Azione nonviolenta luglio 2002
– E’ una calda estate, ma la nonviolenza non va in vacanza (Mao Valpiana)
– Grazie, Sandro (Sandro Canestrini)
– Sostituire la globalizzazione con la tutela delle diversità (Vandana Shiva)
– 800 milioni di affamati che non fanno paura (Gabriele Colleoni)
– Tra kamikaze e muri (Noah Salameh)
– Il muro tra Israele e Palestina (Adam Keller)
– Hai lasciato l’impronta? (Nanni Salio)
– Salvare i popoli e l’ambiente dai danni dell’oleodotto (Fondazione Langer)
– Suggestioni in margine al seminario “Laicità, religione, nonviolenza” (Enrico Pompeo)
– Laicità della nonviolenza: Capitini è cristiano o no? (Enrico Peyretti)
Rubriche
– Economia
– Alternative
– Lilliput
– Storia
– Educazione
– Musica
– Cinema
– Libri
E’ una calda estate ma la nonviolenza non va in vacanza
A cura di Mao Valpiana
Con l’arrivo dell’estate ci prendiamo un momento di pausa. Torneremo nelle case degli abbonati con il numero di agosto-settembre, quando riapriranno le scuole e le ferie saranno alle spalle.
La nonviolenza, naturalmente, non va in vacanza. Anzi, il periodo estivo è sempre denso di iniziative e proposte, come anche di emergenze e crisi.
Sullo sfondo resta la minaccia e la guerra al terrorismo internazionale, i nodi irrisolti dell’Afghanistan, della Cecenia, dell’Irak, la richiesta della Nato di nuove e crescenti spese militari; e poi l’imbarbarimento del conflitto israeliano palestinese, la morte per fame e siccità in Africa, i conflitti dimenticati in ogni luogo del pianeta.
In questo drammatico scenario, i nostri movimenti cercano di organizzarsi, di coordinarsi con altre forze alternative, per rendere concreta e credibile la proposta nonviolenta. Dal 3 al 10 agosto si riunirà in Irlanda, a Dublino, la Conferenza Triennale della War Resisters International “La resistenza nonviolenta ed il cambiamento sociale”, e dal 26 agosto al 4 settembre , molti rappresentanti dei movimenti nonviolenti parteciperanno alla Conferenza mondiale dell’ Onu “per lo sviluppo sostenibile” (o, meglio, il “Vertice della Terra”, come preferisce chiamarlo Vandana Shiva), che si terrà in Sudafrica, a Johannesburg. Dopo 10 anni dal Vertice di Rio troppe speranze sono andate deluse. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri è aumentato, le crisi ambientali del pianeta sono degenerate, la globalizzazione cresce nei suoi aspetti deleteri e arretra invece la globalizzazione dei diritti insieme ai possibili aspetti “desiderabili” di questo processo planetario. Insomma, un passo avanti e quattro indietro! I grandi proclami, fatti anche in occasione del Summit della Fao a Roma, sono regolarmente disattesi nei fatti. Faraonici progetti di manipolazione genetica per “debellare la fame” (e intanto si investono enormi finanziamenti nei laboratori di ricerca scientifica delle multinazionali) si infrangono davanti alla tragica realtà di immense aree geografiche private di quel bene supremo che è l’acqua. Questa è la verità. La globalizzazione del 2000 non riesce a garantire la semplice acqua che Madre Terra ha sempre offerto gratuitamente e in abbondanza a tutti.
In questo numero affrontiamo il tema della fame e della globalizzazione, e le possibili strategie nonviolente.
Grazie, Sandro!
Abbiamo ricevuto questa lettera dall’avvocato Sandro Canestrini, che ci ha onorato e commosso. Abbiamo conosciuto Sandro nelle Aule dei Tribunali, difensore di tanti obiettori e nonviolenti. Con i suoi capelli bianchi, e i suoi ottant’anni, è intervenuto al nostro Congresso. Ci ha annunciato le sue dimissioni “per raggiunti limiti di età”, ma per noi resta “il Presidente”.
Cari amici,
in occasione della prima riunione del nuovo Comitato di Coordinamento del Movimento Nonviolento, voglio farVi giungere il mio saluto più affettuoso. Sono stato orgoglioso, e per anni, di averVi potuto anche legalmente rappresentare e non posso dimenticare come tutto ciò ha influito nella mia vita: nei limiti delle mie possibilità ho ritenuto di poter dare forse anche qualche consiglio giuridico, ma soprattutto uno scambio di grandi affetti. Il pomeriggio di sole nel quale insieme a Zanotelli abbiamo chiuso la Marcia Nonviolenta del 2000, insieme a mille e mille problemi sorti durante le tante difese politiche sia di obiettori che di persone a noi vicine, la partecipazione con qualche scritto al nostro giornale, la stesura di qualche documento: tutto si affastella ora nella memoria in un momento in cui forze ben più giovani, probabilmente anche entusiasmi più freschi, si apprestano a dirigere nel Comitato il nostro Movimento.
Per questo mi tiro da parte perché Voi non avete bisogno di “vecchietti” ma appunto di fresche e giovani energie come Voi avete: il momento politico e sociale che stiamo attraversando è semplicemente spaventoso, per tutte le insidie che le vecchie e le nuove conservazioni tendono a chi vuole cambiare e andare avanti in nome di parole, che non sono solo parole, di solidarietà, di alleanza tra forze propulsive della storia, di azioni anche audaci che pongano all’ordine del giorno della coscienza (troppo spesso addormentata) degli italiani, problemi di vita e di morte.
Se posso permettermi un consiglio, Vi prego di non dimenticare mai tutti quelli che si sono sacrificati per i nostri ideali: penso certamente ai grandi nomi della storia, ma in questo momento voglio pensare con particolare tenerezza ai tanti e tantissimi ragazzi che hanno affrontato Peschiera e il carcere militare, processi e spese, disagi di ogni genere, per poter essere fedeli a questi ideali. A tutti costoro noi dobbiamo principalmente se siamo ancora attivi.
Vi seguo con affetto, spero che mi teniate al corrente della Vostre attività e sono certo che manterrete fede agli ideali laici e democratici in nome dei quali abbiamo per tanti anni insieme lavorato.
Vostro Sandro Canestrini.
Il Vertice FAO e la sfida alle multinazionali
Bisogna sostituire la globalizzazione con la tutela delle diversità e creare un mercato dalla parte dei consumatori
Intervista a Vandana Shiva
di Denise Murgia
Vandana Shiva, indiana, laureata in fisica, direttrice dell’Istituto indipendente “Fondazione di Ricerca per la Scienza, la Tecnologia e l’Ecologia” di Nuova Delhi, da 20 anni dedica la sua vita allo studio e alla ricerca sulle principali questioni ecologiche, portando avanti importanti battaglie per la tutela della diversità biologica e dei saperi tradizionali delle popolazioni indigene contro i tentativi monopolistici delle grandi multinazionali dell’agrobusiness. Tra gli innumerevoli riconoscimenti (nel 1993 ha ricevuto il Right Livelihood Award, Premio Nobel alternativo), il Premio AcquiAmbiente, premio speciale “Ken Saro Wiwa”. É stato in occasione della premiazione di quest’ultimo, svoltasi ad Acqui Terme il 21 aprile 2002, che ho potuto incontrarla.
Lei ha dato vita e opera all’interno del movimento Navdanya: quali sono i punti fondamentali della vostra azione?
Ciò che noi sosteniamo é che dobbiamo avere quattro sovranità fondamentali: 1) dobbiamo avere la sovranità sulla nostra terra, e la nostra terra non può essere sottoposta al controllo delle multinazionali, e questo é l’aspetto politico; 2) dobbiamo avere la sovranità sulla nostra biodiversità, la nostra biodiversità non può diventare monopolio, il monopolio brevettato, di 5 multinazionali in tutto il mondo; 3) dobbiamo avere la sovranità sul nostro cibo, e il nostro cibo non può essere distrutto da quattro o cinque aziende dell’agro-business; 4) dobbiamo avere la sovranità sulla nostra acqua, che é stata anch’essa privatizzata. I sistemi di irrigazione che sono stati privatizzati, in India, costano dieci volte tanto. Ecco perché i contadini stanno morendo: il costo dell’acqua é aumentato del 20% ovunque sia stata introdotta la privatizzazione.
Quali vie d’uscita vede? Che le multinazionali falliscano prima che facciano ulteriori danni?
Esattamente. Credo che un’altra chance sia sapere che loro falliranno, e non aver paura del breve periodo. Dovrebbero riconoscere l’insostenibilità della struttura, anche per loro stesse. Per quanto riguarda noi ritengo che il modo per sconfiggerle prima che distruggano troppo sia mettere la nostra libertà contro la loro e difenderla tenacemente, celebrare la nostra diversità, rifiutare la monocoltura, e non permettere che ci governino con la paura, il controllo e la manipolazione, ed essere gioiosi e pieni di speranza.
Crede che questo sia possibile anche in Europa dove le normative comunitarie in materia di agricoltura vincolano anche i piccoli produttori?
Credo che la libertà fondamentale sia fare da se, l’obbligo fondamentale sia fare da se. Fare per se stessi, se si vuole; se non si vuole si può andare dal proprio vicino; ma se lo si vuole, le proprie leggi e la propria economia non dovrebbero impedirlo. Questo é il problema: non é detto che si produca formaggio ogni giorno, ma se si vuole farlo non devono essere le multinazionali ad impedirlo. La globalizzazione ha portato ad una regolamentazione ossessiva nei confronti dei cittadini, che vengono trattati come se fossero totalmente malati, e allo stesso tempo ad una deregolamentazione per le aziende.
Con tutto ciò ci vuole dire che occorre uscire dal sistema di mercato?
No! Non significa stare fuori dal mercato: significa creare un mercato migliore. Noi lo facciamo in India con la vendita diretta. Abbiamo iniziato, rispondendo alle richieste dei contadini, con il creare un mercato diretto, questo significa che portiamo i loro prodotti direttamente sul mercato, in parte perché noi non sosteniamo i prodotti chimici ma solo quelli organici, ma anche perché é ricco di diversità. Adesso abbiamo un incredibile festival d’arte, i contadini portano i loro raccolti alle nostre fiere alimentari e vengono con le loro ricette tradizionali che le casalinghe di città vogliono imparare. Due anni fa ogni bambino a Delhi beveva solo Coca Cola o Pepsi, adesso può andare da qualsiasi parte e avere una bevanda tradizionale.
A quanto pare i contadini rispondono alla vostra politica, vedono i benefici di tutto questo. E i consumatori? In fondo sono loro che acquistano i prodotti e fanno la differenza tra il mercato per la produzione globale e quello per la produzione locale.
Sì. Noi rispondiamo alle richieste dei contadini, a nostra volta. Per quanto riguarda i consumatori, Navdanya ha creato un’unione di consumatori e produttori e noi li portiamo insieme ai festivals e alle fiere; i nostri soci consumatori ordinano ciò di cui hanno bisogno, i nostri contadini ci dicono ciò di cui hanno bisogno, e noi cerchiamo di unire le due cose.
Su cosa sta lavorando attualmente? Navdanya? E cos’altro?
Navdanya ha creato un movimento vasto; continuiamo con l’attività di conservazione dei diversi semi (la salvaguardia dei semi é una cosa che ho imparato dai contadini), con l’agricoltura biologica, con la vendita diretta. Ma, oltre a ciò, abbiamo ampliato il lavoro di Navdanya per creare movimenti di base democratici e fare passi avanti contro la globalizzazione. Noi li chiamiamo democrazia della terra perché si tratta della democrazia di tutto il mondo, democrazia per tutte le specie. Questo significa libertà per tutti, non solo per qualcuno o per qualche multinazionale. É una democrazia basata sul principio dell’autogoverno locale, dell’economia locale, votata ad affrontare i problemi della violenza, che sta aumentando, i problemi della proprietà e i problemi della sostenibilità. Vediamo la democrazia della terra come il prossimo passo del nostro movimento per il mantenimento della diversità. Non é solo il problema della biodiversità, ma comprende anche quello della diversità culturale nella democrazia. Perché dopo l’11 settembre, dopo le leggi antiterrorismo, con i governi che ovunque creano sistemi che danno vita a una società che diventa sempre piu’ violenta e intollerante, abbiamo bisogno di un altro modo di pensare la nostra vita e il nostro mondo e per noi questo modo é la democrazia della terra. In indhi la chiamiamo Jaiv Panchayats, jaiv – che significa vivere – e panchayats che in India é la democrazia locale; perciò democrazia della terra é democrazia viva in contrapposizione alla democrazia morta.
Il prossimo mese di settembre si terrà a Johannesburg il Vertice delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile. A dieci anni dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro, quali sono stati, secondo lei, i fallimenti di Rio, e che aspettative ha per Johannesburg?
Il principale fallimento del Vertice di Rio é che i governi hanno portato avanti l’agenda della globalizzazione e non hanno rafforzato gli obblighi sottesi all’agenda stessa. Si tratta di un fallimento intenzionale. Riguardo Johannesburg c’é un tentativo di presentarlo come se non avesse niente a che vedere con l’ambiente. Vanno in giro dicendo “non usate la parola Terra in relazione all’incontro, non chiamatelo il Vertice della Terra”. Per me é il vertice della Terra, il vertice della terra della gente, perché mobiliteremo la gente, i bambini intorno ad esso. Prima della Rivoluzione industriale, anche in Europa la gente vedeva la terra come un qualcosa di vivente, non come una cosa morta. In seguito la terra vivente non fu piu’ generatrice di vita e le donne che continuavano a relazionarsi con questa terra viva, usando piante medicinali e operando guarigioni, furono bruciate come streghe. Un’inquisizione simile é in atto in questo momento, prima furono bandite le parti viventi della terra, adesso vogliono bandire la terra, e far credere che il cibo locale, che viene dal suolo e dalla biodiversità o dai semi, venga dalla Monsanto. Vorrebbero farci credere che sono i soldi e la tecnologia a far andare avanti il mondo e non la gente e la natura. La sfida della vita é riconoscere che noi dipendiamo dalla natura, ma anche che la gente é il filo dell’economia, della società, della cultura; e l’economia non sono i 3 miliardi di dollari che si muovono al giorno, questa non é un’economia, é una falsa economia. Questo significa che sono le multinazionali a dire quello che vogliono fare, se vogliono volontariamente etichettare gli organismi geneticamente modificati ce lo diranno loro, noi dovremmo lasciarle libere di fare. Io ho un messaggio molto semplice per Johannesburg e tutti gli stati del pianeta: fate che la gente stia al centro, fate che la natura stia al centro, mettete le multinazionali sotto controllo e rendete i governi responsabili.
Andrà a Johannesburg?
Sì, ci andrò. Non voglio che passi un messaggio negativo. Voglio che passi un messaggio di speranza, di democrazia, di fiducia, responsabilità.
Quale può essere l’equilibrio tra il modello che lei prospetta e il modello industriale occidentale? Crede che i paesi occidentali siano pronti ad affrontare un simile cambiamento?
Il primo elemento della globalizzazione é che ci viene imposto un cattivo modello. Per me il primo passo deve essere quello di bloccare la distruzione di culture ed economie sostenibili, il che avviene attraverso l’esportazione di modelli alternativi in tutto il mondo, attraverso aiuto, sussidi e coraggio. Quindi, se riusciamo a proteggere il Terzo mondo dalla distruzione l’occidente stesso sarà in grado di cambiare dall’interno. Il dibattito in questo momento non é se l’Occidente vuole cambiare, bensì se ha il diritto di distruggere il Terzo Mondo.
Quali sono i contenuti che il Sud del mondo può dare al paradigma politico della sostenibilità?
Credo che il primo elemento sia la biodiversità, solo il Sud sa come conservarla e usarla in modo sostenibile. In secondo luogo, la maggior parte del Sud non é ancora bloccato in un sistema di mercato obbligatorio, perciò può ancora fare un’altra scelta. Credo che l’insegnamento piu’ importante per la sostenibilità che il Sud può dare, sia il fondamentale riconoscimento che le risorse della terra sono pensate per sostenere l’intera vita, non possono essere trasformate in merci, trasformate in proprietà di cinque multinazionali dell’acqua che cercano un mercato da tre miliardi di dollari, o di cinque aziende delle sementi e della biotecnologia che ugualmente cercano un mercato di tre miliardi di dollari. Oggi cinque multinazionali vogliono prendere tutta l’acqua, tutti i semi e dirci che dobbiamo pagare loro i diritti di proprietà: ci devi pagare per bere ogni sorso d’acqua, ci devi pagare per piantare ogni seme. Il Sud invece vive ancora in una cultura che riconosce che i semi appartengono alla natura e devono ritornare alla natura ed che é nostro dovere piantarli nuovamente; e per questo non possiamo essere trattati come ladri.
É contraria ai brevetti?
Sono totalmente contraria ai brevetti sulla vita.
Quando parlate del riconoscimento dei saperi tradizionali delle popolazioni indigene, che cosa intendete?
Riconoscere significa riconoscere l’esistenza di qualcosa e che nessuno ha il diritto di possedere questo qualcosa. Parliamo di proprietà comune, di proprietà collettiva. E in realtà non é neanche una proprietà. Vogliamo il riconoscimento dell’acqua e della biodiversità come beni comuni, di cui dobbiamo prenderci cura insieme. La comunità ha il diritto di usare le risorse, ma ha il diritto di usarle, non di possederle, il diritto di usarle e il diritto di evitare certi tipi di abusi, ma non si tratta di diritti di possesso esclusivo. Infatti, é stato il colonialismo a mettere la nostra terra sotto proprietà, noi potevamo usare la terra, potevamo coltivarci il cibo, ma non era nostra da poterla comprare e vendere, furono gli inglesi ad introdurre il concetto di privatizzazione delle risorse, le merci, che passando di mano in mano diventano una proprietà privata. Il termine privato deriva dal latino privare, che significa significa togliere agli altri, non condividere. E ciò di cui abbiamo bisogno e che il Sud può dare, e che le donne possono dare é il riconoscimento che se tu vuoi avere parte della mia tazza di caffé, é mio dovere dartela, non ho diritto di dire “pagami”.
Il Vertice FAO di Roma
800 milioni di affamati. Che non fanno paura
Di Gabriele Colleoni
C’è qualcuno che avrebbe mai il coraggio di proclamarsi contrario alla lotta contro la fame nel mondo? L’esempio l’abbiamo appena avuto sotto gli occhi con la seconda conferenza mondiale sull’alimentazione organizzata dalla Fao a Roma nella seconda settimana di giugno. Eppure, l’ennesimo summit si è concluso con un bilancio che, al di là di diplomatici distinguo, si può dire sia stato unanimemente giudicato fallimentare.
Ma occorre spingersi forse più in là ancora, perché altrimenti si finisce per avvallare le a questo punto ciniche affermazioni di vari leader politici, presenti o assenti a Roma, che hanno abusato di parole, promesse e consigli. Dopo il vertice Fao delle vistose diserzioni, l’impressione è che la parte di mondo che da tempo riesce a soddisfare il bisogno più primordiale dell’uomo mangiando l’equivalente di 850 chili di frumento l’anno, per lo più sottoforma di prodotti animali, può sopportare l’esistenza di oltre 800 milioni di persone che invece non hanno ancora vinto questa fondamentale battaglia per la vita.
Sì, la parte sazia del mondo può «sopportare» l’idea di convivere senza farsi troppi problemi con quel miliardo e 200 milioni di «marginali», che sopravvivono con l’equivalente di 150 chili di grano (800 milioni di loro, di cui 300 in età infantile, secondo la Fao, sono alla fame). Del resto ci ha convissuto sinora.
La controprova? Quando si è trattato di fermare il terrorismo, l’Occidente è stato capace di una reazione immediata, mettendo in campo risorse, strutture e intelligenze e prendendo in considerazione persino possibili limitazioni, in nome della sicurezza, alle sacre libertà civili… La convinzione implicita nei comportamenti delle nostre leadership sembra essere che la fame non alimenta più di tanto il terrorismo.
D’altra parte ci vuole poco per capirlo. Gli affamati fanno fatica, in senso letterale, a muoversi, a «tirare a campare», non parliamo ad organizzarsi… Hanno un problema di altro tipo da risolvere, ogni giorno e tutti i santi giorni, con l’incognita di non sapere se potranno vedere il giorno dopo.
Nella prima conferenza sull’alimentazione del 1996 la Fao si era dato l’obiettivo di dimezzare entro il 2015 gli 800 milioni di persone che soffrono la fame, impegnandosi a ridurre ogni anno di 22 milioni il numero delle persone alla fame. In realtà, i dati dicono che meno di sei milioni all’anno sono sottratti da questa emergenza.
La tragedia della fame e della denutrizione ha varie cause; alcune antiche e «visibili» anche per i media: le carestie dovute a eventi climatici eccezionali, le guerre… Ma i programmi Onu d’emergenza alimentare nel 2001 hanno riguardato «solo» 43 milioni di persone, il 5 per cento del numero totale di chi soffre la fame. Il vero nodo è dunque costituito dalla fame cronica, «strutturale», collegata alla condizione di miseria.
Quella alimentata ad esempio dall’impossibilità di ampie fasce di popolazione rurale nel Sud del mondo, di disporre, per le mancate riforme agrarie, di terra da lavorare, anche solo per la sussistenza, antico antidoto delle famiglie contadine contro la penuria di cibo. E chi cerca chance di sopravvivenza nelle città, si ritrova in baraccopoli che perpetuano situazioni di miseria e denutrizione.
Si parla di aiuti ai paesi poveri, ma intanto scattano le barriere protezionistiche nei confronti dei loro prodotti. Le nostre ambasciate sono invitate esplicitamente a fare business e marketing, magari anche di armi (e in Italia d’altronde si sta mettendo in discussione la legge 185 che vigila su questo export destinato soprattutto ai «paesi meno avanzati»). Le proposte delle società civili del Terzo mondo sono state liquidate semplicemente come «lontane dalla realtà» (che si vede da questa parte del mondo)…
Eppure il ministro dell’Agricoltura brasiliano, Marcos de Moraes, si è azzardato a dire che «abolendo i sussidi agricoli nel giro di 24 giorni si potrebbe sconfiggere la fame nel mondo», con il conforto della stima della Banca Mondiale, secondo la quale senza sovvenzioni alle agricolture del Nord, il Pil dei Paesi in via di sviluppo crescerebbe di 30 miliardi di dollari. «Abbastanza per garantire un certo numero di pasti», ha commentato icastico l’Economist, baluardo del pensiero liberista, auspicando riforme nei Paesi poveri che rendano meno predatori i governi locali e diano diritti ai contadini, e al tempo stesso la «ristrutturazione» dell’agricoltura su scala mondiale.
Il vero nodo da sciogliere oggi non è produrre più cibo. Né è la Fao che pure ha dimostrato molti limiti, come quelli evocati da un documentatissimo libro che mette sotto accusa i «signori della povertà» in giro per il mondo per conto delle organizzazioni Onu occupandosi di sviluppo. Il nodo è rendere effettivamente possibile a milioni di persone di accedere (cioè: avere i soldi per) al cibo e all’acqua. Ogni giorno. Per tutta la vita. Le briciole (e le belle intenzioni) dei ricchi Epuloni da sole non colmeranno le mense degli affamati.
Il centro per la risoluzione dei conflitti e la riconciliazione
Tra kamikaze e muri, tra palestinesi e israeliani, tenta di germogliare il seme della nonviolenza
di Noah Salameh*
Le attività e i progetti
Sebbene il nostro centro sia nato da poco, e nonostante le difficili circostanti che la nostra gente sta affrontando, che rendono il nostro lavoro molto difficile e talvolta impossibile, con l’occupazione che ci circonda e la violenza che dobbiamo fronteggiare quotidianamente…
Cerchiamo di coordinare diversi progetti, necessari alla nostra comunità palestinse, alla relazione con la parte israeliana e al lavoro di pace per la fine dell’occupazione e l’affermazione della giustizia attraverso il rispetto reciproco e la fine di ogni genere di violenza, formale e personale.
Nonostante tutto questo e con gli sforzi degli attivisti che lavorano con noi, come operatori o su base volontaria, cerchiamo di condurre diversi programmi. Alcuni dei più importanti sono:
1) Educazione alla pace nelle scuole
Ha lo scopo di trasmettere i valori della pace, della giustizia, della democrazia e della nonviolenza attraverso la risoluzione dei problemi con i metodi della negoziazione, in un certo numero di scuole governative a Betlemme e a Gerico, con corsi di 40 ore. In una prima fase offriamo questi corsi agli operatori sociali (quest’anno, 21 operatori di scuole diverse), successivamente gli operatori formati trasferiscono le loro competenze agli studenti, in accordo con le direzioni scolastiche. Abbiamo scelto di lavorare con i ragazzi perché sono in una fase di crescita molto delicata, di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta, e crediamo che tutto ciò che imparano in questa fase avrà un’influenza sul loro comportamento, per tutta la vita.
La terza fase di questo programma consiste nell’aprire il corso ad insegnanti volontari, quindi uno dei compiti degli operatori sociali formati è convincere gli insegnanti dell’importanza del corso; se il messaggio viene percepito, avrà un influsso sul clima scolastico e sulle relazioni tra studenti, tra studenti e insegnanti, e tra studenti e genitori.
È importante che gli insegnanti non prendano questo corso come un insegnamento che si conclude in se stesso, ma imparino e sperimentino come trasferire le informazioni nei rapporti con gli altri attraverso esercitazioni, interazioni e lavori di gruppo. Queste nuove competenze ed informazioni si rifletteranno sul comportamento di studenti, insegnanti e di tutti i membri della scuola, che trasformeranno indirettamente i processi di apprendimento.
Ci auguriamo che i nostri programmi abbracceranno un maggior numero di scuole, data la loro importanza nella situazione che stiamo attraversando, dove la violenza si diffonde tra i membri della comunità, specialmente tra i giovani. È per questo che cerchiamo di parlare di nonviolenza, democrazia, pace e giustizia sociale nella nostra comunità, e tra comunità diverse.
Il nostro programma, dove applicato, ha sempre ottenuto buoni risultati ed è stato accettato da tutti i partecipanti. Le richieste erano superiori alle nostre possibilità, per la mancanza di materiale didattico e la necessità di contributi economici, ma continueremo a lavorare su questo, e forse riusciremo a trovare il sostegno necessario a lavorare con un maggior numero di scuole palestinesi. Cerchiamo anche di collaborare con progetti diversi applicati in altri paesi, per condividere le nostre esperienze e per apprendere da loro.
2) la consulenza psicologica
Questo programma è iniziato due anni fa, con un gruppo di counseling a giovani tra i 15 e i 20 anni, più vulnerabili e più esposti alla violenza ed anche ai suoi effetti psicologici e mentali, oltre che fisici. Questo tipo di violenza assume una forma politica che si mescola alle idee religiose, nazionali e personali. Il numero di giovani negativamente esposti sta crescendo rapidamente, per questo cerchiamo di offrire gruppi di consulenza attraverso laboratori per i ragazzi, che comprendono un insieme di counseling psicologico e incontri di apprendimento, per sviluppare le abilità necessarie a superare i momenti di crisi, imparare a gestire i conflitti in un’atmosfera amichevole per tutti i partecipanti.
Ogni incontro è aperto a gruppi di 20-25 giovani e dura dalle 2 alle 4 ore, e a volte una giornata intera, per proseguire poi con un laboratorio di 30 ore. In molti casi i ragazzi tornano il giorno successivo portando con sé nuovi amici, e questo dimostra il grado di interesse che questi workshop riescono a suscitare.
Intendiamo proseguire questi programmi anche nell’anno a venire, con la speranza di espanderli, per la loro positiva influenza sulla società in generale, e sui partecipanti in particolare.
3) Programmi di formazione per poliziotti
È un programma rivolto a poliziotti, membri del servizio di sicurezza e operatori pubblici su come trattare con il pubblico. Il programma è stato implementato in accordo con molte amministrazioni, quali ad esempio Hebron, Betlemme, Abu Dees, Gerico e Ramallah, ed è centrato su:
1. come relazionarsi con il pubblico
2. le modalità di coordinamento tra diversi sistemi di sicurezza, i loro effetti, e l’effetto del loro conflitto sull’opinione pubblica
3. i diversi sistemi usati da questi sistemi di sicurezza nel rapporto con la popolazione, l’impatto negativo che possono avere, e come è possibile ridurlo.
Ogni laboratorio è articolato in 10 incontri di 3 ore ciascuno. Sebbene il numero di partecipanti ad ogni ciclo sia abbastanza ampio, la possibilità di incidere è davvero limitato rispetto all’ampio numero di persone impiegate in tutti i sistemi di sicurezza, tanto da non poter lavorare con tutti.
Il programma ha avuto un buon successo ma non è stato ampliato come avremmo voluto, per ragioni prevalentemente economiche, perché crediamo che non sia stato compreso nelle sue potenzialità. A nostro avviso è uno degli errori dei dirigenti, perché la polizia non ha bisogno soltanto di imparare l’uso delle armi, ma anche di imparare a comunicare, a trattare con la gente, e a risolvere i conflitti, abilità che spesso mancano in questi operatori nonostante la loro lealtà verso il popolo palestinese e il grande desiderio di rendersi utili; la passione da sola non basta, una persona deve avere delle capacità e deve saper fare la scelta giusta.
4) Un’esperienza di formazione per operatori della sicurezza israeliani e palestinesi insieme, ad Allenby Bridge (sul confine con la Giordania)
Questo programma è stato sviluppato soltanto una volta, nel 1999, con un corso di 40 ore per 20 partecipanti israeliani e palestinesi che hanno lavorato insieme, un grande risultato per entrambe le parti, concordato con i rispettivi dirigenti.
Il corso era focalizzato sulle vie per la soluzione dei conflitti tra le due parti, che hanno lavorato insieme 24 ore al giorno, e sulle competenze comunicative e di dialogo con la parte avversaria, per cambiare l’immagine che ognuno aveva dell’altro. Abbiamo scoperto che questi ufficiali non sapevano niente dei loro avversari, abitudini, convinzioni o cultura, e quello che sapevano derivava da voci che avevano sentito. Del resto non erano mai stati formati a lavorare insieme, e questo produce molti conflitti e problemi.
Altri due corsi si sono fatti a Karmy Bridge, tra Gaza ed Israele, entrambi di 40 ore e per 20 partecipanti. Per questi ufficiali erano la prima opportunità per conoscersi direttamente e personalmente, e per comprende l’immagine che suscitavano nell’altro. Tutti i partecipanti e i loro ufficiali hanno mostrato un grande interesse per il corso, e il desiderio di proseguire. Al termine, tutti hanno affermato che le loro relazioni erano migliorate durante gli incontri, ma sfortunatamente la situazione politica, peggiorata nel corso del 2000, ha impedito di proseguire, ma le persone con cui abbiamo lavorato sono ancora in contatto con noi e periodicamente ci chiedono di proseguire l’esperienza.
La conclusione più importante è stata che: è un grande errore chiedere a queste persone di lavorare insieme senza nessuna formazione precedente che li aiuti a conoscersi, prima di diventare soldati, perché non è possibile trasformare l’odio con un compito scritto, occorre preparazione, educazione e conoscenza diretta, oltre ad una formazione specifica sulla comunicazione e sulla risoluzione dei conflitti.
5) Un programma per i leader dei gruppi giovanili
Un corso estivo che si è svolto durante le vacanze scolastiche, per molti diversi gruppi giovanili. I partecipanti dovevano rivestire un ruolo speciale, di leadership, tra i loro compagni a scuola, cercando di influenzare positivamente le relazioni tra studenti e di aiutarli talvolta nel risolvere i loro problemi.
I ragazzi provenivano da diverse scuole del distretto (città, villaggi e campagna), e questo ha dato loro la possibilità di conoscersi meglio e di stabilire nuove relazioni.
Il corso consisteva in un training di 50 ore e toccava il concetto di leadership, la partecipazione ai gruppi, la comunicazione, le abilità di risoluzione dei conflitti e molti altri concetti quali i diritti umani, la democrazia e la non-violenza.
6) Un programma di co-facilitazione
Il programma è stato sostenuto e avviato in collaborazione con l’Università di Pisa e fino a questo momento siamo riusciti a tenere due corsi annuali, ognuno con 20 pacifisti e persone che lavorano nella gestione dei conflitti, di parte sia israeliana che palestinese.
Il corso comprende oltre 100 ore di lavoro con il direttore del Centro, Noah Salameh, come formatore palestinese, e Edi Kaufrman del Truman Institute della Hebrew University, per la parte isareliana.
Il corso discute i problemi della co-facilitazione e di come attuarla, e con quali abilità. I partecipanti apprendono attraverso il lavoro di gruppo e prendendo parte attiva alle discussioni, anche perché ognuno di essi ha già una esperienza di lavoro in questo campo. Si può parlare di una esperienza di mutua formazione tra i partecipanti, dove vengono scambiati giochi ed esercizi che poi sono sperimentati direttamente nel laboratorio, accanto all’approfondimento di aspetti teorici e scientifici. I gruppi sono importanti per facilitare il dialogo tra parti avverse, perché ognuna sente di essere rappresentata.
Questa è la prima esperienza simile nel nostro paese e in tutto il mondo, poiché non esiste niente di simile a questo livello scientifico o accademico, e il successo del corso è mostrato dall’alto interesse mostrato dai partecipanti. Moltissime erano le richieste di adesione ed è stato molto difficile fare le selezioni.
Il primo corso si è svolto nel 1999/2000, dove la situazione politica era abbastanza stabile, così gli incontri avvenivano alternativamente in territorio palestinese e israeliano. Durante queste discussioni si è stabilita una rete di relazioni, grazie al clima collaborativo e di apertura che si è stabilito tra tutti i partecipanti, e si sono sviluppati successivamente programmi di cooperazione e collaborazione.
7) Letture sui diritti umani e la democrazia
Il centro promuove letture per giovani su argomenti che hanno a che vedere con la pace, la nonviolenza, la democrazia e i diritti umani. Ogni lettura ha un pubblico di 25-30 partecipanti, che discutono in generale la situazioni, le loro idee di partenza e le loro relazioni con l’attuale situazione palestinese, e come è possibile influenzare positivamente lo stato delle cose.
Le letture si tengono in collaborazione con il comitato palestinese indipendente per i diritti umani. Crediamo che abbiano grande importanza, e ci basiamo sulla grande richiesta che riceviamo e sull’approfondimento individuale che segue da parte dei partecipanti, nel cercare informazioni sui temi dei diritti umani e della democrazia.
8) Stampa di materiali
Il nostro centro stampa materiale sull’attuale situazione e sui concetti di non-violenza, democrazia, pace e diritti umani. Abbiamo intenzione di realizzare un certo numero di opuscoli che aiutino a diffondere questi concetti nella comunità palestinese, e la pace interna alla comunità.
Sebbene siamo solo agli inizi, abbiamo già abbastanza materiale per lavorare, e cominceremo non appena avremo la necessaria disponibilità di fondi. Questi libretti sono importanti perché potranno essere distribuiti nelle librerie, nelle scuole e nei circoli culturali, ed essere offerti a tutti i nostri giovani, completando così i nostri programmi di formazione.
9) Progetti per il dialogo sulla storia
Si terrà un laboratorio comune sul ruolo della storia nel conflitto, dove molti insegnanti di entrambe le popolazioni si incontreranno per discutere l’influenza dell’insegnamento della storia, come la leggiamo, e in che modo può aiutare a costruire la pace o almeno a neutralizzare e a fermare l’escalation del conflitto.
Abbiamo iniziato questo progetto, anche se è davvero difficile e spinoso, perché pensiamo che questo argomento sia importante e abbiamo bisogno di discuterlo. Anche se alcuni autori ne hanno parlato nei loro libri, noi crediamo che siano rimasti su un piano puramente teorico e che ancora nessuno lo abbia discusso praticamente, con le persone più vicine a questo argomento – gli insegnanti, che parlano di queste cose a scuola, ogni giorno, nelle loro classi.
Stiamo preparandoci a tenere inizialmente degli incontri con le singole parti per discutere con ognuna come vede la storia e il suo ruolo nel conflitto, successivamente proporremo incontri congiunti per cominciare a confrontarci. Speriamo di riuscire a mettere a punto alcune attenzioni su come presentare la storia in una situazione di conflitto, o alcune suggestioni su come insegnarla. Il tema è complesso e richieste studi in molti campi tra quanti lavorano nella scuola, per trovare una via percorribile. Perciò speriamo che questo programma verrà avviato in molti contesti. Il progetto è in collaborazione con Nevè Shalom – Wahat al-Salam.
Infine, ci auguriamo che questo breve report sui nostri progetti dia ai nostri amici, e a chi crede nel nostro lavoro e nei valori dell’amore, della pace, della giustizia, dell’uguaglianza e della fratellanza, un’idea di quello che stiamo facendo, degli obiettivi che stiamo perseguendo nel lavoro per la pace, la giustizia e il rispetto reciproco tra tutti i popoli e tra tutti gli individui, nelle nostre organizzazioni e in tutto il mondo.
Vorremmo assicurarvi che l’obiettivo principale del nostro centro è creare, mantenere, e nutrire i valori dell’umanità, che sono gli stessi in tutti i testi sacri e in tutte le filosofie, e indicano che tutti gli esseri umani sono stati creati per vivere in pace, che la guerra è un caso eccezionale e di emergenza che deve essere superato creando una cultura di pace, giustizia, libertà, uguaglianza, senza differenze tra persone di diverso colore, etnia, nazionalità, razza o cultura.
*Direttore del
The Center for Conflict Resolution and Reconciliation – CCRR
P.O.Box. 861, Bethlehem – Palestine
Tel. +972-2-2767745, Fax. +972-2-2745475
E-mail: ccrr@palnet.com or salamehn@hotmail.com
Il muro tra Israele e Palestina non risolverà il conflitto
di Adam Keller*
La notizia più importante oggi in Israele è il muro, il celebrato “muro di difesa” che l’esercito sta per costruire da qualche parte nei pressi della Green Line, i confini israeliani prima del ’67, e che è stato al centro di un acceso dibattito tra i ministri israeliani.
I coloni e i loro alleati di estrema destra sono agguerriti, convinti che il muro sia foriero del ritiro di Israele entro i confini del ’67 e della creazione dello stato Palestinese – il loro peggiore incubo. Per la stessa ragione, parte della popolazione che si considera impegnata per la pace e contraria all’occupazione sostiene il progetto – infatti, ci sono stati attivisti che negli anni passati hanno fatto pressione in questo senso, e alcuni politici sperano di trarne vantaggio. Per queste persone, oggi è un giorno di gloria.
Guardando spassionatamente a ciò che il Ministro della Difesa Ben-Eliezer sta proponendo oggi, con l’approvazione del Primo Ministro Sharon, sia l’euforia delle colombe che la preoccupazione dei coloni sembrano premature e inopportune.
Per cominciare, il muro non segue esattamente il confine precedente al ’67. In molti tratti se ne distanzia per “qualche chilometro qua e là”. Questi scostamenti sono stati decisi da politici e generali che disegnano un confine sulla carta, ma significano nei fatti che dozzine di villaggi circondati dal filo spinato e minati appariranno improvvisamente a separare i contadini palestinesi dalle loro terre, contadini già duramente sotto pressione per gli eventi degli ultimi due anni e per i quali queste terre sono l’ultima fonte di sussistenza che gli rimane.
Nell’area di Gerusalemme, il tracciato del muro che dovrebbe essere costruito non ha niente a che vedere con il confine del 1967. Piuttosto, ha l’obiettivo di radicare l’annessione del 1967, con il filo spinato che separa i 200.000 abitanti palestinesi di Gerusalemme Est dai loro fratelli di Betlemme a sud, Ramallah a nord, e i villaggi e i sobborghi tutto intorno. Per un abitante musulmano o cristiano della Cisgiordania, visitari a Gerusalemme i luoghi sacri della propria fede – al momento difficile e rischioso, ma ancora possibile – diventerà completamente impossibile, una volta che il muro sia eretto completamente su tutti i lati.
Di più, la costruzione del muro non significa di per sé che l’esercito lo riconosca come limite, o che cessi le lunghe incursioni ed invasioni nelle città palestinesi. Infatti, Sharon ha detto piuttosto chiaramente, più e più volte, che questo NON si fermerà, che l’esercito non intende affatto ritirarsi, né gli insediamenti verranno smantellati da questo governo.
C’è, in effetti, un precedente ovvio: la Striscia di Gaza è circondata da tutti i lati, e già da molti anni, da una barriera – che imprigiona centinaia di migliaia di palestinesi, ma non impedisce ai coloni israeliani di tenere sotto controllo oltre un terzo di questo territorio, con il risultato che ampie forze militari continuano ad uccidere e ad essere uccise, giorno dopo giorno, per mantenere in piedi quelle colonie.
Giovedì scorso i soldati di guardia all’insediamento di Netzarim hanno sparato ad un bambino palestinese di nove anni, uccidendolo, in un incidente che a fatica è stata menzionato dalla stampa israeliana o internazionale; questa mattina, un titolo di Yediot Aharonot celebrava come eroi due soldati uccisi la notte prima “per difendere Dugit” – un villaggio nel nord della Striscia di Gaza abitato da coloni insoddisfatti, che da tempo chiedono al governo, ripetutamente ed invano, di essere trasferiti.
Il destino di Gaza sembra annunciare quello che Sharon sta preparando per la Cisgiordania – con in più la complicazione che al di là del muro la Cisgiordania dovrà essere divisa e ulteriormente suddivisa in enclave sempre più piccole, un processo già ampiamente avanzato. (In una conversazione con un nostro contatto ad Hebron, abbiamo saputo oggi degli abitanti di Beit Anun bombardati con gas lacrimogeni mentre cercavano di raggiungere i campi e le vigne, e di alcuni insegnanti impegnati negli esami delle matricole, trasportati a dorso d’asino nei villaggi che sono stati tagliati fuori, ).
Una popolazione come quella israeliana che vive sotto la minaccia costante degli attacchi terroristici ha poco spazio per l’empatia verso i palestinesi sotto occupazione. Nella totale sfiducia nell’avversario e con una speranza di pace sempre più flebile, il concetto di “separazione” fa sì che l’idea di un muro divisorio diventi popolare in ampia parte dell’opinione pubblica israeliana. Tuttavia, senza la fine dell’occupazione, nemmeno la “separazione” ci darà sicurezza. E con una vera fine dell’occupazione non ci sarà alcun bisogno di una “muraglia cinese”.
* portavoce di Gush Shalom
L’impronta della Bossi-Fini
Hai lasciato l’impronta? Sì, ma quella… ecologica
A cura di Nanni Salio
Tutti ricordiamo l’11 settembre 2001: una data fatidica entrata prepotentemente nella storia. Ma pochssimi ricordano un altro 11 settembre, all’inizio del secolo scorso! Era il 1906 e Gandhi decise di sfidare il governo boero lanciando una campagna di disobbedienza civile per protestare contro la ignominiosa legge che obbligava tutti gli immigrati indiani, turchi e arabi residenti in Sud Africa a “munirsi di un certificato di identità, a fornire le impronte digitali e a farsi ‘marchiare’ il corpo per poter essere facilmente identificabili”. (Dennis Dalton, Gandhi, il Mahatma. Il potere della nonviolenza, ECIG, Genova 1998, p. 34). “Per Gandhi la nuova legge non era soltanto discriminatoria ma profondamente umiliante, in quanto trattava gli indiani alla stregua dei criminali comuni”. Ebbe così inizio la campagna di disobbedienza civile: gli indiani dovevano rifiutarsi di farsi registrare, anche a costo di essere arrestati.
Sembra che il pendolo della storia ci stia riportando ai tempi più bui dell’umanità, quando imperavano razzismo, intolleranza, nazifascismo, guerra. In simili frangenti è importante trarre ispirazione da chi, prima di noi, con grande coraggio, intelligenza e creatività ha saputo affrontare situazioni estremamente difficili senza far ricorso ad altra violenza, ma suscitando il potere dal basso, il potere della nonviolenza. Diamo allora nuovamente la parola a Gandhi: “Quello che ci apprestiamo ad attuare è un proposito molto importante, poiché la nostra stessa esistenza in Sud Africa dipende dalla sua totale osservanza”. Egli insiste sul momento cruciale di quella scelta che doveva essere suggellata con un patto da non infrangere, con un giuramento: ”Se, dopo aver fatto questo giuramento, violassimo la nostra promessa, saremmo colpevoli di fronte a Dio a agli uomini”. Ricordando quegli eventi, Gandhi li avrebbe definiti “l’avvento del satyagraha”, il metodo di lotta nonviolenta col quale ci si propone di liberare dalle “catene della violenza” sia gli oppressori sia gli oppressi, sia i ricchi sia i poveri.
Dopo poco meno di un secolo da quegli eventi, nella civilissima e cattolicissima Italia un manipolo di signori e di signore della cosiddetta “casa della libertà” intende riproporre quella stessa norma liberticida in aperta violazione dei più elementari diritti umani. Oltre a coloro che sono apertamente d’accordo, c’è chi minimizza con argomenti del tipo “l’impronta digitale non è più razzista d’una fotografia” (Lorenzo Mondo, La Stampa, 2 giugno 2002). Ma come è stata proposta è discriminatoria, tant’è che sinora viene utilizzata solo per chi viene arrestato e va in carcere. Ed è uno dei tanti passi che si vanno compiendo verso forme di controllo da “stato di polizia”, che peraltro risulteranno palesemente inefficaci contro i veri problemi della criminalità organizzata e della legalità (mafie, camorra, tangentopoli, corruzione dei “colletti bianchi”, conflitti d’interesse, ineleggibilità del premier, monopolio delle televisioni).
L’unica impronta veramente importante che dovremmo cominciare sistematicamente a stimare e calcolare per ciascuno di noi è quella “ecologica”, ovvero il peso col quale passiamo la nostra breve esistenza su questo pianeta, sottraendo a molti altri esseri umani e non umani le risorse indispensabili semplicemente per vivere.
Se rientrassimo dentro i “limiti della crescita”, dentro i “limiti della biosfera”, se non rubassimo le risorse altrui e non intaccassimo così pesantemente il capitale naturale del nostro pianeta, contribuiremmo allo stesso tempo a risolvere anche il problema dal quale nasce la questione dell’altra impronta, quella digitale. Riducendo la nostra impronta ecologica, aiuteremmo finalmente e concretamente le altre popolazioni a vivere dignitosamente nel proprio territorio senza doversi sottoporre ai ricatti e ai pericoli della gigantesca migrazione in corso.
Contro leggi ingiuste, Gandhi ci sprona a non aspettare, ad agire e a disobbedire attraverso campagne di disobbedienza civile nonviolenta prima che sia troppo tardi, come ci ricorda il monito, ahimè sempre più attuale, lanciato da Martin Niemoller durante il nazismo:
Essi vennero contro i comunisti
e io nulla obiettai
perché non ero comunista;
essi vennero contro i socialisti
e io nulla obiettai
perché non ero socialista
essi vennero contro i dirigenti sindacali
e io nulla obiettai perché non ero dirigente sindacale;
essi vennero contro gli ebrei
e io nulla obiettai
perché non ero ebreo;
essi vennero contro di me
e non era rimasto
nessuno a obiettare.
Esperanza Martínez (Ecuador), Premio Alexander Langer 2002
Salvare popoli e ambiente dai danni dell’oleodotto
Il Comitato scientifico e di Garanzia della Fondazione Alexander Langer, ha deciso di attribuire il “Premio internazionale Alexander Langer” per l’anno 2002, dotato di 10.000 Euro, ad Esperanza Martínez, Ecuador, 43 anni, madre di tre bambini, biologa.
Nata e cresciuta a Panama, vi ha effettuato gran parte degli studi. Al suo rientro in Ecuador Esperanza Martinéz ha deciso di mettere tutte le sue conoscenze ed energie al servizio della parte più indifesa della società e dell’ambiente. All’inizio degli anni 70, il governo del suo paese ha rilasciato ad alcune imprese multinazionali delle concessioni di ricerca ed estrazione petrolifera, in una vasta area amazzonica di oltre 1 milione di ettari, in uno dei territori più ricchi di specie animali e vegetali dell’intero pianeta. L’attività di estrazione del petrolio in eco-sistemi così delicati, produce un drastico peggioramento delle condizioni ambientali e di vita delle popolazioni indigene, mettendo in crisi un sapiente uso del territorio e delle sue risorse naturali, nonché un consolidato sistema di relazioni sociali.
Consapevole della complessità degli interessi in gioco, Esperanza Martínez ha deciso di dare il suo sostegno ai gruppi di donne e di associazioni locali, contribuendo a tessere, con pazienza e tenacia, una rete di alleanze sempre più ampie, che hanno coinvolto prima la conca amazzonica e poi un numero crescente di associazioni del Sud e del Nord del Mondo. Ed ha saputo collegare la richiesta di riconoscimento dei diritti violati e di moratoria delle attività petrolifere, che causano inquinamento e perdita di biodiversità, con quelli più generali dell’effetto serra e il cambiamento climatico, affrontati nel 1992 a Rio e che saranno nuovamente all’ordine del giorno dell’assemblea ONU di Johannesburg (www.worldsummit.de ). Hanno così potuto conoscersi, scambiarsi dirette esperienze, acquisire nuove competenze, rafforzarsi reciprocamente, numerosi gruppi di resistenza indigena per esempio in Venezuela, (Amigrana), Colombia (Censat e Uwa), Perù (Racimos de Ungurahui), Argentina (Mapuche), Thaylandia (Kalayanamitra Council), Birmania (Eri), Nigeria (Era e Mosop), e Georgia.
Ne sono nati, dal 1990, prima l’“Observatorio Social Ambiental de la Amazonía”, uno spazio di lavoro comune e di confronto tra organizzazioni ecologiste e sindacali, poi l’associazione „Acción Ecológica“ (www.ecuanex.net.ec/accion), sezione in Ecuador degli Amici della Terra, con la sua campagna internazionale “Amazonía por la Vida”. E nel 1996 la “Red de Resistencia a las Actividades Petroleras en los Tropicos – Oilwatch” (www.oilwatch.org), di cui Esperanza Martinez ricopre ancora oggi il ruolo di coordinatrice, e alla quale aderiscono, da 46 paesi diversi di Asia, Africa, America Latina, Europa, Usa e Australia, oltre 100 gruppi indigeni, ecologisti, religiosi, di difesa dei diritti umani.
Tra le opere informative e divulgative di cui è stata coautrice vanno segnalati: “Amazonía por la Vida: Debate ecológico del problema petrolero en el Ecuador”,1993; “Guia para enfrentar las actividades petroleras en territorios indígenas”, 1994. Ha curato inoltre due volumi dedicati all’attività petrolifera nei paesi tropicali : “Oilwatch”, 1996 e “Voces des Resistencia a la actividad petrolera en los Trópicos”, 1997. Ha inoltre pubblicato numerosi articoli in Ecuador e in altri paesi su questo decisivo tema.
Negli ultimi anni Esperanza Martinéz si è concentrata, con la rete di Acción Ecológica e di Oilwatch, nella lotta contro la costruzione di un nuovo oleodotto lungo 500 km, che attraversa l’Ecuador da Est a Ovest, colpendo aree attualmente protette e abitate dai popoli indigeni Huaorani, Quichua, Shuar e Achuar.
Il contestato progetto è stato affidato al consorzio di imprese OCP di cui fanno parte anche l’AGIP e la Banca Nazionale del Lavoro, che si occupa della collocazione dei titoli sul mercato. Per l’importanza della sua attività è sostenuta in Italia dalla Campagna per la riforma della Banca Mondiale (www.crbm.org) e dalla Gesellschaft für bedrohte Völker (www.gfbw.it). Un rapporto di gemellaggio la collega anche con la Provincia Autonoma di Bolzano e con l’Associazione ecologia e lavoro Ecolnet di Bolzano.
Del Comitato scientifico e di Garanzia della Fondazione Langer fanno parte:
Renzo Imbeni ( presidente), Gianni Tamino (vice.presidente), Pinuccia Montanari (relatrice), Ursula Apitzsch, Anna Bravo, Elis Deghenghi Olujiae, Sonia Filippazzi, Margit Pieber, Alessandra Zendron
Promosso da MN, Mir e Amici di Capitini, Si è svolto in maggio a Perugia
Suggestioni in margine al Seminario “Laicità, Religione, Nonviolenza”
Di Enrico Pompeo
Chissà perchè ma fin da subito mi era parso che il segno del tempo fosse positivo. Sarà stato per i fiocchi di lanuggine bianca che scendevano dagli alberi, o per la calma che ispirava il luogo…non lo so, fatto sta che la polverosa sensazione che ti osservi crescere dentro quando ti presenti ad un incontro, con le tortuose perplessità su quanto potrai sfuggire alla noia, al disagio della domanda che vorresti fare, ma non trovi mai il momento adatto, non si faceva avvertire. Riguardai il volantino spiegazzato nella tasca: il Movimento nonviolento, l’associazione Nazionale Amici di Aldo Capitini ed il Movimento Internazionale della Riconciliazione invitavano al seminario sul tema: Laicità, Religione, Nonviolenza, presso Villa Umbra, a Perugia. Osservai nuovamente lo spazio circostante. Non male. Già questo era indice di piacevolezza. In fondo, organizzare una giornata in una costruzione in mattoni incastonata nel verde, non era identico al farla in uno scantinato umido di una delle tante periferie mangiate dallo smog delle nostre disarmanti province. Allibito di fronte all’ovvia banalità di questa mia così profonda riflessione, entrai nella sala dove, da lì a poco sarebbe iniziato l’incontro, e mi sedetti. La constatazione di quanto fossero piacevoli e comode le poltroncine mi confortava, soprattutto pensando a quei 20 km. della marcia a favore di una soluzione nonviolenta della situazione palestinese che, incuranti delle condizioni metereologiche, aspettavano, il giorno dopo, di essere calpestati dalle suole consumate delle mie scarpe. Cioè, in realtà non credo che quel tratto di asfalto fosse cosciente di tutto questo, ma comunque, aver trovato un sedere – nel senso di luogo, non vorrei apparire sboccato – così rilassante, mi faceva pensare con maggior simpatia al tragitto dell’indomani. Mentre venivo trascinato dietro il flusso di questi futili pensieri, il dibattito iniziava. Ero contento di esserci. Credo che discutere su questi temi, in un periodo storico come la nostra contemporaneità, sia necessario e imprescindibile per tutti coloro che non credono che quello in cui viviamo sia davvero il migliore dei mondi possibili.
Il primo relatore fu Mario Martini. Nel suo intervento, ricco di riferimenti e prezioso stimolo di riflessione, ciò che mi rimase impresso fu l’affermazione che tutte le religioni rivelate impongono la presenza dell’assoluto nel piano contingente della storia umana, e questo inserimento produce frizioni, scanalature irregolari, stonate percezioni, in quanto ogni alterità viene accettata solo in parte, perchè provvisoria, mancante della luce della verità univoca, di cui la sola istituzione ecclesiastica possiede chiavi e porte. E’ proprio il trincerarsi dietro blocchi monolitici, convinti assertori dell’infallibilità del proprio credo, che stimola e giustifica la violenza nei confronti di chi è diverso. Cartina di tornasole: la strutturazione interna, non certamente democratica, delle tre grandi religioni monoteistiche.
Ho poi ascoltato Luciano Benini, che, puntuale e preciso, ha evidenziato quanto la chiesa cattolica, come istituzione, abbia tradito il Vangelo, soprattutto nella netta distanza che Gesù prende dal potere. E’ proprio Satana che nel deserto, per tentarlo, gli offre il ruolo di padrone della realtà. E’ come se ci fosse un doppio fondo, una specie di camaleontico percorso che porta la Chiesa, a partire dal quarto sec. A.C., a saldarsi con chi detiene le redini del gioco, per poi accettarne, o comunque legittimarne, lo strumento prediletto di conservazione della propria forza: la violenza. C’è un’enciclica di papa Giovanni, la “Pacem in Terris” in cui vi è un netto rifiuto del concetto di “guerra santa”, ma esso ritorna, puntuale, canonico, come un tarlo, che trova terreno fertile in proporzione a quanto l’istituzione ecclesiastica si mescola con la gestione del potere politico.
Quale intensità di emozione e profondità di pensiero nella lettera che Gandhi scrisse ad Hitler nel 1941. Non arrivò mai a destinazione. La censura inglese le tarpò le ali. In quelle parole si sentiva un rigore ed una consapevolezza della responsabilità delle azioni che si compiono sulla base di ciò che la nostra guida interiore, la Verità, ci indica come ciò che è giusto perseguire, anche ammettendo la possibilità di essere ucciso. Ed è proprio in questa costante, infinita, ricerca di adeguamento a questo principio universale, che è liberazione progressiva da tutti i vincoli, che risiede il carattere laico del pensiero di Gandhi. La lotta contro la divisione in caste e quella per l’emancipazione della donna ne sono chiari esempi, come il fatto che nei villaggi che lui ha disseminato in India fossero ammesse tutte le religioni, con la sola rivendicazione della non chiusura dell’una verso l’altra, perchè, rispetto a tutti i dogmi, l’unica risposta certa la dà la coscienza.
Allora, ci chiede Matteo Soccio, Gandhi è religioso o politico? In lui, non c’è separazione, ma capacità di unire le due dimensioni, che diventano complementari, in quanto “la Verità è Dio”, e l’agire sociale è il tentativo di mettere in pratico questa verità, che è libertà, assunzione di coscienza. Il Mahatma come vero propositore di una visione che riesce a sconfessare Macchiavelli.
Le suggestioni di questo intervento così fecondo sono molteplici e profonde.
Si entra poi ad analizzare come le tematiche di questo incontro si trovino sviluppate nel pensiero di Aldo Capitini, e quali riferimenti possano esserci nella sua trattazione filosofica di questi aspetti. Si evidenzia una profonda convergenza tra la posizione etica e morale di Capitini e quella di Kant, ripreso al di là della ‘Critica alla ragion Pura’, unico testo accantonato dal maestro della nonviolenza italiana tra quelli del pensatore tedesco, indizio inequivocabile di una distanza dalla speculazione teorica fine a se stessa.
Sia nel filosofo tedesco che in quello italiano è sempre la morale a fondare la religione, ma con dovute differenze. In Kant, è la legge morale dentro di me che mi suggerisce un comportamento che, supportato dalla ragione, può diventare universale. L’imperativo categorico è il traguardo di uno sforzo di individui che si uniscono – se lo fanno – dopo. In Capitini è un processo collettivo fin dall’inizio, che parte e si sviluppa attraverso ‘l’amore’, in cui ‘l’aggiunta’ si concretizza fin dal primo anelito di giustizia, di etica e di morale.
La conclusione dell’intervento di Ornella Pompeo Faracovi strappa l’applauso più fragoroso della giornata, sottolineato anche dalla convergenza con le campane della chiesa vicina.
L’analisi pacata, ma estremamente profonda e densa, di Eugenio Rivoir parte dalla profezia nefasta di Isaia sul destino di Gerusalemme, dovuta all’incapacità degli uomini di leggere i segnali. C’è salvezza solo per i pochi che possono vedere. Ma cosa si deve riuscire a cogliere con il nostro sguardo? La possibilità di un mondo diverso in cui le differenze non siano fonte di contrasti, ma di ricchezza reciproca. La ‘Buona novella’ è la comunicazione di una realtà in cui non esiste una verità imposta, senza costrizione, con una sola legge universale, il non fare a te ciò che non voglio sia fatto a me.
Dopo una lauta pausa pranzo, si susseguono vari contributi, tra i quali quello di Antonino Drago, che sottolinea quanto la Nonviolenza debba essere ancorata all’etica religiosa, per poter riuscire ad essere fondante e carica di significato concreto. Rocco Alteri, invece, sottolinea, con forza, quanto in Capitini laicità e religione siano in comunanza, e mai in contrapposizione. La Religione è intesa come servizio reso alla comunità, ed è perciò indissolubilmente legata alla politica, e si realizza nella’Città dell’uomo’.
Ricordo poi parole toccanti e sincere di Dario Mencaroni, argute sottolineature di Luciano Capitini e, soprattutto, l’intervento conclusivo di Rocco Pompeo che, a differenza di questa mia caotica ed affastellata accozzaglia di schegge di ricordi, ha tracciato un profilo preciso delle varie dinamiche esposte durante il convegno, evidenziando quanto, nei maestri del pensiero nonviolento, ed in Capitini in particolare, è proprio la Nonviolenza a consentire una saldatura tra laicità e religione, che viene intesa come ‘apertura’ verso l’altro, come impegno costante al miglioramento del presente, messo in tensione con il valore dell’etica, nella prospettiva di una realtà liberata, senza verità fittizie ed intoccabili.
L’incontro era concluso. Mi sembrava di essere stato di fronte ad uno specchio attraverso il quale le parole ascoltate avevano fatto intravedere una prospettiva nuova, di più ampio respiro, che permetteva di collegare spazi, concetti che il pensiero ufficiale tendeva a presentare come intrinsecamente conflittuali e staccati.
Usciì dalla sala. Il cielo concedeva striature di tramonto allo sguardo. Per una volta la disposizione d’animo della mattina era stata confermata. Buon segno…
Un dibattito riaperto dal Seminario su laicità, religione e nonviolenza
Laicità della nonviolenza: Capitini è cristiano o no?
Di Enrico Peyretti
Nel volume curato da Claudio Tugnoli, Maestri e scolari di non violenza (ahimé, scritto staccato nel titolo, mentre a p. 10 Ennio Draghicchio, nella presentazione, perora la causa capitiniana della scrittura in una sola parola!), uscito da Franco Angeli nel 2000, alle pp. 81-83, Rocco Altieri, che è un valoroso studioso di Aldo Capitini, dà un severo giudizio su una mia affermazione, fatta nel convegno di Torino, dicembre 1999, su Capitini non cristiano. Altieri si riferisce ad una sintesi, la sola finora pubblicata, di quella mia relazione, che ascoltò in quel convegno.
Capitini stesso si definisce post-cristiano. Bobbio (Introduzione a Il potere di tutti, p. 24-29) parla del suo post-cristianesimo e post-comunismo (rinviando al libro di Capitini Nuova socialità e riforma religiosa, p. 112), e sottolinea il significato del “post”, che non è l'”anti”. Secondo Bobbio, con Capitini «non possiamo più dirci cristiani. Il che non significa anti-cristiani» (p. 25). Tuttavia, non mi pare di avere io «ripetutamente parlato di Capitini come di un autore post-cristiano», come scrive Altieri (p. 81).
Nella relazione intera di Torino, citavo il libro di Vigilante (La realtà liberata, Edizioni del Rosone, Foggia, p. 98), che concorda con me. Soprattutto, precisavo che ritenere Capitini non cristiano, nel senso preciso e rigoroso del termine, non è ovviamente un insulto, né assolutamente una diminuzione del valore della sua alta e feconda religiosità.
Altieri scrive due volte che il mio giudizio è «fuorviante», «pericolosamente fuorviante» (p. 83 e 81). Perché? Mi pare di capire che egli pensi che ritenere Capitini non cristiano significhi pensare che egli «mette da parte la figura del Cristo» (p. 81). So bene che non è così. Si può infatti considerare molto la figura del Cristo, come faceva Gandhi, anche senza essere cristiani.
La figura di Gesù di Nazareth è interpretata in vari modi: alcuni di questi appartengono alla universale tradizione cristiana, nonostante le differenze interne a questa tradizione, altri no. Si può forse discutere (e io lo dicevo) se il criterio che ho adottato (l’interpretazione di Gesù come veramente uomo e veramente Dio, e la fede nell’uni-trinità di Dio, che è di tutta la tradizione cristiana) sia esatto e utile per individuare chi è cristiano in senso proprio. Ma credo che questo criterio sia almeno fortemente legittimo, senza con ciò diminuire nulla – specialmente oggi, per chi ha mentalità aperta – della spiritualità e religiosità di chi cristiano non è. Forse Altieri adotta un criterio diverso per individuare il cristiano.
Egli scrive addirittura che il mio giudizio «sposta l’attenzione dallo sforzo essenziale per il rinnovamento nonviolento delle religioni, ad un accademico interesse classificatorio, chiudendo la realtà ecclesiale al riconoscimento dovuto a Capitini per la sua aggiunta al cristianesimo, non certo sostituzione, che è l’apertura al metodo nonviolento e il riconoscimento diffuso del valore etico dell’obiezione di coscienza» (p. 83). Sono consapevole di avere sempre fatto il contrario.
Non mi pare di «ricadere nei vecchi pregiudizi dell’appartenenza, del separare chi è dentro da chi è fuori». Si possono individuare e chiarire diverse convinzioni e scelte, entro la più grande scelta della vita religiosa nonviolenta, senza alcuno spirito esclusivista. Non è «accademico interesse classificatorio», né è «bizantineggiare», né è «fissare lo sguardo sul dito che indica la luna» (stessa pagina), mettere la comprensione della persona di Cristo al centro della ricerca di ciò che è cristianesimo. E questa centralità non è affatto dimenticare il «culto in spirito e verità», che va inteso – sono felice di essere qui d’accordo con Altieri, e con Tolstoj, e con lo stesso Giovanni apostolo (vedi la sua prima lettera 3,18) – come “nei fatti”, come agire etico. Teologia e cristologia, quando sono serie e responsabili, non le considero delle oziosità evasive dalla vita religiosa etica, ma una ricerca di luce per questo cammino reale.
La polemica di Capitini col cattolicesimo sono convinto che nascesse dalla sua pura e autentica religiosità, ma che dipendesse anche in parte dallo stato della teologia cattolica di allora, e da quella prassi politica ecclesiastica, dalla quale Capitini non riusciva a distinguere abbastanza l’essenza del cristianesimo. Anche oggi questa politica ad alcuni nasconde il centro del cristianesimo, mentre altri riescono a vederlo attraverso quella nebbia e quelle scorie. Considero preziosa la polemica capitiniana, in generale e per me (lo dico chiaro in apertura di quella mia relazione), ma dico che ci sono dentro anche dei malintesi. E ciò non deve sorprendere. Capitini aveva molte ragioni, ma non in tutto. Credo che non avesse ragione nel quasi dissolvere la persona unica di Cristo, se capisco bene, nell’apertura religiosa e generosa di tutti. Un cristiano crede che veramente lo Spirito di Cristo vive e agisce in ogni persona di buona volontà, ma non per questo ritiene di dover perdere quello specialissimo riferimento personale e quella considerazione di Gesù Cristo, che Capitini considera una “idolatria”. Cristo è con noi, è uno di noi, ma è più di noi, altrimenti non sarebbe quella luce tutta nuova di salvezza e di vita.
Farò ancora attenzione alla critica di Altieri, col quale intendo, come lui sa, spiegarmi pubblicamente, senza alcuno spirito polemico, ma non mi pare ora di poterne accettare la sostanza assai severa, perché non conosco e non penso Capitini nel modo che egli denuncia, benché sia consapevole di avere ancora tanto da imparare, capire, pensare. Allo scopo di chiarire la discussione, e permettere ai lettori di Azione Nonviolenta di valutarla, riporto per intero, e non nel solo riassunto, le ultime righe di quella mia relazione:
«Capitini non è cristiano nel senso proprio del termine: cristiano è chi, sulla parola e per la testimonianza di Gesù di Nazareth, tramandata nella tradizione della fede, crede che Gesù è vero Dio e vero uomo, e crede nella intima uni-trinità di Dio rivelata da Gesù. Questo, nella religione aperta di Capitini, non c’è. Ma c’è molto di quanto di più essenziale Gesù ha insegnato con i fatti e con la sua vita; c’è molto di ciò che è salvezza dell’esistenza umana, secondo l’annuncio evangelico. In Capitini c’è la nonviolenza, che è amore senza condizioni: non il sentimento d’amore della piena concordia (i cuori insieme), ma la volontà di bene anche per l’avversario e per chi ti è nemico. Io credo che la nonviolenza attiva, la ricerca di soluzione non distruttiva e non offensiva dei conflitti umani, dal micro al macro, sia la forma laica, attuale, dell’amore fattivo esteso fino ai nemici, e che questo amore – che noi ci pensiamo o no, che noi lo riconosciamo o no come tale – sia il più grande segno di Dio nella vita umana. Dio non agisce miracolisticamente, ma nella comparsa di novità che salvano dal male: l’amore fino ai nemici è questa novità, questa guarigione profonda, questa liberazione dai demoni che ci rendono omicidi. Capitini ha vissuto e detto questo, ha accolto in pieno la novità evangelica senza l’interpretazione teologica – del resto non trascurabile ma preziosa, io credo, per lo stesso vivere in modo evangelico – che tutte le chiese cristiane concordemente ne hanno sempre dato. Capitini cristiano pratico nel rifiuto teorico, potremmo dire.
Amare chi non ti ama, avere l’«iniziativa assoluta» (termine di Capitini), porre l’atto, dare più che ricevere, non uccidere e non offendere, non mentire, sperare l’insperabile, non rassegnarsi al potere del male, perdonare, attendere e preparare la «realtà liberata», vedere la fecondità della sofferenza accettata (Capitini usa spesso il termine di “croce” per dire il prezzo meritevole da pagare nella lotta nonviolenta): tutto ciò è vita evangelica, vissuta negli spazi della “lieta notizia”, ed è essa stessa una lieta notizia, un “evangelo” per chi la incontra.
Ciò sia detto, ovviamente, non per annettere Capitini ad una chiesa e ad una credenza che ha avuto motivo di rifiutare, ma per riconoscere in lui lo stesso flusso di verità e di bene che un cristiano trova nell’ascoltare e seguire Gesù di Nazareth. Tutto ciò è motivo di lieta gratitudine, di allargamento del cuore e della speranza, è “religione aperta”».
Mi scrive Pier Cesare il 21.3:
Caro Enrico, credo che tu abbia ragione. E credo (io) essere cristiano.
Ti abbraccio Pier
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Quelle guerre lontane, sconosciute, dimenticate, che ci passano accanto, tra i vicini di casa
Quanto sono lontane, nella vita quotidiana, le guerre che si combattono in giro per il mondo? La televisione, con il suo linguaggio asettico e le immagini ripulite, non rende l’idea di quanto sta accadendo, con risvolti sanguinosi, in paesi lontani, e quasi tutti i giornali hanno perso da tempo quegli inviati di guerra che con la loro prosa sapevano dipingere i contesti più impressionanti.
Mi aveva colpito tempo fa un’intervista apparsa sulle pagine di un quotidiano della provincia di Alessandria, nella primavera ’99, al direttore della agenzia BNL locale, il quale affermava candidamente di conoscere l’uomo d’affari accusato di aver fornito illegalmente armi al Ruanda nel 1994. “Mr. Savy è ben conosciuto qui da noi, ma non siamo in grado di verificare il contenuto delle sue operazioni”, diceva il direttore indifferente alla sanguinosa guerra civile esplosa tra hutu e tutsi in quel periodo nel paese africano. Una commissione d’inchiesta dell’Onu aveva scoperto che un innocente carico di pesce fresco dalle Seychelles mascherava in realtà un rifornimento di 80 tonnellate di fucili, granate e munizioni all’esercito Ruandese, e i bonifici di pagamento erano transitati anche da quell’agenzia. Alessandria non è lontana da Torino: da quelle parti è nata mia moglie, ho pensato. Stai a vedere che qualche conoscente sapeva della cosa, ne è stato coinvolto, poteva intervenire e non l’ha fatto….
Un episodio isolato, ho pensato per fermare i miei grigi pensieri. Ma mi sbagliavo. Il 7 aprile 2001 la Direzione Investigativa Antimafia di Torino arrivò fino in Costa Smeralda per tradurre nel carcere delle Vallette il famoso petroliere russo Alexandre Borisovich Zhukov, amico tra gli altri della torinese Alba Parietti, con la pesante accusa di essere a capo di un colossale traffico internazionale di armi. L’organizzazione, formata da ex agenti del Kgb, esponenti della mafia russa e uomini di affari ucraini, in Italia aveva come base di appoggio due società nate a Torino, la Gei e la New Stilmat, ufficialmente un’impresa di sistemi industriali e una società specializzata in prodotti di cancelleria. La svolta nelle indagini avvenne da un banale incidente stradale: la polizia bloccò il bulgaro titolare delle società e dentro una ventiquattrore trovò gli schemi di un sofisticato software per sistemi di puntamento di aerei di guerra. Dal ‘92 al ‘94 dai porti di Ancona e Venezia sarebbero transitate decine di navi cariche di armi, dirette verso Serbia e Croazia. Dall’inizio dell’inchiesta sono state sequestrate ed inviate in depositi sotterranei della Nato ben 2.000 tonnellate di armi: 30 mila kalashnikov, 400 missili filoguidati “Fagot”, 5.061 razzi campali Katjuscia, 10.008 razzi anticarro e 32 milioni di munizioni di vario calibro.
Certo, il mondo della finanza e del traffico di armi è più sviluppato in Occidente che in ogni parte del mondo; Torino è poi una città industriale di respiro internazionale, con centri economici di importanza mondiale: con gli stabilimenti Iveco di Lungo Stura Lazio e quelli di FiatAvio in Corso Marche, da sempre la Fiat contribuisce a potenziare gli eserciti di mezzo mondo dotandoli dei suoi aerei e dei suoi carri armati. E d’altronde, non era proprio dalla sede Telecom di Via Bertola, che al termine di un tranquillo consiglio di amministrazione del 9 giugno 1997, veniva deliberato l’acquisto del 29% di Telekom Serbia successivamente utilizzato da Slobodan Milosevic per intraprendere il massacro del Kosovo? Con 1,57 miliardi di marchi tedeschi l’azienda italiana vinceva il primato del maggiore investimento mai realizzato nella Repubblica Federale Jugoslava, i cui risultati sarebbero stati evidenti qualche mese dopo. Ma sapere che i mercanteggi e le trattative si verificano a pochi passi dal tuo luogo di lavoro o della casa in cui vivi, fa sicuramente un effetto diverso da quello che si prova vedendo le immagini al telegiornale.
Allo stesso modo, mi aveva impressionato la fine di un ragazzo di Biella, Francesco Bider, che avevo probabilmente incrociato nei training di formazione per Mir Sada, agosto ’93, dei Beati Costruttori di Pace. Coinvolto sempre più nella spirale di violenza scoppiata dopo l’invasione del Kosovo da parte dell’esercito serbo, Francesco si era arruolato con le milizie dell’Uck e dopo un solo mese di addestramento era stato ucciso in un conflitto a fuoco il 24 giugno del ’99, mentre tentava di riportare in territorio albanese un commilitone ferito. A Torino aveva studiato Medicina, chissà se qualche volta avevo incrociato quel marcantonio con la barba ispida e a due punte?
Un caso isolato anche questo, comunque, ho pensato. E invece no. Perché Torino ha un milione di abitanti, è ormai una città cosmopolita e quanto succede nel mondo interroga sempre più da vicino le etnie e le persone che la abitano. E la stessa molla fa partire il giovane Mohamed Aouzar, 23 anni, dalla casa dei suoi genitori di Via Catania, in un quartiere periferico della città, per arruolarsi con i militanti di Al Qaeda impegnati nell’assedio di Mazar-I-Sharif, nel cuore dell’Afghanistan attaccato dalle truppe statunitensi. E in un giorno di fine febbraio, Mohamed e i suoi sogni di gloria vengono imbarcati su un aereo dell’US Air Force e portati nella base di Guantanamo, dalla quale il giovane marocchino scriverà accorate lettere ai genitori che ancora lo attendono nel quartiere di Regio Parco.
Lo stesso filo sembra poi aver portato un gruppo di altri oscuri individui di varia nazionalità ad organizzare, in un anonimo alloggio di Via Tonale, una base nella quale sono transitati personaggi implicati negli attentati alle ambasciate statunitensi in Kenia, Tanzania e Albania (quest’ultimo sventato). La magistratura torinese nell’ottobre scorso, a ridosso del processo che condannò un egiziano a cinque anni di carcere (un secondo riuscì ad eclissarsi in modo fortuito), sequestrò in quell’alloggio nel quartiere operaio di Mirafiori una notevole quantità di armi e lingotti d’oro: evidentemente i mercanti d’armi non si fidavano ancora dell’euro come forma di pagamento.
Quanti altri ragazzi torinesi hanno sentito il bisogno in questi anni di intervenire, in prima persona, nelle guerre scoppiate per il mondo? Quanti ragazzi ho incrociato per la strada, un attimo prima della loro partenza per il conflitto? Le guerre attraversano la mia città coinvolgendo non solo capitali e transazioni finanziarie, ma anche persone in carne e ossa, famiglie e destini, in un turbinio che forse facciamo fatica ad immaginare.
La paura di alcuni pacifisti, quando il servizio militare obbligatorio è stato sospeso in favore del servizio militare professionale, era che questo modello organizzativo avrebbe separato ancor più le guerre dall’opinione pubblica, la quale non avrebbe più avuto figli, fratelli, mariti coinvolti nei combattimenti in corso a migliaia di chilometri di distanza, a difesa “degli interessi nazionali, ovunque essi siano”, ma solo miliziani superpagati e superaddestrati, con pochi collegamenti con la madre patria. E sarebbero venute meno le indignazioni e le proteste delle persone comuni, direttamente partecipi in caso di coinvolgimento di qualche familiare in temporaneo servizio di naja.
Ma in un contesto globale basta tenere i nostri sensi all’erta e i segnali si avvertono, le tensioni si percepiscono, i presentimenti diventano realtà. Una realtà più vicina di quanto possiamo immaginare: la globalizzazione azzera le distanze tra noi e le guerre, attraversando anche le nostre sicure città d’occidente.
ALTERNATIVE
A cura di Gianni Scotto
Progettare la trasformazione per la pace del futuro
Un concetto importante nella pratica della costruzione della pace in campo internazionale (il peacebuilding) è quello di “infrastruttura per la pace” proposto dal mediatore statunitense John Paul Lederach. L’idea fondamentale è che progettare la trasformazione di una società verso un futuro di minore violenza richiede l’estensione del lavoro di pace nel tempo e nello “spazio sociale”: nel lavoro di pace bisogna anzitutto saper trovare il raccordo tra decisioni immediate, spesso dettate da eventi esterni o da emergenze, e visioni ideali del futuro. Inoltre, occorre acquistare l’intelligenza e la capacità di muoversi nelle diverse articolazioni della società, dai vertici politici alle strutture di base, passando per le importanti e spesso sottovalutate “leadership intermedie”.
Proviamo ad approfondire il tema del tempo. La dimensione temporale è centrale e tuttavia viene spesso trascurata. dobbiamo imparare a conciliare i tempi rapidi delle risposte da dare alle situazioni di crisi , che si presentano in un arco di tempo che va dalle settimane a pochi mesi, e la visione di lungo periodo che può abbracciare l’orizzonte di una generazione e anche di più.
Soprattutto di fronte alle catastrofi umanitarie è urgentissimo agire presto e bene. Tuttavia rincorrere solo l’emergenza rischia di far perdere di vista l’orizzonte di lungo periodo della nostra azione. D’altra parte, lavorare solo per una trasformazione che si dispiegherà in un futuro più o meno lontano porta con sé il rischio di astrattezza, di perdere di vista la sofferenza e le urgenze di oggi, al limite mettendo a repentaglio la credibilità di chi della pace intende fare una proposta politica concreta. È indispensabile quindi agire nell’oggi mantenendo la consapevolezza delle trasformazioni necessarie nel lungo periodo; progettare gli interventi più urgenti – magari decisi sotto la spinta dell’effimera attenzione dei mass media – cercando di inquadrarli in una prospettiva di lungo periodo
Tra queste due dimensioni del lavoro di pace se ne può anche identificare una terza, di medio periodo: è la dimensione in cui si sviluppano organizzazioni e programmi di lavoro.
Si sa che per costruire un’organizzazione funzionante ed efficace occorre un lavoro paziente ed efficace che può richiedere anni. Mentre i movimenti sociali vanno e vengono, al loro interno si possono cristallizzare gruppi o associazioni che riescono a rendere permanente il loro lavoro. In un certo senso, la loro stessa presenza trasforma in meglio la situazione generale – per quanto piccoli questi gruppi possano essere.
A loro volta, anche gruppi ed organizzazioni possono rimanere risucchiati dall’ansia di agire. A questo proposito viene in mente la crescente diffusione della “logica del progetto”. Strutturare la propria azione nel senso di una maggiore efficienza ed incisività è un bene, soprattutto in situazioni sociali sclerotizzate e statiche; il rischio è che il continuo rincorrere la ricerca di risorse, i piani di azione e gli obiettivi stabiliti faccia perdere di vista le finalità di lungo periodo che in origine ci si era posti. I pericoli del “progettismo” diventano evidenti quando si osservano il mondo degli aiuti di emergenza e della cooperazione allo sviluppo.
A livello delle organizzazioni – che di per sé hanno una certa durata nel tempo – si ripropone quindi in una forma nuova il problema dell’orizzonte temporale di azione: in questo caso è bene che i singoli progetti concreti vengano intesi come momenti di un processo che non termina con la chiusura del progetto singolo, ma che continua facendo tesoro dei risultati raggiunti e inserendosi in un contesto più ampio. Alla cultura del progetto è importante affiancare una “cultura del programma”, che riesca a concretizzare i valori alla base dell’azione con finalità da raggiungere nel medio periodo attraverso singole attività concrete. Per questo le organizzazioni dedite al cambiamento sociale, per essere efficaci, lavorano a programmi a medio termine, e anche a quella che gli anglosassoni chiamano la “vision”, e che più modestamente si può tradurre con dichiarazione di intenti. Rendere cosa viva le visioni e i programmi sulla carta, evitare le trappole del “progettismo”, sono le sfide che si presentano continuamente alle organizzazioni.
A ben vedere, ritroviamo qui alcuni capisaldi della cultura dell’azione nonviolenta: il nesso tra concrete campagne politiche e un orizzonte vasto di trasformazione sociale, proprio di Gandhi; il lavoro a un “piano di sviluppo”, che orientava l’attività di Danilo Dolci in Sicilia; l’attenzione alla trasformazione individuale del libero religioso connessa con i progetti di cambiamento sociale che distingue il pensiero e l’azione di Aldo Capitini. Affrontando i dilemmi dell’agire di oggi, scopriamo di percorrere le stesse vie di chi ci ha preceduto.
LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Genova…un anno dopo
Intervista ad Alberto Zoratti, del nodo Lilliput di Genova, sui giorni del G8 di un anno fa..
Il tuo punto di vista di lillipuziano a un anno di distanza dai fatti di Genova ?
il g8 genovese è stato senza dubbio un momento di grande entusiasmo, non tanto nei momenti topici degli scontri, quanto nel percorso di costruzione progressiva di quel laboratorio politico che è stato il Genoa Social Forum (GSF) dove organizzazioni e realtà che fino al giorno prima neanche si parlavano avevano deciso di mettersi in gioco. Come Rete Lilliput, in maniera molto trasparente e condivisa al nostro interno, abbiamo fatto parte di quel percorso, contribuendo con i nostri contenuti e le nostre pratiche alla diffusione del nuovo mondo possibile di Porto Alegre. Da quei momenti è oramai passato un anno, che però nella cronologia del movimento pesano come secoli: molte cose sono cambiate, alcune componenti dell’ex Gsf hanno nei fatti seguito una deriva politicista e personalistica, basata più sull’appropriazione di spazi politici che non sulla costruzione e il mantenimento di spazi di confronto e collaborazione realmente orizzontali e condivisi: poca attenzione per i contenuti e troppa per le strategie e per la ricerca di visibilità, questi sono stati alcuni degli enormi limiti di un movimento dalle grandi potenzialità. Esempio ne è la discutibile riuscita della manifestazione sulla Fao del giugno scorso, dove sia quantitativamente sia qualitativamente non si è più avuta la complessità della partecipazione dei momenti migliori. Tutto dovuto probabilmente ad una stanchezza diffusa, ad un progressivo distacco di alcune realtà nazionali o di alcuni ex portavoce rispetto alla base militante, che hanno continuato a tentare di gestire il movimento con metodi a volte poco cristallini, ma in ogni caso non da tutti condivisi, e se a questo aggiungiamo la carenza di spazi politici di riflessione realmente aperti ed orizzontali entro cui confrontarsi, il gioco è fatto.
Dopo i fatti dell’anno scorso cosa é cambiato tra voi e la città di Genova ?
Meno di quanto pensassi, anche se mi rendo conto che le ferite di quei giorni sono tutt’altro che rimarginate. Le banche sono state ricostruite, il selciato ricostituito, ma nell’immaginario dei genovesi la Genova a ferro e a fuoco e così tanta violenza, anche istituzionale, hanno lasciato un segno credo indelebile.
Cosa rifaresti e cosa no del prima, durante e dopo G8 ?
Rifarei quasi tutto, metterei forse maggiore energia nell’organizzazione dei gruppi per le azioni dirette nonviolente e lavorerei di più sulla città e i suoi abitanti. Cercherei, questo sì, di essere più attento alle dinamiche esterne al Gsf, senza quindi ridimensionare quei soggetti sociali e quelle dinamiche istituzionali che sono stati detonanti il 20 e il 21 luglio. E poi sarei chiaro sui livelli di conflitto raggiunti, in maniera tale che le persone sappiano a cosa vanno incontro nel partecipare alle manifestazioni; ma questo con il senno di poi, chiaramente.
Che significato davi alla parola nonviolenza prima del G8 e che significato le dai ora ?
Il G8, ma anche e soprattutto le esperienze successive, non ultima la Palestina, hanno mostrato come un approccio nonviolento, ma attivo e intraprendente, sia fortemente incisivo sia a livello politico che strategico. Detto questo rimango fortemente critico, così come lo ero durante le mobilitazioni di Genova, verso ogni forma di ideologizzazione del concetto di nonviolenza, rimango perplesso quando questa definizione diventa motivo di divisione e di scontro piuttosto che di riflessone aperta e pacata. La nonviolenza diventa un elemento rivoluzionario solo nella maniera in cui viene calata nella realtà a misurarsi con tutte le sue contraddizioni, viene insomma umanizzata riconoscendone limiti e potenzialità. Al contrario rischia di diventare ideologia, diventando un ottimo approccio teorico, ma difficilmente realizzabile e quindi inefficace.
Genova per noi…
Genova un anno fa è stata involontario teatro di eventi troppo forti. Un finto palcoscenico per i Grandi, e una piazza vera dove è rimasto un Morto e molti feriti.
Poi le polemiche, i veleni, le accuse.
Ora le ferite fisiche di Genova sono state curate, ma restano quelle morali, più profonde.
Un anno dopo il movimento vuole riprendere quel filo di dialogo che è stato interrotto dalla violenza. Riconciliarsi con se stesso, con l’opinione pubblica, con le istituzioni democratiche, con la città.
Tornare a Genova, e in ogni città, per proseguire il cammino, lungo e difficile, per un possibile mondo migliore. Sapendo che solo attraverso la nonviolenza anzichè vincere si riuscirà a convincere.
Messaggio inviato dal Movimento Nonviolento alle associazioni che hanno indetto le iniziative che si terranno a Genova dal 19 al 21 luglio prossimo.
STORIA
A cura di Sergio Abesano
La storia parallela dell’obiezione: la riforma parlamentare
Da questa puntata narrereremo per alcuni mesi, da un punto di vista che cerca di essere storico, quali furono gli avvenimenti relativi all’obiezione di coscienza negli ultimi anni prima dell’approvazione della riforma della legge n° 772/1972. Può sembrare strano parlare di aspetto storico per vicende che hanno soltanto pochi anni di vita. Al riguardo è necessaria una precisazione. E’ pur vero che la società tecnologizzata nella quale viviamo ci ha abituati ad eventi di durata sempre più corta, che dopo breve entrano già nella fase del loro passato. Ad esempio un tempo le guerre duravano decenni; oggi la loro lunghezza si può misurare in giorni, se non addirittura in ore. Un episodio come la guerra del golfo appartiene già al nostro passato.
Eppure non si può affrontare questi avvenimenti, che ancora influenzano il nostro presente, con il distacco e l’obiettività che necessitano all’analisi storica. Pertanto, sebbene per la stesura del presente lavoro si sia cercato di evitare una scrittura di militanza, di analisi storica vera e propria sarebbe scorretto parlare.
Finora la storia è sempre stata narrazione di guerre, scandita dalle date delle battaglie e nella quale i periodi di pace erano interpretati come preparazione a nuovi conflitti. In realtà è sempre esistita una storia parallela, non sempre tramandata benché reale, costruita non da pochi uomini più o meno illustri ma da estese popolazioni. E’ stata la storia di coloro che, senza impostazione ideologica e in maniera spontanea, si sono opposti alle guerre, alla loro preparazione e ai loro effetti più nefasti. Questa storia non è ancora stata scritta.
Ciò che è accaduto in merito all’obiezione di coscienza negli ultimi anni non è attualmente un evento storico, ma lo sarà. Noi ci auguriamo che domani qualche scienziato sociale abbia il coraggio di affrontare questo argomento e di raccontarlo. Da parte nostra speriamo di alleggerirgli il compito, preparandogli in forma omogenea una raccolta di notizie che altrimenti, sparpagliate qua e là, rischierebbero di finire nelle periferie della memoria, come tanti altri eventi della storia non ufficiale. E sarebbe un peccato.
Il 29 settembre 1993 l’aula di Montecitorio approvò la legge di riforma del servizio civile. Non era la prima volta che ciò accadeva, ma in precedenza lo scioglimento anticipato delle Camere non aveva permesso che la proposta si trasformasse in legge dello Stato. Matteo Soccio, uno degli obiettori che nel 1972 uscì dal carcere grazie all’approvazione della legge n° 772, evidenziò che nella riforma c’era una grande assente: l’obiezione di coscienza. “Il riconoscimento dell’obiezione di coscienza è tutto nel primo articolo”, scriveva. “Il resto è ‘legge sul servizio civile’, un servizio civile reso certamente non più facile di quello assicurato dalla vecchia legge e dalla prassi vigente” (1) .
Anche Stefano Guffanti, già segretario nazionale della Lega Obiettori Coscienza (L.O.C.), nell’evidenziare i punti positivi e quelli negativi della nuova proposta notava che, pur essendo presenti innegabili miglioramenti, si era ancora lontani da una legge che, oltre ad affermare formalmente il diritto soggettivo all’obiezione di coscienza, poi lo garantisse di fatto. “La nuova legge”, scriveva “si limita ad inquadrare in un contesto legislativo che evidenzia una volontà punitiva non ancora sopita ciò che gli obiettori, di fatto, hanno già conquistato, mentre è mancata la volontà di accettare quei punti, proposti dalla L.O.C., che avrebbero rappresentato una reale innovazione rispetto alla situazione attuale” (2).
A Montecitorio la riforma del servizio civile poté contare sul sostegno del presidente Napolitano, che riuscì a contenere il sabotaggio ostruzionistico del Movimento Sociale Italiano (M.S.I.). La parola passava ora al Senato. Il relatore, il democristiano Mastella, affermò che se Spadolini si fosse impegnato come Napolitano l’approvazione definitiva sarebbe potuta avvenire anche entro l’anno (3). Contemporaneamente il ministro della difesa Fabbri propose alcuni emendamenti, che evidentemente avevano lo scopo non solo di modificare il testo della legge, ma anche di dilatare i tempi della sua approvazione, con il fine di giungere ad un’ennesima mancata promulgazione. Il gruppo dei Parlamentari per la pace dedicarono l’intero testo di legge alla memoria di Guido Pulenti, Fabio Moreni e Sergio Lana, i volontari partiti da Brescia con un convoglio di aiuti e massacrati sulla strada per Zavidivici, nella Bosnia centrale (4).
EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Insegnanti e bulli: togliamoci la maschera
A cura di Elena Buccoliero
Togliamoci la maschera è un video didattico che in 50 minuti propone una istantanea sul bullismo nella scuola media superiore, attraverso interviste con studenti e insegnanti cui si alternano sezioni di commento realizzate da un attore teatrale, con l’uso delle maschere.
Elaborato da Promeco (Comune e l’Az. Usl Ferrara) e dal Centro Audiovisivi comunale nell’ambito di un progetto complessivo antibullismo, è inserito tra gli strumenti di intervento proposti dal progetto europeo Novas Res (NO Violenza A Scuola – Rete Europea di Scambi).
Gli obiettivi
Abbiamo iniziato con lo scopo di utilizzare la telecamera per fare ricerca intorno al fenomeno delle prepotenze nella scuola media superiore. Volevamo soprattutto aprire il dialogo, ascoltare tutto senza preclusioni e poi riportarlo in video, presentare la realtà senza censure e senza reticenze. Per mostrarla agli adulti, che in molti casi tendono a negare o sottovalutare il problema; per riproporla agli studenti affinché potessero oggettivarla e discuterne insieme, e con un adulto, con la convinzione (nostra…) che il confronto possa scalfire la cultura che legittima la violenza, nell’indifferenza o nella complicità degli educatori.
Decisivo è stato l’incontro con Fabio Mangolini, l’attore teatrale che, in un paziente lavoro di ascolto e confronto, ha scritto dei testi teatrali e li ha messi in scena con l’ausilio delle maschere della commedia dell’arte, proponendo un diverso linguaggio e dando più spazio alle emozioni. Quasi a ricordarci come spesso nella giostra delle relazioni rischiamo di ridurre tutto ad uno scambio tra maschere, macchiette bene integrate nella stessa commedia.
Un percorso possibile
Strutturato per segmenti tematici, Togliamoci la maschera può essere proiettato da operatori e insegnanti in momenti di sensibilizzazione e formazione degli adulti, o per avviare percorsi di prevenzione o di intervento in classe.
Proponiamo di seguito un percorso che struttura la proiezione in quattro incontri a tema, in cui la visione sia integrata con discussioni collettive, attività cooperative, drammatizzazioni, e via discorrendo.
I incontro – che cos’è il bullismo
Il video definisce il fenomeno dal punto di vista delle scienze umane e secondo le angolazioni soggettive di un ragazzo vittima e di alcuni spettatori. Vediamo la diversità delle posizioni e la fluidità dei ruoli nel tempo o in contesti diversi, una variabilità su cui soffermarsi per non identificare persone e ruoli, per lasciare ad ognuno la possibilità di cambiare.
Il bullismo sembra essere un modo per emergere sugli altri praticato soprattutto in situazioni di disagio e di diseguaglianza, incoraggiato socialmente da una legittimazione alla prevaricazione e alla “furbizia”. Gli si contrappone l’opinione di chi lo reputa un comportamento “da vigliacchi” e valorizza altri modi di attirare l’attenzione e la considerazione dei coetanei.
II incontro – la Vittima e il Bullo
Conosciamo la Vittima e il Bullo per come vengono percepiti, simili nell’insicurezza di fondo e nella necessità di ricavarsi un ruolo all’interno del gruppo. Verifichiamo l’impossibilità di tracciare per ognuno un identikit definitivo, perché chiunque può ritrovarsi nell’una o nell’altra posizione, e molto è affidato al contesto. Diventa vittima chi si comporta in un modo diverso dalla maggioranza, mentre sarà bullo chi riuscirà ad imporsi con la forza, suscitando reazioni ambivalenti, di disapprovazione e stima. Prevenire o contrastare il bullismo vuol dire, allora, difendere la diversità, promuovere un clima di rispetto e di accettazione, liberare i protagonisti dalla prigione della maschera.
III incontro – gli astanti, gli insegnanti
Gli Astanti vedono tutto e in molti casi stanno zitti e non intervengono, per ragioni diverse che vanno dall’indifferenza, alla paura, al sostegno al bullo, finendo per legittimare i prepotenti.
Il monologo di Pulcinella sottolinea la corresponsabilità dei terzi, mentre la sezione sugli insegnanti mostra tutte le contraddizioni degli adulti, tra la sottovalutazione del fenomeno, la difficoltà a riconoscerlo e il senso di inadeguatezza di fronte ai fatti più gravi.
IV incontro – le possibili soluzioni
Oltre l’intervento sull’emergenza molto resta da fare nel quotidiano. Nei confronti del contesto, per coinvolgere tutte le componenti della scuola, promuovere l’alleanza tra i docenti, tener conto degli spazi, delle regole, dell’organizzazione dell’istituto. Con la classe, per affermare che il rispetto della persona è un valore e un diritto, e non la risposta ad un merito personale. Con la vittima e il bullo per aiutarli ad uscire dal ruolo, a sperimentare altri aspetti di sé e, in sostanza, ad affermarsi senza prevaricazioni.
Il video può essere richiesto gratuitamente a Promeco inviando lettera, fax o e-mail a:
Promeco, via F. del Cossa 18, 44100 Ferrara, fax 0532 200092, e-mail promeco@comune.fe.it This email address is being protected from spam bots, you need Javascript enabled to view it
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Punk, rock, anarchia e pacifismo Crass: da consumare entro il 1984.
A cura di Marco Pandin
Ho ascoltato per la prima volta i Crass nell’estate ‘79: mi avevano portato da Londra una copia di “Stations”, il loro secondo album che, suscitando le vive proteste del mio gatto, si sostituì agli lp di Joni Mitchell, Bob Wyatt e De Andrè che si alternavano abitualmente sul piatto del mio giradischi. Al tempo, il punk a Londra e negli USA era già roba vecchia, ma qui se n’era sentito parlare solo al tg: gente che sputava addosso a quelli che suonavano, e poi lamette, sangue, spintoni, vomito. Il “fenomeno punk” veniva appiattito alla sola dimensione spettacolare. All’inizio la mia attenzione si fermò in superficie, alla copertina di “Stations”: i due dischi erano chiusi in un grande poster ripiegato, da una parte un collage apocalittico, dall’altra quintali di parole scritte a macchina. Una quantità di messaggi che andava ben oltre i due-tre minuti di ciascuna canzone. Era una sfida: mi sono messo a leggere, volevo capire o almeno volevo provarci. Dietro la busta c’era un indirizzo, a cui ho spedito una lettera: avevo molte domande ma temevo non ci fosse nessuno dall’altra parte. Speravo non si trattasse di un’altra bugia: sono sempre state fatte tante promesse dai palchi dei concerti e dalle canzoni dentro ai dischi… La risposta non tardò ad arrivare, alla prima lettera ne seguirono altre, poi riuscii a telefonare e a visitare la loro comune ad Epping e a ritornarci più volte. Da subito si è stabilita un’intesa, un rapporto del tutto slegato dai ruoli di “ammiratore” e “artisti”, un’amicizia profonda che dura tuttora.
Non ho mai adottato il look punk più che altro perché nel ‘79 avevo già 22 anni e quella per me era roba da ragazzini delle scuole medie. Poi, niente chiodo né anfibi d’ordinanza: papà era operaio alla Montedison, mamma casalinga, io mi arrangiavo con le ripetizioni ai ragazzini del quartiere per mantenermi all’università, e non mi sarei mai sognato di sprecare dei soldi per un giubbotto o degli stivali…
Col punk mi sono sempre trovato bene: ritrovavo in certi dischi un rumore familiare, in certi testi parole che conoscevo a memoria, in certe persone dei compagni di strada. Un senso di solidarietà al di là delle distanze, delle diverse culture e delle barriere di linguaggio. Una fratellanza semplice dai contorni nuovi e mai sperimentati, un’armonia interiore che scoprivo bella da condividere, quasi il punk (…”certo” punk) fosse stato il libro che avrei voluto scrivere, o la colonna sonora ideale della vita che mi sarebbe piaciuto vivere.
A qualcuno il punk ha salvato la vita: a qualcuno ha aperto gli occhi e la mente, ad altri (specialmente a chi esagerava col volume) le orecchie. Lo dico sul serio: a qualcuno il punk ha cambiato la vita, per sempre.
Se i Sex Pistols (o piuttosto il loro manager) sono stati il germe di questo nuovo corso e Patti Smith ne è stata l’espressione poetica più elevata, è stato solo con i Crass che il punk ha assunto connotati politici realmente eversivi. Nel periodo dal ‘77 all’84 i Crass sono stati la stella cometa del Rock Politico più estremo (occhio alle maiuscole). Difficili da costringere entro definizioni di “genere musicale” (è punk? è musica d’avanguardia? o, per dirla con loro, si tratta di “scrittori di canzoni d’amore”?) essi hanno sempre agito a sorpresa, al di fuori di qualsiasi schema concettuale preesistente, caratterizzando la loro attività, più che in senso strettamente musicale, in un più ampio senso culturale, nuovo e rivoluzionario, anarchico e pacifista.
“Ci vestimmo di nero per protesta contro il narcisismo della moda punk, e stampammo dei volantini per spiegare le nostre posizioni. E per smentire le voci secondo cui non eravamo che degli estremisti di destra e/o di sinistra, decidemmo di attaccare sul palco, ai nostri concerti, una bandiera con l’a cerchiata…”.
Gli ostacoli furono numerosi. Il disco d’esordio venne pubblicato nell’ ottobre ‘78 privo di una canzone, (“Reality asylum”, un’invettiva femminista contro l’oppressione religiosa), ritenuta “oscena” dai gestori dello stabilimento di stampaggio del vinile. L’album venne poi ristampato in versione integrale in Francia ed importato semiclandestinamente in Inghilterra, ove fu accolto da numerose denunce e sequestri nei negozi di dischi di tutto il paese. Dopo una breve collaborazione con Rough Trade (un negozio londinese divenuto un importante centro di diffusione della nuova musica indipendente), i Crass fondarono un’etichetta discografica autogestita ed una propria rete di distribuzione. Cominciarono serigrafando in casa le copertine dei dischi e piegandole a mano, ed ottennero presto un successo così vasto ed inaspettato che si ritrovarono con un mucchio di soldi.
Sin dall’inizio i Crass decisero di distribuire i propri dischi al prezzo più basso possibile: è stata questa la politica che li ha sempre contraddistinti, dai concerti collettivi con altri gruppi trasformati in iniziative di beneficenza, al rifiuto di commercializzare t-shirts e spillette, sino a diffondere dei dischi sottocosto. Nonostante la censura radiotelevisiva e dei giornali, i Crass ebbero una regolare attività concertistica estranea al circuito “normale”: circoli di quartiere, tendoni, feste popolari, centri sociali, qualsiasi posto che non fossero club privati, discoteche, o i locali del circuito universitario. Così si legge in un loro scritto: “.Abbiamo sempre condiviso la nostra musica, film, letture, conversazioni, cibo e tè. Ovunque abbiamo trovato facce sorridenti, persone disposte a creare delle alternative al grigiore generale. Non è sempre stato facile: c’è sempre stato qualcuno che voleva distruggere ciò che eravamo riusciti a creare. Molti problemi, che comunque non hanno mai spento la nostra gioia…”.
In piena guerra delle Falklands i Crass, voce del dissenso, riuscirono per vie traverse a pubblicare una canzone pacifista. Immediata la reazione: il disco venne sequestrato ed i componenti del gruppo minacciati. Ma fu solo alla fine della guerra, quando pubblicarono la canzone “How does it feel to be the mother of one thousand dead?” (Cosa si prova ad essere madre di mille morti?) che la situazione precipitò. Fu allora che spedirono il famoso nastro del “Thatchergate” alla stampa di mezzo mondo: una registrazione, davvero ben realizzata, in forma di conversazione telefonica fra Reagan e la Thatcher, durante la quale veniva ammessa la diretta responsabilità del primo ministro inglese nell’affondamento della Belgrano e della conseguente rappresaglia argentina, notizie sulle quali il governo aveva imposto l’assoluto silenzio stampa. Inoltre, si sentiva una dichiarazione di Reagan in cui si considerava l’idea di un conflitto nucleare in Europa in caso di pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti. Un’ipotesi che per molti osservatori allora non era poi così assurda.
Il nastro passò sotto silenzio per un po’ per fare la sua comparsa al Dipartimento di Stato americano a Washington. Le smentite ufficiali che seguirono dimostrarono che il metodo usato dai Crass per screditare Reagan e la Thatcher non era poi così diverso da quelli dei vari servizi segreti. Come mai una registrazione evidentemente contraffatta veniva presa in così seria considerazione? Il dito accusatore venne puntato sul Cremlino: molti giornali riferirono della faccenda come di un intrigo spionistico del KGB. Un giorno, un giornalista dell’Observer telefonò loro chiedendo informazioni riguardo a un certo nastro. I Crass dapprima negarono, poi confessarono la loro responsabilità: “I giornali di mezzo mondo improvvisamente si interessarono a noi, a come mai un gruppo di punks si fosse preso gioco del Dipartimento di Stato americano: chissà cos’altro avevamo fatto… Improvvisamente eravamo in prima pagina…”.
Era arrivato il 1984, in maniera ancora peggiore di quella profetizzata da Orwell: disoccupazione, sfratti, povertà, fame. Lo stato di polizia era divenuto una realtà: se ne sarebbero accorti ben presto i minatori. I Crass vennero trascinati in tribunale con l’accusa di aver pubblicato materiale osceno, un processo che li distrusse finanziariamente (migliaia di copie dei loro dischi vennero posti sotto sequestro). Fu durante l’estate di quell’anno che si tenne il loro ultimo concerto, una serata agitatissima a sostegno dei minatori del Galles in sciopero. Sul palco dichiararono la loro ferma intenzione di “continuare a combattere per la libertà” ma, nel ritornare a casa, si resero conto che non potevano più andare avanti così. Ecco un estratto dal loro ultimo comunicato: “Crass, 1984. Sette anni, e non sembra sia successo granché. Le stesse vecchie scimmie nello stesso vecchio zoo. Cantiamo ancora delle canzoni, scriviamo parole, combattiamo battaglie. Abbiamo passato questi ultimi anni in discussioni e dibattiti, sconforto e disperazione. Da soli e insieme possiamo aggiungere e aggiungeremo fiamme ai fuochi della speranza e del futuro. E quelli che si oppongono? Sono già morti…”.
Mi sono servito di ritagli, ricordi ed esperienze personali per raccontare questa storia. Il materiale discografico e bibliografico dei Crass non è facilmente reperibile: parte delle registrazioni è disponibile su cd e può essere richiesta a Wide Records di Pisa (che ne cura l’importazione nel nostro paese), oppure a Stella*Nera (cas. post. 86 35036 Montegrotto PD, e-mail: stella_nera@tin.it ) che destina il ricavato a sostegno del mensile anarcopacifista A/Rivista Anarchica. Molte informazioni sul gruppo sono raccolte nelle webpages dedicate ai Crass all’indirizzo http://www.southern.net/southern/label/crc.
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Quando si fa la guerra al terrorismo…
Bloody Sunday (Domenica di sangue)
di Paul Greengrass, Gran Bretagna – Irlanda 2001, Orso d’Oro al Festival di Berlino 2002
I can’t believe the news today
I can’t close my eyes and make it go away
How long, how long must we sing this song?
(…)
Broken bottles under children’s feet
Bodies strewn across a dead end street
But I won’t heed the battle call
It puts my back up, puts my back up against the wall (…)
And the battle’s just begun
There’s many lost, but tell me who has won?
The trenches dug within our hearts
And mother’s children, brothers, sisters torn apart
(…)
How long, how long must we sing this song?
(…)
Non riesco a credere alle notizie, oggi
Non riesco a chiudere gli occhi e a scacciarle via
Quanto ancora, quanto ancora dovremo cantare questa canzone? (…)
Bottiglie frantumate sotto i piedi dei bimbi
Corpi allineati lungo una strada cieca
Ma non ascolterò quel grido di battaglia
Che mi mette con le spalle al muro
(…)
E la battaglia è appena cominciata
Le perdite sono grandi, ma tu sai dirmi chi ha vinto?
Trincee scavate dentro ai nostri cuori
E figli, fratelli, sorelle separati
(…)
Quanto ancora, quanto ancora dovremo cantare questa canzone? (…)
Su queste parole e sulle note, celebri, della canzone degli U2 “Sunday Bloody Sunday”, scorrono i titoli di coda della seconda fatica cinematografica di Paul Greengrass, dedicata, proprio come la canzone, al massacro di Derry (Irlanda del Nord) di quel 30 gennaio 1972 passato alla storia come “Domenica di sangue”.
Forte di una lunga esperienza come giornalista e documentarista, Greengrass ha scelto di girare questo film con lo stile di un finto reportage: il ricorso alla macchina a mano, a immagini instabili e nervose, al colore desaturato, al montaggio frammentato, tutto contribuisce a trasmettere un angoscioso senso di verità.
Primo giornalista nel 1982 a filmare delle interviste a membri dell’IRA, detenuti nel carcere di Maze, Greengrass torna con questo film sulla travagliata questione irlandese e, riprendendo il libro “Eyewitness Bloody Sunday” di Don Mullan, ci porta a Derry, il 29 gennaio 1972, sabato sera.
Sebbene la scelta narrativa sia quella di lasciare le storie personali sullo sfondo, per far parlare la cronaca nel suo diventare storia, incontriamo subito quattro personaggi.
Ivan Cooper, parlamentare, pacifista seguace di Martin Luther King, protestante (quindi teoricamente non filo-irlandese) ma votato alla causa dei cattolici, è uno dei leader del movimento per i diritti civili. Siamo nella sede del movimento, dove fervono i preparativi per la marcia pacifica, indetta per la domenica, contro il decreto del governo inglese che autorizza l’arresto dei sospetti senza istruttoria preventiva.
Gerry Donaghy invece è un ragazzo diciassettenne, cattolico, innamorato di una ragazza protestante; anch’egli parteciperà alla marcia, rimanendo coinvolto negli scontri.
Dall’altra parte della “barricata” troviamo invece Patrick Mac Iellan, comandante delle truppe di intervento inglesi, “intrappolato” nell’obbligo di obbedire al generale Ford, suo superiore, deciso ad impedire a qualsiasi prezzo la manifestazione. Altro soldato in conflitto con se stesso è il giovane radiofonista inglese che si trova ad operare nel gruppo di paracadutisti veterani, inviati per dare man forte alle forze locali, che pur rimanendo turbato dalla violenza dei commilitoni finirà per obbedire alle logiche cameratesche.
La marcia si trasforma in una carneficina di civili inermi. Evitando uno schematismo manicheo, Greengrass mette in scena il dissidio interno creatosi tanto tra gli irlandesi, dove i moderati e i sostenitori del movimento per i diritti civili cercano di convincere i più giovani e facinorosi a non farsi tentare dalle posizioni radicali degli estremisti dell’IRA, quanto tra le forze armate britanniche, dove non tutti concordano sulla necessità di un intervento armato repressivo. Il regista si sforza di mostrarsi obiettivo ma c’è poco da discutere, visto che i morti sono tutti irlandesi, ben 27, che nessun militare verrà punito, anzi molti saranno decorati, e che gli ufficiali inglesi racconteranno alla stampa, sapendo di mentire, che i parà sono stati aggrediti da manifestanti armati.
Bloody Sunday, ovvero un esercito contro una popolazione in stato d’assedio: uno schema che ricorre anche ai nostri giorni. «Sì. Bloody Sunday parla anche dell’oggi» dice Greengrass. «E’ una lezione su cosa accade quando si militarizza la guerra al terrorismo. Il 30 gennaio 1972 l’intervento militare ha segnato la morte del progressismo e dell’idealismo, e ha consegnato un’intera generazione nelle mani dell’IRA. Così come ciò che è accaduto dopo l’11 settembre rischia di far cadere un’intera generazione nelle mani di Al Qaeda. Lo stesso si può dire per quanto è accaduto a Jenin »
How long, how long must we sing this song?
Quanto ancora, quanto ancora dovremo cantare questa canzone?
LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Due testi “introvabili”, ma indispensabili…
Rescountar Castelmagno- di Flavio Menardi Noguera
“Incontrare Castelmagno” è il titolo del libro che racconta l’esperienza di 20 mesi di servizio civile svolto nel 1976 a Castelmagno (comune di alta montagna della provincia di Cuneo).
Occorre precisare che Castelmagno fu il primo comune a convenzionarsi, nel 1973, per l’impiego di obiettori di cocienza; una scelta coraggiosa e controcorrente fatta dal sindaco di allora Gianni De Matteis. I primi obiettori iniziarono nell’autunno 1974.
Flavio Menardi, autore di questo libro, ha svolto il servizio civile dal giugno 1976 a febbraio 1978.
Il libro non è propriamente un diario, né un saggio, né un racconto, ma le tre cose insieme. Si inizia con un appello del sindaco (1976) che con una lettera aperta domandava se c’erano altri obiettori disponibili (un primo gruppo aveva appena terminato il servizio civile) ad affrontare un servizio fatto di sacrifici nella realtà povera di un comune montano che viveva il dramma dello spopolamento.
Le pagine che seguono sono poi un racconto continuo non solo del lavoro svolto, ma anche una raccolta di impressioni e riflessioni a tutto campo sulla situazione economico-sociale di questa realtà montana, sul patrimonio fatto di esperienza e ingegno tramandato da intere generazioni, dalla costruzione delle case in pietra, all’autocostruzione degli atrezzi da lavoro, ai mobili essenziali; patrimonio che rischia di andare perduto a causa dell’abbandono e del saccheggio perpetrato su alcune frazioni disabitate.
Nello specifico del servizio civile sono raccontate le esperienze di lavoro condivise con i pochi abitanti rimasti (taglio dell’erba, aiuto in casa, visite domiciliari, doposcuola ad alcuni bambini, aiuto nel trasporto, ecc…). Emergono soprattutto i dialoghi e i racconti con gli abitanti, il loro modo un po’ riservato di ringraziare e il legame che pian piano viene fuori. Storie inverosimili come quella di un comunista che per realizzare il suo sogno di una cooperativa per la produzione del formaggio prende la tessera del Partito Fascista al fine di avere tutti i permessi necessari; oppure quella del “prete” che per impedire un comizio dei “rossi” suona per due ore consecutive le campane.
Oggi sono trascorsi 28 anni dall’esperienza dei primi obiettori a Castelmagno: il paese è sopravissuto all’abbandono, sono nate nuove piccole attività economiche, con la presenza degli obiettori si è scritto un pezzo di “storia di Castelmagno”.
Consiglio vivamente le lettura di questo libro non solo ai ragazzi e ragazze che oggi possono optare per il “servizio civile volontario” ma anche al nostro Presidente della Repubblica che finalmente potrebbe scoprire che esistono anche gli obiettori di coscienza.
Piercarlo Racca
Il libro (euro14,50) si può ordinare alla nostra Redazione, oppure direttamente a: Associazione Primalpe – Via Carlo Emanuele 15 – 12100 Cuneo (tel. 0171 6925657) Centro Occitano di Cultura – 12020 Castelmagno (tel. 0171 986110)
A. DOGLIOTTI (a cura di), Trieste, Istituto per l’ambiente e l’educazione Scholé Futuro, Torino s.i.d., pagg. 76, s.i.p.
I sottotitoli del libro danno un’idea dell’argomento trattato: “Memorie diverse in una città di frontiera. Idee e materiali per percorsi didattici sulla storia del Novecento nella scuola secondaria”. Come scrive la curatrice nella presentazione, nel contesto degli eventi del ventesimo secolo la questione di Trieste e della Venezia Giulia è caratterizzata da una grande intreccio di fattori, circostanze e processi diversi, con componenti di tipo storico, culturale, etnico, sociale e nazionale, da prestarsi ad essere un vero e proprio caso di studio, sia a livello di ricerca storica, sia a livello didattico. Con i materiali raccolti in questo testo è stato utilizzato il caso di Trieste per esemplificare possibili percorsi innovativi nell’insegnamento della storia del Novecento, nella speranza di dare un contributo al rinnovamento didattico della nostra scuola. A testimoniare l’interculturalità dell’operazione, il libro è scritto in italiano e in sloveno. Il volume si rivolge soprattutto a quegli insegnanti di scuola media superiore che abbiano il desiderio di mostrare ai loro discenti una maniera innovativa di apprendere la storia rispetto a quanto è stato sempre proposto nel passato, dove gli avvenimenti storici erano concepiti meramente come alternarsi di dichiarazioni di guerra e di trattati di pace. Un nuovo paradigma è invece possibile come metodologia di ricerca storica ed è quello della nonviolenza, che ha come fine il tentativo di proporre per il presente un modello di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Infatti, come sta scritto nel museo del campo di concentramento di Dachau, “coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo”.
Difficilmente potrete trovare questo volume sui banconi delle librerie, perciò indichiamo il numero di telefono dell’Istituto Wesen (tel. 0121 81 452) che ha realizzato il libro e al quale dovrete rivolgervi per poterlo avere.