Azione nonviolenta luglio 2003
– Convegno e festa a Gubbio il 6 e 7 settembre, di Mao Valpiana
– Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune: Persuasione, di Pietro Pinna
– La scelta sionista fatta da ragazza e l’impegno pacifista.Un figlio morto. Il destino comune di israeliani e palestinesi
– Padri e madri d’israele, voi che ancora potete: proteggete i vostri bambini dal mostro dell’odio Vai
– Un italiano dall’anima curda Dino Frisullo
– Il premio Langer 2003 a Gabriele Bortolozzo
– Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio imparo. Il diritto dei bambini ad usare le mani (e buttare il computer), di Gianfranco Zavalloni
Rubriche
– Economia
– Educazione
– Alternative
– Cinema
– L’azione
– Lilliput
– Musica
– Storia
– Libri
EDITORIALE
Arrivederci a Gubbio, il 6 e 7 settembre
Convegno e Festa di Azione nonviolenta
Di Mao Valpiana
L’appuntamento è per tutti gli amici della nonviolenza. Ancora una volta in Umbria. Aldo Capitini l’amava molto e la descrisse così: “In confronto ad altre regioni d’Italia, l’Umbria può apparire troppo raccolta in sé, troppo avvolta nel silenzio, troppo pura o ‘contemplativa’. Ma c’è una forza dentro”. E ancora: “Nell’Umbria si ha un senso di avvicinarsi, di entrare e di salire, poiché c’è la prima Umbria, e c’è l’Umbria più interna….Dirò anche che vivendo entro questo paesaggio, camminando e posando, annoiandocisi quasi nel silenzio (come bisogna fare per assimilare veramente cose e persone) tutto sembra tenersi nel limite di umanità, ma senza ostentazione di questa, e con tendenza ad ascoltare in silenzio senza mai staccarsi dal maturare continuo della vita”.
Dunque, ci siamo. Il percorso avviato più di un anno fa, al nostro ventesimo congresso, sta per giungere al termine, con la “quattro giorni” di Gubbio: la camminata lungo il sentiero francescano della pace ed il convegno sulle alternative alla guerra. Nei mesi scorsi ci hanno accompagnato le 10 parole della nonviolenza: forza della verità, coscienza, amore, festa, sobrietà, giustizia, liberazione, potere di tutti, bellezza, persuasione. Raccoglieremo in un fascicolo le dieci riflessioni di chi ha condiviso con noi questo percorso di cultura e di azione nonviolenta, insieme alle frasi di Gandhi, Capitini, King e Francesco. Sarà uno strumento utile per chi si mette in cammino da Assisi a Gubbio.
Allegato a questo numero trovate il pieghevole che illustra nei dettagli l’iniziativa. E’ una proposta, riteniamo significativa, che facciamo a tutti gli amici della nonviolenza, a partire da coloro che hanno condiviso con noi la Marcia specifica “Mai più eserciti e guerre” del settembre 2000, da Perugia ad Assisi. Fu a conclusione di quella marcia, raccogliendo le tante richieste di proseguire il cammino comune, che ci venne l’idea di proporre qualcosa che andasse “oltre Assisi”. Scoprimmo poi l’esistenza del bellissimo sentiero medioevale che attraverso valli, boschi, prati e colline, collega Assisi con Gubbio, passando da Valfabbrica. Il sentiero, ben curato dalla Provincia di Perugia, è meta di molti pellegrinaggi, pieno di suggestioni spirituali, di notevole bellezza ed interesse storico, naturalistico, paesaggistico. Gubbio richiama la leggenda francescana della conversione del lupo. Con la parola, il dialogo, l’esempio, la mediazione, Francesco riuscì ad ammansire il lupo e convinse gli eugubini a procurare il cibo per lui, a farselo amico. La belva temuta si è tramutata in ospite accolto. Metodo e strategia della nonviolenza. Per questo Gubbio ci è parso il luogo più adatto ad ospitare la conclusione dell’iniziativa. Abbiamo pensato di dare un taglio particolare al convegno: quale potrebbe essere il ruolo di un’Europa disarmata nel mondo globalizzato della guerra infinita? In fondo, Francesco è da molti considerato un ponte tra oriente ed occidente, l’uomo che ha rinnovato la cultura del medioevo, il primo cittadino europeo. Dunque sulle tracce di Francesco cercheremo di capire quale sia il ruolo degli amici della nonviolenza nella nuova Europa che si va costruendo.
A Gubbio, grazie alla collaborazione di amici del Movimento, abbiamo trovato la piena disponibilità dell’Amministrazione Comunale che ci offre il bellissimo Centro Servizi per lo svolgimento del Convegno, ed il prestigioso Teatro Romano per il momento di festa corale. In quell’occasione vogliamo celebrare la nostra rivista, che si avvia verso il quarantesimo anno di pubblicazioni. Stiamo allestendo una mostra che ripercorre gli anni dal 1964 al 2003 attraverso le copertine più significative di Azione nonviolenta; ne esce un pezzo di storia: da Capitini a Martin Luther King, da Don Milani ad Alexander Langer, il movimento studentesco, la guerra del Vietnam, l’obiezione di coscienza, le marce per la pace, il movimento antinucleare e quello ambientalista, Comiso, il Muro di Berlino, la Bosnia, il Golfo, il Kossovo, l’Iraq, la crescita della resistenza nonviolenta in ogni parte del mondo.
Nonostante l’impegno di tanti amici, l’organizzazione non sarà perfetta, anche perché apprezziamo la bellezza degli imprevisti. Le condizioni di ospitalità saranno francescane e conviviali allo stesso tempo (l’Umbria è terra generosa di cibo e vino). Il Movimento Nonviolento vuole offrire un’opportunità che ognuno cercherà di cogliere al meglio. Chi partecipa sa che la sua presenza è un contributo alla riuscita dell’iniziativa stessa..
Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 13 agosto 2003
La parola del mese: “Persuasione”
Di Pietro Pinna *
Parliamo qui della persuasione di sé, persuasione intima, non della persuasione verso gli altri – semmai ricordando quanto su quest’ultima, dopo averne illustrato le forme lecite, limpidamente razionali, Aldo Capitini pose quest’avvertimento: “Noi dobbiamo lasciar fuori dalla nostra considerazione tutte quelle forme di persuasione che sono, sì, nell’apparenza, senza violenza, ma che nella sostanza sono seduzioni e coercizioni, come si dice, morali.
Una tecnica nonviolenta non può contraddire alla definizione stessa della nonviolenza come apertura alla esistenza, alla libertà, allo sviluppo di ogni individuo, cioè come proposito di considerare l’altro come fine, e non come mezzo”.
Per stare alla persuasione intima, alla fede pratica del proprio orientamento spirituale, ricordo di essermi trovato ad usare questo termine in uno scritto di giustificazione del mio rifiuto assoluto a prestare il servizio dell’uccisione militare. La devastante esperienza della guerra vissuta negli anni della prima giovinezza aveva fatto un deserto di quel mondo di valore che costituisce il senso e il destino della vita umana, e miserevolmente naufragati in quella prova nefanda i poli istituzionali di riferimento che si vantavano depositari e artefici di quegli ideali. In quel vuoto, pur sempre continuando a credere nella verità di un mondo di valore, non ebbi che da ancorare la mia tensione spirituale all’intimo, all’autorità della coscienza individuale quale prima e certa fonte di verità, in ciò che pur sempre da essa scaturiva di autentico, di incontrovertibile e di doveroso.
Ne scrivevo: “La prima verità era di darmi senza riserve solo a ciò di cui fossi assolutamente persuaso, quindi personalmente e pienamente responsabile: assunzione di responsabilità su cui poi saper star saldo e poter difendere in ogni evenienza e di fronte a chiunque, appunto perché fornita di intima persuasione”.
Nel corso della vicenda penale dell’obiezione di coscienza, l’intima persuasione si trovò al varco di una delle sue prove più stringenti nel confronto con una diversa contrastante professione di fede religiosa. Isolato nel carcere in attesa del processo, venuto lì anche il cappellano militare cattolico a contestare la sua scelta, a mostrargli che Dio medesimo per bocca della sua Chiesa considerava quel servizio militare del tutto lecito, per non dire doveroso, l’obiettore persuaso è condotto a dialogare direttamente con quel Dio stesso, finendo per dire: “Secondo i tuoi rappresentanti, che mi portano a testimone la tua Chiesa con la sua teologia della guerra giusta, Tu avresti un’idea diversa dalla mia. Per la mia persuasione per quanto modesta essa sia, le ragioni che le vengono contrapposte non sono valide, anzi sono irreligiose. Non resta che lasciare al volgere dei fatti il giudizio su quale delle nostre diverse posizioni sia più meritevole. Io al presente sono a questo punto, e non posso altrimenti”.
Lungo la traccia di questa esperienza vissuta, vediamo di enucleare sinteticamente alcuni caratteri distintivi della persuasione intima, della coscienza persuasa.
L’intimo persuaso è il fulcro delle scelte concernenti il valore (ciò che importa sommamente, che informa e dà senso alla vita umana), l’elemento che ne assicura la purezza e serietà e la sostanza ben maturata e salda.
L’atto della persuasione si distingue in quanto, svincolato dal tempo usuale, si dà tutto nel presente, qui e subito, senza rinvii ad un mondo ultraterreno o ad un termine storico finale.
La priorità, il primato della scelta di valore spetta alla coscienza persuasa, prima e sopra qualsivoglia autorità tradizionale riconosciuta (da cui possono promanare dogmi e divieti inaccettabili, “fuori dal cuore intimo”, che non tengono conto della libertà – supremo distintivo valore dell’uomo -, così coartata da una legge “che non si fa persuasione ma comando astratto”. D’altronde, la coscienza persuasa non viene a porsi come solipsistica, arbitraria ed egoistica, costituita quale essa è da un insieme di direttive di valore universale (la persuasione nonviolenta, fondata sull’impegno della non uccisione, della nonmenzogna, della costante onestà e dedizione, volta al benessere e allo sviluppo nel meglio di tutti).
Fornita di intima verità la persuasione ha in sé la forza di mantenersi salda nella scelta posta in atto, assumendosene il persuaso tutta la responsabilità, nella considerazione che l’eventuale sacrificio che dal mondo possa derivargli è del tutto compensato dalla serenità dell’animo per il valore affermato.
Detto altrimenti, la persuasione è la percezione chiara, spontanea e diretta della realtà, libera dai mille condizionamenti inconsci o indotti che frappongono una barriera tra l’io intimo e il mondo da cui confusione e conflitto, isolamento e separazione, svianti dall’autenticità della vita.
Nella sua consapevolezza attuale e vigile della realtà, la persuasione viene a trovarsi in una condizione non statica e ripetitiva, ma sempre nuova, fresca e creativa, quale è la vita autentica, tessuta di relazione e di comunione, nell’unità e nell’amore con tutto e con tutti.
* Vive a Firenze. Obiettore di coscienza nel 1949, è stato il collaboratore di Aldo Capitini nella nascita e nella conduzione del Movimento Nonviolento. Autore del libro “La mia obbiezione di coscienza”, Verona, Movimento Nonviolento, 1994.
La persuasione di M. K. Gandhi
Il mio messaggio e i miei metodi sono essenzialmente rivolti al mondo intero e mi dà grande soddisfazione sapere che hanno già ricevuto un meraviglioso riscontro nei cuori di un consistente numero di uomini e donne occidentali, che continua ad aumentare.
Una leggera e costante crescita è più duratura di una crescita indotta da campagne conferenziali e fuochi d’artificio. Per il momento dovete studiare il mio messaggio attraverso i miei scritti e cercare di vivere di conseguenza, se per voi è accettabile.
Nessuno conduce e nessuno segue. Nessuno è capo e nessuno è seguace. Noi stiamo andando insieme in una direzione.
La persuasione di M. L. King
Voi dovete continuare a lavorare appassionatamente e vigorosamente per i vostri diritti, che vi vengono da Dio e dalla Costituzione: sarebbe vile insieme immorale, per voi, accettare pazientemente l’ingiustizia.
L’azione nonviolenta ha un’influenza sui cuori e sulle anime di coloro che sono impegnate in essa… Scuote a tal punto la coscienza dell’oppositore che la riconciliazione diviene una realtà.
La nonviolenza divenne più che un metodo a cui io davo il mio assenso intellettuale: divenne dedizione ad una forma di vita.
La persuasione di Aldo Capitini
Bisogna cercare, se ci riesce, di essere veramente buoni, in modo persuaso; perché la cattiveria degli altri non abbia la sua oscura radice nella nostra.
La persuasione religiosa suscita un sentimento e un’iniziativa assoluta, e un fermento da rinnovare perennemente, e proprio movendo da sé stessi anche se soli.
Il persuaso getta il proprio peso sulla bilancia: l’essenziale è che egli compia l’atto religioso con tutte le sue forze, senza angolo di riluttanza; e questo impegno è allora persuasione infinita, e se egli vi è arrivato, vi potranno arrivare anche altri.
Per approfondire
Persuasione
La persuasione religiosa: Aldo Capitini.*
A. Capitini, Elementi di una esperienza religiosa, 1a edizione, Bari, Laterza 1937; 2a edizione, Bari, Laterza, 1947. Ristampa anastatica della stessa, con prefazione di N. Bobbio, Bologna, Cappelli, 1990.
A. Capitini, Vita religiosa, 1a edizione, Bologna, Cappelli, 1942. Ristampa anastatica della stessa con nota conclusiva di G. Carchia, Bologna, Cappelli, 1985.
A. Capitini, L’atto di educare, Firenze, La Nuova Italia, 1951.
A. Capitini, Il fanciullo nella liberazione dell’uomo, Pisa, Nistri Lischi, 1953.
A. Capitini, La compresenza dei morti e dei viventi, Milano, Il Saggiatore, 1966.
Il Messaggio di Aldo Capitini. Antologia dagli scritti, a cura di G. Cacioppo, Lacaita, Manduria, 1977.
A. Capitini, Scritti sulla nonviolenza, a cura di L. Schippa, Perugia, Protagon, 1992.
A. Capitini, Scritti filosofici e religiosi, a cura di M. Martini, Perugia, 1998.
Aldo Capitini, persuasione e nonviolenza, n. speciale de «Il Ponte», a. LIV, n.10, ottobre 1998.
R. Altieri, La rivoluzione nonviolenta. Biografia intellettuale di Aldo Capitini, Pisa, BFS Edizioni, 1998; 2a edizione ivi, 2003.
A. Vigilante, La realtà liberata. Escatologia e nonviolenza in Capitini, Foggia, Edizioni del Rosone, 1999.
Il filosofo della persuasione: Carlo Michelstaedter.
C. Michelstaedter, Epistolario, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1983.
C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, a cura di S. Campailla, Milano, Adelphi, 1995.
A. Arbo, Carlo Michelstaedter, Pordenone, Studio Tesi, 1996.
M. Cerruti, Carlo Michelstaedter, 2a ed., Milano, Mursia, 1987.
N. Cinquetti, Michelstaedter. Il nulla e la folle speranza, Padova, EMP, 2002.
S. Cumpeta – A. Michelis (a cura di), Eredità di Carlo Michelstaedter, Udine, Forum Edizioni , 2002.
R. De Monticelli, Il richiamo della persuasione. Lettere a Carlo Michelstaedter, Genova, Marietti, 1988.
C. La Rocca, Nichilismo e retorica. Il pensiero di Carlo Michelstaedter, Pisa, ETS, 1984.
A. Michelis, Carlo Michelstaedter. Il coraggio dell’impossibile, Roma, Città Nuova, 1997.
G. Pulina, L’imperfetto pessimista. Saggio sul pensiero di Carlo Michelstaedter, Poggibonsi (Lucca), Lalli, 1996.
M. A. Raschini, Michelstaedter, Venezia, Marsilio, 2000.
L’arte della persuasione come strumento di dominio.
E. E. Alfano, Plasmare il potere. Immagine e persuasione in politica, Roma, Anicia, 1995.
B. Ballardini, Manuale di disinformazione. I media come arma impropria: metodi, tecniche, strumenti per la distruzione della realtà, Roma, Castelvecchi, 1995.
M. Beer, Convincere gli altri. La sottile arte della persuasione, Milano, Franco Angeli, 1998.
R. Brodie, Virus della mente, Salerno, Ecomind, 2000.
N. Cavazza, La persuasione, Bologna, Il Mulino,1996.
N. Cavazza, Comunicazione e persuasione, Bologna, Il Mulino, 1997.
E. Cheli, La realtà mediata. L’influenza dei mass media tra persuasione e costruzione sociale della realtà, 4a edizione, Milano, Franco Angeli, 1992.
N. Chomsky – E. S. Herman, La fabbrica del consenso, Milano, Tropea, 1998.
S. Cristante – M. Binotto, Media e potere. Il lato oscuro della forza, Roma, Sossella, 2000.
G. Cronkhite, La persuasione. Comunicazione e mutamento del comportamento, 3a edizione, Milano, Franco Angeli, 1989.
M. Di Fiorino, La persuasione socialmente accettata, il plagio e il lavaggio del cervello, 2 voll, Forte dei Marmi (Lucca), Edizioni Psichiatria e Territorio, 1990-1991.
P. Glisenti Paolo – R. Pesenti, Persuasori e persuasi. I mass media negli USA degli anni ’90, 3a ed., Laterza, Bari, 2000.
V. Mastronardi, Le strategie della comunicazione umana. La persuasione, le influenze sociali, i mass media, Milano, Franco Angeli, 1998.
A. Pennacini (a cura di), Retorica e comunicazione. Teoria e pratica della persuasione nella società contemporanea, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1993.
M. Pera – W. R. Shea, L’arte della persuasione scientifica, Milano, Guerini e Associati, 1992.
K. R. Popper, L’informazione violenta, Milano, Edizioni Società Aperta, 1996.
G. Statera, Il volto seduttivo del potere. Berlusconi, i media e il consenso, Roma, Seam, 1994.
(a cura di Matteo Soccio)
* I libri di e su Aldo Capitini sono disponibili presso «Azione nonviolenta».
La scelta sionista fatta da ragazza, l’odio per Israele di certa sinistra, l’impegno pacifista, gli amici palestinesi… un destino comune
Intervista a Manuela Dviri *
Perché sono andata in Israele? Perché vengo da una famiglia ebraica sionista. La piccola comunità ebraica padovana, a differenza di quella di Venezia, era molto sionista; da Padova erano partiti parecchi ragazzi dell’età di mio padre, tra cui Renzo Calabresi, i fratelli Rossi, parlo del primo dopoguerra. A mio padre sarebbe molto piaciuto andare, però aveva una madre molto vecchia ed è rimasto qui, ha passato la guerra, ha fatto un po’ il partigiano.
Mio padre ricordava come un affronto terribile la seconda guerra, l’essere perseguitati. Il fatto di essere in mano d’altri, di non avere il proprio destino nelle proprie mani è qualcosa che ha avuto un peso nella nostra famiglia.
Delle tre sorelle, la prima a partire sono stata io, nel ’66, quindi prima della guerra del ’67; avevo diciassette anni e in nave, proprio venendo la prima volta in Israele ho conosciuto un ragazzo israeliano, un sabra; due anni dopo ci siamo sposati. Di stabilirmi in Israele già ci pensavo, comunque, così, con un marito israeliano, mi è stato anche più facile. Pochi anni dopo, anche mia sorella è arrivata, mentre una terza sorella è rimasta in Italia, a Torino.
Io quindi sono venuta in Israele non per bisogno, come spesso è successo agli ebrei della diaspora, ma proprio per puro desiderio sionista. Devo anche dire che i primi anni sono stati molto belli e molto faticosi, anche perché io non parlavo una parola di ebraico, l’ho imparato da sola, ho fatto l’università a Tel Aviv, mi sono laureata in Letteratura Comparata, in inglese e francese, poi ho insegnato in varie scuole; mi ero inventata un metodo particolare per insegnare l’inglese ai bambini handicappati; infine sono passata all’Istituto Weizman e lì ho lavorato fino al ’98. Nel frattempo mi erano nati tre figli, il grande nel ’69, uno nel ’72, il terzo nel ’77. Nel ’98, il 26 febbraio ’98, è morto mio figlio piccolo, Yoni. E’ morto sul fronte del Libano.
Per alcuni mesi sono tornata al lavoro, poi ho deciso che dovevo fare altro nella vita, che bisognava darsi da fare; se non l’avessi fatto io non l’avrebbe fatto nessun altro.
Fare cosa? Far sentire la mia voce, anche se diversa da quella degli altri, anche se a volte sgradevole, ma farla sentire lo stesso, come se io fossi l’unica al mondo che può cambiare le cose. Certo, lo so che non lo sono, ma se tutti lo pensassero, probabilmente il mondo cambierebbe.
Tutto è iniziato nel ’98, durante la Shivah, la settimana di lutto per i morti. Mi sono venuti a trovare in casa il presidente della Repubblica, che allora era Weizman, e il ministro della Difesa, Yitzhak Mordechai. Si aspettavano la solita madre affranta, in lacrime e invece si sono trovati davanti una donna infuriata. Io ho chiesto al ministro della Difesa: “Lei mi sa spiegare cosa stanno facendo questi soldati in Libano? E perché siamo ancora lì?”. Lui non ha saputo rispondermi o, forse, non ha voluto e allora mi sono rivolta a tutti i militari, dal Capo di Stato Maggiore ai colonnelli, ai generali, ai soldati semplici. E a tutti ho fatto la stessa domanda: “Cosa stiamo facendo in Libano?”. La risposta è stata: “Siamo nel territorio libanese perché nessuno ha deciso di non esserci”.
Dopo il ritiro dal Libano, per un’idea che era venuta, pare, a Rabin, si era deciso di lasciare una “striscia di sicurezza” che sarebbe stata salvaguardata da truppe maronite, cattoliche e israeliane.
All’inizio funzionò, ma poi nacque il gruppo degli Hezbollah che si mise a combattere contro i ragazzi rimasti nella striscia di sicurezza; in pratica questi giovani, anziché salvaguardare i villaggi ebraici di frontiera divennero dei bersagli, come quegli anatroccoli che si vedono nei Luna Park.
All’inizio ne morivano due, tre, anche quattro in un mese. Sembrava fosse una cosa normale. Nel ’97, in seguito alla collisione nei cieli del Libano di due elicotteri israeliani (in cui morirono 73 militari) quattro madri di soldati residenti in Galilea fondarono il gruppo “Quattro Madri”. Le donne avevano cominciato a far sentire la loro voce. Era il momento giusto, nel 2000 ci sarebbero state le elezioni e Barak aveva capito che l’opinione pubblica stava cambiando: ormai erano in molti a volere il ritiro delle truppe dal Libano, così promise: “Se io sarò eletto usciremo dal Libano” e mantenne l’impegno. Fu l’unica cosa veramente buona che fece durante il periodo del suo governo.
Già, Barak. Il suo governo, fin dall’inizio, fu un po’ bizantino; Barak non si fidava di nessuno, credeva solo in se stesso, quindi aveva formato due gruppi di consiglieri o di aiutanti che si combattevano l’uno con l’altro, aveva proprio una corte che gli girava intorno. Del resto parliamo di un uomo che era appena uscito dall’esercito, che era stato Capo di Stato Maggiore; un uomo nato e vissuto nei kibbutz, che aveva conquistato il Labour così, in volata, quasi senza alcuna fatica, ma anche senza alcuna esperienza politica che lo potesse sostenere in una trattativa così delicata come quella che doveva portare agli accordi coi palestinesi. Non dimentichiamoci che un arabo è un arabo; un arabo ama il suk, il mercato, il cercare di tirare sul prezzo, e allora forse anche il provare a forzare coi negoziati.
Secondo me, se un negoziato non funziona, bisogna andare avanti ugualmente; a Taba si era veramente arrivati vicinissimi un accordo. Per questo si può citare Jossi Beilin, che era a Taba e ha continuato a tenere rapporti coi palestinesi: c’era già un accordo anche per il numero dei palestinesi che sarebbero potuti rientrare in Israele in base alla legge del ritorno palestinese. Comunque, ora è inutile tornare sull’argomento, semplicemente non c’era tempo. Era già tardi a Camp David, l’incontro non era stato adeguatamente preparato. Soprattutto si era troppo a ridosso della fine del mandato di Clinton, come pure di quello di Barak; stava avvenendo tutto all’ultimo momento. Infatti sono stati compiuti degli errori enormi, sia da parte palestinese, che da parte israeliana; su questo non ho alcun dubbio.
Credo anche che Arafat non si aspettasse un’intifada così lunga, di cui ha perso il controllo; in Medio Oriente, ci sono delle forze, delle emozioni, che sono potenti, e che a un certo punto sfuggono di mano. Neppure Barak pensava che poi sarebbe finita così.
I risultati dell’intifada sono stati orribili per ambedue le parti. Nei Territori palestinesi la disoccupazione è altissima, siamo ormai arrivati alla fame, c’è molto spesso il coprifuoco, è una vita impossibile. La popolazione palestinese sopravviveva anche grazie agli impieghi in Israele; oggi da Gaza non entra più nessuno, Betlemme è chiusa, come pure Ramallah, Jenin, Nablus, tutte le città palestinesi sono chiuse. A Gerico, dove c’era il famoso casinò in cui gli israeliani andavano a giocare, è successo il finimondo, è sparito tutto, anche il casinò.
Ma la cosa più incredibile è che si era veramente a un passo dalla normalità. Io ricordo, e parlo di due non di dieci anni fa, quando gli israeliani andavano a comprare i mobili nei Territori; quando andavano nei Territori a giocare al casinò, ad aggiustare la macchina perché il garage costava meno, a curarsi i denti perché il dentista in Israele costa carissimo mentre quelli palestinesi, pur essendo qualificati, costano meno. Insomma, il passaggio dalla quasi normalità alla catastrofe è stato rapidissimo. Dubito che dalla catastrofe si possa tornare alla quasi normalità con la stessa rapidità.
La guerra dei Sei Giorni, la grande vittoria, è stata, in fondo, la nostra rovina. Oggi, da persona normale, mi chiedo: “Quali sono le nostre prospettive?”. Se i Territori diventano parte dello Stato d’Israele cosa ne facciamo dei palestinesi? Se diamo il voto a tre milioni di arabi, avremo un premier arabo entro cinque minuti; se non diamo il voto a tre milioni di arabi, allora è apartheid; se rimaniamo come siamo adesso, che non siamo né qui né lì, come andiamo avanti? Continueremo a colpi di bombe da una parte e di kamikaze dall’altra? Il problema è la sfiducia, una sfiducia enorme, che proviamo gli uni rispetto agli altri, reciprocamente. I palestinesi sostengono che da Netanyahu in poi gli accordi non sono più stati rispettati; Israele avrebbe dovuto lasciare altri territori, invece anche con Barak. insomma la loro accusa è: “Noi ci abbiamo creduto e voi non avete fatto quello che avreste dovuto fare”.
Dall’altra parte l’israeliano dice: “Se voi accettate che i vostri kamikaze ci uccidano nelle nostre città, come possiamo avere fiducia in voi?”. Quindi c’è una sfiducia fortissima da ambedue le parti. E tuttavia c’è anche il desiderio di vivere una vita normale, perché questa è una vita impossibile ormai, per loro e anche per noi.
Il fatto è che siamo intimamente intrecciati l’uno con l’altro, siamo come dei gemelli siamesi: se uno sposta la testa, sposta la testa anche l’altro, se uno sta bene, sta bene anche l’altro, se uno sta male sta male anche l’altro. Allora, sarebbe importante che almeno si sapesse quel che succede dall’altra parte, anche per eliminare l’aspetto di demonizzazione del nemico, che nel nostro caso è una persona che ci vive a pochi metri o a pochi chilometri di distanza.
A volte l’israeliano crede di vivere in Europa, invece no, vive nel Medio Oriente, c’è poco da fare. Allora, israeliani e palestinesi hanno gli stessi problemi, vivono nello stesso luogo, si conoscono molto bene. Forse i palestinesi ci conoscono meglio di quanto noi conosciamo loro; moltissimi palestinesi parlano l’ebraico perfettamente, io lo sto studiando adesso, l’arabo, lo parlo malissimo; quello che voglio dire è che noi abbiamo un destino comune, mentre l’italiano, tutto sommato, spesso gioca sul problema israelo-palestinese, secondo quello in cui crede politicamente. Del resto, i palestinesi sono molto più simili a noi di quanto uno possa credere; hanno imparato tutto da noi: noi abbiamo avuto il sionismo loro hanno il desiderio di uno Stato, con un capo di Stato, con un parlamento. Questo desiderio nasce esattamente dal fatto di non avere libertà, di non poter decidere per se stessi. Ebbene, non c’è niente di meglio di un’oppressione per diventare popolo. Noi lo sappiamo bene: quand’è che siamo diventati Stato d’Israele? Quando -in ben altro modo, per carità facciamo le debite distinzioni- come popolo ci siamo sentiti espropriati di tutto quanto un popolo deve avere. I palestinesi sono gli ebrei del Medio Oriente.
Vado spesso avanti e indietro tra Israele e l’Italia; dovunque vada mi piace osservare l’espressione della gente: in Israele il viso delle persone è molto spesso triste. Quella di Sharon è una politica di vendetta, occhio per occhio, dente per dente, così alla fine rimarremo tutti senza occhi e senza denti. La preoccupazione di una persona che non è della sinistra israeliana, come può essere mio marito, è quella di un paese ormai allo sbando: “Va bene, allora continueremo a uccidere e a farci uccidere e intanto resisteremo. ma fino a quando?”. Tutti si chiedono quale sarà il futuro. Anche chi vuole la vendetta si chiede quale sarà il futuro. Intanto oggi a pagare sono le classi meno abbienti. Tantissimi giovani hanno perso il lavoro; un’amica mi raccontava che ci sono dei ragazzi che girano per il mondo, che casomai stanno sei mesi in India perché -dicono- “In India la vita costa poco, così ci divertiamo e anche se non lavoriamo sopravviviamo lo stesso”.
Il futuro è un grande punto di domanda. Io credo che Israele rischi non già la distruzione da parte degli arabi, quanto l’autodistruzione; il pericolo è che rimangano quelli che dicono: “Occhio per occhio, dente per dente, vendichiamoci” e che un giorno o l’altro i giovani si rassegnino a pensare: “Che ragione c’è perché io stia qui? Il mondo è grande, io parlo le lingue, so lavorare col computer, ho studiato per fare il medico, posso farlo anche da un’altra parte”. Questo è un pericolo enorme. Israele è un paese che non ha mai conosciuto simili tassi di disoccupazione; d’altra parte non ha nemmeno mai conosciuto un tale numero di stranieri che fanno lavori fisici. Ora ci sono i filippini che fanno i badanti o le badanti, i rumeni che fanno i muratori, i cinesi e i tailandesi che si occupano di agricoltura, i tailandesi o i filippini che lavorano nei ristoranti, ce ne sono per tutti i gusti e per tutte le qualità; addirittura le prostitute russe, o anche israeliane che lavorano per tutti questi gruppi di stranieri. Ci sono ormai delle piccole città di stranieri in Israele, per esempio a Tel Aviv nella zona della vecchia stazione degli autobus. E’ un mondo fuori d’Israele dentro Israele.
Credo che la comunità ebraica italiana, che è quella che io più conosco, sia molto confusa e imbarazzata, e forse anche poco informata. Del resto, la complessità del mondo israeliano è tale che diventa difficile seguire giornalmente quello che succede, malgrado moltissimi ebrei della diaspora, praticamente quasi tutti, abbiano parenti e amici in Israele. Io spesso incontro ebrei della diaspora e li trovo sempre molto preoccupati dell’antisemitismo.
Ecco, l’antisemitismo è la cosa di cui io ho smesso di preoccuparmi dal ’68, cioè da quando sono andata in Israele. Secondo me, l’antisemitismo è soprattutto razzismo, ossia una brutta malattia, e chi ce l’ha probabilmente la tiene nascosta. Comunque, io penso che nei corsi e ricorsi, la storia non torna mai ad essere identica a quella che è stata in passato. Credo che oggi in Europa, in Italia, sia più facile che facciano del male agli albanesi, ai turchi, o agli afgani o ai russi. L’antisemitismo, come l’abbiamo conosciuto durante la seconda guerra mondiale, non tornerà mai più. Comunque di antisemitismo di sicuro in Italia non si muore, mentre di anti-israelismo oggi si muore. E’ una bella differenza. Di questo si muore in Israele, ma in futuro potrebbe accadere anche all’estero. Anzi forse già accade: quel gruppo di israeliani morti in Kenia sono morti non perché erano ebrei, ma appunto perché erano israeliani. Penso che non sia lontano il giorno in cui in un albergo si potrà sentirsi dire: “Lei ha passaporto israeliano? No, allora preferiamo di no, è troppo pericoloso per noi”. Insomma, io sinceramente non sento l’urgenza di preoccuparmi dell’antisemitismo contro gli ebrei, né in Italia né altrove.
Qualche tempo fa ho ricevuto il messaggio di uno psicologo egiziano che raccontava, con molto disprezzo, di una trasmissione che stanno facendo al Cairo sui Savi di Sion; la riteneva una cosa orribile, assolutamente da condannare e auspicava che, visto che il mondo intero ha capito che sono balle, gli egiziani smettessero di far vedere queste cose, e soprattutto che i politici fossero i primi a dirlo. Ho interloquito con questo signore per internet, non sapevo neanche chi fosse, e l’ho ringraziato; ho detto che avevo trovato delizioso questo suo messaggio e che avremmo potuto cambiare l’espressione “leader egiziani” con “leader israeliani”. Lui ha risposto molto gentilmente dicendo: “Mi fa piacere sapere che dall’altra parte c’è una persona che è d’accordo con me”. Ecco, internet fa sì che si continui a dialogare, israeliani con palestinesi, con egiziani, con giordani. Io ho anche degli amici in Giordania, in Egitto, ho degli amici palestinesi e, grazie a internet e al telefono, si continua a parlare tra di noi, quasi fossimo una piccola coalizione all’interno di questo mondo che fa le guerre preventive, che decide chi ha ragione e chi ha torto nel modo più assoluto, che stabilisce che bisogna fare assolutamente il tifo per l’una o per l’altra squadra, mentre, secondo me, non ce n’è assolutamente bisogno, bisogna fare il tifo per le persone.
E’ vero, a sinistra ci sono anche posizioni ferocemente anti-israeliane. Recentemente, in occasione del giorno della donna, eravamo state invitate in una città vicino a Firenze, io e due mie amiche palestinesi in esilio; proprio mentre eravamo lì che parlavamo c’è stato l’ingresso delle truppe israeliane a Betlemme, era marzo; il padre di una delle amiche palestinesi mi ha contattato, chiedeva aiuto; ho subito telefonato in Israele, ho messo in moto un’amica parlamentare, ho parlato con altre persone, insomma ho cercato di mobilitarmi. Ebbene, quando sono tornata, sono subito stata aggredita da una signora molto di sinistra che mi ha detto: “Lo Stato d’Israele non ha il diritto di esistere perché è aggressore”. Ma come? Mi ero appena fatta in quattro per aiutare la gente di Betlemme attraverso amici israeliani. E’ subito saltata su una delle due palestinesi, dicendo: “Lei non si permetta di dire una cosa del genere a questa persona”. Ecco, a volte mi sembra che in Italia si faccia del tifo per l’uno o per l’altro senza capire che, poi, in realtà, quando siamo fuori dal contesto -o anche dentro- ci capiamo molto di più fra israeliani e palestinesi di quanto possa fare un italiano.
Quando c’è stata la famosa storia della raccolta delle olive, ci sono stati dei gruppi che sono andati fisicamente ad aiutare i palestinesi a raccogliere le olive e a me sembra una cosa importante, perché è così che si crea un futuro comune. Non tutti i palestinesi sono dei kamikaze, non tutti i palestinesi ci vogliono uccidere, ma tutti i palestinesi stanno malissimo, sono ormai arrivati quasi alla fame e quindi vanno aiutati quando vengono aggrediti dai coloni, come è successo nel caso delle raccolta delle olive.
C’è un altro gruppo, che io trovo molto interessante, che è “Medici per i diritti umani”, medici israeliani che vanno nei Territori, una volta ogni quindici giorni, ad aiutare i loro partner palestinesi. Poi ci sono Le donne in nero che, tutti i venerdì, fanno delle manifestazioni; non hanno mai smesso di farlo, mai, neanche per un giorno. Poi c’è un gruppo che pubblica un giornaletto in ebraico e in arabo per bambini e che raccoglie viveri, vestiario, anche pentole, per i palestinesi; c’è infine Ta’ayush che, forse, è il più importante, e che si presenta ai processi, che va ovunque. Certo, sono tutti piccoli gruppi, molto spesso fatti da ragazzi abbastanza giovani, che non hanno alcuna importanza dal punto di vista politico. Eppure.
Forse in quel momento non l’avevo nemmeno capito, ma la mia idea era che, siccome Yoni era un bravissimo ragazzo, un figlio buono, bravo, simpatico, che non aveva mai fatto del male nella vita, ho deciso che neanche la sua morte avrebbe dovuto farmi del male; anzi nella sua morte avrei dovuto trovare una nuova ragione di vivere. L’ho trovata.
* Manuela Dviri, israeliana originaria di Padova, ha scritto “L’uovo di cioccolata”, pubblicato in Israele, collabora col Corriere della Sera, vive a Tel Aviv. Intervista a cura di “Una città” http://www.unacitta.it/
Padri e madri d’Israele, voi che ancora potete: proteggete i vostri bambini dal mostro dell’odio
Intervento di Nurit Peled, pacifista israeliana che ha ricevuto il premio Sacharov 2003
Questo pomeriggio vorrei essere qui coi miei bambini per piantare un albero di pace nel bosco della madre e del bambino. Gli alberi da sempre sono stati simbolo di pace, di vita, di prosperità. In Israele noi abbiamo una meravigliosa usanza: si pianta un albero per ogni nuovo nato, e la foto di questo albero viene appesa sopra il suo letto come simbolo di vita e di speranza. Ora, oggi, in Israele, questi stessi bambini, che hanno alberi che portano i loro nomi e la cui foto decora le loro camere d’infanzia, sradicano crudelmente gli alberi dei loro vicini. Bambini ebrei e sionisti strappano, diventando soldati, gli ulivi – simbolo della pace – e distruggono le vigne – simbolo della prosperità – ai palestinesi, privandoli così di tutti i mezzi di vita, condannandoli a una morte di umiliazione e di fame. Questi soldati israeliani, ragazzi giovani, beneducati, figli di amici miei, che si arruolano per servire il loro Paese, ricevono dai loro comandanti l’ordine di strappare boschi interi, e ora l’albero tagliato è diventato, in questo Paese assassino e sanguinante, il simbolo della crudeltà, della disperazione, e del razzismo cieco che lo domina. I figli dei palestinesi che hanno perduto uliveti e vigne, onore e vita, case e speranza, diventano dei terroristi suicidi perché non hanno più niente da perdere.
In questo inferno non restiamo che noi, le vittime delle due parti che cercano di arrestare questa follia. Noi siamo i soli che cercano di salvare questi bambini dalla loro terribile sorte di carnefici e vittime, che cercano di spiegare ai giovani israeliani idealisti che servire il loro Paese non vuol dire obbedire come dei robot agli ordini mortiferi, che cercano di convincere i bambini palestinesi che il loro popolo ha bisogno di loro vivi e non morti. Noi siamo i soli a gridare alle orecchie del mondo intero che per i nostri bambini morti non c’è differenza tra ciò che il mondo chiama terrorismo e ciò che chiama guerra contro il terrorismo. Per la mia piccola figlia che è morta a Gerusalemme perché era israeliana e per i piccoli bambini che muoiono a Gaza e a Jenine e a Ramallah perché essi sono palestinesi, questa differenza non esiste più. Perché l’uno e l’altro, il terrore e il controterrore, significano la morte impietosa degli innocenti. Perché in effetti non esistono delle uccisioni civilizzate di innocenti e delle uccisioni barbare degli innocenti. Non esiste che l’uccisione criminale degli innocenti.
Ciò che conta per i nostri bambini è il fatto che noi, gli adulti, i genitori, non riusciamo a proteggerli e a salvarli. Che essendo preoccupati dei problemi di identità, di razza, di diritti storici o mitologici, noi dimentichiamo l’essenziale, noi dimentichiamo che la morte di un bambino, non importa quale, è la morte del mondo intero, del suo passato e del suo avvenire. E che dopo la morte di un bambino non c’è più la morte perché non c’è più la vita. In questo mondo che si dice progressista, tollerante e umanista, ci sono persone che si CHIAMANO capi di Stato, che si servono di valori nobili quali la libertà, la democrazia, e la giustizia per commettere dei crimini contro l’umanità. Che parlano della prosperità di tutto il mondo spogliando fino alla morte i bambini degli altri. E’ tempo di ripensare questi valori, di ridefinire dei termini quali i diritti dei bambini, i doveri degli adulti, ridefinire l’educazione. Spiegare ai bambini che gli argomenti politici e religiosi non servono che al genocidio. È tempo di crearsi nuove identità, inclusive piuttosto che esclusive di identità di cui il comune denominatore sarà la maternità e il pacifismo.
Non c’è nessuna parola che sia così carica di senso, ideologica e emozionale come la parola NOI. E’ tempo ora di ripensare questa parola, di ridefinire il nostro noi. Noi, le vittime del terrorismo e della guerra contro il terrorismo, noi a cui la morte dei nostri bambini ha dato una nuova voce, noi l’abbiamo già fatto. Quando io dico noi voglio dire le madri e i padri che desiderano la pace a qualsiasi prezzo. Quantunque io sia nata ebrea e israeliana, quando io dico noi io non includo in questa parola le madri ebree e israeliane che educano i loro figli sulla terra rubata ai palestinesi, io non includo in questo noi i padri che educano i loro figli a credere che ci siano dei bambini che non meritano di vivere. Io includo in questo mio noi, in questa nuova identità che ho ricevuto dalla morte, l’identità della madre vittima, tutte le altre madri vittime di qualsiasi altra nazionalità, palestinese, irachena, afgana o curda. Io includo Najakh, la giovane madre palestinese che ha perduto il suo bambino di dieci anni e che non ha che tenerezza per la mia bambina; io penso a Khaled che, 20 giorni dopo aver trovato suo figlio bucato dalle pallottole, è partito con me per egli Stati Uniti per parlare della pace, e quando è riuscito a telefonare a sua moglie le ha detto di smetterla di piangere per il suo bambino ma di piangere per la mia. Quando io dico noi penso al professor Gazawi, che come me ha vinto il premio Sakharov, che dopo aver perduto suo figlio di 15 anni, ucciso dai soldati israeliani, si è precipitato per aiutare un amico ferito, ha fondato un gruppo di dialogo di scrittori israeliani e palestinesi, e vi ha incluso la famiglia Sartawi, famiglia che ha perduto il proprio padre perché ha osato essere amico del mio e ha osato sognare con lui la pace tra i due popoli. Io includo anche tutti i miei amici israeliani che hanno fatto un voto sulle giovani tombe dei loro bambini, di non perdere la loro ragione.
Io invito tutti i genitori del mondo a riunirsi in questa collettività le cui fondamenta sono la paternità e la maternità, ad alzare la loro voce sino a quando esse non sprofondino le altre voci che dominano il mondo: quelle dei politici corrotti e megalomani, dei generali crudeli, dei businessmen senza scrupoli che conducono il mondo intero alla sua perdita. La maternità è più forte di qualsiasi nazionalità, qualsiasi mitologia, qualsiasi interesse economico. Io vorrei vedere le famiglie belghe incoraggiare i loro governanti a giudicare e a punire i criminali in uniforme tanto quanto i criminali civili, affinché qualsiasi uccisore di bambini sappia che non esiste alcun angolo in questo universo ove egli possa nascondersi dalla giustizia. Che i genitori di tutti i bambini non sopportino più l’assassinio di qualsiasi bambino in nome dell’ordine e della giustizia. Noi non abbiamo bambini da sprecare in queste inutili guerre. Non abbiamo bambini da sacrificare al dio della vanità, dell’arroganza, della megalomania. Per i capi di Stato i bambini sono delle entità astratte: voi me ne uccidete uno, io ve ne ucciderò trecento, e il conto è regolato. Ma io che ho perso la mia piccola Smadar, io so che la nozione della vendetta è ridicola. Come diceva il grande poeta ebraico Bialik dopo i pogrom in Russia contro gli ebrei, Satana non ha ancora creato la vendetta del sangue di un bambino.
Come scrive Marguerite Duras: “La morte di non-importa-chi è la morte intera. Non-importa-chi è tutto il mondo. E questo non-importa-chi può prendere la forma atroce di un bambino in corsa… Non ci sarà più nulla da scrivere, nulla da leggere. Non ci sarà che l’intraducibile della vita di questi morti così giovani, giovani da urlare”.
Voglio citare una frase di Anna Achmatova, che ha sofferto tanto della crudeltà del regime oppressivo del suo Paese, e che ha perduto il suo bambino. È ciò che avrei detto a mia figlia Smadar quando l’ho vista per l’ultima volta, prima di tornare sui miei passi e abbandonarla a mani straniere: “E perché questo filo di sangue sul petalo della tua gota?”.
Io che non ho saputo proteggere mia figlia contro le conseguenze degli atti del suo stesso Paese, io vi invoco, voi madri che non avete ancora perduto i vostri figli: proteggete i vostri bambini, non lasciateli diventare pedine in questo terribile gioco di scacchi.
Traduzione di Maria Inversi
Un curdo dal nome italiano: Dino Frusullo
Il 5 giugno a Perugia è morto Dino Frisullo, un compagno che tutti abbiamo sicuramente trovato negli ultimi trent’anni sulle nostre strade antimilitariste, pacifiste, internazionaliste. Un amico che ha dato generosamente la propria vita a tante cause, da ultimo, e in tempi assolutamente non sospetti, alla causa curda, in Iraq e in Turchia. Instancabile animatore di ‘Piazza Kurdistan’ a Roma e di migliaia di viaggi e appelli per la causa di un popolo dimenticato e condannato alla diaspora.
Chiunque abbia lavorato con lui sa quanto fosse testardo e intransigente: la causa degli ultimi per lui non conosceva limiti. Al di là della propria vita personale, al di là di ogni comodità e convenienza, al di là, a volte, della stessa amicizia…
Solo ora capiamo, e come al solito tardivamente, come mai avesse avuto tutta questa premura di vivere tutto, in fretta e intensamente. Non aveva tempo per il riposo, non aveva -ce lo dice ora la sua vita troppo breve- tempo da perdere davanti alle troppe ingiustizie e al troppo poco tempo per opporvisi.
Collaboratore del gruppo parlamentare di Rifondazione Comunista, abbiamo lavorato insieme per un paio d’anni, anche sul lavoro aveva una foga e una generosità mai dome: quante volte il personale della Camera ci ha gentilmente ‘buttati fuori’ perchè era troppo tardi la notte, quante volte siamo stati richiamati per le bollette telefoniche un po’ troppo salate: l’ufficio di Dino era divenuto un centro di raccolta di palestinesi, kurdi, per tutti coloro che Dino non tollerava fossero strappati dalle loro terre e dai loro affetti e a cui offriva tutto quello che aveva!
Tiziana Valpiana
Lo abbiamo incontrato in molte occasioni. Una delle più significative è stata certamente la Marcia nonviolenta Perugia-Assisi “Mai più eserciti e guerre” del 2000.
Dino Frisullo, con i suoi compagni kurdi, si offrì di organizzare la stazione di Ponte San Giovanni, dove Hevi Dilara, responsabile dell’ Ufficio informazione del Kurdistan in Italia, diede lettura di un importante documento. Lo riportiamo integralmente, perché in esso sentiamo ancora vivo lo spirito che animava il pensiero e l’azione di Dino.
Disarmo unilaterale in Kurdistan
Come 40 milioni di kurdi, da quando sono nata conosco la guerra. Ho visto torturare mio padre, ho visto bruciare dai soldati turchi il villaggio della mia infanzia. Come decine di migliaia di giovani kurdi, sono nata con un’altra guerra: la guerra di liberazione. Come 60 anni fa in Italia, nella montagna che si armava contro gli oppressori, è rinata l’identità, la coscienza, la fierezza di un popolo violentato e negato. Coloro che spargono il terrore ci hanno chiamati terroristi. Oggi, insieme al mio popolo, sto imparando che la strada della pace, del dialogo, del disarmo unilaterale è ancora più difficile, ma anche più esaltante, di quella delle armi.
Io qui rappresento il primo movimento di liberazione nella storia che abbia fatto una scelta radicale di rinuncia unilaterale alla violenza e alla lotta armata, prima ancora di essere legittimato e di conquistare un qualsiasi tavolo di negoziato. Il più grande partito kurdo, il Pkk, nel suo ultimo congresso ha deciso di archiviare anche il nazionalismo. Noi siamo una nazione, nel senso storico-culturale, ma non rivendichiamo uno Stato-nazione. Non vogliamo creare altri muri e confini: ne abbiamo già sofferto troppo.
Vogliamo vivere con dignità nella nostra terra, insieme a tutti coloro che, come me, sono stati costretti all’esodo e all’esilio. Vogliamo parlare, scrivere e cantare nella nostra antica lingua. Vogliamo essere kurdi in una Turchia, un Iraq, un Iran e una Siria democratici. Il Kurdistan esiste ed esisterà, ma non sarà il germe di un’altra guerra, come è avvenuto nell’ex Jugoslavia. Senza abbattere le frontiere che ci hanno smembrati, sapremo scavalcarle pacificamente per proporre democrazia e federalismo in tutto il Medio Oriente.
Questo è il nostro sogno: una rivoluzione non distruttiva, ma creativa e pacifica.
In nome di questo sogno collettivo io chiedo a voi, pacifisti italiani ed europei: perché non ci aiutate a farlo diventare realtà? Perché non ci aiutate a legittimare, oggi in Italia e domani in Europa, quello che è oggi il partito della pace in Turchia e nel Medio Oriente, il Pkk?
Provate a sognare con noi la grande nave che ci riporterà nella nostra terra: noi profughi ed esuli, insieme a voi.
Perché l’Europa che noi amiamo e rispettiamo, non è quella dei mercanti della armi che ci massacrano, ma è la vostra Europa.
L’Associazione “Gabriele Bortolozzo” Premio Alexander Langer 2003
Gabriele Bortolozzo, operaio al Petrolchimico di Porto Marghera, con la sua lotta, all’inizio solitaria e pionieristica, contro l’uso del cloruro di vinile monometro dichiarato cancerogeno fin dal 1973, ha promosso una generale crescita di coscienza civica e di strumenti di tutela della salute nei luoghi di lavoro e negli ambienti di vita. Ha collaborato a questo scopo con numerose associazioni e riviste, tra le quali “Smog e dintorni”, “AAM Terra Nuova”, “Tam Tam Verde”, “Terra e Acqua”, “Medicina Democratica”, “Movimento dei Consumatori Veneto”, “Amici della Bicicletta di Mogliano Veneto”.
Con l’accurata inchiesta sulle morti e le malattie che avevano colpito i suoi compagni di lavoro, pubblicata nel 1994 da Medicina Democratica, ha fatto aprire le indagini che hanno portato al processo ai vertici di Montedison e Enichem, conclusosi con una generale assoluzione nel 2001.
Nato a Campalto di Venezia nel1934, entra nel 1956 come operaio al Petrolchimico di Porto Marghera dove lavora per 35 anni. Alterna il lavoro e l’attività di denuncia ad uno stile di vita ricco di rapporti umani, di attenzione al bello e alle piccole cose, di esplorazione del territorio. Muore nel settembre del 1995 in seguito ad un incidente stradale.
Il premio alla memoria di Gabriele Bortolozzo, dotato di 10.000 euro, verrà consegnato il 6 luglio 2003 a Bolzano, al termine della manifestazione “euromediterranea”, all’associazione che porta il suo nome impegnata a continuare i suoi studi, il suo lavoro, la sua visione del mondo. Ne fanno parte attiva anche i figli Beatrice e Gianluca, che la presiede (vedi in www.provincia.venezia.it/agb/).
A cura dell’associazione sono stati pubblicati il libro autobiografico postumo di Gabriele Bortolozzo “L’erba ha voglia di vita”, l’inchiesta “Terra, Aria, Acqua, Valutazione o Svendita”, “Processo a Marghera” di Nicoletta Benatelli, Gianni Favarato ed Elisio Trevisan con il coordinamento di Franco Rigosi, ed. Nuova dimensione 2002..
Del lavoro di Gabriele Bortolozzo hanno parlato numerose pubblicazioni, tra le quali ricordiamo: “Petrolkimico” di Nicoletta Benatelli e Gianfranco Bettin, Baldinie Castoldi 1998, “Petrolkiller” di Gianfranco Bettin e Maurizio Dianese, Feltrinelli 2002, “Cronache della Chimica. Marghera e le altre” di Paolo Rabitti, Cuen 1998.
Il regista Paolo Bonaldi ne ha tratto un film presentato alla mostra di Venezia, con il titolo “Porto Marghera-Venezia: un inganno letale”. L’attore Marco Paolini ne ha fatto il pezzo teatrale “Parlamento chimico. Storie di Plastica”. Tam Tam libri ha dedicato a “MoRtedison: Tutti assolti” una breve raccolta di poesie. Tutta la documentazione relativa al processo di Marghera/Mestre si può trovare nel sito del Tribunale di Venezia www.petrolchimico.it.
Helmuth Moroder
Il Premio Alexander Langer.
E’ un premio annuale con una dotazione di 20.000.000. Ad assegnarlo è una giuria internazionale che decide in piena autonomia.
Ognuno dei premiati ha fatto irrompere in Alto Adige-Südtirol, in Italia ed in Europa un tema, un’urgenza, che sfida le nostre coscienze e le nostre istituzioni: il valore universale della libertà, democrazia e giustizia sociale, la distinzione tra religione e stato, il superamento del nazionalismo etnico e dell’odio razziale, la difesa intransigente dei diritti umani e della convivenza, soprattutto dove rischia di trasformarsi in orrore genocidario.
La Fondazione intende mantenere ed approfondire il rapporto con i premiati ed i temi che hanno sollevato, attraverso la costituzione di un osservatorio permanente e la promozione di iniziativa culturali di riflessione (incontri, mostre, diffusione di materiale informativo).
La Fondazione incoraggerà le iniziative, di singoli, gruppi e istituzioni che intendono organizzare delle iniziative pubbliche di presentazione e di sostegno al lavoro dei premiati.
I premiati, per la pace e l’ambiente:
1997Kalida Messaoudi (Algeria)
1998Yolanda Mukagasana e Jacqueline Mukansonera (Rwanda)
1999Ding Zilin e Jiang Peikun (Cina)
2000Natasa Kandic e Vjosa Dobruna (Serbia/Kossovo)
2001Sami Adwan e Don Bar On (Israele/Palestina)
2002Esperanza Martinez Yanez (Ecuador)
“Se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio imparo”
Il diritto dei bambini ad usare le mani (e buttare il computer)
di Gianfranco Zavalloni *
La mano è lo strumento più importante dell’uomo: è l’arto che caratterizza gli esseri umani da tutti gli altri esseri viventi del creato. Con la mano l’umanità è riuscita a costruire (e a volte a distruggere)
intere civiltà. Con le mani la donna e l’uomo “comunicano”, “creano”, “scoprono”, “ giocano”, “ lavorano”.
La mano comunica: abbraccia, accarezza, sfiora, saluta, protegge, porge… Sono gesti ed azioni quotidiane che esprimono comunicazione, affetto, sentimenti d’amore. Penso a due innamorati, a genitori e figli, ai nonni, alle amicizie profonde.
La mano crea: plasma, dipinge, scolpisce, mima, scrive, svela, volteggia…Sono i gesti e le azioni quotidiane delle espressioni artistiche. Penso allo scultore, al mimo, al burattinaio, al pittore, al
prestigiatore, allo scrittore, al ballerino.
La mano scopre: muove, enumera, sposta, mischia, classifica, raggruppa, afferra, appunta… Sono i gesti e le azioni quotidiane di alpinisti, scienziati, ricercatori, archeologi, biologi.
La mano lavora: avvita, sega, imbullona, punta, assembla, progetta, zappa, falcia, guida, incide, estrae… Sono i gesti e le azioni quotidiane di chi nel lavoro usa soprattutto le mani: gli artigiani delle piccole botteghe, gli operai delle grandi officine, gli agricoltori delle campagne, ma anche i muratori, i macchinisti, i chirurghi, i dentisti.
La mano gioca: lancia, stringe, prende, ruota, manipola, preme, colpisce, taglia… Sono i gesti e le azioni quotidiane di coloro che giocano, nuotano, costruiscono giocattoli, si avventurano nel bosco: bambini, ragazzi e adulti.
Noi tutti sperimentiamo la maggior parte di queste (ed altre) “azioni quotidiane”, ad eccezione di quelle connaturate con specifiche professioni. Tutte queste “abilità manuali”, comunque, non si improvvisano. Sono il frutto di un lungo esercizio, di un lungo apprendistato che si perfeziona nel corso degli anni . La data di inizio è il primo giorno di vita. Non ha praticamente termine, se non nel giorno della nostra morte.
Le opportunità manuali dell’esperienza ludica
I bambini e le bambine che hanno la fortuna di vivere l’esperienza del laboratorio della manualità si trovano ad avere un “tesoro fra le mani”. È infatti, una vera e propria bottega per l’apprendistato della
manualità.
Il laboratorio delle mani è un luogo per poter imparare ad usare utensili e realizzare direttamente con le proprie mani vari oggetti come: i nidi artificiali per gli uccelli, mangiatoie, giocattoli con materiali di
recupero o con elementi naturali come ad esempio legnetti di nocciolo raccolti nella siepe.
Alcuni consigli per il laboriatio della manualità:
Usare strumenti di qualità in maniera appropriata. Molto spesso è la prima volta che usiamo un attrezzo: è bene, allora, farci insegnare i “trucchi del mestiere” da chi il mestiere lo fa di professione. Ci accorgeremo, allora, che una buona attrezzatura impedirà gli scoraggiamenti di fronte alle prime difficoltà ed ai primi errori.
E’ bene partire dal semplice e arrivate pian piano al complesso. Per maturare una abilità manuale è bene partire da realizzazioni semplici, dove si acquisiscono conoscenze e dimestichezza con i materiali e gli strumenti. Solo allora, in maniera progressiva, potremo avventurarci nelle realizzazioni più difficili e complesse.
Non cadiamo nella tentazione dei soldi. Oggi nella maggior parte delle tasche dei ragazzi ci sono più soldi di un tempo. C’è una mentalità generalizzata che ha creato l’idea per cui “ il tempo è denaro” e che “bisogna risparmiare tempo”. È più facile, perciò, andare nel negozio specializzato e acquistare il giocattolo pubblicizzato, anzichè costruircelo da soli. È bello, invece, far da soli, gustando insieme i risultati finali e condividendo così le fatiche.
È bene, infine, abituarci a non lasciare i lavori a metà. È di grande soddisfazione poter ammirare i giocattoli realizzati completamente con le nostre mani.
Gli attrezzi e i materiali del laboratorio
Nella costruzione o riparazione degli oggetti c’è la possibilità di usare martelli, mazzotti, chiodi, forbici, taglierino, sega, righello, squadra, ago e filo, trapano a mano, gommapiuma, sfere di legno o di altri materiali, colle a caldo e vinavil, cera e polistirolo, straccetti di lana e di cotone, pennarelli e matite, aniline e tempere, sgorbie, cucitrice, tenaglie e pinze, pennelli e colori ad acqua, cartone, pneumatici usati, fil di ferro, assicelle di legno e cosi via. Una parte importante di un laboratorio delle abilità manuali è anche quella degli strumenti per la riparazione delle biciclette, quelli cioè che usa il meccanico delle biciclette.
* Ecoistituto delle Tecnologie Appropriate – Cesena
www.scuolacreativa.it
TECNOLOGIE SEMPLICI
fin dalla scuola dell’infanzia
L’uso di strumenti e di tecnologie semplici ci insegna tante cose.
Ci aiuta a risolvere i piccoli e grandi problemi della quotidianità.
Educa le nostre abilità manuali.
L’intelligenza non è solo un fatto teorico, ma una esperienza concreta, per questo crediamo sia importante nella scuola imparare e saper usare:
LA VANGA
la zappa, il rastrello, la falce, le cesoie, il cavicchio… strumenti che ci servono per scavare, rastrellare, piantare, raccogliere, tagliare. Sono gli strumenti di lavoro della terra. Saperli usare bene significa
produrre cibo.
L’AGO E IL FILO
le forbici, il metro, gli spilli, il ditale. Ci servono per cucire, tagliare, rammendare, puntare, attaccare bottoni, rattoppare. Sono gli strumenti di lavoro che servono al sarto o alla sarta., per i vestiti del nostro
corpo.
LA PENTOLA
il mestolo, il coltello, il forchettone, lo scolapasta, il tegame, il matterello… oggetti d’uso quotidiano della cucina. Ci aiutano a preparare con cura i cibi del nostro nutrimento.
LA BICICLETTA
la pompa, il mastice e la gomma, i ferri da riparare la camera d’aria. La bicicletta è lo strumento più ecologico ed efficace per spostarsi consumando il minimo di energia. E’ importante saperla riparare e tenerla in efficienza.
LA SEGA
il martello, le pinze, la raspa, il cacciavite, il succhiello, le chiavi, la lima… sono gli strumenti del banco da lavoro delle botteghe artigiane: il falegname, il fabbro, l’elettricista, il carpentiere, l’idraulico. Ci aiutano a preparare con cura i cibi del nostro nutrimento.
LA CAZZUOLA
il badile, la coffa, lo sfratasso, la pennellessa, lo scalpello, il mazzuolo… sono gli strumenti indispensabili per costruire e riparare le case.
LA PENNA E LA MATITA
il quaderno, la cannetta col pennino, i pastelli, i pennelli, la gomma, i colori,… offrono a chi studia, crea o scrive, una infinità di opportunità. Ancora oggi sono gli strumenti più semplici e più efficaci del
lavoro scolastico.
LA CORDA
lo spago, al filo di diverso materiale e lunghezza, sono oggetti d’uso che servono per legare, unire, agganciare, sollevare, appendere, sostenere,…facendo e disfacendo nodi
IL BINOCOLO
a lente di ingrandimento, il cannocchiale, il microscopio, la macchina fotografica… sono strumenti per l’esplorazione, e la scoperta. Aiutano i nostri occhi a vedere più lontano, più vicino e con maggiore
intensità.
LA SCOPA
la pattumeria, la paletta, lo straccio, la ramazza, la pala, lo strofinaccio,… sono gli utensili per le pulizie e l’igiene dell’ambiente in cui viviamo
IL SAPONE
la spugna, lo spazzolino, l’asciugamano, il tagliaunghie, il pettine… oggetti e strumenti semplici ed essenziali per la pulizia e l’igiene quotidiana del nostro corpo.
LA TROTTOLA
l’aquilone, le bambole, gli elastici, la palla, il salterello, sono strumenti e giochi per il divertimento dei bambini e delle bambine. Sperimentiamo nel concreto e quindi impariamo regole, leggi scientifiche,
trucchi, meccanismi altrimenti difficili da imparare.
IL COLTELLINO
E infine c’è il coltellino, con i suoi mille usi. E’ lo strumento per una vita avventurosa e all’aperto. Bisogna saperlo usare bene, con abilità e attenzione.
I DIRITTI NATURALI DI BIMBI E BIMBE
1.Il diritto all’ozio (a vivere momenti di tempo non programmato dagli adulti)
2.Il diritto a sporcarsi (a giocare con la sabbia, la terra, l’erba, l’acqua, i sassi)
3.Il diritto agli odori (a percepire il gusto degli odori, a riconoscere i profumi offerti dalla natura)
4.Il diritto al dialogo (ad ascoltare e poter prendere la parola, ad interloquire e dialogare)
5.Il diritto all’uso delle mani (a piantare chiodi, segare e raspare legni, scartavetrare, incollare)
6.Il diritto ad un buon inizio (a mangiare cibi sani fin dalla nascita, a bere acqua pulita)
7.Il diritto alla strada (a giocare in piazza liberamente, a camminare per le strade)
8.Il diritto al selvaggio (a costruire un rifugio-gioco nei boschetti, arrampicarsi sugli alberi)
9.Il diritto al silenzio (ad ascoltare il soffio del vento, il canto degli uccelli)
10.Il diritto alle sfumature (a vedere il sorgere del sole, ammirare la luna e le stelle)
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Riconversione dal militare al civile: fare il Generale rende bene!
Il fenomeno deve aver assunto un certo rilievo, se ben due articoli su Il Sole24Ore e Repubblica Affari&Finanza del 26 maggio scorso se ne sono occupati. Con il governo Berlusconi, aver avuto una fulgida carriera nelle forze armate costituisce elemento preferenziale per l’occupazione di cariche da top manager nelle imprese pubbliche o nei posti chiave dell’amministrazione. Nel giro di breve tempo infatti, diverse società nelle quali la mano pubblica controlla in modo diretto o indiretto l’operato, hanno deciso di assumere alle più alte cariche pensionati di lusso famosi esclusivamente per le stellette che si sono guadagnati nel servire le armi.
E’accaduto quindi che l’irreprensibile generale della Guardia di Finanza Bruno Nieddu, noto per le sue attività investigative nell’Italia meridionale alle calcagna di mafiosi e biscazzieri, sia arrivato nel maggio scorso alla presidenza dell’Enav, la società pubblica che controlla il traffico aereo gestendone i delicati appalti.
Tra i principali fornitori di questo ente c’è la Vetrociset, uno dei maggiori gruppi italiani operante nell’alta tecnologia informatica e nella logistica integrata: dalla manutenzione di tutti gli impianti e i sistemi dell’intero traffico aereo italiano, 365 giorni all’anno e per 24 ore al giorno, alla assistenza ai sistemi radar e missilistici delle forze armate. A capo di questa azienda è arrivato in febbraio il Generale Mario Arpino, che qualcuno ricorderà coinvolto nel 1999 nella bufera seguente alla morte del parà della Folgore Emanuele Scieri per un caso di nonnismo. Arpino, ex capo di Stato Maggiore, famoso per essersi buttato in Kossovo con il paracadute, assieme ai suoi uomini, all’età di 62 anni, fu anche capo del corpo di spedizione italiana nella guerra del Golfo di dodici anni fa e il 27 giugno 1980, giorno della strage di Ustica, era responsabile del Centro operativo di pace (il Cop), cioè la sala operativa dello Stato maggiore dell’Aeronautica militare. Carica nella quale non ha brillato per le informazioni fornite alle varie commissioni d’inchiesta sulla strage.
“E a oggi io le dico che la letteratura scientifica, le nostre indagini, tutti i riscontri fatti dalla Nato e dai suoi membri dicono soltanto una cosa: le munizioni all’uranio impoverito non presentano rischi diversi da quelli di altre armi. La Nato, il governo Usa, le leggi del mondo ci dicono che queste armi sono legali, non sono messe al bando”. Con queste parole l’ammiraglio Guido Venturoni, anch’egli ex capo di Stato Maggiore della Difesa ed ex Presidente del Comitato militare della NATO, si rendeva famoso durante le indagini relative agli effetti sulla salute dei militari italiani impegnati nel conflitto in Kosovo. Capo delle operazioni in Albania quando il settimanale Panorama scoprì le violenze dei parà della Folgore su inermi civili, Venturoni è stato nominato da Finmeccanica, azienda di stato attiva nel settore della Difesa, presidente della Marconi Selenia Communications.
La stessa opinione sull’argomento venne condivisa dal comandante, dal 1995 al 1998, della base vicentina 5/a Ataf che coordinò le operazioni in Bosnia e in Kosovo, l’ex capo di Stato Maggiore dell’ aeronautica Andrea Fornasiero. Nell’agosto ’95 il generale eseguì, su ordine della Nato, il piano d’attacco sulla Bosnia con gli squadroni A10, provenienti da Aviano e Gioia del Colle e armati con proiettili all’uranio. Per lui si è resa disponibile, nell’ottobre 2001, la nomina a superispettore alla sicurezza aerea alle dirette dipendenze del ministro dei Trasporti Pietro Lunardi, in seguito all’incidente accaduto a Linate nel quale persero la vita 118 persone.
Anche per l’ammiraglio Umberto Guarnieri, capo di Stato maggiore della Marina e comandante in capo del Cicnav, esiste un’ombra nella brillante carriera percorsa nella Marina: era a capo della sala operazioni nazionale di Roma il 28 marzo 1997, quando la nave italiana Sibilla fece affondare, al largo del mare di Otranto, la Kater I Rades, carica di albanesi. Morirono almeno 108 persone. Le successive indagini portarono all’archiviazione del caso senza individuare nessun responsabile dello scellerato ordine. Guarnieri, oggi presidente della Orizzonte Sistemi Navali, dovrà rispondere anch’egli all’azionista statale Finmeccanica per la commercializzazione e la progettazione di sistemi per navi militari.
Ma al personaggio più famoso è andato anche l’incarico più delicato: nel novembre 2002 Carlo Jean, già Presidente del Centro Alti studi per la Difesa, è stato nominato nuovo presidente della Sogin, azienda pubblica che si occuperà di coordinare lo smantellamento delle ex-centrali nucleari e di costruire i siti per i rifiuti delle centrali, con un giro di affari milionario.
EDUCAZIONE
A cura di Angela Marasso
Sicurezza o fiducia: quale modello?
Come già si è spiegato nell’articolo precedente sull’assertività (vedi AN n. 6/2003), spesso il concetto di pace viene identificato con quiete, sicurezza e assenza di conflitto e quello di aggressività fatto coincidere con violenza.
Questo modo di pensare si basa su un paradigma sicuritario, che implica il credere che la sicurezza sia un bisogno primario e che più avremo sicurezza più avremo fiducia. Ma ragionare in questi termini non è corretto, in quanto comporta il combattere tutto ciò che può mettere a rischio la sicurezza (il diverso, l’estensione della possibilità di soddisfare i bisogni, ecc…), e piuttosto che rafforzare la fiducia e le relazioni le limita.
Nel circuito sicurezza/violenza si considera come pace positiva la quiete, il conflitto è identificato con la violenza e la guerra è considerata un mezzo per garantire la sicurezza. Per assicurare la quiete, infatti, bisogna strutturare la violenza fuori e dentro.
L’11 settembre ha fatto vacillare il paradigma sicuritario su cui gli USA e il mondo occidentale si basano, la guerra preventiva ha rappresentato un modo per riaffermarlo.
Il modello sicuritario attualmente è condiviso a livello politico sia da destra, sia da sinistra e spesso anche dai pacifisti, così la forza della guerra si basa anche sulla nostra complicità.
Finché manteniamo questa idea, rimaniamo in un circuito interno alla sicurezza, in cui si riconoscono le minacce esterne, ma non quelle interne (culturali e strutturali).
La violenza culturale e strutturale vincola le emozioni primarie all’idea che il bene supremo sia la quiete; quindi l’assenza di conflitti e la pace, in questo contesto, sono garantiti da tale violenza e sono pregni di essa.
La cosa terribile è che questa non è solo l’idea di Bush, ma anche la nostra. Se non fosse così non avrebbe il potere che ha.
Se sostituiamo la fiducia alla sicurezza nella posizione di bisogno primario, si trasformerà il nostro concetto di pace. Essa sarà assenza di violenza, nel senso di riduzione di essa e il conflitto sarà sintomo, segno rivelatore che nel sistema c’è violenza, contemporaneamente crisi e opportunità, occasione di esplorazione.
La violenza di cui si parla, che spesso non vediamo, è quella culturale e strutturale a cui continuamente siamo sottoposti.
Bateson ci propone una metafora molto esplicativa, per evidenziare come spesso ci comportiamo: “moriremo come rane nella pentola”.
Le rane fino ad una certa temperatura esterna mantengono la loro temperatura corporea e, se sono messe vive in una pentola d’acqua che bolle, continuano a saltellare, come saltellerebbero nell’acqua di uno stagno e neppure si rendono conto del calore, finché la loro termoregolazione non funziona più, ma, a quel punto, non sono più in grado di saltar fuori dalla pentola, perché sono già bollite.
Così noi, anche se siamo sottoposti a una forte violenza strutturale e culturale e talvolta anche fisica, spesso non ne siamo consapevoli e ce ne difendiamo continuando a vivere come al solito. Piuttosto che fare qualcosa per uscire da questa situazione, aumentiamo la nostra capacità di adattamento e continuiamo a saltellare nell’acqua che bolle.
La guerra è un segno di “debolezza”, a livello culturale e strutturale, di crisi del dominio degli USA.
Infatti, il fatto che una società ricorra alla guerra, evidenzia una situazione di debolezza della parte dominante, che non riesce più a mantenere il suo potere e ad ottenere la sottomissione passiva dell’altra, se non avvalendosi di essa.
In questo momento i nonviolenti hanno l’opportunità di aprire finestre di uscita dalla violenza. L’atto fondamentale in quanto nonviolenti è cambiare il nostro immaginario, traslando dal modello in cui la sicurezza è posta al centro, al modello in cui è la fiducia ad occupare la posizione centrale.
Il primo modello è sicuramente più conveniente del secondo, in quanto corrisponde alla società del benessere. Ma il disincanto rispetto ad esso sta diventando generalizzato, il consenso emotivo (le emozioni profonde) sta diminuendo, ma si resta all’interno di esso per non prendere coscienza del vuoto.
E’ una lotta tra metafore e purtroppo siamo complici, perché condividiamo la metafora dominante.
Se viviamo e scegliamo, invece, a partire dal modello che pone al centro la fiducia, abbiamo la possibilità di togliere potere (potere sull’altro) ed acquisire potere (potere con l’altro), di sbilanciare l’avversario e farlo cadere, non per la nostra forza, ma per lo squilibrio di forze determinato dalla sua forza.
Qualcuno dovrebbe provare ad uscire dalla pentola e abbassare il fuoco, o spegnerlo.
La formazione può dare degli stimoli per il passaggio da un modello all’altro e quindi aiutare l’emergere di soluzioni creative.
Chiara Manina e Mariella Lajolo
ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
La nuova Unione Europea e la guerra infinita del Congo
Nel mese di giugno due eventi si sono sovrapposti a delineare l’Unione europea del futuro. La Convenzione a cui è stato affidato il compito di redigere una bozza di costituzione europea ha completato il suo lavoro, gettando le basi per un migliore funzionamento delle istituzioni comunitarie e insieme per una più ampia rappresentatività democratica degli organi di Bruxelles.
Allo stesso tempo, l’Unione invia sotto la propria egida un contingente militare in Congo, da anni in preda a una guerra sanguinosa (le vittime si contano a milioni!), una guerra che ha coinvolto numerosi stati della regione, dal Ruanda, all’Uganda, all’Angola.
La coincidenza tra i due eventi non è completamente casuale. Già nel 1992 l’entrata in vigore del trattato di Maastricht che creava l’Unione europea si accompagnò a un tentativo da parte dei Quindici di gestire la crisi e le guerre dell’ex Jugoslavia, prima con l’invio di un mediatore (lord Carrington), successivamente, nel 1994, prendendosi in carico l’amministrazione della città di Mostar, distrutta dalle milizie croato-bosniache in un assedio feroce.
Si ripete quindi, su scala più ampia, quello che è successo un decennio fa: i paesi europei cercano con successo una maggiore coesione interna e sperimentano allo stesso tempo una politica estera comune.
Il precedente della politica europea in ex Jugoslavia non è incoraggiante. I politici dell’Unione non capirono la natura dei conflitti in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, non videro il potenziale di crisi insito nel Kosovo, si divisero tra filocroati e filoserbi, abbandonando di fatto a se stessa la Bosnia musulmana. Sull’amministrazione europea di Mostar ha scritto pagine illuminanti Claudio Bazzocchi: gestita da diplomatici alla fine della propria carriera e senza competenze specifiche, la missione a Mostar riuscì a ricostruire gran parte delle infrastrutture distrutte durante l’assedio, ma così facendo cementò la divisione della città su basi etniche e il controllo del potere da parte delle forze nazionaliste.
Per quanto è dato sapere, nessuna valutazione approfondita è stata effettuata dagli organi dell’Unione sull’esperienza di Mostar, che pure è stata la più impegnativa della politica estera comune negli anni novanta.
I due grandi limiti che hanno condannato all’insuccesso la missione a Mostar sembrano ripetersi nel caso del Congo. Da un lato appare trattarsi di un intervento ad hoc, senza una chiara guida politica e una visione di ciò che l’Unione intende ottenere. Nel caso del Congo, le truppe di peacekeeping europee saranno stazionate nei dintorni della città di Bunia per proteggere la popolazione civile dalle milizie delle etnie Hendu e Lema. Ma il Congo è un paese vastissimo, in cui i focolai di conflitti armati sono assai numerosi, e le diverse fazioni vengono appoggiate dai paesi confinanti. Intanto a livello centrale si cerca di mettere in pratica un accordo del dicembre scorso per la costituzione di un governo provvisorio. La situazione è estremamente complessa, e non può essere ridotta ad un solo fattore. Neppure la questione cruciale dello sfruttamento delle enormi ricchezze minerarie del paese definisce da sola le dinamiche della guerra in Congo.
Il secondo pezzo mancante dell’iniziativa europea è il raccordo con le forze che all’interno del paese, o dall’esilio, lavorano per una soluzione di pace. Negli ultimi anni in Africa si sono irrobustite le organizzazioni della società civile impegnate nel lavoro di costruzione della pace, trasformazione dei conflitti e riconciliazione: tra le esperienze più interessanti possono essere annoverate Nairobi Peace Initiative, con sede in Kenia, che lavora in tutta l’Africa a sud del Sahara, e la rete di organizzazioni West African Network for Peacebuilding.
Il Congo è stato al centro dell’attenzione di diversi gruppi italiani: per due anni di seguito delegazioni italiane hanno partecipato ad ampie manifestazioni a sostegno della pace (a Butembo nel 2001 e a Kisangani nel 2002) e hanno cercato di sensibilizzare la nostra opinione pubblica sul dramma congolese.
Sarebbe urgente oggi rafforzare i legami tra la società civile europea e quella congolese, e costruire una piattaforma comune con le organizzazioni che lavorano per la costruzione della pace nella regione. Un’alleanza tra gli operatori di pace europei ed africani potrebbe trovare più facilmente ascolto presso i decisori politici dell’Unione, ed aiutare a rendere costruttiva la presenza militare europea. Speriamo di poter imparare questa volta dal fallimento europeo nell’ex Jugoslavia.
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Cosa ti accade quando il posto di lavoro “non c’è piu?”
I lunedì al sole
di Fernando Leon de Aranoa
Un film sul lavoro, sul lavoro che non c’è, ma non nel senso del meritato riposo dopo un anno di fatiche, che tanti di noi sognano in questo periodo, e alcuni fortunati si stanno già godendo. Un film sul lavoro che “non c’è più”: un film intelligente, ironico, non retorico né ideologico; un film ben girato, che sa dosare dramma e leggerezza, pugni nello stomaco e ironia, senza cadere mai nel patetico o nel “macchiettistico”.
Siamo nel nord della Spagna. Il film si apre con immagini di scontri di piazza tra polizia ed operai: barricate, pneumatici che bruciano, manganellate sui manifestanti. Le immagini sono vere e raccontano l’antefatto, reale, della nostra storia: le manifestazioni degli operai dei cantieri navali di Gijòn, in Galizia, svoltesi tre anni fa, in seguito alla serrata padronale, e la successiva chiusura dei cantieri stessi, troppo poco competitivi rispetto a quelli asiatici a causa dell’“esosità” (!!!) dei salari europei.
De Aranoa stava già scrivendo la sceneggiatura del film quando sono iniziati gli scontri, e si è precipitato a Gijòn non soltanto per filmare quello che stava accadendo, ma soprattutto per parlare con gli operai, per ascoltare le loro ragioni, le loro proposte, le paure e l’incertezza per il loro futuro. Quella storia finisce con la chiusura del cantiere, che lascerà il posto a lussuosi appartamenti per turisti (“magari proprio asiatici”, commenta amaro uno dei personaggi) e con il licenziamento di un numero, questo sì “esoso”, di persone. E la fine di quella storia è l’inizio di questa raccontata dal capace regista spagnolo: la storia “del giorno dopo”, “del mese dopo”, “degli anni dopo”…dopo che il lavoro non c’è più, quando alla lotta sindacale subentra la battaglia di tutti i giorni contro avversari diversi: la depressione, l’emarginazione, la solitudine, la fatica di mantenere la propria dignità nella ricerca di un lavoro che non c’è più per te, perché sei troppo vecchio per essere al passo con le nuove conoscenze tecnologiche ma non abbastanza per andare in pensione.
I lunedì al sole, recita la locandina, “non è basato una storia vera, è basato su migliaia di storie vere”, e alcune di queste le racconta: racconta le storie di alcuni amici, ex operai del cantiere navale, disoccupati ormai da diversi anni, che passano tutti i lunedì “al sole”, sul battello che li porta in città a “mendicare” un lavoro, mentre il resto della settimana se lo bevono al bar, il bar che Rico ha comprato con la buona uscita.
I film racconta la storia di Santa, per esempio, interpretato da un bravissimo Javier Bardem. Santa è un po’ il leader carismatico del gruppo, il più idealista, quello che non si rassegna mai, quello che si sentirà sempre operaio, che non smetterà mai di dire che, se nessuno avesse ceduto alle lusinghe del padrone, e il sindacato fosse rimasto unito, le cose sarebbero andate diversamente per tutti. Santa è quello che non si rassegna a subire, è quello che, costretto dal giudice a pagare i danni per aver rotto un lampione del cantiere durante gli scontri, esce dal tribunale, scende dalla macchina del suo avvocato, e si mette a tirare pietre a un lampione dello stesso tipo, per riequilibrare le cose. Santa è quello che sa reagire con ironia all’abbruttimento di quella vita ormai così svuotata, senza perdere la sua dignità, e sa preoccuparsi di chi sta intorno a lui e non ha la forza di reagire nello stesso modo, come il povero vecchio Amador, che nasconde agli amici l’abbandono da parte della moglie e si uccide lentamente con litri e litri di alcool, non riuscendo più a capire un mondo che spreca denaro inventando plafoniere per bagni, in cui la luce rimane sempre accesa anche se non serve a nessuno, ma non ha lavoro da offrire a chi ha ancora energie e capacità da spendere.
Santa è quello che si arrangia a rimediare lavoretti, come fare il baby-sitter di nascosto dall’amico Rico per sostituire Nata, la figlia quindicenne di questo, che se la svigna col fidanzato, ma solo dopo aver preteso da Santa la sua percentuale, perché questa è un’altra delle conseguenze della politica ultraliberista “alla Aznar”: i ragazzi capiscono presto come gira il mondo, come gira l’economia (del resto “l’economia gira con te”, ci dice il governo in uno spot pubblicitario, da un po’ di mesi a questa parte!).
Sono tante le perle di questo film, e le battute che rimangono in mente, perché è un film che sa anche far ridere. E’ il terzo lungometraggio del trentacinquenne regista madrileno Fernando Leon de Aranoa, che ha fatto incetta di prestigiosi riconoscimenti: vincitore di ben cinque Goya nonché del Festival di San Sebastian, e candidato agli Oscar come miglior film straniero.
L’AZIONE
A cura di Luca Giusti
Digiuno a staffetta contro la guerra dei consumi
Il tentativo di rinnovare una importante modalità; ne parliamo con Giancarlo Saccani della Tavola spezzina per la pace e la globalizzazione dal basso
Cos’è la Tavola?
Una ventina di gruppi spezzini -tra gli altri Lilliput, Emergency, Amnesty e Arci- che si ritrovano da due anni intorno a un comune tavolo di lavoro su pace, nonviolenza e globalizzazione.
Come nasce questa azione?
Dopo l’umiliazione rifilata alla grande mobilitazione popolare contro l’invasione dell’Iraq, ci sembrava il momento di rilanciare con una progressione del nostro impegno sul piano dell’intervento diretto nonviolento. C’è chi ha interpretato questo salto di qualità nella forma della “sanzione dal basso”; noi nella forma di un’esperienza collettiva del limite, come affermazione di una rinnovata volontà di autodeterminazione (ho il controllo). Una sorta di “dichiarazione di indipendenza” da estendere ad altri ambiti essenziali come i trasporti e la televisione.
Perché proprio il digiuno?
Non era tanto una dimostrazione di fermezza nel perseguire un obiettivo, quanto la ricerca collettiva di una maggiore determinazione e responsabilità individuale nel perseguirlo. In questo senso il digiuno è una pausa liberante, che unisce e ricarica il gruppo, ricentrandolo sull’obiettivo.
Come si è svolto il digiuno?
E’ durato 77 giorni e ha visto alternarsi 65 persone. Ogni staffettista era invitato a condividere difficoltà ed emozioni via e mail o nei periodici incontri del gruppo; chi lo desiderava poi versava la cifra corrispondente ai pranzi saltati in un fondo per il sostegno alle popolazioni sotto attacco.
La diffusione della notizia su qualche giornale locale e nazionale ci ha permesso di aggregare persone esterne al nostro ambito e alla nostra provincia. Ci siamo collegati anzitutto alle realtà confinanti, Massa e soprattutto Genova, che ha adottato il documento del nostro digiuno e con cui stenderemo un documento finale
Si dice che siano “cose per elites consapevoli”
Questo piano dell’azione richiede più impegno di quello in risposta a sporadici eventi esterni. Gene Sharp mette il digiuno tra le tecniche di intervento nonviolento (ndr cfr. “Politiche dell’azione nonviolenta” vol.2 pagg.224-231), da adottare dopo avere preparato il terreno con altre modalità. La mobilitazione sull’Iraq era molto avanti, con un’insolita consapevolezza del nesso guerra-consumi.
Inoltre la disponibilità della gente a far passi in avanti è imprevedibile: basti pensare al livello di disponibilità all’azione che ha richiesto l’esposizione delle bandiere di pace. Ci è sembrato quindi giusto investire su uno strumento potente e universale come il digiuno per aprirlo a un maggior numero di persone.
Ci parli della modalità “a staffetta”?
Rafforzare gli strumenti di riduzione dei consumi nel senso della capacità di aggregazione e comunicazione su obiettivi e tempi circoscritti. Sostenersi reciprocamente condividendo criticità ed emozioni, anche personalissime; unire la profondità dell’esperienza individuale con il coinvolgimento dato dal gruppo.
Ci tengo a sottolineare come il grado di impegno del singolo staffettista possa variare molto: la durata della “frazione” può limitarsi anche al salto di un pasto: non è la sfida a raggiungere un obiettivo ma la pratica dell’autoriduzione consapevole.
Nel momento in cui le energie e le capacità di espansione del gruppo locale si esauriscono, si passa il testimone a un altro gruppo locale, facendo partire una catena che può poi ritornare ai gruppi di partenza, con un movimento a spirale di allargamento e ritorno, apertura e profondità, al contempo locale e sovralocale.
Che tipo di esperienze sono emerse?
Si fa spesso confusione tra gli stimoli legati alla necessità di disporre di energie e quelli legati a esigenze psicologiche. Riuscendo a tenere questi due piani distinti si guadagna in percezione del nostro corpo e dei flussi che lo animano; non dunque riduzione della sensibilità ma invece maggiori spazi di libertà e al contempo chiarezza di sensazioni.
Su AN di febbraio Lidia Menapace spiegava che nella sobrietà vede un moderno epicureismo…
Alla tradizionale densità di significati del digiuno si affiancano la riaffermazione del diritto a gustarsi le cose più lentamente e delicatamente, perdendo il ritmo o prendendosi insieme una pausa per capire le cose che si desiderano veramente. Ciò non comporta una rinuncia alla presenza sociale, anzi: i registri più lenti e profondi aiutano a incontrarsi e rendono più efficaci le azioni.
Sviluppi?
Vogliamo ripartire presto con qualche altro giro di prova a staffetta, magari allargando il campo a televisione e trasporti.
Chi fosse interessato può scrivere a saccanig@libero.it.
LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Trasformare il mondo in un grande supermercato
WTO: verso una nuova Seattle?
Trasformare il mondo in un grande supermercato, dove ogni cosa può essere comprata e venduta in base alle leggi di mercato, dagli elettrodomestici all’istruzione, dall’acqua all’energia, fino alle cure sanitarie e alla vita stessa, attraverso i brevetti e le biotecnologie. Non è lo scenario apocalittico disegnato da qualche romanziere, ma l’obiettivo dichiarato intorno al quale ruotano tuttora i negoziati in sede Wto, la potente Organizzazione Mondiale del Commercio. Basta leggere l’ingente mole di documenti ufficiali e comunicazioni interne per rendersene conto e gli stessi funzionari non ne fanno un mistero. Il fallimento di Seattle, nel 1999, non scoraggiò i negoziatori che due anni dopo, a Doha (Qatar), rilanciarono in grande stile l’apertura dei mercati in molti settori. Ora la partita decisiva si giocherà a Cancun, in Messico, dal 10 al 14 settembre, dove i 145 paesi membri dell’organizzazione decideranno sulla liberalizzazione dei servizi di base (istruzione, sanità, acqua, energia, ecc.), dell’agricoltura, degli investimenti e degli appalti pubblici. Ma quali saranno gli effetti sui cittadini?
Il ricco bottino dei servizi pubblici
Partiamo dai servizi. Uno degli accordi di cui si discuterà a Cancun è il GATS (General Agreement on Trade in Services, l’accordo generale sul commercio dei servizi), che comprende circa 160 settori, compresa sanità, istruzione, acqua e trasporti. Una prima versione di questo accordo vide la luce nel 1995, anno di nascita del WTO, ma ora si tratta di ampliarlo e rafforzarlo con impegni precisi. L’obiettivo è rimuovere tutti gli ostacoli all’erogazione di servizi tra paesi. In virtù del “principio nazionale”, infatti, è vietata qualunque “discriminazione” tra fornitori nazionali o stranieri, pubblici o privati. Questo significa che un governo o un ente locale che decidesse di favorire la gestione pubblica di un servizio (ad esempio l’erogazione di acqua o il servizio sanitario), potrebbe essere denunciato presso il tribunale del WTO da un altro paese membro, su pressione delle multinazionali del settore che si ritenessero danneggiate. E’ facile immaginare l’impatto di una tale normativa sul processo di smantellamento dello stato sociale, già in atto da decenni nel nostro paese.
Ma ripercorrendo la breve storia del WTO non si contano le sentenze che hanno costretto i paesi coinvolti a cambiare le proprie leggi a scapito dell’ambiente, della salute e dei diritti sociali. Emblematica è la vicenda della carne agli ormoni. Fin dal 1988 l’Europa vietò la vendita di carni trattate con ormoni artificiali, a causa dei possibili rischi di tumore. Nel 1996 gli Usa presentarono la questione al WTO, cedendo alla potente lobby degli allevatori, e due anni dopo la commissione arbitrale dichiarò il divieto europeo contrario all’accordo Sps (misure sanitarie e fitosanitarie). L’Europa subì sanzioni commerciali per 116,8 milioni di dollari, che gli Usa imposero attraverso una tariffa doganale del 100% su alcuni beni europei, tra cui tartufi, senape e formaggi.
Rompere il silenzio
Per fermare l’espansione del WTO è nato, in vista di Cancun, un coordinamento internazionale di associazioni e ong, che in Italia ha dato vita alla campagna “Questo mondo non è in vendita”, promossa da venti organizzazioni già attive su questo fronte, tra cui Rete Lilliput. Mentre la pressione politica è riuscita ad avviare la discussione nella sede parlamentare, occorre intensificare la presa di coscienza “dal basso” perché aumenti la mobilitazione dell’opinione pubblica. Per questo la campagna ha preparato materiale e strumenti di pressione (cartoline, raccolte firme, mozioni per gli enti locali, schede informative, ecc.) e si rivolge a tutti i soggetti della società civile, dalle associazioni ai consumatori, fino alle piccole imprese, per rompere il silenzio che tuttora avvolge i negoziati non arrivare impreparati all’appuntamento di Cancun.
Roberto Cuda
Referente Nazionale del Gruppo di Lavoro Tematico “Commercio” di Rete Lilliput.
Per info: www.campagnawto.org – robycuda@tin.it – 340.2284686
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Canto e faccio musica perchè spero in un mondo migliore, domani.
Intervista impossibile a Luigi Tenco, il cantautore che non è invecchiato
Luigi Tenco negli ultimi mesi è tornato alla ribalta. Merito in particolare di chi è riuscito a far riaprire anche dal punto di vista giudiziario il caso frettolosamente chiuso dopo quella tragica notte al festival di Sanremo del 1967. La sua ricerca musicale, tante sue canzoni, l’andare contro corrente sostenendo spesso posizioni vicine alle nostre, ne facevano il soggetto privilegiato per un’intervista che, in questo caso, purtroppo sembrava davvero impossibile. L’occasione si è presentata grazie ad amici comuni che ci hanno permesso di incontrarlo. Invece del personaggio triste e magari scontroso che ci aspettavamo, ne abbiamo trovato uno allegro, pronto allo scherzo, che spesso si è infervorato mentre spiegava il suo punto di vista.
Ti hanno spesso catalogato come cantante impegnato o addirittura di protesta, che ne dici?
Io faccio anzitutto il cantante perché mi piace la musica Io canto non perché m’interessa protestare. Da bambino prima ancora di sapere cos’era la protesta, io avevo una chitarra in casa con la quale suonavo. La mia non è una protesta che nasce intellettualmente. Nasce dal fatto che a un certo punto mi salta una gomma e dico per esempio… ecco, io il militare non lo so fare… E questo è uno sfogo spontaneo, una protesta sincera. Non è studiata a tavolino.
Le canzoni contro la guerra a partire dagli anni sessanta si sono moltiplicate…
E’ già qualcosa. Fino a ieri si parlava di fiorellini, di occhi, di mamme. I giovani in America protestano contro la guerra perché l’America è un paese in guerra, perché i suoi ragazzi stanno partendo, molti vanno a morire… Da noi è un tema che non dà troppo fastidio. Chi ha mai detto: mi piace ammazzare la gente? Nessuno si sente pizzicato quando gli dici che è sbagliato andare a morire, viva la pace…Noi avremmo mille altre cose contro cui protestare: il clericalismo, l’affarismo, la corruzione, gli scandali a ripetizione, il qualunquismo, la burocrazia… Parlagli della situazione della scuola, della mafia e di altre faccende che scottano e allora vedrai che la gente si arrabbia e ti dà addosso…
Nasce anche da una tua partecipazione diretta a quanto si muove nella società?
Il mondo di oggi evidentemente non va bene e si cerca di correggerlo. Tutto ciò che facciamo, lo facciamo – spero e mi auguro – pensando al mondo di domani. Quando ho cominciato a cantare ero una persona completamente disinserita. Io ero a Genova e quando sono successi i casini di Tambroni, posso dire di averne fatto parte, quindi stai tranquillo che non ero, non sono quello che si lascia irreggimentare. Io ho un graduale inserimento e procedo parallelamente a quello che è lo spostamento a sinistra della società italiana. Per adesso lo spostamento è minimo e infatti il mio inserimento è minimo.
E l’obiezione di coscienza ?
Io penso che gli obiettori sono senz’altro dei coraggiosi. Gente che va in galera un anno, due, tre e che a pena scontata se continuano a rifiutare ritornano in galera per altrettanti anni. Io ti dico sinceramente che ci vuole una bella dose di coraggio per andarsene in galera quando tutti noi abbiamo un giro, una vita … A posteriori un obiettore di coscienza sa di avere, un domani, l’appoggio di una certa parte politica e questo fa gioco, è importante… e dunque secondo me non è un sacrificio inutile, sterile. Oggi si parla di cartoline precetto strappate, ma strappate in grande numero! Si parla di marce della pace alle quali va un sacco di gente…
Anche la canzone può partecipare a queste svolte culturali?
E’ statisticamente provato che certe idee come il nazionalismo, resistono particolarmente in ambienti poco colti. Quindi combattendo l’ignoranza si fa già qualcosa di molto utile. Solo bisogna trovare la strada, la maniera adatta per arrivarci. Anche la canzone può servire a far pensare. Se dentro le canzoni ci metto delle idee, queste idee si trasmettono con le canzoni. Solo che per diffondere le canzoni è necessario che io trovi la maniera di farlo con gli stessi strumenti della società a cui mi rivolgo Se io voglio fare arrivare un certo mio discorso al pubblico bisogna che lo faccia industrialmente. Giusto? Prima ci sono state senza dubbio canzoni molto impegnate, senz’altro più intelligenti, ma che però non avevano approdato a niente… Bob Dylan, Barry McGuire quando vende un milione di dischi di “Eve of Destruction” fa qualcosa che non poteva fare se non avesse fatto parte di un tipo di società nella quale si deve capire che oggi gli strumenti per comunicare con la gente sono quelli e che anche a costo di passare da qualche forca caudina a quegli strumenti bisogna arrivare, perché sono strumenti formidabili.
Quindi bisogna ragionare sui meccanismi del mondo dello spettacolo e sul mercato che ci sta dietro: mi pare di capire che ti interessa molto entrarci per poterli utilizzare al meglio…
A me non importa nulla di essere “integrato” nel sistema organizzativo. Io faccio canzoni e anziché cercare di guadagnare soldi parlando di fiorellini, parlo di cose alle quali credo. Ho preso una strada che a me sembra buona e non la mollo. Anzi mi sembra tanto buona che vorrei avere un pubblico sempre più grande, immenso, tutto quello che con i mezzi industriali oggi è possibile raggiungere.
C’è una tua canzone che vuoi segnalarci?
“E se ci diranno”, una canzone proibita: se ci raccontano balle, risponderemo che non ci crediamo.
Fra le canzoni di altri quali ritieni particolarmente significative?
“La ballata dell’eroe” di Fabrizio De Andrè, che ho interpretato nel film La cuccagna, “Io non ci sarò” di Lucio Dalla, “Blowin’ in the wind”di Bob Dylan che ho anche tradotto tempo fa, “The universal soldier” di Buffy Sainte Marie che mi è piaciuta moltissimo cantata da Donovan.
Che prospettive vedi nella tua ricerca musicale ?
Quando un Paese riesce a esprimere in chiave moderna una sua musica tipica (come è avvenuto con la bossanova e il cha cha cha), per un certo periodo il genere interessa il mondo intero. Anzi, il mercato mondiale. In Italia purtroppo, il grosso sbaglio è quello di guardare al mercato mondiale e imitarlo, quando ci sarebbe da noi un patrimonio musicale vastissimo. Bisognerebbe prendere melodie tipiche italiane e inserirle in un sound moderno, come fanno i negri con il rhythm and blues o come hanno fatto i Beatles che hanno dato un suono di oggi alle marcette scozzesi. “Bang Bang” è un disco che va fortissimo ed è una melodia tipicamente italiana. Ma si vende perché è stata proposta dagli americani. Questo dimostra che nelle nostre musiche folk c’è una vera ricchezza.
C’è qualcosa che ti preme dire ai nostri lettori?
Canterò finché avrò qualcosa da dire, sapendo che c’è chi mi sta a sentire e applaude non soltanto perché gli piace la mia voce ma perché è d’accordo con il contenuto delle mie canzoni. E quando nessuno vorrà più stare ad ascoltarmi, bene, canterò soltanto in bagno facendomi la barba.
I testi su cui si basa l’intervista sono tratti da:”Luigi Tenco – vita breve e morte di un genio musicale” di A. Fegatelli Colonna, con appendice di E. de Angelis, Oscar Mondadori, 2002; vedere anche: “Io sono uno” a cura di E. de Angelis, Baldini & Castoldi, 2003
STORIA
A cura di Sergio Albesano
I Testimoni di Geova e il servizio civile
Nel mese di marzo 1996 nacque a Bergamo il Gruppo di miglioramento degli obiettori, costituito da trenta ragazzi in servizio, che si proposero di discutere e proporre nuovi progetti all’amministrazione comunale e di creare aggregazione e confronto tra gli obiettori, per essere un punto di riferimento anche su questioni burocratiche. Contemporaneamente sorse all’interno dell’amministrazione comunale un gruppo di Responsabilità per gli obiettori, formato da alcuni assessori, con lo scopo di gestire tutte le problematiche inerenti gli obiettori e soprattutto per coordinarne il lavoro in progetti (1).
Il Corpo Direttivo dei testimoni di Geova riesaminò a livello mondiale la questione del servizio civile sostitutivo, anche alla luce del suo nuovo inquadramento nelle legislazioni di vari Paesi. Conseguentemente uscì un numero de “La Torre di Guardia”, dedicato al rapporto fra i credenti e lo Stato, nel quale il paragrafo dedicato al servizio civile sembrava aperto alla possibilità che i testimoni di Geova italiani potessero accettarlo. Infatti alla domanda se un cristiano dedicato può svolgere un tale servizio, era fornita la seguente risposta: “… il cristiano dedicato e battezzato deve prendere la propria decisione in base alla sua coscienza addestrata secondo la Bibbia”. Più avanti la rivista entrava maggiormente nel problema: “Che dire, però, se lo Stato richiede che per un certo periodo di tempo il cristiano svolga un servizio civile che fa parte di un servizio nazionale sotto un’amministrazione civile? Anche in questo caso i cristiani devono prendere la propria decisione basata su una coscienza informata. (…) Se accettano il lavoro civile proposto, potranno mantenere la neutralità cristiana? Verrebbero coinvolti nelle attività di qualche falsa religione? Svolgere tale lavoro impedirebbe forse loro di adempiere le proprie responsabilità cristiane o li limiterebbe in misura irragionevole? Dall’altro lato, sarebbero in grado di continuare a fare progresso spirituale, magari compiendo anche il ministero a tempo pieno mentre svolgono il servizio richiesto? Che dire se le oneste risposte del cristiano a queste domande lo portassero a concludere che il servizio civile nazionale è un”opera buona’ che egli può compiere ubbidendo alle autorità? Questa è una decisione che deve prendere lui dinanzi a Geova. Gli anziani nominati e gli altri dovrebbero rispettare pienamente la coscienza del fratello e continuare a considerarlo un cristiano con una buona reputazione. Comunque, se un cristiano ritiene di non poter compiere questo servizio civile, anche la sua posizione dovrebbe essere rispettata. Anche lui continuerà ad avere una buona reputazione e dovrebbe ricevere amorevole sostegno” (2). In pratica, però, la possibile precettazione d’ufficio costituiva per gli obiettori testimoni di Geova un problema. Infatti, qualora un testimone avesse accettato di svolgere il servizio civile, sarebbe potuto essere destinato dal ministero presso enti cattolici, quali la Caritas, che egli certamente non avrebbe accettato. “Da tempo la stampa parla di una nuova legge sull’obiezione di coscienza che il Parlamento italiano dovrebbe emanare per dare al servizio civile una più completa autonomia rispetto a quello militare, secondo gli indirizzi della Corte costituzionale. Se ciò avverrà, contribuirà probabilmente a fugare le residue perplessità che i Testimoni possono ancora avere nei confronti di tale servizio” (3).
“Creare un meccanismo di opzione dove il cittadino possa decidere se difendere la patria in armi oppure tramite il servizio civile” fu la proposta resa pubblica nel mese di maggio da Massimo Paolicelli dell’A.O.N., che proseguiva: “A questa opzione si deve far seguire un uguale meccanismo per la ripartizione dei fondi. Anche il ministero della difesa deve essere diviso in due tronconi, civile e militare. Il contesto internazionale può imporre anche una componente volontaria, ma deve essere contenuta ed analoga sia per la difesa militare che civile, creando gruppi di interposizione nonviolenta che possano intervenire nelle situazioni di conflitto, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il ruolo degli obiettori può essere proprio questo, per arrivare il prima possibile al superamento dello strumento militare. Priorità assoluta per il nuovo parlamento resta il recepimento nella nostra legislazione della garanzia del diritto soggettivo per ogni cittadino all’obiezione di coscienza” (4).
L’8 maggio Michele Pircher di Verona fu processato dal tribunale militare di Torino. Già condannato nel 1995 a un anno e quattro mesi con il beneficio della condizionale dal tribunale civile di Isola della Scala, in provincia di Verona, per aver abbandonato il servizio civile, Pircher fu nuovamente condannato a quattro mesi per rifiuto del servizio militare (5).
(10 – continua)
LIBRI
A cura di Sergio Albesano
M. PALLANTE, La ricchezza ecologica, manifestolibri, Roma 2003, pagg. 180, € 17.
Il libro, il cui obiettivo è trovare un equilibrio fra economia ed ecologia, tocca diversi temi. In questa recensione affronteremo la problematica energetica, lasciando ai lettori il piacere di scoprire gli altri argomenti trattati.
La tematica è esposta in modo elegante e accattivante in un Dialogo dei massimi sistemi energetici, nel quale dialogano tre persone, ognuna portatrice di un punto di vista a suo modo ottimale, esemplificato dal loro nome.
C’è Simplicio, zelatore della natura e quindi dell’uso delle energie rinnovabili. All’opposto si trova Crescenzio, il realista che, pur amando la natura e magari anche le energie rinnovabili, pensa che sarebbe un errore, puntando solo su di esse, fermare la crescita. Infine c’è Dimeglio, che capisce le ragioni d’entrambi, in parte le condivide e riesce alla fine a metterli d’accordo con una politica per così dire dei due tempi: le energie rinnovabili sono ottime, ma sono cosa del futuro; per il momento è più conveniente puntare sull’uso razionale dell’energia, cioè sulla riduzione nel consumo delle fonti fossili. Tale riduzione si può ottenere migliorando i rendimenti delle trasformazioni che dalla fonte energetica primaria portano ai consumi finali, grazie all’uso di tecniche che esistono già da tempo.
Viene naturale domandarsi: quale dei tre interlocutori è l’autore? La risposta sembra ovvia: è Dimeglio, come dimostra il fatto che alla fine gli altri due gli danno ragione e che le sue argomentazioni sono suffragate da una breve appendice al dialogo.
Eppure il discorso non finisce qui: se si legge l’intero libro e in particolare l’ultimo capitolo su I monasteri del III millennio, si scopre che in realtà c’è un quarto interlocutore, che nel dialogo sull’energia non dice nulla, è il “convitato di pietra”, ma c’è e prende la parola solo alla fine del libro con un monologo. Ebbene, questo è il vero Maurizio Pallante, che non si identifica né con Crescenzio né con Simplicio e nemmeno, se non parzialmente, con Dimeglio. Perché?
Perché in effetti i tre personaggi del dialogo non mettono in discussione il fatto che l’uso dell’energia, o meglio delle trasformazioni energetiche, debba aumentare o quanto meno non diminuire. Nessuno dei tre prende in considerazione seriamente una terza soluzione del problema, quello di un’autoriduzione, volontaria o meno, della fruizione dei servizi energetici. Non lo fa Crescenzio, a cui ovviamente l’autore mette in bocca il giudizio più netto circa l’incidenza trascurabile che può avere l’auto o l’etero-limitazione dei consumi. Ma non lo fa nemmeno Simplicio, al quale sembra basti che le energie rinnovabili sostituiscano le fonti fossili. (A Simplicio si dovrebbe ricordare quanto dice Luigi Sertorio ne La storia dell’abbondanza, cioè che un uso sconsiderato del solare, proprio in quanto fonte rinnovabile e inesauribile, può essere più disastroso per l’ambiente di quanto non possano le fonti fossili, che sono finite.)
In definitiva non lo fa neppure Dimeglio, il quale, quando Simplicio gli rimprovera di puntare sulla riduzione dei consumi, si affretta a precisare che egli non parla di riduzione dei consumi finali, bensì di riduzione di consumi di energia alla fonte a parità di servizi energetici resi.
In sostanza tutti e tre accettano un modello energetico a consumi energetici crescenti o non decrescenti e quindi il modello di economia e società attuale, energivoro, dissipatore e consumista, quello che sta mettendo a soqquadro l’ecosistema, i rapporti sociali e, come vediamo oggi paurosamente, quelli internazionali.
A questo modello il quarto convitato oppone un’idea di vita d’altro tipo, neo-monastico, sobrio ma non lugubre e tutt’altro che tetro e austero.
Pallante, però, afferma che questo stile di vita può essere realizzato da pochi.
Trascurando che in tal modo esso appare un ideale un po’ troppo elitario, c’è il rischio di illudersi sul fatto che piccole minoranze, rifugiate in minuscole nicchie, riescano a sottrarsi al potere onnipervasivo della megamacchina, cioè del mostruoso meccanismo produttore di merci per mezzo di merci che piace tanto a Crescenzio e che sta stritolando tutto.
Invece da esso o ci salveremo tutti, con una scelta di semplicità volontaria, o non si salverà nessuno.