, del poeta e del contemplatore.
Abbiamo l’urgenza di non deturpare più l’ambiente che ci accoglie. Abbiamo il dovere di smantellare ciò che ha reso un luogo brutto. Così capiremo l’indissolubile legame: l’estetica è la vera ricompensa dell’etica.

* Vive a Roma ed è autore di “Ozio, lentezza e nostalgia – decalogo mediterraneo per una vita più conviviale”, Emi, Bologna, 2001.

La bellezza di M. K. Gandhi
La bellezza non risiede nell’apparenza, ma soltanto nella verità.
Una volta scoperta la bellezza interiore, quella esteriore risulta immensamente povera.
Il cielo trapunto di stelle…Il firmamento morale del cuore umano ornato con il medesimo splendore…Quale spettacolo più straordinario vorremmo vedere?

La bellezza di M. L. King
Anche noi dobbiamo riconoscere il bisogno di pungoli nonviolenti per creare nella società quel genere di tensione che aiuterà gli uomini ad elevarsi dagli oscuri abissi del pregiudizio alle maestose altezze della comprensione e della fratellanza.

Sia che la chiamiamo processo inconscio, impersonale Brahmam, o Essere personale di impareggiabile potenza e infinito amore, c’è una forza creativa in questo universo che lavora per portare gli aspetti sconnessi della realtà in un tutto armonioso.

Sia lecito a noi tutti sperare che le oscure nubi del pregiudizio razziale si diradino presto e la spessa nebbia dell’incomprensione si sollevi dalle nostre comunità impregnate di paura, e che un domani non troppo lontano le raggianti stelle dell’amore e della fratellanza brillino sul nostro grande Paese in tutta la loro scintillante bellezza.

La bellezza di Aldo Capitini

Certe volte, anche a Perugia, il cielo è così ampio che non ci si sente più geograficamente in alto, ma in una posizione di umiltà ma non oppressa e quasi di familiare devozione all’infinito.

La nonviolenza non è mai perfetta, e non finisce mai, appunto perché è una cosa dell’anima; è un valore, è come la musica, la poesia, e si può sempre fare nuova musica, nuova poesia; e la vecchia musica, la vecchia poesia, possono essere vissute più profondamente.

L’atto del Vero, che tende a costituire conoscenze di ciò che sono gli eventi e le cose, ha accanto a sé, ma più vicino ad una realtà liberata, l’atto del Bello, che tende a formare immagini di bellezza, nelle quali noi vediamo come dei preannunci di una realtà liberata.

La bellezza di Francesco d’Assisi

Laudato sie, mì Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole,
lo qual è iorno, et allumini noi per lui.
Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore:
de Te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mì Signore, per sora Luna e le stelle:
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.

Per approfondire

Bellezza

Le ragioni del bello: il pensiero estetico.

Aristotele, La poetica, Milano, BUR Rizzoli, 1987.
E. de Arteaga, La bellezza ideale, Palermo, Aesthetica, 1993.
R. Assunto, La bellezza come assoluto, Palermo, Novecento, s. d.
R. Bodei, Le forme del bello, Bologna, Il Mulino, 1995.
U. Eco, La definizione dell’arte, 2a ed., Milano, Mursia, 1990.
H. G. Gadamer, L’attualità del bello. Saggi di estetica ermeneutica, Genova, Marietti, 1986.
J. HILLMAN, Politica della bellezza, Bergamo, Moretti e Vitali, 1999.
W. Hogarth, L’analisi della bellezza, Palermo, Aesthetica, 2001.
F. Hutcheson, Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e virtù, Milano, Baldini e Castoldi, 2000.
I. Kant, Critica del giudizio, Bari, Laterza, (varie edizioni).
Platone, Filebo, Simposio, Fedro in Id., Opere complete, vol. 3°, Bari, BUL Laterza, 1993.
F. Rella (a cura di), Bellezza e verità, Milano, Feltrinelli, 1990.
F. Rella, L’enigma della bellezza, Milano, Feltrinelli, 1991.
K. Rosenkranz, Estetica del brutto, Palermo, Aesthetica, 1994.
F. Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’uomo. Callia o della bellezza, Roma, Armando, 2002.
F. D. Schleiermacher, Estetica, Palermo, Aesthetica, 1988.
G. Santayana, Il senso della bellezza, Palermo, Aesthetica, 1997.
S. Zecchi, La bellezza, Torino, Bollati-Boringhieri, 1990.
S. Zecchi, Capire l’arte, Milano, Mondadori, 2000.

Teologia della bellezza.

Aa. Vv., Estetica tra arte e mistica, Bologna, ESD, 2001.
Aa. Vv., La bellezza, Bologna, EDB, 2002.
Agostino, La bellezza, Roma, Città Nuova, 1998.
Agostino, Ordine, musica, bellezza, Milano, Rusconi, 1992.
O. Clément, Solchi di luce. La fede e la bellezza, Roma, Lipa, 2001.
B. Forte, La porta della bellezza. Per un’estetica teologica, Brescia, Morcelliana, 1999.
F. Gualco, Bellezza e mistero. La proposta estetico-teologica di H. U. von Balthasar, Genova, Edicolors, 2000.
C. M. Martini, La bellezza che salva. Discorsi sull’arte, Milano, Ancora, 2002.
P. Mondini, Armonia dell’universo. Dalla scienza a Dio, Milano, Massimo, 1992.
J. Navone, Verso una teologia della bellezza, San Paolo Edizioni, Milano, 1998.
Plotino, Dal bello al divino, a cura di G. Faggin, Vicenza, La Locusta, 1987.
N. Valentini (a cura di), Cristianesimo e bellezza. Tra Oriente e Occidente, Edizioni Paoline, Milano, 2002.
C. Zhu – D. Fernandez, La bellezza, Sotto il Monte (BG), Servitium, 2000.

L’emozione estetica.

Aa. Vv., L’ascolto poetico della conoscenza, Milano, Franco Angeli, 1996.
Aa. Vv., Paesaggi della mente. Una psicanalisi per l’estetica, Milano, Franco Angeli, 1997.
A. Argenton (a cura di), L’emozione estetica, Padova, Il Poligrafo 1993
J. E. Berendt, Il terzo orecchio. Guida all’ascolto dell’armonia universale, Como, Red/Studio Redazionale, 1999.
B. Cerchio, Il suono filosofale: musica e alchimia, Lucca, LIM, 1993.
M. Mila, L’esperienza musicale e l’estetica, Torino, Einaudi, 1965.
G. Piana, Filosofia della musica, Milano, Guerini e Associati, 1991.
S. Zecchi (a cura di), Estetica 1996. Arte e vita, Bologna, Il Mulino, 1997.

La bellezza dell’universo.

Aa.Vv., La bellezza dell’universo, Padova, Il Poligrafo, 1996.
N. Angier, L’immaginazione della natura, Milano, Longanesi, 1997.
K. C. Cole, L’universo e la tazza da tè. Verità e bellezza della matematica, Milano, Longanesi, 1999.
R. Dawkins, L’arcobaleno della vita. La scienza di fronte alla bellezza dell’universo, Milano, Mondadori, 2002.
P. Giovetti, I luoghi di forza. Guida alle località che emanano energia, pace, armonia, Roma, Edizioni Mediterranee, 2002.
J. E. Lovelock, Nuove idee sull’ecologia, Torino, Bollati-Boringhieri, 1981.
M. Livio, La bellezza imperfetta del cosmo, Torino, UTET Libreria, 2003.
J. W. McAllister, Bellezza e rivoluzione nella scienza, Milano, McGraw-Hill, 1998.
R. Osserman, Poesia dell’universo. L’esplorazione matematica del cosmo, Milano, Longanesi, 1996.
E. Tiezzi, La bellezza e la scienza, Milano, R. Cortina, 1998.
T. Trinh Xuan, Il caos e l’armonia. Bellezza e asimmetrie del mondo fisico, Bari, Dedalo, 2000.
T. Volk, Il corpo di Gaia, Torino, UTET libreria, 2002.
H. O. Peitgen – P. H. Richter, La bellezza dei frattali, Torino, Bollati-Boringhieri, 1987.
E. O. Wilson, L’armonia meravigliosa, Milano, Mondadori, 1999.

L’Oriente della bellezza.

G. Bigliani, Pittura Zen, Viterbo, Nuovi Equilibri, 1982.
G. Herrigel, Lo Zen e l’arte di disporre i fiori, Milano, SE -Studio Editoriale, 1986.
S. Yanagi, Un’arte senza nome. La visione buddhista della bellezza, Sotto il Monte (BG), Servitium, 1997.
S. Zecchi (a cura di), Estetica 1993. Oriente e occidente, Bologna, Il Mulino, 1993.

( a cura di Matteo Soccio)

Invito a Gubbio: In cammino per la nonviolenza

Si conclude a Gubbio, il 6 e 7 settembre prossimi, con un convegno ed un momento di festa, il percorso proposto dal Movimento Nonviolento fin dallo scorso anno. Un prologo di grande interesse è costituito dalla camminata in due giorni, 4 e 5 settembre, lungo il Sentiero francescano della pace Assisi – Gubbio.
E’ un percorso che ha avuto un appuntamento ogni mese, con la riflessione su dieci parole ispirate al pensiero della nonviolenza. Ci hanno aiutato scritti di amiche ed amici, che hanno collaborato a questo progetto, e frasi di Francesco, Gandhi, Capitini, Luther King.
4 e 5 settembre: sentiero francescano della pace Assisi – Gubbio
Il sentiero, molto bello e ben tenuto, di grande interesse naturalistico e storico, ripropone l’antico tracciato più volte percorso da Francesco. In particolare ricorda quando si recò a Gubbio, nell’inverno 1206-1207, dopo aver riconsegnato al padre tutti i propri beni, vestiti compresi. La camminata, nella nostra proposta, impegna due giorni. Il tratto Assissi – Valfabbrica si percorre comodamente in cinque ore. Prevede perciò una partenza in tarda mattinata da Assisi, con arrivo a Valfabbrica nel pomeriggio. Un incontro sul significato dell’iniziativa, aperto alla popolazione, è previsto nella serata. Si pernotta a Valfabbrica e si riparte il mattino successivo per Gubbio.
La seconda giornata, pur non presentando l’escursione alcuna difficoltà, è decisamente più impegnativa. Si tratta di circa dieci ore di cammino. Si riparte perciò di buon mattino per giungere prima di cena alla chiesa della Vittorina, primo luogo di insediamento dei francescani a Gubbio. Qui ha termine il sentiero.
Sia a Valfabbrica che a Gubbio sarà possibile pernottare, con sacco a pelo, in strutture messe a disposizione dalle Amministrazioni locali. Chi abbisognasse di una sistemazione meno “francescana” può prenotare presso differenti ed accoglienti strutture presenti nei due comuni. Un’indicazione delle possibilità alternative sarà disponibile sul sito di Azione Nonviolenta.
I partecipanti alla camminata avranno a disposizione un furgone di appoggio per il trasporto di zaini e sacchi a pelo. Sarà loro assicurato, lungo il percorso, il rifornimento di acqua e gli spuntini di mezzogiorno del 4 e 5 settembre, nonchè la colazione del 5 settembre. E’ richiesto perciò di contribuire alle spese organizzative e soprattutto di far presente sollecitamente la volontà di partecipare.
Gli interessati dovranno preventivamente iscriversi compilando il modulo pubblicato su questo stesso numero e versando una cifra di acconto (INFO: sede nazionale del Movimento Nonviolento, via Spagna 8 Verona, tel.0458009803, fax 0458009212, e mail < azionenonviolenta@sis.it  >). Saranno dettagliatamente informati su ogni aspetto della camminata, dei suoi contenuti e momenti di incontro. Affinchè l’iniziativa sia per i partecipanti la più significativa possibile è infatti indispensabile conoscerne preventivamente il numero, che non potrà comunque essere illimitato.
6 e 7 settembre, un convegno a Gubbio
Convegno: Al posto della guerra. Un’Europa disarmata.
Ci sembra particolarmente importante proporre un appuntamento, di riflessione e discussione, a tutti gli amici della nonviolenza sull’alternativa alla guerra, al terrorismo, al dominio, per affrontare i conflitti che quotidianamente ci coinvolgono. Lo facciamo a Gubbio, luogo della straordinaria leggenda francescana dell’incontro con il lupo e della nonviolenta trasformazione del conflitto tra la città e la belva che la terrorizza. Lo facciamo a Gubbio tanto più volentieri, per l’accoglienza che l’Amministrazione comunale ha mostrato verso la nostra proposta. Ne agevola l’effettuazione con la messa a disposizione delle migliori strutture.
Il Convegno, dopo il benvenuto degli sbandieratori ai convenuti a mezzogiorno in Piazzza grande, si apre nel pomeriggio di sabato 6 e si conclude nella mattinata di domenica 7. Ci è parso utile, particolarmente in questo momento, portare l’attenzione sul ruolo che, come europei, possiamo avere nel costruire una credibile alternativa alla guerra. Ci interessa un confronto con le realtà più impegnate a far sì che il motto “Mai più eserciti e guerre”, al quale restiamo affezionati, non resti una pura aspirazione, ma si traduca in concrete iniziative. Per questo abbiamo richiesto il contributo di donne e uomini che sappiamo impegnati, nel pensiero e nell’azione, sul nostro stesso cammino. Il Centro servizi, ottimamente ristrutturato in un’antica sede, bene si presta non solo allo svolgimento del Convegno ma anche ad ospitare mostre ed attività, che lo accompagneranno. In particolare sarà allestita una mostra che ricorda i quaranta anni di Azione nonviolenta, ma spazi espositivi sono a disposizione anche di altre riviste e gruppi impegnati per la nonviolenza.
6 settembre, Teatro romano di Gubbio
Momento corale: Dieci parole della nonviolenza
La serata del 6 settembre costituisce il momento più largo e pubblico di incontro tra quanti hanno partecipato all’iniziativa fin dalla camminata, quanti sono giunti a Gubbio per il Convegno e le iniziative che lo accompagnano, quanti vogliono, con noi, festeggiare i 40 anni di Azione noviolenta. L’incontro si svolge al Teatro Romano, sempre messo a disposizione dal Comune.
La struttura stessa del Teatro, attorniato da un vasto parco, la sua collocazione con splendida vista sulla città costituiscono già un momento spettacolare. Tale aspetto non sarà assente anche nella riproposizione delle dieci parole della nonviolenza. Sarà questo il filo conduttore della serata. Ciò avverrà con lettura di testi, testimonianze, brevi commenti, canzoni, cori.
La serata. si concluderà con musica e canzoni.
E’ questa la proposta che, con familiarità e tensione (direbbe Capitini), rivolgiamo a tutti gli amici interessati alla nonviolenza:
camminare insieme, in un rapporto più vicino con noi stessi e tra noi, e con la natura,
migliorare le nostre convinzioni nel confronto più aperto delle idee,
ritrovarsi accanto in un momento di festa, che richiama la possibilità e l’impegno di andare oltre le difficoltà e gli ostacoli all’esistenza, alla libertà, allo sviluppo di tutti gli esseri.
I ponti uniscono, collegano, creano unità. Per in guerra si abbattono.

Il ponte di Mostar sta per essere ricostruito. Ma come?

Abbiamo incontrato a Parigi l’ingegner Gilles Péqueux, incaricato della definizione, coordinamento e supervisione degli studi per la ricostruzione del ponte di Mostar. Péqueux ha raccontato della fretta con cui la comunità internazionale vorrebbe ricostruire il Ponte, per segnare simbolicamente la riconciliazione della città e del Paese, mentre la popolazione non ha ancora elaborato il lutto rappresentato dalla scomparsa del monumento. Riportiamo la nostra intervista con Péqueux e la trascrizione del suo intervento alla “Giornata del Courrier des Balkans”, Parigi, 1 marzo 2003.Nel dibattito sui criteri che dovrebbero sovrintendere alla ricostruzione del ponte di Mostar, tra autenticità e modernità lei ha proposto una terza opzione: quella dello “stato dello spirito” (état de l’esprit, ndr). Ricostruire aderendo a quello che ha rappresentato il ponte di Mostar dal punto di vista dello stato dello spirito. Cosa significa?
Significa porsi nella prospettiva dello stesso stato dello spirito che ha permesso la costruzione del ponte di Mostar nel sedicesimo secolo, cioè comprendere come è stata possibile la costruzione originale. L’unico approccio che possiamo avere è quello di metterci nella posizione del costruttore originale per essere il più vicini possibile al monumento per come era in origine. Cosa significa dal punto di vista pratico, sotto il profilo architettonico e ingegneristico?
Dal punto di vista pratico penso che significhi evitare di cercare di ricopiare l’opera punto per punto. Lo stato dello spirito significa che all’epoca c’era un alto grado di empirismo e una scarsa normalizzazione (strutturazione). Gli operai lavoravano insieme sul cantiere cercando le soluzioni mentre procedevano, comunicavano, cercavano, facevano degli errori, li correggevano, e il tutto sotto la guida dell’architetto principale, Hajruddin. Niente era propriamente determinato all’inizio. Si progettava prendendo delle decisioni nel corso del procedere del cantiere, nel momento in cui si ponevano i problemi. Di fatto nella costruzione c’è una responsabilità non solo dell’architetto, Hajruddin, ma ogni operaio era una parte pregnante dell’edificio. Lei ha lavorato al progetto per 4 anni. Ora presenta le sue dimissioni in polemica con la direzione presa dal progetto i cui principali finanziatori sono Banca Mondiale e Unesco. Hanno deciso di adottare dei criteri diversi da quelli proposti da lei?
La responsabilità non è direttamente dell’Unesco o della Banca Mondiale. Il progetto è in primo luogo nelle mani della città di Mostar e delle autorità locali…Che seguono le indicazioni di Unesco e Banca Mondiale?
Esattamente, è così. Non chiamerei in causa direttamente l’Unesco, loro non mettono soldi nel progetto, non hanno una posizione forte e non possono giocare un vero ruolo di guardiani dell’etica del progetto. I soldi vengono dalla Banca Mondiale e da donatori bilaterali. L’Italia destina tre milioni di dollari al progetto, mettendo questa somma a disposizione della Banca Mondiale che lo spende secondo le proprie procedure. Il problema è che la Banca Mondiale non ha fibra, non ha a mio avviso sufficiente sensibilità storica per essere in grado di discernere e rende il progetto estremamente tecnico, è questo che le rimprovero. In ogni caso il Ponte sarà terminato alla fine del 2003?
Sì, in teoria il Ponte dovrebbe essere terminato entro la fine del 2003, secondo me piuttosto entro la primavera del 2004, se non ci sono particolari problemi. Oggi infatti nonostante ci sia già un progetto ci sono ancora ampi margini di ignoto dal punto di vista tecnico.Gli operai saranno bosniaci o arriveranno da altri Paesi?
Oggi la impresa aggiudicataria dei lavori è turca. Allo stato attuale delle cose sembra che l’insieme della manodopera sarà turco. C’è molto poca manodopera locale. Ci sono due o tre ingegneri locali ma l’essenziale della manodopera è turco. Noi deploriamo questa circostanza perché per quello che ho cercato di spiegare nel mio intervento trovo molto importante cercare di coinvolgere la manodopera locale.Se ho capito bene lei ritiene questo un buon progetto dal punto di vista tecnico ma una occasione perduta per la Bosnia dal punto di vista culturale e politico? O ritiene che la Bosnia non sia ancora pronta per la ricostruzione del Ponte di Mostar?
Sì, penso che la Bosnia non sia ancora veramente pronta. Penso che ci sarebbe voluto più tempo per integrare meglio la complessità di un progetto di tale importanza. Non siamo molto lontani dalla fine della guerra, e anche se i giornalisti spesso dicono che questa ricostruzione va per le lunghe, e si interrogano sul perché non si procede più velocemente, penso che occorra del tempo. Bisogna che il Paese si rimetta in piedi, ci sono ancora molti problemi da risolvere e io penso che sia ancora presto perchè la Bosnia si lanci in un progetto così complicato. Sfortunatamente il Paese è stato sottoposto ad una grande pressione per portare a termine il progetto velocemente. Intervista a cura di Andrea Rossini
dell’Osservatorio Balcani
www.osservatoriobalcani.org

“L’aspetto emozionante di quest’opera costruita nel Sedicesimo secolo è che è più vicina a una scultura collettiva che a un’opera d’arte classica. […]La sua bellezza risiede nel fatto che si tratta di un insieme di errori corretti con una mescolanza di procedure orientali e occidentali. Mostar è in qualche modo il luogo dove l’Oriente e l’Occidente si sono tesi la mano. […]L’opera [di ricostruzione] si potrà considerare riuscita se riusciremo a riportare la gente a lavorare con uno stato dello spirito comune. Sono abbastanza pessimista su questo punto. Ed è una delle ragioni per cui sono in disaccordo con lo stato di avanzamento del progetto.”

Pubblichiamo anche la trascrizione dell’intervento di Gilles Péqueux a cura de ”Le Courrier des Balkans”Redatto da Cyril GroennebergSono arrivato in Bosnia-Erzegovina nel 1994, con l’Unione Europea. Di formazione sono ingegnere. Nel 1994 era stata fatta la scommessa di far lavorare delle persone di Mostar Ovest e Mostar Est. Oltre ai sei o sette ponti di Mostar distrutti col vecchio Ponte (Stari Most), ho partecipato alla ricostruzione di ponti sulla Drava. Sono stato capo progetto per il ponte di Mitrovica, e ultimamente per il ponte di Novi Sad. Grazie alla mia esperienza precedente, le autorità di Mostar mi hanno affidato le sorti del progetto, che ha cominciato a definirsi a partire dall’Agosto 1998. Riguardo al tema del mio intervento, non entrerò nei dettagli tecnici della costruzione del ponte. Vorrei semplicemente cominciare col dire che così come a Dubrovnik la distruzione della città è stata vissuta come una grave aggressione, così a Mostar, la distruzione del Ponte e di buona parte della città è stata vissuta come un vero e proprio incubo. La distruzione del Ponte di Mostar è stata vissuta come talmente insopportabile che gli abitanti non hanno voluto vederla. Quando si inizia un simile progetto, bisogna immaginarsi che la gente vede il ponte così com’era. Il problema, è che il lutto della distruzione non è stato portato. Quello che è un po’ terribile in questo progetto, è il rapporto con una popolazione sopraffatta e una comunità internazionale che mette pressione per ricostruire il Ponte al fine di accelerare la riconciliazione.Il pericolo a breve termine è che si rischia di ritrovarsi con un innesto che forse non attecchirà. La prima questione che si pone, è perché si ricostruisce il Ponte di Mostar e come. Innanzi tutto perché si ricostruisce il ponte. Si fa dapprima sul sito del Ponte una archeologia della struttura, poiché non esistono più tracce di questo ponte, o quasi più. Ma immaginiamo di trasportarci nello spazio di un istante nell’anno 2500, e che si veda questo ponte costruito nel 2003, o piuttosto ricostruito identico a com’era 150-200 anni dopo la caduta dell’Impero ottomano in questa parte dell’Europa. La questione sarà sapere perché questo ponte è stato distrutto e ricostruito identico, mentre l’Impero che l’ha costruito è scomparso. Ma oggi un altro problema che si pone è che tutto il mondo deve ritrovare il “suo” Ponte con le sue qualità e i suoi difetti. Sapendo che le pietre assemblate dalla ricostruzione del Ponte non cancelleranno il lutto del ponte distrutto. Sarà in qualche modo un “nuovo Ponte vecchio” ricostruito con le stesse tecniche di costruzione. Questo ponte sarà soprattutto quello dei “Mostarini” cioè quello degli abitanti che avevano conosciuto il vecchio ponte durante la loro vita.Il progetto si situa più nell’atto stesso della ricostruzione, e nel modo di condurla: il ponte ricostruito non sarà né una copia, né una imitazione, ma uno stato dello spirito che si è cercato di ritrovare con l’archeologia della struttura. L’idea è di arrivare a ritrovare lo spirito di Hajruddin, Turco che è arrivato con due o tre altri Turchi e una trentina di persone della regione. Quello che bisogna considerare è che in Oriente c’è un modo diverso di tagliare la pietra rispetto all’Occidente (inteso fino a Venezia per l’Europa da questo punto di vista). L’aspetto emozionante di questa opera costruita nel Sedicesimo secolo è che è più vicina a una scultura collettiva che a un’opera d’arte classica. Dico scultura collettiva, perché la bellezza dell’opera risiede nel fatto che è un insieme di errori corretti con una mescolanza di procedure orientali e occidentali. Mostar è in qualche modo il luogo dove l’Oriente e l’Occidente si sono tesi la mano. E io penso che l’opera sarà riuscita se riusciremo a rimettere la gente a lavorare insieme con uno stato dello spirito comune. Personalmente, io sono abbastanza pessimista su questo punto. Ed è una delle ragioni per cui sono in disaccordo sullo stato di avanzamento del progetto.

Dibattito col pubblicoInterventi in sala:
È importante precisare che voi avete aperto delle scuole di taglio della pietra.
Gilles PEQUEUX: Sì, è vero. Per me era importante che questo atto di ricostruzione fosse una riappropriazione. Non si trattava di far venire gente dall’Italia, dalla Germania o dalla Francia per costruire il ponte e andarsene dopo la costruzione. Ho dunque aperto una scuola di taglio della pietra con due sessioni di sei mesi per una quindicina di persone. Ci hanno impressionato, perché hanno mostrato un’energia fantastica. Si è lavorato volontariamente sulla storia delle tecniche a partire da uno studio dei monumenti religiosi. Il problema è che la Bosnia-Erzegovina è un Paese che tende ad essere considerato dagli altri Paesi come un mercato internazionale dove bisogna sapersi ritagliare uno spazio. Si rimprovera spesso a questo Paese di non aver saputo utilizzare il denaro che gli era stato generosamente assegnato. Io rimprovero alla comunità internazionale di aver distribuito soldi senza essersi veramente interessata a questo Paese.Perché pensa che la ricostruzione del Ponte sia votata al fallimento?
Per me rischia di essere un insuccesso perché il Ponte di Mostar è più un progetto politico che un progetto di ricostruzione. Non si è mai ricostruito un ponte simile, non lo si è mai fatto. E il problema è che la sola cosa che interessa alla comunità internazionale è l’inaugurazione del Ponte. Ma, come quando si vuole fare un bambino ci vogliono nove mesi per concepirlo, e non sei, se no non riesce, per il Ponte è uguale. Oggi, l’impresa che dirige i lavori, cioè che costruisce il Ponte, è turca, il capomastro è croato, con un po’ di Bosniaci. Notiamo che da parte croata c’è un po’ la volontà di redimere la “colpa” di avere distrutto il Ponte. Oggi, si è un po’ dimenticata la tecnicità dell’opera.Il problema è che la popolazione è stata esclusa dalla realizzazione del progetto?
Io sono fra quelli che pensano che le grandi opere nascono dalle grandi potenze. Il Ponte di Mostar è nato dall’espansione dell’Impero ottomano. Per quanto riguarda il ruolo della popolazione, lei ha perfettamente ragione. C’è bisogno di avere un ritorno sul progetto. Le autorità di Mostar sono un po’ vittime delle pressioni della Banca Mondiale. La “comunità internazionale” si pone due questioni per lei fondamentali: 1) l’aiuto costa caro. 2) A partire da questo, come si fa a partire al più presto per non pagare troppo. La strategia è dunque: si ricostruisce il ponte nel periodo più breve e si va via. Ora, la ricostruzione è un momento storico, nel senso che è qualcosa che prende del tempo. Boris NAJMAN (Vice presidente della associazione Sarajevo): La ricostruzione non ha avuto come oggetto di considerare le vittime come le prime destinatarie della ricostruzione.
A che fase siamo della ricostruzione?
Il contratto del cantiere è stato firmato nel settembre 2002. Da parte mia, io ho concluso il mio contratto a fine febbraio 2003 con la messa in opera del progetto cominciato nell’agosto 1998. Oggi le fondamenta sono fatte, e i primi elementi dell’arcata saranno posati nel mese di marzo 2003. Il progetto dovrebbe essere portato a termine da qui alla fine dell’anno. Le autorità politiche di Mostar seguono le indicazioni date dalla Banca Mondiale.

Che ne è del progetto della scuola di tagliapietre?
Il progetto è molto avanzato a quel livello, e io penso che le autorità non si siano augurate più di tanto che io resti, forse perché hanno paura che ciò rallenti il progetto. L’ambasciatore francese ha preso bene nota che le autorità di Mostar non desiderano che la Francia continui a impegnarsi in questo progetto. È un peccato, perché Mostar avrebbe potuto essere iscritta come patrimonio mondiale dell’umanità dall’U.N.E.S.C.O., la cui sede è a Parigi. I tagliapietre di Mostar conoscono bene il lavoro della pietra e padroneggiano la loro tecnica, ma le autorità di Mostar e la Banca Mondiale hanno deciso che i tagliapietre turchi erano meno cari. Io ci tengo a ringraziare ugualmente l’ambasciatore di Francia per avermi sostenuto fino alla fine. Che cosa pensate della ricostruzione di Mostar nel suo insieme?
Voi forse sapete che l’U.N.E.S.C.O. ha pubblicato un piano di ricostruzione della “Stari grad” (città vecchia). Ora, sapete com’è la situazione economica e sociale della città di Mostar. Ci sono molte costruzioni abusive. Io penso che se resta una possibilità di preservare la città dall’anarchia della ricostruzione, questa sarebbe l’iscrizione della città al patrimonio mondiale dell’umanità da parte dell’U.N.E.S.C.O. E al livello della ricostruzione del Ponte, il ruolo dell’U.N.E.S.C.O. avrebbe dovuto essere quello di dire quali sono le scelte del progetto che fanno sì che si resti vicini allo spirito della costruzione originale, cioè in effetti l’assenza di standardizzazione. Bisogna sapere dire qualche volta: “Non so e lascio fare ai tagliapietre” dandogli fiducia, come si è fatto all’epoca della costruzione del Ponte originale. Contemporaneamente ponendosi domande più pertinenti come: “Faccio la malta con tecniche tradizionali o con tecniche moderne?”

Traduzione di Carlo Dall’Asta
In ricordo di un caro amico Enzo Melegari, obiettore

di Alberto Trevisan

Ho avuto molti compagni di viaggio nel mio lungo cammino di obiettore di coscienza ma Enzo* è stata la persona con cui ho condiviso tutto, gioie e dolori, ansie ed attese, caldo o freddo nelle varie carceri, da Peschiera del Garda a Gaeta, nei viaggi che ci hanno visto attraversare mezza Italia incatenati e in manette, travestiti con delle tute blu per non far “apparire la sacralità del grigio verde”: con lui sono uscito definitivamente libero dal carcere di Peschiera del Garda, ora definitivamente chiuso, emblema di una fortezza sconfitta dalla nonviolenza!!
Il nostro primo e fraterno incontro è avvenuto nel 1971 proprio nel carcere di Peschiera del Garda: vi ero arrivato dopo una notte passata in una cella di isolamento. Dopo l´arresto: ero molto stanco, forse anche giù di morale e quando si chiuse, alla mie spalle, la pesante porta di ferro della cella non potrò mai dimenticare mai l´abbraccio consolatorio di Enzo, già in carcere, in attesa di processo per la sua prima obiezione di coscienza.
Avevo subito capito che non avrei più trascorso vari mesi di prigione da solo, come era successo a Roma al carcere di Forte Boccea e quindi la nostra lotta per il riconoscimento dell´obiezione di coscienza e l´istituzione del servizio civile alternativo al servizio militare, sarebbe stata difficile certo ma forse più in discesa: la giusta contaminazione della nonviolenza cominciava ad interessare molti giovani.
Enzo per il raggiungimento di questi obiettivi di grande civiltà e nonviolenti, ha dato sempre, anche prima dell´obiezione, un grande contributo: non ha mai interrotto il suo impegno, con modestia ma con determinazione certosina, ricco di un notevole bagaglio intellettuale e cultuale, uomo poliedrico, uomo di fede, legato al Vangelo di cui spesso nelle lunghe giornate in carcere leggeva brani e a lungo rifletteva con grande serenità d´animo ..
Uscito dal carcere ha trascorso due anni in Uruguay per conto della sua associazione (M.L.A.L. Movimento Laici America Latina) di cui diventerà negli ultimi anni, presidente, oltre che responsabile di progetti, ottimo sociologo e esperto di buona cooperazione.
Ora riposa in un piccolo cimitero alla periferia di Verona, vicino alla sua casa in collina, dove abitava con la sua splendida famiglia, dove ritornava dopo i viaggi, dove studiava e scriveva per la sua organizzazione.
Terrò con grande cura ed emozione, rileggendolo più volte, il suo ultimo libro “La solidarietà al bivio. Gestire l´esclusione o costruire la cittadinanza” (Verona, Il Segno dei Gabrielli editori, 1996) con la sua sincera dedica scrittami nella mia copia: “E´ stata una felicità ritrovarci. Stiamo sempre con lo stesso spirito e questo è molto bello. Grazie di questo incontro. Vicenza 24 ottobre 1998.”
Dopo questo incontro fraterno ci siamo rivisti davanti al Carcere militare di Peschiera del Garda in occasione della sua definitiva chiusura, guardando le finestre a bocca di lupo della nostra cella, ricordando le manifestazioni in nostra solidarietà , i richiami dalla piazza del nostro amico barbiere Manlio durante il giorno del mercato e la improvvisa partenza per l´altro carcere, Gaeta, anch´esso chiuso e riconvertito in Sede Universitaria: ci siamo detti, con orgoglio, lui sempre con modestia, di fronte alle telecamere della RAI, con i nostri avvocati e amici che la nonviolenza, gli obiettori di coscienza avevano vinto le invalicabili fortezze austroungariche e angioine.
E´ stato a Gaeta che il nostro rapporto divenne forte, quasi insostituibile: eravamo due obiettori per nulla a disagio in mezzo a centinaia di altri detenuti con cui abbiamo condiviso tutto, dalla popolose camerate alle passeggiate nei cortili del Castello Angioino, dagli ottimi pomodori al sole di Gaeta nell´estate 1971 prima di affrontare l´ultima fredda tappa tra le mura del carcere di Peschiera del Garda prima di uscire liberi per il Natale 1972 con in tasca e nel cuore il diritto alla libertà della nostra coscienza contro gli eserciti, contro tutti gli eserciti.

Un costruttore di pace
Dopo l’importante e decisivo contributo dato alla campagna per il riconoscimento in Italia del diritto all’obiezione di coscienza (tre processi e sette mesi di carcere militare a Peschiera e Gaeta tra il 1970 e il 1972), Enzo Melegari è stato per trent’anni, fino alla sua improvvisa e prematura scomparsa il 10 luglio 2002, prevalentemente impegnato in azioni, campagne e progetti di promozione nonviolenta dello sviluppo umano. Attraverso il Mlal (Movimento Laici America Latina), l’organizzazione non governativa per la cooperazione tra i popoli, di cui è stato anche presidente, ha potuto mettere la sua professionalità di sociologo e la sua vocazione di “costruttore di pace” al servizio di tante comunità locali dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa.
Viaggio sui luoghi degli obiettori al nazismo

Martiri della resistenza al nazismo
Josef Mayr-Nusser, la Rosa Bianca,
Franz Jägerstätter

Il 2003 vede cadere il 60° anniversario di due testimonianze che nel tempo hanno assunto una rilevanza sempre maggiore. Si tratta del processo al gruppo di studenti della “Rosa bianca”, condannati a morte per aver stampato e diffuso 6 volantini contro il regime nazista all’inizio del 1943 e dell’obiezione di coscienza di un contadino austriaco dell’Alta Austria, Franz Jägerstätter, ghigliottinato il 9 agosto 1943 per aver rifiutato l’arruolamento nell’esercito hitleriano.
A loro si unisce idealmente e geograficamente la figura di Josef Mayr-Nusser, giovane impiegato di Bolzano, arruolato a forza nelle SS e, a sua volta, disobbediente allo speciale giuramento di fedeltà al Führer.
Fare memoria di queste persone non vuol dire solo onorarne la memoria e riconoscerne il coraggio, la forza, la grandezza d’animo.
A noi, dopo oltre mezzo secolo, resta l’eredità di valori vissuti al prezzo della vita e l’impegno a mantenere saldo il primato della coscienza di fronte alle subdole dittature di oggi, che appaiono sotto le forme più sgargianti ma ugualmente false, opprimenti, violente, antidemocratiche, irrispettose dell’uomo e della sua dignità.

Pellegrinaggio dal 7 al 10 agosto 2003
a Bolzano (i), München (g) e St. Radegund (a)

Programma:
gio. 7 agosto: partenza da Verona (stazione ferroviaria “Porta nuova”) alle ore 11.00; sosta a Bolzano sulla tomba di Josef Mayr-Nusser; arrivo a München.
ven. 8 agosto: visita al Museo della Rosa Bianca; incontro con Franz Josef Müller, classe 1924, presidente della Weisse Rose Stiftung (la Fondazione Rosa Bianca di Monaco), condannato a 5 anni di carcere nel secondo processo alla Rosa Bianca (aprile 1943) e con Anneliese Knoop-Graf, sorella di Willy Graf, uno dei componenti del gruppo, giustiziato nel febbraio 1943;
in serata trasferimento a Salisburgo.
sab. 9 agosto: partecipazione alle celebrazioni a St. Radegund: visita alla casa natale, incontro culturale, celebrazione al pomeriggio, marcia della pace, messa conclusiva nella cappella di St. Radegund; incontro con Franziska, moglie di Franz Jägerstätter.
dom. 10 agosto: eventuale visita a Salzburg;
rientro a Verona.

Note tecniche
I pernottamenti avvengono in Ostelli della gioventù.
E’ possibile salire sul pullman anche a Rovereto, Trento, Bolzano.
Per la marcia a St. Radegund portare scarpe comode, zainetto con maglione, ombrello o kway.
Il costo a persona è di € 235,00.
Compresi nella quota: viaggio; pernottamenti del 7, 8, 9 agosto; cene del 7, 8, 9 agosto; pranzi dell’8 e 9 agosto.
Non compresi nella quota i pranzi del 7 e del 10 agosto, l’ingresso al Museo della Rosa Bianca.
E’ necessario portare un documento di identità valido.
Informazioni e iscrizione
Per l’iscrizione: agenzia Soffi di vita, via Dordi 15, Trento, tel. 0461 980 555 (dal lun. al ven. ore 9-14.30); cell. 340 4866 750 o 347 7235 752; email: soffidivita@tiscali.it.
Le iscrizioni vanno fatte entro il 15 giugno 2003, compilando l’apposito modulo, da richiedere per email, e versando la caparra di € 50,00 sul conto corrente bancario n. 19/307053 intestato a Soffi di vita, Cassa Rurale di Trento ABI 08304 – CAB 01816, specificando la causale “Viaggio-pellegrinaggio FJ Italia”.
E’ gradita l’anticipazione via email a soffidivita@tiscali.it.
Il saldo deve essere versato entro il 15 luglio 2003.
Informazioni sul programma: Giampiero Girardi, 347 4185755,  franzitalia@infinito.it
Il viaggio-pellegrinaggio è promosso in collaborazione con
Pax Christi Italia
Via Quintale per Le Rose 131, 50029 Tavernuzze (FI)
tel. 055 2020 375; info@paxchristi.it
e con Associazione “la Rosa Bianca”

MATERIALE DISPONIBILE
Cassetta VHS
Franz Jägerstätter, un contadino contro Hitler. Vita e morte di un uomo che ha agito secondo coscienza, durata 27 min., costo 15 euro.
Richiedere a: Caritas diocesana, via Endrici 27, 38100 Trento,
tel. 0461-261166; fax 0461-266176; email: caritas@arcidiocesi.trento.it.
Volumi
Franz Jägerstätter, un contadino contro Hitler, di Erna Putz, edizione italiana a cura di Giampiero Girardi, Berti, 2000, 252 pagine, 13 euro. Rintracciabile in libreria (a Trento: Ancora, via S. Croce 35) oppure presso l’Editrice Berti, via Legnano 1, 29100 Piacenza, tel. 0523 321322; fax 0523 335866; email: libreriaberti@diocesipiacenza-bobbio.org.
Franz Jägerstätter, il testimone solitario, di Gordon Zahn, Editoria universitaria, Venezia, 2002, 200 pagine. Rintracciabile presso l’Editore Albert Gardin, c.p. 570, 30100 Venezia, tel. 041 5246242, www.editoriauniversitaria.com, euvenezia@libero.it.
Non giuro a Hitler. La testimonianza di Josef Mayr-Nusser, di Francesco Comina, prefazione di Albert Mayr, San Paolo, Alba, 2000, 116 pagine.
Sophie Scholle e la Rosa Bianca, di Paolo Ghezzi, Morcelliana, Brescia, 2003, 230 pagine.
La Rosa Bianca: un gruppo di resistenza al nazismo in nome della libertà, di Paolo Ghezzi, Paoline, 1993, 307 pagine.

ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
L’Unione Europea e la prevenzione dei conflitti violenti

Il prossimo primo luglio inizia il semestre italiano di presidenza dell’Unione europea. Si tratterà di sei mesi assai importanti: all’interno dell’Unione ci si prepara ad accogliere i nuovi membri e a redigere la nuova costituzione che ne regolerà il funzionamento in futuro. Inoltre continua a farsi sentire la lacerazione tra i paesi contrari alla guerra in Irak e quelli che invece si sono schierati con gli Stati Uniti.
Come già da qualche anno a questa parte, le organizzazioni non governative International Alert e Saferworld hanno pubblicato un rapporto in cui vengono indicate le priorità da affrontare nel corso dei semestri di presidenza greco e italiano per migliorare la capacità dell’Unione europea nella prevenzione dei conflitti violenti (in inglese sul sito www.international-alert.org). Entrambe le organizzazioni sono attive da diversi anni nel campo della trasformazione nonviolenta dei conflitti, e si occupano in particolare di analisi, individuazione delle cause strutturali, progetti di dialogo e peacebuilding.
In Italia, il Centro studi difesa civile ha deciso di promuovere la traduzione del “presidency paper”, in modo da favorire anche nel nostro paese un dibattito sulle possibilità di sviluppo delle capacità di prevenzione da parte dell’Unione europea che coinvolga sia i cittadini e la società civile che i decisori politici e i funzionari pubblici incaricati di mettere in atto l’agenda politica del nostro paese nel corso della presidenza. La traduzione sarà anche disponibile in internet sul sito www.mediazioni.org.
Nel recente passato, l’Unione Europea ha compiuto numerosi passi avanti nel campo della prevenzione, sia a livello di dichiarazioni di principio, sia nel campo dell’istituzione di concreti strumenti di politica. L’Unione ha riconosciuto il nesso tra povertà, sottosviluppo e conflitti, ed il ruolo centrale della cooperazione allo sviluppo nella prevenzione dei conflitti violenti. Si tratta ora di fare in modo che la prevenzione e il peacebuilding diventino un elemento portante della politica estera comune: in altri termini, è importante che tali obiettivi diventino parte integrante dell’azione dell’UE in tutti i settori di sua competenza, dal commercio, all’azione dell’economia privata. Inoltre, le pratiche di prevenzione dei conflitti violenti devono sempre tenere conto dei cittadini e della società civile dei paesi a cui sono dirette. Nello studio si propone di investire nella formazione del personale comunitario che si occupa del tema della prevenzione e dei temi ad esso correlati; di sviluppare più efficaci strumenti di valutazione di impatto sulla pace e sui conflitti; di aiutare i paesi partner a cooperare più efficacemente con l’UE nella progettazione di politiche di prevenzione; di creare forme di monitoraggio dell’esportazione illegale di beni destinati a finanziare conflitti armati (come si è iniziato a fare con i diamanti nel cd. “Kimberley process”).
Inoltre, occorre che l’elaborazione di risposte comuni alle crisi internazionali sia strettamente collegata a strategie di prevenzione della violenza e costruzione della pace nel medio e lungo termine. Prevenzione e peacebuilding vanno anche considerate la risposta più efficace nel lungo termine al problema del terrorismo internazionale.
Attenzione particolare è dedicata ai rapporti tra l’Unione europea e i paesi del continente africano. Lo studio di Saferworld e International Alert propone di monitorare l’impatto degli accordi commerciali tra Ue ed Africa sul livello di povertà e sui conflitti presenti in questi paesi, e di destinare risorse adeguate allo sviluppo della società civile di questi paesi nell sviluppo di strategie congiunte di gestione dei conflitti violenti.
La prefazione, curata dal Centro studi difesa civile, si occupa di ciò che l’Italia può fare per colmare il divario con gli altri paesi europei in tema di prevenzione e di peacebuilding: oltre a una nuova attenzione per le politiche di prevenzione, il testo chiede un salto di qualità nell’impegno per la soluzione di crisi e conflitti di lunga durata, seguendo l’esempio di paesi come la Norvegia e la Svizzera. Nell’ottica della prevenzione possono essere inserite la creazione in Italia di un Istituto internazionale di ricerca sui conflitti e la pace e l’istituzione di un Corpo civile di pace.
Oltre che per i contenuti, credo che la pubblicazione in italiano del “Presidency paper” sia importante per il processo che speriamo di innescare: ovvero di muovere il dibattito sul tema della pace dalle dichiarazioni di principio al concreto “che fare”, qui e ora, delle agenzie governative e della società civile. Al di là delle contingenze della politica italiana, un contributo ad una cultura del dibattito e della proposta costruttiva.

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Informatica, informazione, intrattenimento: il potere di Murdoch (e di Berlusconi)

E’ in atto ormai da alcuni anni, a livello planetario, il tentativo di raggruppare sotto un’unica egida alcuni settori di applicazione della tecnologia avanzata; editoria, informatica, radio e televisioni, case discografiche e cinematografiche, telecomunicazioni.
Il termine più usato per definire questo settore è infotainment, dalla fusione dei termini inglesi informatic/information, cioè informatica ed informazione, ed entertainment, cioé intrattenimento; motivate dall’enorme presa che tali settori hanno nella vita delle persone, sia in termini politici, sia per quanto riguarda le cifre d’affari che rappresentano, sono nate o si sono fortemente sviluppate alcune multinazionali multimediali, del tutto analoghe a quelle che si occupano dell’industria, della distribuzione, del commercio. La differenza sta nel prodotto, che qui è immateriale, ma non nell’impostazione strategica o negli obiettivi.
Rupert Murdoch, settantenne miliardario australiano, è un esempio di successo in questo mercato. Il suo gruppo è composto da varie divisioni: quella cinematografica, che fa capo alla Twenty Century Fox; quella editoriale britannica, che comprende i giornali The Times, The Sun e News Of The World, il settimanale Today e la casa editrice Harper Collins; quella editoriale statunitense, che raggruppa i quotidiani The Boston Herald e New York Post; quella editoriale australiana, che conta un centinaio di quotidiani incluso The Australian, Daily Telegraph Mirror e Herald Sun, oltre a qualche altra dozzina di testate sparse in giro per il mondo, alcune squadre sportive e gli stadi ove queste giocano; infine le attività televisive, composte da TV via etere come la British Sky Broadcasting (BSKYB) e la statunitense Fox TV, a pagamento via cavo e via satellite (Sky Global Network).
Proprio quest’ultimo settore è quello che più gli sta dando soddisfazioni: negli USA le case vengono spesso costruite già cablate e con il decoder installato, e sono 60 milioni i cittadini che pagano un canone per vedere film, sport, talk show e notizie; possedere questo strumento di diffusione diventa fondamentale per chi vuole rendersi visibile politicamente. Murdoch è ad un passo per diventare, oltre che il più grande produttore di contenuti, anche il proprietario del maggior numero di tv via cavo.
Sono note a tutti le sue spiccate tendenze politiche: grande sostenitore della Thatcher, in questi mesi di guerra nel Golfo è arrivato a far titolare i suoi quotidiani in prima pagina “Chirac verme” e ad incitare al boicottaggio dei prodotti d’oltralpe, a causa del rifiuto francese a partecipare all’alleanza contro l’Iraq, in ossequio alla sua incondizionata simpatia per il partito repubblicano statunitense.
Le amicizie dell’anziano tycoon non hanno confini: tramite il controllo della tv satellitare Star TV, che trasmettendo da Hong Kong ha soppiantato la Bbc in Cina, Murdoch ha stretto un’alleanza con la potente famiglia Deng. In India invece, sostenendo la corrente liberalizzatrice del Partito del Congresso di Sonia Gandhi, è riuscito a garantirsi il controllo del canale privato hindu, la Zee TV, l’unico in grado di gareggiare con il colosso televisivo di Stato, la Doordarshan. Ma da qualche tempo il magnate australiano ha rivolto la sua attenzione al nostro paese.
Grande amico di Berlusconi, si è offerto più volte di rilevare le sue tv per liberarlo dal conflitto di interessi, pur garantendogli una favorevole copertura massmediatica. Recentemente la sua tv più famosa, la Fox, ha aperto un ufficio di corrispondenza a Roma al quale ha affidato la copertura informativa del Sud Europa e del Mediterraneo. Ma l’affare più grande l’ha fatto acquistando e fondendo le due tv a pagamento presenti in Italia, Telepiù e Stream, in un’unica realtà chiamata Sky Italia. Da noi il mercato delle pay tv non è mai decollato per la presenza, unica al mondo, di ben sette canali nazionali gratuiti più un gran numero di network, ma ad esso sono legati due importanti settori che riguardano da vicino gli interessi degli italiani.
Il primo è quello del calcio, che non riguarderà molti lettori di questa rivista ma che può fare la fortuna o la disfatta della nostra RAI, se gestito in termini aggressivi contro il suo palinsesto. E’ infatti in questi avvenimenti sportivi che si concentra la maggior parte della spesa degli sponsor pubblicitari, e da tempo le partite dei campionati di serie A e B vengono trasmesse in diretta a pagamento. Il secondo invece è molto più delicato, e riguarda la produzione cinematografica italiana: oltre ad essere finanziatrice di molti film e documentari, la pay tv rappresenta infatti il naturale sbocco delle pellicole di maggior successo.
Nonostante esista una legge che impone alle tv italiane di trasmettere più del 50% di film di produzione europea, con diversi trucchetti RAI, Mediaset e La 7, hanno ridotto drasticamente la diffusione dei prodotti cinematografici dei nostri registi nostrani, privilegiando le produzioni hollywoodiane.

L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Il Carroarmato fa il pieno alla Esso

Ne parliamo con Manuele Messineo di Rete Lilliput, che ha realizzato l’azione insieme a Greenpeace e a un gruppo di studenti di sociologia.

Roma, venerdì 11 aprile 2003
ore 9.30 un carroarmato color sabbia si aggira per la Salaria. Due giovani ansimanti lo spingono -quasi fosse rimasto a secco- fino a un’autopompa della locale stazione Esso: “buongiorno; un dollaro di super, per cortesia”.
E’ una bellissima giornata; il gestore è sorpreso ma tranquillo: il bocchettone c’è, ma il cingolato è visibilmente di cartone!
Intanto un piccolo corteo, imbandierato a pace, si accoda: “Siamo un gruppo di azione nonviolenta e vogliamo protestare contro il comportamento della Esso sull’Iraq …. tenga”. L’uomo afferra il volantino; ha lo sguardo vivace e certamente è a conoscenza del boicottaggio internazionale alla Exonn-Mobil.
9.35 Si chiede di poter aprire un grande striscione arcobaleno ma il gestore obietta; impedirebbe alle auto di far rifornimento. Iniziano a discutere. Intanto gli altri membri del corteo si sono dispersi: esibiscono cartelli e chiacchierano con autisti e pedoni, sempre lasciando un volantino.
9.45: dopo un lungo confronto dialettico, il gestore cede: il bandierone viene steso per terra e i manifestanti vi si lasciano cadere, simulando la morte (die-in). Le auto stanno alla larga dalle autopompe.
10.30: Anche la seconda richiesta dei manifestanti è finalmente soddisfatta: la pistola dell’autopompa viene introdotta nel bocchettone del carroarmato. I quattro giornalisti presenti documentano; i manifestanti salutano, lasciando un dollaro e una bandiera arcobaleno.

Preparazione
Quali costi ha avuto l’azione in soldi e impegno?
Bassissimi, se si eccettuano le due nottate di quattro ore e i 14 euro di materiali (più da cartoleria che da industria armiera ndr.) impiegati da me e Luigi Pirelli per assemblare tutto quel cartone di scarto. Per il resto sono bastate in tutto 16 ore di lavoro equamente ripartite tra gli altri 14 partecipanti. Costi promozionali zero (era un’azione a sorpresa), solo qualche fotocopia, da distribuire durante l’intervento. Infine 2 riunioni di 4 ore per concordare dinamiche, logistica e ruoli.

Le decisioni sono state prese in maniera consensuale?
Sì, ma con tempi meno stretti avremmo potuto cercare il consenso con più determinazione e creatività. Qualcuno non ha condiviso la decisione di fare il blocco delle pompe comunque, anche nell’eventualità che il gestore non collaborasse.

Ruoli nell’azione?
Due persone addette ai gestori, due alla Polizia, uno alla stampa e 9 ai passanti. Il buon clima e la presenza di persone di esperienza come Enrico Euli, ci ha permesso improvvisazioni come il Die-in.

Tecniche
Di persuasione: “spiazzamento” mediante recapito di oggetti simbolici (cfr. G.Sharp “Politiche dell’azione nonviolenta” vol.2 pag. 37 e seguenti) ed esposizione di bandiere e colori simbolici (Op.cit. pag. 33).
Di intervento: interposizione nonviolenta, peraltro concordata con il gestore (Op.cit. pag. 244 e circostanti).
Pur all’interno di un simile e preciso canovaccio di azioni, ruoli e regole riferibili ad es. all’azione di Greenpeace in Lussemburgo (http://www.greenpeace.it/local/aquila/StopEsso/stopesso.htm), questa sembra più orientata alla comunicazione, all’improvvisazione e all’empatia anche con le controparti, paradossalmente quasi avvicinandosi, nei risultati, a dinamiche di fraternizzazione (Op.cit. pag.33).

Valutazione
Imprevisti o passaggi poco efficaci?
Tutto ha funzionato come programmato, a parte l’arrivo di un’enorme autocisterna Esso. Fortunatamente il nostro carrarmatino era esattamente nel punto di scarico e ci ha dato il tempo di improvvisare, utilizzando lo striscione un abbraccio giocoso al gigante (cfr I viaggi di Gulliver ndr) che ha dissolto la tensione, aprendo il dialogo.

Controparti e forze dell’ordine?
I gestori sono stati sempre disponibili ad ascoltarci, talvolta quasi ad appoggiarci. Non mi pare siano stati loro a chiamare la polizia né a lamentarsi con i 15 agenti, arrivati ad azione quasi terminata. Anche con questi, comunque, i rapporti sono stati ben gestiti.

Avete raggiunto lo scopo che vi eravate dati?
Mi pare raggiunto l’obiettivo del lancio della campagna Stop E$$o War, con azioni contemporanee in molte città d’Italia. A Roma buoni articoli su Corriere, Manifesto e Stampa (la didascalia della foto parlava di disobbedienti; sigh!).
Si racconta poi di un’autocisterna Esso che avrebbe girato Roma in lungo e in largo, prima di accorgersi (per la gente che sorrideva ai semafori) di tutti quegli adesivi StopE$$owar su cerchioni e paraurti.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso

Educarsi all’assertività
per essere nonviolenti

Pubblichiamo (in questo e nei prossimi numeri) alcune riflessioni scaturite da un percorso di formazione alla nonviolenza organizzato dalla segreteria MIR-Movimento Nonviolento piemontese presso il Centro “D.Sereno Regis” di Torino, cui hanno preso parte diversi coordinatori del Gruppo Campi e partecipanti del gruppo di Educazione alla Pace, tra cui Mariella Lajolo e Chiara Canina, che hanno redatto gli articoli. Le riflessioni si riferiscono, in particolare, ad un training condotto da Enrico Euli, ed al dibattito che ne è seguito e che si propone ai lettori, nell’intento di suscitare altri contributi su temi importanti della formazione alla nonviolenza.

Solitamente il concetto di forza coincide con quello di violenza, ma forza può essere violenza e nonviolenza e la violenza non è l’unica forza possibile.
Siamo di fronte alla confusione tra nonviolenza e non aggressività, ma non aggressivo è diverso da nonviolento. Ciò in quanto la nonviolenza implica aggressività benigna, aggressività nel senso di assertività.
Adgredior vuol dire incontro, in-contro, che indica un moto a luogo, quindi muoversi verso.
Di che tipo di personalità abbiamo bisogno per educarci alla nonviolenza?
Si ha aggressività distruttiva quando partendo da una situazione di assenza del sé, di annullamento del sé, ci si muove verso l’eccesso del sé (esempio: bullismo, in cui il fare il bullo fa parte del tentativo di risalire dall’assenza del sé all’eccesso del sé).
Si ha passività quando partendo da una situazione di assenza del sé, ci si muove verso la carenza del sé (quello che possiamo identificare con la nonviolenza passiva). Spesso l’altruismo è la risposta all’assenza del sé, che si muove verso la carenza del sé.
Le prime due posizioni potenziano la violenza.
Facendo riferimento a questa configurazione, la pace può essere letta come la sottomissione di una maggioranza, all’aggressività distruttiva di una minoranza.
Per assertività si intende manifestare il sé in termini pieni, ma non egoistici. Una persona assertiva è disponibile alla relazione con l’altro e a non stare fermo sulle sue posizioni.
Per empatia si intende la scelta di porre l’altro come limite alla crescita della propria identità.
A partire da un sé pieno, decidi di renderlo carente per dare spazio all’altro.
Spesso anche l’assertività, che può implicare caparbietà nel voler raggiungere degli obiettivi, viene identificata con la violenza, sembra impossibile raggiungere degli obiettivi senza far violenza ad altri. Ma ci si può educare a raggiungere degli obiettivi e a combattere situazioni ingiuste, rispettando l’altro.
La posizione assertiva è molto faticosa, richiede continua vigilanza e impegno (dentro e fuori di sé). Implica non sopportare, un costante allenamento a non accettare piccoli soprusi, per prepararsi a combattere quelli gravi.
Per sopportarli si tende a vivere in una condizione di repressione delle emozioni sempre più alta, a cui possono seguire due possibili sviluppi: la passività o l’esplosione.
I discorsi ci allontanano, ci proteggono dall’agire, è difficile agire perché c’è un’ipertrofia intellettuale a danno delle emozioni. Ma, non esiste ricerca senza azione, la ricerca deve essere attiva, non solo intellettuale.
Spesso si ha difficoltà a valutare qual è il tempo opportuno per agire e ciò rischia di portare all’inazione, in quanto il mondo è talmente complesso che, se desideri capire, disporre di tutti gli elementi, prima di agire, non potrai mai agire. Se il scegliere ha come riferimento unico la razionalità, è facile imbarcarsi nella minuziosa valutazione dei pro e contro per ogni opzione, spesso trovandosi nella difficoltà di giungere ad una decisione, in quanto prima di scegliere non tutti gli elementi sono disponibili e le conseguenze non tutte prevedibili.
E’ importante mantenere principi ferrei(non complessi e che non necessitino di ulteriore approfondimento), non negoziabili, su alcune questioni essenziali, per il resto si può essere flessibili.
L’assertività serve ad affermare i propri diritti, a chiederne il rispetto, ma chiedere il rispetto dei diritti è sempre all’interno di uno squilibrio di potere che non viene scalfito, molto più “rivoluzionario” è l’affermare i propri bisogni (fondamenti) e richiedere che siano soddisfatti.
Ci sono differenze che non possono essere accolte e devi lottare, combatterle. La lotta nonviolenta deve aprire un contrasto su questioni essenziali rispetto alle diversità non accettabili.
Nell’essere assertivi ci si assume il carico e la responsabilità di aprire la lotta con l’altro.
La nonviolenza stimola i conflitti, in contrasto alla negazione dei conflitti.
La pace non è quiete, ma permanente inquietudine nella relazione, con la sicurezza che la relazione sopravviverà a ogni sfida.

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Ararat: la shoah armena

La seconda guerra mondiale traccia il solco nella storia del novecento, una cesura netta e violenta all’interno del lento incedere dell’umanità; e il cinema, che di questa storia, ne riproduce la forma attraverso lo sguardo (non solo, anche le psicosi, gli incubi e le perversioni) dopo questo evento non può più essere considerato allo stesso modo. Come può il reale rappresentato mantenere l’identica imperturbabile e positivista oggettività dei primi del secolo dopo la “visione” dei campi di concentramento?
Tutto il cinema del dopoguerra risulta scandito (e filtrato) dalla cinematografia della Shoah. Quell’immane e funesta vergogna collettiva rivive nelle testimonianze dirette di migliaia di esseri umani ri-prodotte e rappresentate sul “grande schermo”, dove “schermo” rappresenta il luogo-incontro di diversi percorsi di espiazione e liberazione dal senso di colpa. Ma c’è una frase detta da Adolph Hitler, che mai da nessun attore abbiamo sentito pronunciare; una frase attraverso la quale tranquillizzare i generali più vicini che mai e poi mai in futuro sarebbe rimasta memoria della responsabilità morale e della colpa commessa contro il popolo ebraico: “qualcuno è mai stato perseguito e condannato per il genocidio del popolo armeno?”.
La “Shoah armena” non ha sguardi che la rappresentino né lacrime o santuari che la glorifichino.
Atom Egoyan (regista canadese di origine armena), con il suo Ararat, cerca di restituire un volto e una dimensione all’interno della storia, al primo tragico atto di pulizia etnica mai perpetrato nel novecento da un popolo nei confronti di propri simili; e tutto questo almeno una trentina d’anni prima della seconda guerra mondiale: nel 1915, mentre tutte le grandi potenze europee davano inizio allo “scannatoio” del primo conflitto globale, l’esercito turco eliminava con sistematica brutalità un milione e mezzo di turchi-armeni. Di tutto ciò non rimangono che le scarne testimonianze dei pochi e scioccati armeni scampati al massacro. E sono proprio alcuni tra i discendenti di questo genocidio gli interpreti che Egoyan ha scelto per questa sua ultima opera, presentata al festival di Cannes fuori concorso a causa delle minacce e del violento ostracismo delle autorità turche: Charles Aznavour (vero nome Chahnour Varinag Aznavourian) nato a Parigi da genitori armeni fuggiti al massacro turco, Eric Bogosian, Arsinee Khanjian ed Elias Koteas (oltre all’esordiente David Alpay, nella parte del giovane Raffi). Nel tentativo, attraverso le loro parole e i loro corpi, di ricollocare una tragedia storica collettiva (e universale) avvenuta nel passato, nel quadro di relazioni e drammi individuali vissuti dai protagonisti nel presente della propria vita, ma indissolubilmente legati a doppio filo con le sofferenze dei progenitori.
Ararat, il monte dell’arca perduta, presenza simbolo di un’alleanza tra dio e gli uomini andata in frantumi, è un film stratificato e complesso, nel quale passato e presente si compenetrano nei destini dei vari personaggi senza soluzione di continuità; un film di figli senza padri, caduti vittime del “massacro originario”, che cercano disperatamente di ritrovare una identità personale e culturale nonché un senso più grande, quasi fondativo, del proprio dolore. Ararat è un mosaico dalle atmosfere plumbee, un film che prende forma da un dipinto attraverso cui il pittore Arshile Gorky (pseudonimo con cui l’artista ha nascosto il suo nome armeno Vosdanig Adoian) reinterpreta una vecchia foto che lo ritraeva bambino assieme alla madre (uccisa dai turchi); un “mise en scene” metacinematografica che il personaggio interpretato da Aznavour dirige con stile patinato e oleografico, smaccatamente patetico e finto al limite dell’insopportabilità. E appunto attorno a questa operazione filmica si intrecciano il difficile rapporto di Ami (la madre di Raffi) con il figlio che intrattiene una relazione d’amore con la sorellastra (la quale rimprovera e perseguita Ami per aver causato il suicidio del proprio padre) e che fatica a comprendere appieno le ragioni che hanno spinto il padre terrorista ad immolarsi per la causa armena; e l’altrettanto difficile rapporto tra David e il figlio Philip a casa della relazione che quest’ultimo intrattiene con un Ali, un attore gay di origine turca che nel film di Aznavour interpreta la parte di un sanguinario generale dell’esercito ottomano. Nonostante Egoyan conservi il rigore formale e la perfezione estetica delle opere precedenti il film risulta irrisolto nell’eccessivo accumulo di troppi materiali narrativi (ognuno dei quali, se adeguatamente sviluppato, avrebbe forse potuto fornire spunti validi per più film a se stanti) e nella disorganicità del progetto complessivo. Nonostante questi limiti, però, il regista canadese regala all’umanità, il primo sguardo di verità su un genocidio, quello degli armeni, la cui responsabilità ancora oggi il governo turco fatica ad ammettere.

Dino Frescobaldi

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
La memoria delle canzoni, un antidoto contro la guerra

Continua la mobilitazione musicale creativa. Ne abbiamo già parlato nei numeri di dicembre 2002 e aprile 2003. Tanto sarà sfuggito e altro andrebbe ricordato: da“We want peace” canzone di Lenny Kravitz e Kadim al Sahir (il più famoso cantante iracheno), allo speciale “Stop the war!” del mensile “Tutto” (numero di aprile), alla sezione“Musica per il futuro di pace” su www.vitaminic.it Ma in questo periodo è accaduto quello che tanti, da anni, continuavano a chiedere: qualcuno ha cominciato a raccogliere e ordinare testi di canzoni sull’argomento. Sono così disponibili le “Canzoni contro la guerra”: 5 volumi, tutti scaricabili gratuitamente, per un totale di 600 canzoni di diversi Paesi, spesso complete di traduzione e anche in diverse lingue. La si trova sui siti: www.obiezione.it o www.canzonicontrolaguerra.cjb.net

– Riccardo Venturi, protagonista principale di questa realizzazione, ne parla così:

Le “canzoni contro la guerra” sono scaturite, o meglio sono emerse, da questo periodo che stiamo vivendo. Sono stati in ballo quattro gruppi virtuali che si occupano per definizione di canzoni d’autore. La scintilla (e una scintilla, di solito, dà fuoco a qualcosa che è già nell’aria) è stata scoccata da Paolo Rusconi, il quale poco prima della manifestazione planetaria del 15 febbraio scorso ha aperto un sito dedicato alle “Parole di pace”: articoli di giornale, link, poesie e, per l’appunto, canzoni. E’ qui che sono “sceso in campo” (wow, l’ho detto), raccogliendo, traducendo e ordinando. Pochi giorni dopo si è iniziata la raccolta vera e propria attraverso mailing list e newsgroup di Lolli, De Andrè e Guccini. Ho iniziato i “volumi” (con i relativi e biechi “elenchi parziali delle canzoni”) ed ho chiesto a qualcuno di ospitare la raccolta sul proprio sito. La raccolta è divenuta veramente attiva e permetterà a chiunque di inserire autonomamente le canzoni fin quando lo voglia.

– I criteri di scelta e il titolo

“Canzoni contro la guerra” (Ccg) riflette un’opinione del tutto mia personale, che mi ha portato a preferirlo, in primis a “canzoni per la pace”. Non mi ritengo affatto un “pacifista”, né per il mio carattere fondamentalmente rissaiolo (sebbene sia raro che porti a lungo rancore verso qualcuno) né per convinzioni profonde e ideali radicati. Tra le Ccg, quelle che meglio rispecchiano il mio pensiero sono casomai certe canzoni “nella” guerra. D’altronde, dato che ho coscientemente fatto assumere alla raccolta un carattere pubblico o collettivo, non potevo assolutamente intervenire sui testi che venivano via via proposti. Solo in cinque casi (su seicento…) non ho inserito dei testi perché non avevano palesemente a che vedere con la guerra né “contro”, né “per” né “dentro”.

– La raccolta si apre con “Il disertore”, poi c’è veramente di tutto…

Le Ccg hanno assunto un aspetto estremamente composito e non poteva essere altrimenti. Sono veramente divenute il riflesso dei modi più svariati di intendere quella che, in senso assai lato, può essere definita un’opposizione. C’è di tutto: “Stelutis alpinis” convive con “Contessa”, le canzoni simil-cattoliche con Alfredo Bandelli, De Andrè coi canti partigiani o della guerra di Spagna, Phil Ochs con le ballate bretoni, le canzoni note a tutti e quelle più sconosciute, Bob Dylan con i listaroli e niusgruppari che hanno voluto scrivere canzoni originali.
Sarebbe stato interessante che qualcuno che non si oppone né a questa né ad altre guerre, avesse fatto un’analoga raccolta di “canzoni per la guerra”: il materiale non gli sarebbe certo mancato, tra canti bellici, militari, “patriottici”. Ma forse questa eventuale raccolta avrebbe rischiato di essere ancor più contro la guerra di quella propriamente detta.

– Fra le funzioni di questo lavoro una in particolare da sottolineare ?

Nutrire forse l’unico, vero ed efficace antidoto contro la guerra: la memoria. Che sia a base di canzoni o di qualsiasi altra cosa. Non per niente è proprio la memoria che subisce, ogni giorno, attacchi continui. Sono contro il disarmo della memoria. Per quello che posso la voglio riarmare. E tutti dovrebbero farlo, nel modo che preferiscono.

STORIA
A cura di Sergio Albesano
1996: un anno importante per l’obiezione di coscienza

Il 19 gennaio 1996 la prima sezione penale della Suprema Corte di Cassazione respinse il ricorso del procura­tore militare di Torino in merito al ritardo con cui Massi­miliano Gazzola, difeso dall’avv. Manlio Mazza di Torino e patrocinato in Cassazione dall’avv. Giuseppe Ramadori di Roma, aveva presentato domanda di obiezione. Il ministero della difesa e i distretti militari in genere intendevano il termine di presentazione della domanda come perentorio e quindi inviavano agli obiettori con domanda presentata fuori dai termini di legge la cartolina di chiamata alle armi. In questi casi alcune associazioni che si occupavano dei pro­blemi degli obiettori consigliavano di andare in giudizio e “concordare l’eventuale pena”, considerato che si rimane a piede libero, per poi ripetere la domanda di obiezione. La sentenza della Cassazione del gennaio 1996 confermava in via definitiva che si può obiettare in ogni momento, precisando: “Non può costituire un ragionevole criterio di discrimine il momento in cui l’obiezione viene manifestata, momento che, salva sempre la prova contraria, si deve presumere coinci­dente con il tempo della maturazione di un profondo e impre­scindibile convincimento religioso, morale o filosofico, la cui libertà di manifestazione è garantita dagli articoli 2, 19 e 21 della Costituzione e non può perciò essere irragio­nevolmente compressa a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determina­zione della coscienza individuale” (1).
Il 26 e 27 gennaio si tenne il seminario conclu­sivo del corso per formatori di obiettori di coscienza svol­tosi a Rovereto. L’iniziativa, che vide la partecipazione di quindici corsisti provenienti da tutta Italia, riprendeva un’analoga esperienza tentata nel 1992 a Firenze, ma rispetto a quest’ultima era integrata con tematiche relative alla nonviolenza come opzione etica e politica di base e alla dimensione trasnazionale dell’impegno per la pace nelle forme della diplomazia popo­lare (2).
Il 16 febbraio il Capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro scioglieva le Camere e indiceva nuove elezioni. Un’altra legislatura terminava senza che la proposta di ri­forma sull’obiezione di coscienza fosse divenuta legge dello Stato.
Il Coordinamento nazionale dell’A.O.N., riunito a Firenze il 25 febbraio, considerato che la maggior parte delle forze politiche nella passata campagna elettorale si era dichiarata a favore di una rapida approvazione della legge di riforma dell’obiezione di coscienza, impe­gnava i suoi membri a chiedere ai candidati del proprio col­legio un impegno formale e pubblico a favore di una nuova legge sull’obiezione. Se i candidati non avessero accettato tale impegno, l’invito era quello di praticare l'”obiezione elettorale”.
Il 14 marzo fu processato e condannato dal tri­bunale militare di Torino a tre mesi di carcere per mancanza alla chiamata Giacomo Caligaris di Savona, il quale fu poi arrestato il 3 novembre e rinchiuso prima nel peniten­ziario di Sulmona e poi in quello di Altamura. Venne scarce­rato il 3 febbraio 1997 (3).
Il 27 marzo il Consiglio regionale della Toscana approvò una legge dal titolo “Interventi in materia di ser­vizio civile”, con lo scopo tra l’altro di finanziare alcuni programmi di intervento rivolti alle problematiche regio­nali, realizzati dagli enti di servizio civile tramite gli obiettori di coscienza, e di informare i giovani sull’esistenza della normativa nazionale e regionale sull’obiezione (4).
Durante la campagna elettorale i due maggiori schieramenti, cioè il Polo e l’Ulivo, nella parte del pro­gramma relativo alla Difesa non si differenziarono molto. Sembrava quasi che una mano comune avesse guidato gli esten­sori dei due programmi. Così Polo e Ulivo, come Lega Nord e Fiamma Tricolore, progettavano una forte professionalizza­zione e un ammodernamento delle Forze armate, con un conse­guente aumento delle spese militari. R.C. e Verdi erano i soli due partiti a proporre una riduzione dello strumento militare e una sua democratizzazione, con una drastica ri­duzione delle spese per tale settore. Quasi tutti i partiti prevedevano una riduzione della leva e al riguardo l’Ulivo proponeva di adottare un sistema di opzione tra servizio mi­litare e servizio civile. L’unica differenza fra i due mag­giori schieramenti riguardava le donne, che l’Ulivo voleva volontarie nel servizio civile e il Polo in quello mili­tare. R. C. e Verdi chiedevano l’approvazione della riforma della legge sull’obiezione, mentre Ulivo e Polo non vi face­vano cenno. Il Polo parlava però di “riconoscere il diritto all’obiezione di coscienza nel rispetto della Costituzione, delle esigenze di difesa e della responsabilità dei singoli e delle associazioni che vi operano”. La lista Pannella-Sgarbi acquisiva come programma i referendum e quindi anche quello per il riconoscimento del diritto all’obiezione, men­tre la Fiamma Tricolore nel suo programma proponeva l’abolizione dell’obiezione di coscienza.

(9 – continua)

LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Lettera ai pacifisti contro la guerra infinita

Non è facile essere pacifisti e nonviolenti ora che la guerra, dicono, ‘è finita’ sapendo bene che la vorranno proseguire all’infinito. Su questo, a breve termine, siamo stati ancora una volta sconfitti.
Non casualmente: la guerra, una volta che la si prepara, la si fa. E la preparazione non è iniziata sei mesi fa: è iniziata nelle fabbriche d’armi, nei trattati militari, nei programmi politici dei partiti e delle multinazionali.
Abbiamo ampiamente esercitato tutte le forme possibili di dissenso e di protesta (petizioni, marce, azioni di lobbing, azioni simboliche…), senza essere ascoltati. Se l’avversario non cambia e va avanti comunque, la nonviolenza mi dice che è decisivo e necessario iniziare a sanzionarlo dal basso, passare a forme di disobbedienza e rifiuto più indignate e radicali e farle diventare pratiche collettive e diffuse.
Ma com’è possibile radicalizzare la lotta senza diventare simmetrici rispetto all’avversario e senza imitarne i modelli ‘militari’?
Come è possibile iniziare a rendere la ‘non-collaborazione attiva’ e la ‘disobbedienza civile’ pratiche che coinvolgono vaste aree di persone e non solo minoranze ?
E infine: che cos’è a rendere così difficile l’espansione dell’azione nonviolenta nella società e nel movimento?
Perché il problema è in primo luogo dentro il movimento, tra i tre milioni di persone del 15 febbraio e che hanno esposto le bandiere sui balconi… Già un terzo di loro, se divenissero più attive, cambierebbero gli equilibri delle forze in campo.
A mio parere, questo stenta ad accadere perché ci troviamo ancora dentro modelli culturali asfittici e ripetitivi, caratterizzati da noiosi ritualismi passivizzanti. E tra questi, ne citerei soprattutto tre:
1. la violenza e la distruzione sono fonti e richiami inesausti di attrazione; quando agisce il triangolo necrofilo (militari-militanti-massmedia) intorno si fa il deserto. D’altra parte la ripetitività e la noia delle forme di espressione politica pubblica di massa (i comizi, i cortei, i convegni…), tutto questo ripetersi e stanco procedere di riti sociali, che nessuno più riconosce come sensati, neppure quelli che vi prendono parte, figuriamoci chi guarda…Questo modo d’agire che non ha nulla di ludico, di creativo, di spiazzante, di veramente espressivo, come potrà mai generare un desiderio d’agire, di esserci, di avvicinarsi ? E’ urgente valorizzare la nostra sensibilità estetica, che non significa fare azioni colorate, leggere, morbide, ‘estetizzanti’ , ma essere (come direbbe Gregory Bateson) sempre attenti alla ‘struttura che connette’, alle ‘metafore che noi siamo’, all’ecologia naturale e sociale dei nostri comportamenti, al rapporto tra linguaggi e contesti in cui agiamo…
2. Credo che abbiamo molta difficoltà a sviluppare questioni legate al boicottaggio, all’obiezione professionale o alla riconversione bellica ( che è e resta la questione fondamentale nello sviluppo del movimento: perché non si può essere contrari alla guerra soltanto quando la guerra arriva) anche perché siamo ancora dentro una forte cultura di complicità col denaro e col culto del lavoro. Abbiamo difficoltà a gestire un’azione che in qualche modo mette a repentaglio il lavoro ed il guadagno, che oltrepassa la falsa rassicurazione dei consumi. Eppure proprio iniziare a togliere centralità al lavoro, alla logica securitaria fondata sul denaro nel nostro stile di vita quotidiano sarebbe un passaggio che , da solo, scardinerebbe le dinamiche della guerra alle fondamenta.
3. La nonviolenza parte da una visione positiva del conflitto e dall’importanza di imparare a riconoscerlo ed a gestirlo direttamente. E, se necessario, è pronta ad aprire conflitti anche con la legge dello stato se questa obbedienza implica la rinuncia a principi più alti di giustizia e di umanità. Per la nonviolenza non tutto ciò che è legale è legittimo e non tutto quel che è legittimo è legale.
Le culture dominanti, ancora forti anche all’interno dei movimenti, per esempio quella comunista e quella cattolica, sono invece culture fondamentalmente aconflittuali, direi anche anti-conflittuali, cioè propongono una visione negativa del conflitto e tendono a una sua gestione paternalistica, delegata (giuridica o militare)e ad una sua sostanziale rimozione. Da qui l’insorgere di una visione politica legalitaria e statalista, ancorata ad un pacifismo soltanto giuridico e comunque contrario ad azioni illegali.
Ma se la nonviolenza si limitasse a questo sarebbe solo ‘non violenza’ e Gandhi non avrebbe rappresentato alcuna novità rispetto al pensiero democratico liberale.
Concludo: ho enumerato questi tre persistenti ostacoli alla diffusione dell’azione diretta nonviolenta proprio perchè li sento ancora molto presenti nel movimento e nella società.
Spero che sia ancora desiderabile per tutti proseguire un confronto ed uno scambio formativo per giungere ad ulteriori ibridazioni tra noi.

Enrico Euli

LIBRI
A cura di Sergio Albesano

E. KRIPPENDORFF, L’arte di non essere governati, Politica etica da Socrate a Mozart,
Fazi Editore, Roma 2003.

“La politica è troppo importante perché sia lasciata nelle mani dei politicanti o dei politologi”. Così si apre il libro di Krippendorff1, un’interrogazione del passato alla ricerca di potenzialità politiche non attuate, o sconfitte, che possano aiutarci a giungere a un atteggiamento complessivo all’altezza delle sfide del presente, che è l’epoca della globalizzazione di cui l’autore non è certo un apologeta: mai come ora la legge della massimizzazione del profitto si è rivelata come quella “più stupida del mondo”. Non per questo però bisogna rassegnarsi alla “fine della storia”; anzi occorre saper vedere che quanto ci viene presentato come ineluttabile è conseguenza anche di decisioni politiche che avvantaggiano precisi settori della società (v. p. 208).
Il titolo si rifà a una conferenza di Michel Foucault dedicata alla disamina della correlazione tra il continuo ampliamento della sfera del governo (non soltanto da parte dello Stato) nell’età moderna e il sorgere della critica, intesa come “una specie di forma culturale generale, un atteggiamento morale e politico, una maniera di pensare […] che definirei semplicemente l’arte di non essere governati o, se si preferisce, l’arte di non essere governati in questo modo e a questo prezzo”2.
Che cosa si può opporre, dunque, alle tecniche di addestramento e di controllo dei corpi umani e delle popolazioni che hanno raggiunto il loro parossismo nei regimi totalitari del XX secolo?3 Sono sufficienti buone argomentazioni per motivare l’impegno politico oppure esso scaturisce soprattutto dalle sensazioni e dai sentimenti, dalla collera alla compassione? Memore dell’intuizione di Nietzsche secondo la quale ha poco valore “fare di qualcuno un essere che pensa correttamente, se prima non si è riusciti a fare di lui un essere che sente correttamente”4, Krippendorff inventa una sorta di pedagogia estetica (v. pp. 261-263), raccogliendo una galleria di ritratti di maestri e maestre che non siamo abituati a vedere accostati, con effetti sorprendenti e stimolanti: Socrate, i tragici greci, Lao-tsu, Confucio, Ashoka, Schiller, Kant, Goethe, Rosa Luxemburg, Karl Kraus, Brecht, Marx, i padri fondatori degli Stati Uniti, Hannah Arendt, Verdi, M. L. King, Gandhi e Mozart.
Poiché sarebbe impossibile segnalare il contributo di ciascuno/a di loro, mi soffermerò sugli ultimi due. Il pensiero e l’azione di Gandhi sono, per Krippendorff, la più radicale critica della politica mai avanzata. Di Gandhi è messa in luce non solo la capacità di considerare qualunque avversario un essere umano e quindi di avviare una ricerca di modalità nonviolente di azione politica, ma anche la sua parallela riflessione sull’economia. Quella che si potrebbe chiamare “economia dell’arcolaio” avrebbe le seguenti potenzialità: liberare dalla dipendenza economica dal sistema coloniale; lanciare una sfida nonviolenta al sistema industriale capitalistico, responsabile di alienazione profonda e della distruzione e/o della privatizzazione delle basi naturali della vita (v. p. 112); infine favorire la creazione di un sistema politico basato su piccole unità (i villaggi) ove si può praticare la democrazia diretta.
Quanto a Mozart, egli è “uno dei rari ‘grandi della storia’ in cui non si trovano tracce di prepotenza patriarcale né a livello biografico né nella sua opera” (p. 286) e la sua ripugnanza per i rapporti basati sul dominio emerge con forza nella sua avversione per l’istituzione militare, evidente in particolare nella cantata Voi che venerate il creatore dell’infinito universo (K 619), nella quale si dice che le spade dovrebbero essere trasformate in vomeri. Ma non solo: la stessa struttura interna della sua musica configura un “dialogo libero da dominio [che ne fa] un metodo di interpretazione del mondo, quello probabilmente a un tempo più stratificato e chiaro che ci sia mai stato offerto. Sia la complessità che la semplicità delle sue affermazioni (“uomo e donna”)5 hanno fino a oggi impedito che esso divenisse fonte d’ispirazione per una prassi socio-politica. Ciò di cui abbiamo bisogno è, per così dire, un ‘partito mozartiano’” (p. 289).
Per questo partito che non aspira a posizioni di potere, Krippendorff elaborò nel 1990 dieci tesi (v. pp. 188-194), ispirate dallo slogan “sinistra contro sopra”. Il fatto che, secondo alcune stime6, dal 1988 al 2000 siano morte in guerra e per “democidio” più di 40 milioni di persone dà una tragica misura di quanto simili idee cadano inascoltate, ma non inficia per nulla la validità del principio secondo il quale “la via è il fine”.

Carla Toscana

LETTERE

Una visita a Barbiana
per scoprire don Lorenzo

Caro don Lorenzo,
abbiamo voluto venire qui a Barbina per vedere e conoscere i luoghi in cui tu hai trascorso gli anni più intensi della tua vita.
Volevamo respirare la tua stessa aria, entrare nelle stanze dove è risuonata la tua voce, toccare gli oggetti e sederci sui prati dove tu hai fatto scuola, hai passeggiato, hai pianto, hai pregato.
Abbiamo colto da lontano nel tempo e nello spazio un disegno più grande di te e di noi.
Ci ha portato il cuore fino a quassù non per una celebrazione commemorativa, ma per scoprire nell’atelier dell’artista le tracce del suo lavoro umano.
Semplicità, dolcezza, fermezza, coerenza, determinazione e fede: in questa contrada del Mugello noi abbiamo colto queste virtù nelle parole dei tuoi amici e discepoli che ci hanno raccontato la loro vita con te.
Ma il luogo, pur nella sua bella armonia naturale, è velato da una certa tristezza per quei motivi che qui ti hanno costretto.
E’ un luogo di punizione e tu ne hai fatto un luogo di riscatto.
E’ un luogo di solitudine e tu ne hai fatto un luogo di incontro.
E’ un luogo appartato, dove il tempo si ferma e tu ne hai fatto il centro di diffusione dell’impegno più profondo che hai raccolto nel motto “I CARE”.
Tu, Lorenzo Milani, l’artista, l’uomo di cultura, prete e maestro, severo ed eclettico, ricco e intelligente, tu hai scelto i piccoli, i poveri, e di questa scuola hai fatto il miracolo della tua vita.
In questa scuola che si riduce ad una stanza dell’austera canonica abbiamo colto quanto reale, concreta, viva e quotidiana fosse la scelta degli intimi, di quelli senza voce, scartati dalla scuola e dalla storia.
Abbiamo capito che questa scelta, oculata, preparata fin dalla tua presenza a Calenzano, è la scelta missionaria anche del prete di oggi che deve progettarsi nella società come il lievito nella pasta, usando per i giovani distratti di questo nostro tempo i mezzi più semplici per avvicinarli alla verità.
Vogliamo con te sognare una Chiesa che cammina ancora con tutti gli uomini e sa essere evangelicamente profetica e provocatoria e non solo tradizionalmente e culturalmente ritualizzata.
I tuoi difetti, che ad alcuni appaiono ancora come colpe imperdonabili, ti fanno sentire più vicino a tutti noi, presuntuosi e spesso irascibili come te, uomini e donne che ti invidiano il coraggio della denuncia spietata e l’impeto meditato di chi scaccia i mercanti dal tempio.
Sei morto portandoti nell’anima il cruccio di non aver visto riconoscere in vita la tua profezia.
Ti è stato impedito di parlare, ma la tua voce risuona oggi nella Chiesa e nei cuori consolando per sempre la tua anima.
Vogliamo salire come bambini sulle tue spalle e approfittare della tua statura per vedere lontano.
Come nani sulle spalle del gigante, abbiamo allungato il nostro orizzonte, e vogliamo fare catena perché dalle nostre debolezze e dai nostri silenzi, dalle nostre omissioni e dai nostri limiti, riusciamo ad entusiasmarci alla bellezza della verità.
Siamo decisi a diventare definitivamente sovrani rifiutando quel “me ne frego” che dipinge una società di sudditi e perdenti.
Sei diventato un nostro amico ed ora siamo venuti a trovarti a casa tua con il cuore colmo di gratitudine per le parole, per tutte quelle stupende, vibranti parole d’amore, di giustizia e di pace che tu hai saputo far diventare carne, proprio come ci ha insegnato Gesù.

Pellegrinaggio vicariale missionario
Vicariati di Dolo, Campagnalupia, Vigonovo,
della diocesi di Padova

Di Fabio