Azione nonviolenta ottobre 2002
– Nel rispetto della costituzione che ripudia la guerra, mettiamo la pace al centro della politica
– La guerra e il più grande crimine contro l’umanità. Solo la nonviolenza può contrastare la guerra, di Peppe Sini
– Da Rio a Johannesburg, ovvero dalle speranze alla delusione, di Gianni Tamino
– È l’uomo in sé, l’unica vera minaccia per il futuro del pianeta. di Christoph Baker
– La pace è nelle nostre mani. Noi proponiamo
– Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune. Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 13 novembre, di Daniele Lugli
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Dopo averla tanto preparata ecco che arriva un’altra guerra
di Mao Valpiana
Tutto è pronto per la guerra. I soldati, le basi, le armi. C’è persino il nemico. E c’è anche una nobile causa: impedire che lo stato canaglia diventi una potenza nucleare. Dopo la guerra umanitaria ecco la guerra preventiva. Non sono più rispettate nemmeno le regole formali, e questa volta la guerra la si fa anche senza mandato dell’Onu, fuori dal pur logoro e stantìo diritto internazionale: insomma, tutto ciò che era stato organizzato e previsto fin dal 1989 per il nuovo modello di difesa, è ora pienamente realizzato. “La guerra serve a difendere gli interessi nazionali anche fuori dal proprio territorio”, il che equivale a dire: visto che lo standard di vita del popolo americano (almeno della parte benestante) non è negoziabile, andiamo a mettere un po’ d’ordine in una zona strategica come riserva energetica per avere il controllo sui pozzi di petrolio irakeni, e facciamolo prima che si sveglino la Russia e la Cina.
L’annuncio è stato fatto con settimane di anticipo, in modo che il circo mediatico possa prepararsi al meglio. Ci saranno quelli a favore della guerra, quelli contro la guerra e quelli zitti zitti; poi ci saranno i furbi che con la guerra si arricchiranno (pochi) e altri che con la guerra si impoveriranno (tanti).
Non basterà mettere a verbale il nostro “no” alla guerra. Certo, meglio che niente, ma bisogna aggiungere una parola in più: quando la guerra inizia nessuno riesce a fermarla; bisogna prevenirla una guerra, affinchè non avvenga. Come? Non collaborando in nessun modo alla sua preparazione.
Non basta il disgusto per la violenza: è necessario che questo si trasformi in un impegno più profondo ed appassionato per la nonviolenza.
Significativo è l’appello rilanciato dalla War Resisters’ International, l’internazionale dei resistenti alla guerra con sede a Londra, di cui il Movimento Nonviolento è la sezione italiana:
Un invito alla obiezione di coscienza
Contro la guerra e la sua preparazione
War Resisters’ International, una rete internazionale di organizzazioni pacifiste, con 90 affiliati in oltre 40 paesi, lancia un invito alla obiezione di coscienza dovunque e in qualsiasi momento sia in atto o si stia preparando una guerra.
Siamo ancora profondamente scioccati e addolorati dagli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center e contro il Pentagono. Ciò nonostante, condanniamo la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Rispondere al crimine degli attacchi terroristici commettendo il crimine del bombardamento, la morte di altri innocenti non porterà il bilancio in pareggio, né aiuterà le popolazioni a sentirsi più sicure – non farà che aggiungere altra sofferenza.
Chiediamo una giustizia senza guerra. Una guerra di ritorsione potrà solo alimentare il ciclo della violenza. Di fronte all’affermazione del Presidente George W. Bush, che propone il bivio: “Se non siete con noi, siete con i terroristi”, noi scegliamo una terza opzione: la nonviolenza.
La nonviolenza è una risposta attiva e offre a ciascuno di noi la possibilità di resistere alla guerra e alla sua preparazione. Ci rende capaci di costruire un mondo in cui la sicurezza si raggiunge attraverso il disarmo, la cooperazione internazionale e la giustizia sociale, e non con le ritorsioni e l’escalation della violenza.
Per questo, War Resisters’ International richiama urgentemente:
tutti i soldati, in qualunque esercito si trovino: seguite la vostra coscienza e rifiutatevi di prendere parte alla guerra. Scegliete l’obiezione di coscienza, rifiutate gli ordini, disertate, Dite No!
quanti sono coinvolti nella preparazione della guerra o nell’industria bellica: rifiutatevi di collaborare, Dite No!
i giornalisti e i media a cui viene chiesto di promuovere la guerra: rifiutatevi di eseguire, insistete per scrivere e diffondere una verità senza censura. Dite No!
tutti coloro che pagano le tasse: chiedete che i vostri contributi siano usati per la pace, trattenete la percentuale di imposta destinata alla preparazione della guerra, Dite No!
i membri di WR’I e ogni cittadino: sostenete coloro che rifiutano di partecipare alla guerra e alla sua preparazione, prendete parte alla resistenza diretta nonviolenta contro la guerra!
Siamo consapevoli che non in tutti i paesi e le situazioni sarà possibile adottare una di queste vie. Tuttavia, ci sono molti altri modi per esprimere la propria protesta. War Resisters’ International è a fianco di tutti coloro che agiscono contro la guerra, e si impegna in prima persona a fare il possibile per aiutare quanti sono oppressi a causa della loro scelta di resistenza nonviolenta.
L’appello di WRI “Say No!” è tradotto in dieci lingue. Chi non lo avesse ancora firmato, può farlo sul sito http://www.wri-irg.org/statemnt/sayno.htm.
Questo appello, scritto dopo l’11 settembre 2001, è stato rilanciato il 29 settembre 2002.
Nel rispetto della Costituzione che ripudia la guerra, mettiamo la pace al centro della politica.
“La guerra non ha più senso per il semplice fatto che non si vince più. Per il semplice fatto che anche una guerra vinta non chiude il conflitto che voleva chiudere: lo riapre in forme più nuove e terribili”. Padre Ernesto Balducci
Appello della Tavola per la Pace
Nonostante le numerose contrarietà, dubbi e perplessità espresse anche da importanti alleati, il governo degli Stati Uniti minaccia di attaccare e invadere l’Iraq – anche in assenza di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu- costringendo il mondo intero ad affrontare una nuova durissima crisi. La determinazione dell’Amministrazione Bush a proseguire sulla via della guerra nonostante il successo diplomatico delle Nazioni Unite che hanno spinto Saddam Hussein ad accettare il ritorno incondizionato degli ispettori, sta seminando inquietudine e insicurezza in tutto il mondo.
Noi sottoscritti, fedeli alla Costituzione Italiana, alla Carta delle Nazioni Unite e al diritto internazionale dei diritti umani che essa ha generato, allarmati per questa terribile prospettiva, chiediamo all’Italia, all’Unione Europea, all’Organizzazione delle Nazioni Unite, a tutte le donne e gli uomini di buona volontà di agire insieme, con determinazione, per scongiurare una nuova devastante carneficina.
La guerra –e ancor di più la guerra preventiva- è categoricamente vietata dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale. La guerra all’Iraq sarebbe solo il primo test della nuova dottrina di “guerra preventiva” che prevede azioni militari unilaterali contro tutti coloro, paesi e singoli, che sono sospettati di minacciare gli Stati Uniti e i loro interessi. Il fatto che l’Amministrazione Bush abbia deciso di abbandonare la dottrina della legittima difesa -prevista dal diritto internazionale- per adottare una strategia così destabilizzante infligge un colpo mortale al diritto, alla pace e alla sicurezza nel mondo. In questo modo, chiunque potrebbe sentirsi autorizzato ad attaccare “preventivamente” un proprio nemico gettando il mondo nell’anarchia e nel caos. Nessuna risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu potrà legittimare una guerra preventiva.
Dobbiamo impedire la guerra contro l’Iraq perché provocherà molti più problemi di quanti ne vuole risolvere, allontanerà ancora di più la possibilità di mettere fine al drammatico conflitto arabo-israeliano e di costruire una pace giusta e duratura in Medio Oriente che è la vera priorità dell’Onu e dell’Europa, indebolirà i cosiddetti regimi arabi moderati bloccandone ogni possibile evoluzione democratica, accrescerà il risentimento contro gli americani e i loro alleati allargando il fossato che separa l’occidente e il mondo islamico e ci esporrà tutti –e ancor più noi che viviamo in Italia e in Europa- al rischio di violenze e sconsiderate azioni terroristiche.
Gli attentati dell’11 settembre 2001 hanno colpito ogni coscienza democratica provocando la condanna ferma, netta e unanime di tutte le donne e gli uomini amanti della pace. Quei drammatici eventi hanno reso ancora più evidente al mondo intero quanto sia diventato urgente mettere un freno al disordine internazionale, rafforzare e non demolire l’Organizzazione delle Nazioni Unite (unica “casa comune” di tutti i popoli del mondo), rafforzare la cooperazione internazionale e non l’unilateralismo dei potenti, promuovere e non ostacolare la nascita della Corte Penale Internazionale, ridurre e non aumentare l’ingiustizia economica e sociale planetaria, affrontare e non ignorare tutte le minacce globali (ambientali, sociali, alimentari,…) che incombono sull’umanità e costruire un nuovo ordine mondiale democratico fondato sul rispetto della vita e sul ripudio della violenza, della guerra e del terrorismo.
Anche per questo noi diciamo che il terrorismo -minaccia per la pace, la libertà e la democrazia- si deve combattere e si può sconfiggere. Anche per questo noi diciamo che il terrorismo si vince promuovendo non la guerra infinita ma la globalizzazione della giustizia, della democrazia e dei diritti umani. Anche per questo noi diciamo no ad una nuova guerra contro l’Iraq.
Il regime di Saddam Hussein –come tutti i sistemi dittatoriali- va contrastato dalle Nazioni Unite e dall’intera comunità internazionale con i numerosi strumenti del diritto, della legalità e della giustizia penale internazionale di cui disponiamo. Basta con le crociate ideologiche. Siamo realisti! In Medio Oriente ci sono già troppe tensioni e conflitti che attendono da lungo tempo di essere sanati.
Guerra vuol dire altre vittime innocenti, stragi, terrore, sangue, sofferenza, angoscia, disperazione, disordine, violenza infinita. Per questo, contro i dispensatori di odio e i predicatori della guerra inevitabile noi ci uniamo a tutti coloro che sono impegnati, dentro e fuori le istituzioni, nella difesa dei diritti umani, nella costruzione della pace e della giustizia nel mondo, nella promozione di un nuovo ordine internazionale democratico per dire: non distruggete l’Onu! non stracciate la Carta delle Nazioni Unite!
Insieme a tutti coloro che sono impegnati nella costruzione della grande Europa diciamo: questa guerra è un pericolo anche per noi e per i nostri interessi, pone serie minacce alla nostra vita e al nostro futuro immediato. L’Europa è un progetto di pace e non uno strumento di guerra. Se sarà unita riuscirà a impedire questa nuova tragedia.
Insieme a tutti gli italiani, amanti della pace e della legalità, rispettosi dei valori posti a fondamento della Repubblica diciamo: non stracciate la Costituzione italiana! Non lasciate che il nostro paese venga coinvolto in alcun modo in questa terribile avventura militare.
Insieme al Papa, Giovanni Paolo II, e ai capi di tutte le religioni, rinnoviamo il solenne impegno di pace pronunciato ad Assisi lo scorso 24 gennaio: Mai più violenza! Mai più guerra! Mai più terrorismo!
I tempi sono difficili, ma non ci lasceremo vincere dalla paura, dall’impotenza o dalla rassegnazione. Riportiamo la pace al centro della politica. Mettiamoci sul piede di pace. Difendiamo insieme i diritti umani e la legalità internazionale.
* * *
Nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale dei diritti umani, garante dei diritti e dei doveri di tutte le persone, i popoli e gli Stati della terra;
nel rispetto della Costituzione che impegna il nostro paese e tutte le sue istituzioni ad operare per la pace e la giustizia nel mondo (“L’Italia ripudia la guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali”),
chiediamo al Parlamento e al Governo italiano, all’Europa, all’Onu e a tutti i responsabili della politica nazionale e internazionale di:
1.svolgere una incessante opera di mediazione, dialogo e persuasione tesa ad scongiurare l’avvio di questa nuova disastrosa guerra, senza cedere alla logica dell’ultimatum;
2.negare ogni forma di assenso e di coinvolgimento militare nell’organizzazione di un possibile attacco armato contro l’Iraq;
3.esercitare la necessaria pressione politica sul governo iracheno affinchè non ponga ostacoli alla missione degli ispettori dell’Onu che deve essere altamente rappresentativa e imparziale;
4.mettere fine all’embargo che da dodici anni colpisce mortalmente la popolazione irachena;
5.mettere fine all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, assumere tutte le misure di pressione e sanzione diplomatica ed economica necessarie per fermare l’escalation della violenza, assicurare la protezione delle popolazioni civili e riavviare il processo di pace (due popoli, due Stati);
6.promuovere la giustizia penale internazionale accelerando l’insediamento della Corte Penale Internazionale;
7.convocare una Conferenza Onu per l’eliminazione di tutte le armi di distruzione di massa a partire dal Medio Oriente e dal Mediterraneo;
8.affrontare i conflitti e le gravi tensioni che si concentrano in particolar modo nel Mediterraneo con una coerente iniziativa politica, economica e culturale;
9.dare all’Organizzazione delle Nazioni Unite, debitamente democratizzata, gli strumenti necessari per garantire l’applicazione di tutte le risoluzioni approvate nel rispetto della Carta e del Diritto internazionale dei diritti umani.
Perugia, venerdì 19 settembre ’02
Prime adesioni: Associazione per la Pace, Francescani del Sacro Convento di Assisi, Coordinamento Nazionale degli Enti Locali per la pace, CGIL, CISL, UIL, ARCI, ACLI, Pax Christi, Emmaus Italia, AGESCI, CIPSI, Legambiente, Lega per i Diritti e la Liberazione dei Popoli, Centro per la pace Forlì/Cesena, Planet, Sondagenova, FIVOL-Fondazione Italiana Volontariato, ICS, Banca Etica, Focsiv, Manitese, Peacelink, Forum permanente del 3° settore, Agenzia per la pace, Movimento Nonviolento.
Per adesioni: Tavola della Pace, via della viola 1 (06100) Perugia
Tel. 075/5736890 – fax 075/5739337
e mail: info@perlapace.it – www.tavoladellapace.it
La guerra è il più grande crimine contro l’umanità.
Solo la nonviolenza può contrastare la guerra
Di Peppe Sini *
Ho questo vantaggio: quando Saddam Hussein massacrava i kurdi bombardandone i villaggi, quando Saddam Hussein scatenava la mostruosa guerra con l’Iran, e il cosiddetto occidente chiudeva un occhio sulla dittatura e plaudiva alla carneficina, e l’Italia riforniva di armi l’Iraq (ed anche l’Iran, naturalmente), ebbene, io ero di quelli che organizzavano le manifestazioni nonviolente contro la mostra mercato armiera di Monteromano, in cui col patrocinio del Ministero della Difesa i mercanti di morte italiani esibivano le loro merci affinchè i dittatori del sud del mondo potessero apprezzarne le virtù e farne incetta.
Ho questo vantaggio: a tutte le guerre illegali e criminali a cui l’Italia ha partecipato dagli anni ’90 in qua ho cercato di organizzare un’opposizione rigidamente nonviolenta. Perchè solo la nonviolenza può contrastare la guerra. E la guerra consistendo nell’uccidere masse di esseri umani (e disponendo oggi di strumenti sufficienti a distruggere la civiltà umana tutta) è il massimo crimine contro l’umanità. E contro la guerra occorre opporsi nel modo più limpido ed intransigente: e questo modo è la nonviolenza (poichè tutti gli altri in qualche misura compartecipano della guerra, le sono subalterni, ne riproducono forme e quote e ne espandono la contaminazione).
Ho questo vantaggio: che non sono mai stato complice della retorica delle “guerre giuste” e della “violenza necessaria”; che mi sono sempre opposto ai criminali, ai violenti, ai soverchiatori, e ai loro complici e giustificatori, quale che fosse la loro casacca.
Coloro che intendono provocare la fine della civiltà umana sostengono che un governo che aiuta i terroristi, che uno stato che ha o si sta procurando armi di sterminio di massa, siano ragion sufficiente a giustificare lo scatenamento di una guerra che porterà devastazioni e massacri di dimensioni immani.
È facile vedere le terribili incongruenze di questo loro scellerato ragionamento.
Se il governo iracheno ha aiutato i terroristi di Bin Laden responsabili della strage dell’11 settembre 2001, cosa che mi pare non sia ancora stata dimostrata ed è quindi incerta, è certo che il governo degli Stati Uniti d’America aiutò i terroristi di Pinochet responsabili del golpe dell’11 settembre 1973 e delle carneficine e degli orrori che si prolungarono in Cile per molti anni.
Se l’Iraq possiede o sta cercando di procurarsi armi di sterminio di massa, cosa che non mi pare sia già stata dimostrata, è certo che gli Usa tali armi hanno e producono alacremente (ed hanno usato a Hiroshima e Nagasaki).
E ancora: se un singolo atto di terrorismo che provoca un eccidio è un crimine mostruoso, la guerra, che consiste di una catena di eccidi, è un terrorismo all’ennesima potenza, ed è il più mostruoso dei crimini.
E ancora: se l’esistenza di un regime oppressivo merita una guerra, allora l’oppressione che i potenti del nord ricco del mondo esercitano sulla quasi totalità dell’umanità quale reazione dovrebbe provocare?
Chi propugna la guerra ha smarrito non solo il senso morale, ma il principio di realtà.
Come è possibile che gli Usa possano minacciare una guerra in flagrante violazione del diritto internazionale e dei più elementari principi di umanità, e l’Onu invece di inviare una forza di polizia internazionale ad arrestare Bush e la sua cricca di dottori Stranamore si adegua, guaendo appena appena, alla volontà onnicida del governo statunitense?
E come è ammissibile che l’Italia, la cui Costituzione vieta esplicitamente di partecipare a questa guerra (come già a quelle degli anni novanta e a quella che tuttora continua in Afghanistan a riflettori spenti), si trovi già praticamente arruolata al soldo e al seguito degli hitleriani di Washington?
Occorre opporsi alla guerra, occorre resistere in difesa del diritto e dell’umanità.
Occorre denunciare la guerra come massimo crimine contro l’umanità, e contrastarla quindi come il peggior nemico dell’umanità intera. Occorre contrastarla nel modo più intransigente, che è anche il solo limpido ed efficace: con la nonviolenza.
Occorre dir chiare alcune cose.
– Che l’Onu deve rispettare la sua carta fondamentale, che l’Onu faceva nascere per opporsi al flagello della guerra; se l’Onu non si oppone alla guerra viene meno alla sua unica fonte di legittimazione, e diventa una spelonca di ladri e di assassini.
– Che l’Italia deve rispettare la sua Costituzione, che ripudia la guerra di aggressione (e poichè si sa che gli aggressori dicono sempre di essere gli aggrediti, ripudia anche quella ammantata dell’inganno della “risoluzione delle controversie internazionali”: i costituenti usciti dalla catastrofe della seconda guerra mondiale scrissero chiaro tra i principi fondamentali del nostro paese il ripudio di tutte le guerre, solo ammettendo l’azione rigorosamente difensiva, che oggi può e deve attuarsi senza eserciti nè armi nè guerre, ma con la Difesa popolare nonviolenta); se governo e parlamento e presidente della Repubblica trascinano ancora il nostro paese in guerra nuovamente si collocano contro la legge fondamentale del nostro ordinamento giuridico, precipitano l’Italia nell’illegalità, rompono il patto che lega i cittadini: cancellano la vigenza delle leggi, distruggono lo stato di diritto, e con la loro condotta autorizzano tutti a seguirli sulla via del disprezzo sia delle leggi che della vita altrui, del crimine e dell’omicidio, in una guerra di tutti contro tutti che è la fine della società e dell’umanità.
– Che il governo statunitense deve essere denunciato alle competenti corti di giustizia che perseguono i crimini contro l’umanità ovunque commessi. La più grande potenza del mondo, che già tanti crimini ha compiuto, non può essere nelle mani di una banda di cinici e insensati che mettono in pericolo l’umanità intera. La popolazione statunitense ha anche una grande tradizione di democrazia, rispetto alla quale l’attuale leadership è altrettanto eterogenea quanto l’attuale governo italiano rispetto alle espressioni più alte della vita civile nel nostro paese.
– Che occorre un piano straordinario di aiuti umanitari al popolo iracheno (anche a molti altri popoli del mondo, certo): il popolo iracheno è già tre volte vittima: del regime dittatoriale di Saddam Hussein; della guerra del Golfo del ’91; dell’embargo stragista voluto dall’Onu (un crimine insensato e ingiustificato che si prolunga da un decennio con la complicità di tutti gli stati più potenti del mondo); e quindi una nuova guerra contro di esso popolo sarebbe aggiungere crimine a crimine, strage a strage, disumanità a disumanità; ma anche lasciarlo privo di soccorsi e sotto embargo è un crimine, una strage, una disumanità: se la comunità internazionale volesse promuovere la democrazia in Iraq la strada c’è ed è la più semplice: cooperazione decentrata, aiuti diretti alle popolazioni, cessare di torturare il popolo iracheno con l’embargo. La democrazia e i diritti umani nel mondo si promuovono solo con la cooperazione internazionale, l’aiuto umanitario, facendo cessare la rapina del nord sul sud, restituendo ai poveri ciò che abbiamo loro rubato; a tutti gli esseri umani riconoscendo i diritti umani, il primo dei quali è quello di vivere.
Sta alle donne e agli uomini di volontà buona di tutto il mondo fermare la guerra.
E noi che ci troviamo qui in Italia possiamo e dobbiamo fare molto; ma per fare molto occorre che innanzitutto facciamo chiarezza in noi stessi.
E fare chiarezza in noi stessi significa separarci da quanti si proclamano pacifisti e poi riproducono la stessa logica dei potenti, separarci da quanti fanno carriera sul sangue versato dagli altri, separarci da quanti condannano la violenza degli altri ed esaltano la propria, separarci da quanti sono contrari alla guerra quando stanno all’opposizione e invece sono a favore quando stanno al governo, separarci da quanti gestiscono le manifestazioni pubbliche come delle piccole guerre, separarci da quanti si dicono per la pace e poi hanno come riferimento i leader militari, separarci da quanti tacciono sui poteri oppressivi da cui hanno ricevuto o si aspettano prebende, separarci da quanti riproducono razzismo e totalitarismo sovente senza neppure rendersene conto.
Separarci da quanti si dicono oppositori della guerra ma non vogliono e non sanno e non possono essere costruttori di pace.
Occorre opporsi alla guerra nell’unico modo logicamente corretto, moralmente possibile e politicamente efficace: con la nonviolenza.
Ma per opporsi alla guerra con la nonviolenza occorre formarsi alla nonviolenza, conoscerla ed esserne persuasi, studiarla e sperimentarla, prepararsi con la necessaria profondità e il necessario rigore all’azione diretta nonviolenta.
È il compito più urgente che abbiamo.
* Centro di ricerca per la pace di Viterbo
Da Rio a Johannesburg, ovvero dalle speranze alla delusione
Di Gianni Tamino
Dieci anni fa, a conclusione del primo vertice sulla terra, a Rio de Janeiro, vi fu un ampio dibattito tra le organizzazioni non governative (ONG) di tutto il mondo su come interpretare i risultati di quel vertice. I risultati erano stati sicuramente inferiori alle attese, ma vennero affermati importanti principi e alcuni significativi percorsi verso uno sviluppo sostenibile, sia nella “Dichiarazione politica di Rio” che nell’”Agenda 21” e nelle Convenzioni sui cambiamenti climatici e sulla diversità biologica. Si trattava sostanzialmente di affermazioni di principio, su un uso più equo e razionale delle risorse naturali, che avrebbero dovuto essere realizzate negli anni successivi tra diversi soggetti, sia a livello globale che nazionale e locale.
A buona parte delle ONG non erano piaciute le mediazioni al ribasso tra stati e si dissociarono dal vertice ufficiale, dando vita al “Global forum”, che espresse un punto di vista molto più avanzato sul rapporto tra ambiente, economia e diritti dei popoli, a partire dal rifiuto dell’ambiguo termine “sviluppo sostenibile”, sostituito da quello di “società ecologicamente sostenibile”, fondata oltre che su un’economia equa e socialmente giusta anche sul rifiuto della guerra tra i popoli.
Comunque tutte le ONG si aspettavano di vedere nel decennio successivo almeno in buona parte realizzato quanto scritto e dichiarato nei documenti ufficiali, ma già a cinque anni da Rio fu chiaro che i paesi più ricchi, Stati Uniti in testa, non erano disponibili a realizzare quasi nulla di quanto emerso al primo vertice sulla terra.
Venivano messi in discussione anzitutto due principi a stento affermati: quello di precauzione e quello di responsabilità per le imprese. Si tratta di due principi chiave per realizzare una società sostenibile; il primo, infatti, afferma che senza adeguate garanzie che un prodotto o un processo tecnologico siano sicuri per la salute e l’ambiente non dovrebbero essere autorizzati alla produzione e all’uso e il secondo impone alle imprese l’assunzione di responsabilità per i danni ambientali provocati, obbligandole alla riparazione del danno. Il rifiuto di questi principi da parte degli USA, ma non dell’Unione europea, ha vanificato finora ogni sforzo per attuare sia la convenzione sui cambiamenti climatici, come previsto dal protocollo di Kyoto, che la convenzione sulla biodiversità, come previsto dal protocollo sulla biosicurezza degli organismi geneticamente modificati.
Pertanto quando, nel 2000, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decise di convocare a Johannesburg un nuovo vertice per verificare e discutere quanto deciso a Rio, già molto chiara era la sensazione che il bilancio dei dieci anni trascorsi fosse fallimentare, ma ci si augurava che il vertice avrebbe dato nuovo slancio verso una nuova assunzione di responsabilità da parte degli stati e che si arrivasse finalmente ad individuare un preciso calendario per la realizzazione degli impegni già sottoscritti: in altri termini che finalmente si passasse dalle parole ai fatti.
Va ricordato che rilevanti eventi avvenuti negli ultimi dieci anni avevano influenzato la possibilità di realizzare una economia mondiale più sostenibile: anzitutto l’affacciarsi sulla scena mondiale di un nuovo protagonista, il WTO, o organizzazione mondiale del commercio. Dopo oltre dieci anni di trattative, alla fine del 1994, a Marrakesh, venne concluso l’”Uruguay Round”, che portò ad un accordo commerciale mondiale e alla nascita del WTO. Tutti i problemi collegati al commercio venivano, così di fatto, sottratti a qualunque valutazione e controllo in sede ONU e l’unica regola sarebbe divenuta “nessun ostacolo al libero commercio globale”. Ciò significa che per poter commerciare con altri stati bisogna far parte del WTO, ma che tale appartenenza limita aspetti importanti della stessa sovranità degli stati e dei popoli, ai quali possono essere inflitte sanzioni economiche che limitano l’esportazione dei loro prodotti, se non rispettano le regole del commercio mondiale. Tra queste regole vi è quella di non applicare nessuna limitazione al libero commercio delle merci, neppure per ragioni sanitarie, ambientali o etiche: così non possono essere vietati quei prodotti ottenuti con sostanze che si sospettano pericolose per la salute (come nel caso dell’uso di ormoni nell’alimentazione di animali), o per l’ambiente (come molte sostanze chimiche), impedendo qualunque applicazione del principio di precauzione, e non possono essere vietate le merci ottenute con lo sfruttamento del lavoro minorile. Ma l’affermarsi delle regole del WTO, anche in contrasto con i principi sanciti in sede ONU, ha portato alla nascita di un nuovo movimento mondiale, che rifiutando la globalizzazione economica e finanziaria, a Seattle ha lanciato la sfida della globalizzazione dei diritti dei popoli e della solidarietà. Si tratta di un movimento composito, con differenze rilevanti da paese a paese, ma che ha saputo contrastare il WTO, aprendo un dibattito tra la gente sui rischi di una economia globale, che non sia governata da una struttura politica mondiale, espressione reale della volontà delle popolazioni del pianeta.
Tuttavia questo movimento si è in parte arenato quando si è trattato di passare dalla contestazione della globalizzazione economica alla proposta di quale governo futuro dobbiamo dare al nostro pianeta, nonostante questo sia stato tentato in due Forum tenuti a Porto Alegre. Così dopo Seattle, Davos e Genova abbiamo visto la scarsa partecipazione del movimento no global al vertice della FAO a Roma.
Non stupisce più di tanto, allora, che anche a Johannesburg la presenza sia delle ONG che del movimento no global sia stata inferiore alle attese e che nelle riunioni del “Global Peoples Forum”, che si proponeva di denunciare la mancata attuazione delle promesse di Rio e di esercitare una significativa pressione per passare dalle parole ai fatti, troppo spesso la partecipazione fosse scarsa.
Difficile con queste premesse evitare quello che si stava concretizzando come un fallimento, o nel senso di un mancato accordo, voluto soprattutto dal governo statunitense, o di un accordo che subordinasse le idee ed i principi affermati a Rio ai trattati commerciali del WTO.
L’impegno del governo sudafricano e di parte dei governi europei hanno impedito il mancato accordo, ma la ricerca di una mediazione a tutti i costi con gli Stati Uniti, voluta e favorita dal governo italiano, che ha fatto a gara con quello inglese per dimostrarsi “il suddito più fedele” degli USA, hanno portato solo ad una parziale difesa, ancora una volta solo sulla carta, dei principi di Rio. Ma anziché rendere sostenibile il commercio mondiale, sono le decisioni del WTO prese a Doha (Qatar) ad aver influenzato pesantemente i documenti finali di Johannesburg: più che sull’ambiente, infatti, l’attenzione si è concentrata sul commercio, senza stabilire quali limiti il commercio globale debba avere per essere sostenibile.
I temi trattati prima del vertice, in apposite riunioni preparatorie, e durante il vertice, a Johannesburg, riguardavano: 1) L’accesso all’acqua pulita per tutte le popolazioni, attraverso il controllo e la prevenzione degli inquinamenti in tutte le fasi del ciclo dell’acqua, evitando la privatizzazione della risorsa acqua e degli impianti che ne garantiscono l’accesso; 2) Adeguata sostituzione dell’energia fossile con fonti rinnovabili, accessibili a tutte le popolazioni e a prezzi competitivi, come garanzia del rispetto degli accordi di Kyoto; 3) Difendere la biodiversità naturale, evitando l’innaturale estinzione di specie, provocata dall’azione dell’uomo, con particolare riguardo all’impiego di organismi geneticamente modificati; 4) Porre fine alle sovvenzioni per i prodotti, soprattutto agricoli, dei paesi ricchi del Nord del mondo e inserire invece nel costo delle merci il loro impatto ambientale; 5) Rispettare la dignità e i diritti dei lavoratori in ogni paese del mondo, con particolare riguardo al lavoro femminile; 6) Garantire i diritti dei popoli indigeni e la loro diversità culturale, soprattutto rispetto all’aggressione delle multinazionali impegnate nello sfruttamento di ogni tipo di risorsa, compresa la biopirateria delle risorse genetiche; 7) La cooperazione internazionale ed il sostegno dei paesi più ricchi allo sviluppo di quelli più poveri; 8) La responsabilità delle imprese private, in particolare delle multinazionali, assicurando il primato delle regole ambientali, sociali ed etiche su quelle del commercio mondiale.
Questi temi hanno trovato limitata attenzione e scarse soluzioni nei documenti finali, costituiti da una dichiarazione politica e da un piano d’attuazione. Quasi a sottolineare le difficoltà incontrate nelle trattative tra le diverse delegazioni e gli scarsi risultati finora ottenuti, il documento politico, voluto e scritto dal governo sudafricano, afferma, tra l’altro: “Sappiamo che gli obiettivi che ci siamo prefissati a Rio non sono stati raggiunti. Constatiamo inoltre, con profonda preoccupazione, che i progressi sulla via dello sviluppo sostenibile sono stati più lenti del previsto.” Subito dopo si aggiunge: “Adottando il piano d’azione per uno sviluppo sostenibile, riaffermiamo la nostra volontà di difendere i Principi di Rio e di applicare pienamente le disposizioni dell’Agenda 21, che costituiscono un aspetto cruciale del nostro accordo”, sottolineando in tal modo che non era scontata la riaffermazione di quei principi e di quella strategia. E in effetti il principio di precauzione non viene mai citato nei documenti, per non dare fastidio ai rappresentanti statunitensi, indicando talora un generico approccio cautelativo, giuridicamente molto più debole di un principio. Dal punto di vista pratico su tutti i punti cruciali non ci sono stati impegni vincolanti, né in termini quantitativi né temporali: così sul debito dei paesi poveri, sull’accesso all’acqua pulita, sulla difesa della biodiversità, sulle energie rinnovabili, sulla responsabilità delle compagnie private. L’Unione Europea non è riuscita a far passare la propria proposta di un 15% in più di energia da fonti rinnovabili entro il 2010 per l’opposizione congiunta di Stati Uniti, Giappone e paesi produttori di petrolio né a inserire un qualsiasi riferimento al protocollo di Kyoto, nonostante l’adesione, all’ultimo momento, di Cina e Russia. Gli aiuti allo sviluppo sono gli stessi già decisi in passato, ma senza alcun impegno ad una valutazione delle conseguenze ambientali e sociali di questi aiuti. Le multinazionali e le imprese private in genere sono state invitate a rafforzare la loro responsabilità sociale e ambientale, ma senza indicare come e con quali vincoli; per contro le imprese si sono proposte come partner per le politiche di sviluppo sostenibile, citando come propri meriti le disastrose azioni svolte in alcuni paesi (la Shell in Nigeria, la Dow Chemical -ex Unione Carbide- in India, la Monsanto per l’agricoltura dei paesi poveri ecc.). E sono state premiate con un invito ai paesi ricchi a sviluppare rapporti bilaterali con i paesi poveri, anziché favorire, come a Rio, i rapporti multilaterali; ciò significa che ogni paese ricco sceglierà quale paese aiutare in cambio di precisi condizionamenti economici e politici, pagando proprie aziende private per realizzare progetti decisi in base alle logiche delle imprese più che degli interessi delle popolazioni (così si potranno costruire megadighe per megacentrali idroelettriche, centrali nucleari, impianti di canalizzazione dell’acqua potabile che trascurano i popoli indigeni, grandi fabbriche chimiche e tutto questo sarà chiamato sviluppo sostenibile!).
Ma il fallimento del vertice di Johannesburg evidenzia anche la crescente crisi delle Nazioni Unite, obiettivo da tempo perseguito dagli Stati Uniti; lo stesso Kofi Annan, intervenendo al Global Forum delle ONG ha denunciato gli ostacoli posti da vari governi al processo di riforma dell’ONU, una riforma ormai indispensabile per dare un nuovo ruolo alle Nazioni Unite, dopo la fine della guerra fredda e di fronte all’evoluzione dei processi di globalizzazione, ora gestiti solo dal WTO. Per i prossimi cinque anni non si prevedono nuovi interventi delle Nazioni Unite sui temi dell’ambiente e della sostenibilità, mentre tra un anno ci sarà il nuovo vertice del WTO a Cancun, in Messico.
Ciò significa affidare il futuro del pianeta agli interessi del commercio mondiale anziché alla convivenza tra i popoli e in qualche modo la stessa dichiarazione politica di Johannesburg ne è consapevole quando afferma che “la società globale dispone dei mezzi e delle risorse per affrontare le sfide dello sviluppo sostenibile che si pone all’intera umanità”: come dire che se non si va verso la sostenibilità è perché il governo del pianeta anziché essere nelle mani dei popoli rischia di finire in quelle delle multinazionali.
Ma è proprio da questa considerazione che deve ripartire un movimento in grado di rappresentare la società civile, che, riprendendo la strada intrapresa a Seattle, sappia però andare oltre la semplice contestazione del WTO o della Banca Mondiale o del G 7, proponendo un modello di governabilità dei processi di globalizzazione, a partire da nuove basi di convivenza tra i popoli, basate sulla solidarietà e sul rifiuto della guerra, anche grazie ad un nuovo modello di funzionamento delle Nazioni Unite. Ciò significa anche che, pur nel rispetto delle differenze culturali, ogni abitante del pianeta deve poter vedere riconosciuti i propri diritti civili e ogni popolo deve aver diritto a percorrere la propria strada verso la sostenibilità sociale ed ambientale: ogni cittadino e ogni popolo deve aver diritto di accesso all’acqua, al cibo e all’energia necessaria al proprio sostentamento, nel rispetto degli equilibri ambientali del pianeta, utilizzando le risorse, senza distruggerle e senza produrre rifiuti. I popoli più ricchi non possono dunque imporre le loro scelte di sviluppo ai paesi più poveri, facendo l’elemosina e inviando le proprie imprese a saccheggiare le loro risorse, come rischia di diventare il ricorso alle partnership bilaterali previste dal piano di attuazione di Johannesburg, premessa ad una nuova forma di apartheid: quello che a Johannesburg è stato definito l’apartheid globale. Ma, d’altra parte, neppure i movimenti che si sviluppano nei paesi più ricchi sono credibili se non riescono a mettere in discussione l’uso e l’abuso che si fa nei nostri paesi di risorse, quali acqua, cibo ed energia. Dobbiamo partire dalla messa in discussione del nostro modo di vivere, individuale e collettivo, assolutamente insostenibile, per avere le carte in regola per proporre e realizzare un ampio movimento globale verso una società sostenibile, un movimento indispensabile per contrastare le logiche del commercio mondiale: questo dovrebbe essere l’obiettivo del prossimo Social Forum Europeo, che si terrà a Firenze agli inizi di Novembre 2002 e del Forum mondiale di Porto Alegre del prossimo Febbraio 2003, per arrivare ad una ampia e partecipata messa in discussione del vertice del WTO a Cancun, dove lanciare la sfida di un progetto globale per una società solidale e sostenibile.
Riflessioni oziose, lente e nostalgiche dopo Johannesburg
E’ l’uomo in sé, l’unica vera minaccia per il futuro del pianeta.
Quando impareremo a smettere di voler controllare la vita?
Di Christoph Baker *
4 settembre 2002. Si conclude il Vertice di Johannesburg sullo Sviluppo Sostenibile con un fallimento sostanzioso. Da un anno seguivo sfiduciato i preparativi. Vecchia zuppa riscaldata. Ancora cifre al posto delle emozioni, teoremi al posto dell’utopia, invettive al posto dell’umiltà. L’ennesimo tentativo di resuscitare la carcassa puzzolente dello sviluppo (data di scadenza: novembre 1989). Tutto il vocabolario usato che ancora sa solo di razionalizzazione e riduzionismo, di arroganza tecno-scientifica. Immaginavo le “formiche” dello sviluppo sostenibile (governative o non-governative, sempre formiche sono), intente a combattersi a colpi di paragrafi, statistiche, misurazioni, “prove scientifiche”. Grigiore in un mare di grigio. Nausea andante. Poi, la trovata del dialogo con le imprese… Stavo aspettando di sogghignare amaro. Ma…
9 settembre 2002. In ventotto ore di temporali e piogge torrenziale, il mio amato Sud della Francia (là c’è la casa di famiglia) viene trascinato sull’altra sponda dell’inferno acquatico. Più di venti vite umane, centotrenta animali di fattoria e tremila case annientate dalla furia degli elementi. Madre Natura, quando s’incazza, non va per il sottile. E quando il sole eclatante del Mediterraneo si riprende il cielo, i suoi raggi si posano sulla desolazione e la disperazione di uomini, che mai come adesso si sentono piccoli, insignificanti, totalmente vulnerabili. Uomini e donne che piangono silenziosi, in mezzo ai grovigli di automobili, pali della luce, televisori, lavatrici, antenne paraboliche, prodotti igienici, metallo, plastica, carta e vetro, che si ammonticchiano anarchici in ogni angolo di questa terra ferita. I vigneti sono laghi che rimandano all’anno prossimo la sola idea di una vendemmia.
11 settembre 2002. Un anno è passato da quando la condizione umana ha fatto un “passo in avanti” nella sua nefandezza. L’anniversario è tutta una pomposa messa in scena, dove si fa fatica a trovare la giusta commiserazione e misericordia per tutti gli uomini che quel giorno, e nei mesi dopo, hanno perso la vita per niente. Proprio niente. Ed è tutto un prepararsi ad un altro attacco, un’altra guerra. Oddio, altra? Ormai è una guerra permanente, senza pause, senza coffee break. E ci risiamo con il patetico ping-pong verbale fra veri, mezzi, fasulli pacifisti e veri, mezzi, fasulli guerrafondai.
Non ce la faccio più…
12 settembre 2002. Davanti al chiosco di giornali, la locandina di un settimanale con un titolo a caratteri cubitali: “Clima pazzo? Colpa dell’Atlantico!”. No, eh? Adesso basta! Primo, scommetto che lo scemo che ha fatto quel titolo l’Atlantico l’avrà visto al massimo dall’oblò di un aereo, o forse da una spiaggia, e quindi non ne sa niente. Solo chi ha navigato sull’Atlantico dovrebbe avere il diritto di parlarne, penso fra me e me. Secondo, questa abitudine di accusare la natura: nebbia killer, inondazioni omicide, montagna assassina. A parte che a Madre Natura, tutto questo gli fa un baffo, mi colpisce la miseria dell’uomo, la sua infinita piccolezza nel cercare di incolpare qualcosa all’infuori di sé. Come se questo cambiasse qualcosa. Come se accusare la pioggia ti potesse dare indietro i morti annegati… Ma anche seguendo questa perversa logica, se è colpa dell’Atlantico, cosa fai? Mandi i caccia della NATO a bombardarlo? Lo prendi a schiaffi? Gli fai la multa? Lo squalifichi per due turni?
Ridicolo.
Allora, diventa sempre più chiara una constatazione ovvia: è l’uomo in sé, l’unica vera minaccia per il futuro del pianeta. Non le sue attività, non l’organizzazione delle società, non una versione o l’altra dello sviluppo. Neanche, in fondo, il mito della crescita economica quantitativa ed illimitata. Tutto questo è solo conseguenza, sintomo del male profondo, atavico, forse subconscio dell’essere umano: quello di pensarsi al centro del mondo, della vita, del cosmo. Ma l’arroganza di specie ha fatto il suo tempo. Non serve più a niente. Oppure, serve solo a costruire altre catastrofi annunciate, vedi per esempio alla parola manipolazioni genetiche, guerra batteriologica, o energia nucleare.
L’uomo, questo animale particolare, oggi deve rimettere profondamente in questione il suo percorso evoluzionistico. Deve svuotare la mente di tutti gli strati di immondizia filosofica e religiosa che ne hanno determinato il funesto tentativo di comandare e controllare tutto. Deve calmare tutti gli istinti di sopraffazione, di dominio, di conquista. Deve dire: ALT! Fermiamoci, e ripensiamo il nostro posto su questa terra, in questa vita. Facciamoci contaminare dalle leggi non scritte della natura. Accettiamo la tragedia come la meraviglia; il dolore come la felicità; il caos come il mistero. Accettiamo senza provare a capire per forza. Senza dovere codificare immediatamente le emozioni, i sentimenti, le intuizioni.
Per vivere in pace con tutte le forme di vita (inclusa quella umana), servono più la compassione, lo stupore e l’audacia, che le verità scientifiche, i programmi e i regolamenti. Invece di ridurre la vita in categorie classificabili, perché non cominciamo a smantellare le troppe certezze, che alla fine del viaggio ci lasciano solo l’amarezza di essere stati presi in giro per tutta la vita, e di non essersela goduta come Dio comanda?
La speranza chiamata Johannesburg è già annegata nelle inondazioni di dichiarazioni di convenienza, e schiacciata sotto le tonnellate di documenti ufficiali e non. Non c’è da meravigliarsi. Questo è l’andazzo dominante. Questo è la noia di una specie che va ciecamente al suicidio, condannando con sé migliaia di forme di vita innocenti.
Io dico che ci si può dimissionare da questo andazzo. Che si può fare il passo laterale salvatore, fuori dalla corsa ormai impazzita di questa modernità, e andare all’incontro con nuovi giorni ricchi di sorprese. Basta che ci spogliamo della pretesa di controllo della vita, e facendo ciò, scopriremo quanta è piena di buoni consigli su come arrivare a domani senza fare, nè farsi, troppo del male.
Vogliamo provarci?
* Christoph Baker è l’autore di “Ozio, lentezza e nostalgia – Decalogo mediterraneo per una vita più conviviale” (EMI – Bologna)
La pace è nelle nostre mani. Noi proponiamo.
Il testo seguente è una dichiarazione che il Superiore Provinciale dei Comboniani ha fatto alla conclusione della Carovana della Pace che ha attraversato dieci città di tutta la penisola partita da Verona il 5 settembre e terminata a Bologna domenica 15 settembre.
La Carovana della Pace 2002 riprende e rilancia i temi delle ingiustizie e dei divari lungo l’asse Nord-Sud del mondo, temi già denunciati dal Giubileo degli Oppressi 2000 che si era concluso con un forte appello dal titolo “Noi ci impegniamo”.
Quegli impegni, per molte associazioni ecclesiali e laiche, sono stati una vera pista per costruire la pace tramite la difesa della dignità dell’uomo, la denuncia delle ingiustizie, la promozione della nonviolenza attiva, la proposta di una vita sobria, la costituzione di piccole comunità alternative…
Purtroppo in questi due anni non si è arrestata una deriva politica e sociale che vede una crescente corsa alle armi (specialmente dopo l’11 settembre), la militarizzazione dell’economia, la frammentazione delle comunità e l’isolamento delle persone. Una deriva che il sistema dei mass media – dedicato in gran parte ad intrattenere il consumatore più che a informare il cittadino – tenta, e spesso riesce, a mascherare.
Le migliaia di persone e le tante esperienze territoriali di base che questa Carovana della Pace ha incontrato, sono qui a dirci che in giro c’è voglia e bisogno di mettersi in gioco per cambiare questo stato di cose. Per questo, raccogliendo le sollecitazioni delle diverse realtà locali incontrate, facciamo delle proposte orientative.
1) Superare la logica della guerra e del nemico.
Dinanzi ad una logica di guerra ormai imperante, denunciamo che le guerre programmate hanno solo una finalità economica, funzionale ai potenti della Terra.
Perciò:
– Proponiamo di riflettere per far emergere tutte le possibili forme di resistenza – come l’obiezione di coscienza e l’obiezione fiscale – agli interventi armati.
– Incoraggiamo gli enti locali a dedicare parte delle loro risorse alla diffusione di una cultura di pace e di opposizione alla guerra.
– Chiediamo alla Conferenza Episcopale Italiana di solidarizzare con il Papa nel dichiarare, in modo inequivocabile, che “con la guerra tutto è perduto”. Riteniamo, infatti, che la comunità cattolica e la stessa società civile abbiano bisogno di una direttiva magisteriale chiara, che condanni la guerra che sta per cominciare e la “logica di guerra” che la dichiara inevitabile. Noi questo bisogno lo sentiamo.
– Proponiamo a tutte le componenti della società civile che aspirano ad un mondo diverso di ritirare il proprio denaro dalle banche armate, colluse con le fabbriche che lavorano per la guerra, e di indirizzarsi verso realtà alternative di risparmio sociale.
– Proponiamo inoltre di boicottare tutti i prodotti delle aziende compromesse con operazioni ingiuste e lo sfruttamento dei paesi poveri e deboli.
– Proponiamo che la comunità cattolica, in dialogo con la società civile, si impegni con maggior decisione per una legislazione sulla immigrazione che sia rispettosa delle persone e delle famiglie immigrate, e non accetti politiche discriminatorie nei confronti di nessuna persona che cerca condizioni di vita più umane. Chiediamo a questa società civile di non usare più la parola extracomunitario: serve a perpetuare logiche di esclusione e a creare nemici.
– Proclamiamo forte la eguale dignità di ogni essere umano di cui nessuno può determinare il diritto di esserci o di non esserci.
– Richiamiamo alla memoria la Dichiarazione universale dei diritti umani.
2) Recuperare il senso della comunità
Come popolo in cammino, in cerca di pace e giustizia, sentiamo la necessità di recuperare una spiritualità profonda che ci riporti alle radici del nostro essere, e motivi e illumini la nostra azione, perchè sia azione di fratelli, figli dello stesso Padre. Una spiritualità che si sviluppa nelle comunità e nei gruppi e conduce al recupero delle relazioni tra le persone, con Dio e con l’ambiente.
Proponiamo, perciò, che ognuno si ritagli nella giornata spazi di silenzio, di preghiera e di riflessione sulla situazione del paese e del mondo intero; che si costituiscano gruppi di spiritualità, riflessione e convivialità per migliorare i rapporti e ridare gioia e fiducia alle persone.
Essere comunità non è un elemento accessorio, ma un carattere fondante di una società civile organizzata che sappia ridare senso e progetto ai tanti “dispersi” di oggi.
Proponiamo il dialogo come norma di comportamento con tutte le componenti della società civile e con tutti i gruppi religiosi. No ai fondamentalismi e agli arroccamenti sulle proprie verità. No alle guerre di religione. Si’ al confronto, magari con l’aiuto di un saluto e di un sorriso.
Proponiamo a tutte le associazioni che vogliono costruire una società fraterna e attenta agli ultimi, di incontrarsi, di condividere e di mettersi in rete per denunciare con più efficacia le ingiustizie e farsi sentire. Insieme si può di più.
3) Prendersi cura dell’informazione e della formazione
Il sistema dei mass media è sempre più una macchina che serve a mantenere l’opinione pubblica incatenata allo stile di vita e ai modelli di consumo occidentali. La tivù, in particolare, fa più intrattenimento che informazione. “Con questo tipo di televisione non può esserci nessuna democrazia” (K. Popper).
Proponiamo, perciò, ai singoli, alle famiglie e alle associazioni di essere critici e dedicare tempo all’analisi e alla selezione dei mass media, cosi’ da poter scegliere con cognizione le fonti informative cui attingere e da contrastare. Il digiuno televisivo, ad esempio, è una delle forme di lotta più efficaci.
Incoraggiamo le associazioni e i gruppi ad incalzare i media del loro territorio, ad essere interlocutori delle redazioni dei giornali e delle tivù.
Chiediamo ai giornalisti di non lasciarsi fuorviare dalle logiche del potere del denaro, ma di farsi invece guidare dalla ricerca della verità.
Proponiamo che le scuole e le università siano luoghi di educazione alla pace, e cioè alla legalità, alla giustizia, alla capacità di vivere insieme nel rispetto delle differenze.
Chiediamo, perciò, agli insegnanti e ai responsabili degli istituti scolastici di riflettere sulle loro responsabilità e di non lasciarsi appiattire nei valori, accontentandosi semplicemente di servire il sistema del momento.
Infine vogliamo ricordare:
– alla nostra Chiesa che Gesù è la vera pace e il suo vangelo non ammette la guerra;
– a tutta la società che la strada da seguire è quella della nonviolenza impegnata, presente, attiva, lucida e informata.
Allora la fraternità sarà più importante del guadagno.
Allora la pace non sarà più una utopia.
Le 10 parole della nonviolenza, per fare un cammino comune.
Proponiamo digiuno e iniziativa per mercoledì 13 novembre
La parola del mese: “Satyagraha, la Forza della Verità”
Di Daniele Lugli
“Forza della verità” è il modo usuale di tradurre il termine “satyagraha”. E’ stato scelto da Gandhi, in Sud Africa, per indicare la forza dispiegata dagli indiani immigrati, che lo seguirono in otto anni di campagne per il riconoscimento dei loro diritti. ” A mio parere – scrive Gandhi – la bellezza e l’efficacia del satyagraha sono grandiose e la dottrina è così semplice da poter essere insegnata anche a un bambino”. La lettura di testi gandhiani può essere un buon consiglio. A me è stata utile la bella antologia “Teoria e pratica della nonviolenza”, riedita da Einaudi, con l’ottima prefazione di Giuliano Pontara.
Il nome di Einaudi mi sollecita a riprendere due opportuni avvertimenti di Luigi Einaudi, affidati alle sue Prediche inutili. “Il solo fondamento della verità è la possibilità di negarla. Il giorno che la verità o quello che noi riteniamo tale fosse accettata da tutti senza contrasto, dovremmo cominciare a temere di essere caduti in errore” e ancora “Il male politico e sociale nasce quando gli uomini d’azione sono persuasi di avere scoperta una verità, di possederla e di avere il dovere di attuarla”. I danni, aggiungo, sono tanto maggiori quanto più potere hanno i detentori della verità e sono tanto più durevoli, sicuri e crescenti quanto più a loro si oppongono altri detentori di verità assoluta.
La verità che ci è dato conoscere non è fuori di noi, nè può essere imposta. E’ quella che scambiamo, confrontiamo, incrementiamo, perdiamo nella nostra esperienza di vita. A questa, consapevoli della nostra fallibilità, dobbiamo testimonianza e assunzione di responsabilità. “Gli disse Pilato: ‘Che cosa è la verità?’. Uscì poi di nuovo…”. Non aspettò la risposta Pilato, ma non ne aveva bisogno. “Non trovo contro di lui alcun capo d’accusa” era la verità che Pilato possedeva. Rimettersi al giudizio del popolo è stato non dare spazio alla forza della propria verità. Non ha usato una forza, non invincibile, ma importante (come non infallibile, ma decisivo, era il giudizio della sua coscienza ).
Vi è una forza nell’adesione risoluta alle convinzioni, ai valori che siamo giunti a ritenere veri per noi. E’ una forza che si accresce, se riusciamo ad essere sinceri con noi stessi e con gli altri, che ci sono necessari. “Bisogna essere in due per dire la verità: uno per parlare, uno per ascoltare” secondo Thoreau. Chi può parlare ascolta più profondamente, ci diceva Capitini. Il confronto, ed anche il conflitto più aspro, può avere miglior soluzione in termini di nuova verità, raggiunta e condivisa, se è fatto di parola e di ascolto, se almeno una parte fa appello alla capacità, che è anche dell’altro, di giungere ad una soluzione razionale e per tutti accettabile.
Si apre qui la strada del satyagraha, dell’azione nonviolenta, della quale oggi si sente spesso parlare. E’ diretta a diminuire la violenza, grande e piccola, nei comportamenti, nella cultura, nelle strutture della società. La forza, che si fa violenza in favore del privilegio, ha una verità, realtà, evidenza di fronte alla quale la forza della verità appare impotente. Qui sta il banco di prova decisivo. “La verità esige una dimostrazione costante” riteneva Gandhi ed esperimenti con la verità chiamava le sue grandi campagne. Non c’è alcuna garanzia di successo, ma è la sola modalità che non alimenti il circuito della violenza.
Il circuito della violenza – diretta, strutturale, culturale – si regge sulla collaborazione, più o meno convinta, talora entusiasta, di chi ne è, in diverso modo, vittima. E’ difficile che non ci sia altra scelta, sia pure difficile. Tant’è vero che c’è chi fa altre scelte, che sono addirittura eroiche, quanto più individuali, non comprese, non sostenute. La maggior parte si adatta e, poichè vive male nella consapevolezza della propria viltà, finisce per l’accettare, come inevitabile e vero, ciò che aveva stimato falso e da combattere. Chi ha cervello e stomaco adeguati trova spazio e valorizzazione nella produzione del consenso.
Questa connessione tra forza e verità è limpidamente espressa da Giovanni Gentile: “Ogni forza è forza morale, perchè si rivolge sempre alla volontà; e qualunque sia l’argomento adoperato – dalla predica al manganello – la sua efficacia non può essere altra che quella che sollecita infine interiormente l’uomo e lo persuade a consentire”. Da Direttore della Scuola Normale di Pisa, sollecitò il giovane Aldo Capitini, che ne era segretario, a prendere la tessera del partito fascista per mantenere l’impiego. Capitini non consentì. Fu licenziato, schedato come antifascista. Seguitò ad attenersi alla verità della quale veniva mano a mano persuadendosi.
Nei paesi privilegiati si usano la televisione e i mass media piuttosto che il manganello (anche se non vi si rinuncia per non perderci la mano) per sollecitare interiormente, persuadere a consentire all’ingiustizia quotidiana ed alla prossima guerra. Leggo però (Sole 24 Ore del 15 settembre) di un film, Clown in Kabul, che documenta il lavoro del gruppo di medici diretti da Hunter “Patch” Adams, perchè bimbi, feriti, mutilati, bruciati, atterriti siano, oltre che curati, riportati al sorriso. “Una grossa ciliegia rossa in mezzo alla faccia, qualche sberleffo, e poi tanta capacità di sentire il dolore dell’altro…contrario umano di ciò che pratica ogni terrorista, ogni fanatico della morte al lavoro. Il quale infatti non sente e non vede l’altro e il suo dolore, ma solo vede e sente una propria cieca verità assoluta”.
C’è molto da lavorare per vedere e sentire, ed aiutare a vedere e sentire, la verità che sta in quel dolore e nell’intervento dei medici clown. Ciechi e sordi non sono solo i terroristi e i fanatici della morte, ma tanta brava gente, come noi e i nostri capi di stato democraticamente eletti. La verità di quel dolore e dell’intervento che risarcisce, condivisa e partecipata, costituisce la nostra forza. E’ nonviolenza in azione.
LILLIPUT
A cura di Massimiliano Pilati
Campagna di obiezione/opzione di coscienza del/della cittadino/a
Movimento Nonviolento, Movimento Internazionale Riconciliazione e Rete di Lilliput presentano:
Obiettivo di questa campagna è quello di mantenere vivo il diritto all’obiezione di coscienza al militare, in vista dell’ attuazione pratica della difesa nonviolenta come alternativa alla difesa armata, e impedire che venga annullato con la “sospensione” dell’obbligo di leva,.
E’ quindi importante passare da un’obiezione di coscienza che interessava i giovani al momento della chiamata al servizio militare ad una obiezione più diffusa che coinvolga tutti i cittadini/e .
Occorre pertanto che tutti coloro che condividono le nostre scelte di nonviolenza si dichiarino obiettori e sostengano almeno una delle “opzioni positive” come momento di impegno concreto
LA NOSTRA OBIEZIONE ALLE SCELTE DI GUERRA
Il no della coscienza alla violenza organizzata e all’omicidio come soluzione dei conflitti si esercitava fino ad ora, nel nostro paese, soprattutto nella forma del rifiuto del servizio militare, cioè dell’addestramento ad uccidere.
La nuova legge 230 del 1998 sull’obiezione di coscienza al servizio militare, così come quella più recente sull’istituzione del Servizio civile nazionale, che compiono alcuni importanti passi avanti nella cultura giuridica dell’obiezione al militare, sono arrivate contemporaneamente all’abolizione pratica della leva e al passaggio graduale all’esercito professionale.
Nella nuova situazione che si presenta il cittadino sembra non avere più strumenti per esprimere il rifiuto della violenza strutturale e culturale, non solo di quella diretta, e per costruirne il continuo superamento. Ci sono invece da praticare obiezioni e da attuare programmi costruttivi sui due lati della cultura del dominio, il modello economico (della produzione, scambi e consumi) e il modello difensivo (della tutela da aggressioni e della tutela del diritto).
Perciò ci sembra urgente un rinnovato impegno, coordinato e coraggioso, per una nuova
CAMPAGNA DI OBIEZIONE DI COSCIENZA ALLE GUERRE E DI
OPZIONE NONVIOLENTA PER IL DISARMO ECONOMICO E MILITARE
che sia contemporaneamente di resistenza al nuovo militarismo e di costruzione dell’alternativa nonviolenta. La campagna si articola su due punti:
1) Una dichiarazione di obiezione di coscienza nella quale ci si dissocia dalla politica di difesa del nostro paese e dalla NATO, evidenziando l’incostituzionalità, l’immoralità intrinseca di scelte aggressive e la funzionalità al sistema economico di rapina nel confronti dei Paesi impoveriti del sud del mondo; da parte delle donne accompagnata da una dichiarazione di rifiuto esplicito della cosiddetta “pari opportunità” di servire nell’esercito, da parte dei/delle giovani che scelgono il servizio civile accompagnata da una dichiarazione che metta in evidenza come la scelta fatta sia inconciliabile con il servizio militare, escludendo la possibilità di “richiami” in caso di guerra.
2) Una dichiarazione di opzione per la nonviolenza attiva che si concretizzi attraverso l’assunzione di impegni nel campo della formazione ed educazione alla pace e alla nonviolenza, dell’obiezione di coscienza alle guerre, nella disponibilità a partecipare e/o sostenere azioni nonviolente e nel campo del consumo critico e dell’economia nonviolenta.
La Campagna si pone come primo termine il 31/12/2004 data entro la quale vi sarà una verifica del raggiungimento degli obiettivi delle singole campagne e di quanto si sarà riusciti ad ottenere in campo istituzionale sul disarmo, sulla difesa civile non armata e nonviolenta prevista dalla legge 230/1998 e sull’economia nonviolenta.
E’ DISPONIBILE LA GUIDA PER LA CAMPAGNA Scelgo la nonviolenza (obiezione del cittadino). Richiedere a: M.I.R./M.N. Via Garibaldi 13 10122 Torino. 011/532824
E-mail: scelgolanonviolenza@retelilliput.org
Sito Internet: http://www.retelilliput.org/scelgolanonviolenza.asp (sito in costruzione)
EDUCAZIONE
A cura di Angela Marasso
Peacebuilding, globalizzazione e giustizia sociale
Primo corso estivo organizzato dalla rete Transcend.
Il corso di formazione si è svolto dall’8 al 26 luglio a Cluj-Napoca (Romania); ha visto la partecipazione di 35 persone, provenienti da varie parti del mondo.
Il programma è stato molto intenso, ed ha combinato insieme lezioni frontali, lavori di gruppo e discussioni in plenaria.
I docenti non si possono non menzionare: Johan Galtung, padre della ricerca per la pace e fondatore di Transcend, la rete internazionale formata da professionisti del settore, che lavorano per la pace e lo sviluppo attraverso ricerca, azione e formazione; Susan George, Direttore Associato del Transnational Institut, tra i fondatori di Attak; Catherine A. Odora Hoppers, docente dell’Università di Pretoria, esperta in particolare sulle problematiche del continente africano; Dot Keet dell’ Alternative Information Development Centre (AIDC) – Sud Africa. L’intero percorso è stato coordinato da Kai Frithjof Brand Jacobsen, co-direttore di Transcend e direttore di PATRIR, istituto di pace rumeno promotore del corso insieme a Transcend.
L’obiettivo principale delle tre settimane di formazione è stato quello di esaminare le questioni alle quali ci troviamo di fronte oggi: il ventesimo secolo, che è stato un secolo violento, si è concluso lasciando alcuni segni che non ci fanno ben sperare per il futuro: l’incrementarsi della violenza, il peggioramento degli standard di vita per milioni di poveri nel mondo, il cementarsi di strutture e di culture violente, l’incrementarsi della violenza usata per combattere la violenza; non si può però trascurare un fatto positivo: il sorgere di movimenti di persone che credono e lottano per un mondo diverso.
Durante il corso abbiamo condiviso esperienze, idee e conoscenze, con il preciso obiettivo di lavorare concretamente per arrivare alla fine del nostro “viaggio” a formulare delle vere e proprie strategie di azione.
Le tre settimane sono state suddivise in tre moduli di cinque giorni l’uno, così articolati:
Primo modulo: Peacebuilding e Trasformazione dei Conflitti: Pace con Mezzi Pacifici – Trasformare le strutture e le culture profonde.
Secondo modulo: Globalizzazione e giustizia sociale; i movimenti di persone e l’empowerment.
Terzo modulo: Sviluppare iniziative per l’empowerment delle comunità, movimenti per la pace e la giustizia sociale: questioni e risposte locali e globali.
Il filo conduttore di tutti e tre i moduli, dalla trasformazione dei conflitti, ai problemi dello sviluppo, ai movimenti per la pace, è stato la continua ricerca di soluzioni concrete alternative, di strategie di lavoro attuabili, con un occhio alle diverse realtà di provenienza dei partecipanti al corso; un lavoro quindi non solo teorico ma anche molto pratico, soprattutto nel tentativo di mettere insieme problematiche globali e risposte locali.
Si è insistito molto sul concetto di empowerment, inteso come capacità di attuare trasformazioni partendo dal basso, capacità di mobilitare persone intorno a questioni cruciali. Ci è stato chiesto continuamente di porci in relazione con i problemi che via via affrontavamo in un’ottica pragmatica, domandandoci sempre: “Che cosa posso fare?” e “Come lo posso fare?”. Questo ci ha aiutati a pensare immaginando delle risposte adeguate alla nostra storia, alla nostra cultura ed al nostro territorio di appartenenza. Il confronto poi con rappresentanti di altre culture, con altre strategie, soluzioni ecc., è stato prezioso per fare un esercizio utilissimo: quello di provare a decentrare il proprio punto di vista.
Due parole ancora su come è stato affrontato il problema dello sviluppo: una delle cose più entusiasmanti del corso è stata avere, come pochissime volte accade, una prospettiva sulle problematiche del terzo mondo presentata dal punto di vista dei paesi più poveri, nel senso che ha messo in luce il bisogno, da parte dei paesi del Terzo Mondo di non essere riconosciuti soltanto in quanto poveri, appunto, ma in quanto portatori di valori, di un loro sistema di conoscenze, di essere riconosciuti, insomma, come soggetti.
Erika Grasso
ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Cosa hanno in comune Letizia Moratti e Chicco Testa ?
Il gruppo finanziario statunitense Carlyle ha avuto la sua discreta ventata di notorietà nei mesi scorsi, quando la stampa statunitense ha scoperto che al suo interno trovavano modo di fare affari esponenti dell’attuale governo USA, compreso l’attuale presidente Bush, e membri della famiglia del famigerato Osama bin Laden.
La storia racconta che il gruppo prese il nome dall’hotel di New York nel quale, nel 1987, i membri fondatori si accordarono per costituirlo, allo scopo di acquistare aziende decotte e venderle successivamente al miglior offerente.
Negli anni che seguirono, anonimi ed imponenti capitali provenienti dal Medio Oriente arrivarono a sorreggerne le strategie aziendali, le cui redini vennero direttamente affidate al famoso uomo d’affari ed ex-Segretario alla Difesa USA Frank Carlucci. Fu quest’ultimo che, grazie alle sue numerose amicizie, permise l’ingresso nell’azionariato di personaggi del calibro di George Soros e del principe saudita Al Waleed bin Talal (socio di Berlusconi in Mediaset) ed affidò oscure consulenze a politici come James Baker, capo di gabinetto durante la presidenza di Ronald Reagan (ai tempi della Guerra nel Golfo era segretario di Stato), Richard Darman (ex-capo del bilancio della Casa Bianca) e George Bush senior, che riuscì anche a piazzare suo figlio alla carica di amministratore delegato.
Negli anni ’90 il gruppo Carlyle mise a segno diverse acquisizioni in campo militare: nomi come Harsco Corp., BDM international, LTV Corp, Raytheon e Howmet che in Italia non diranno molto, ma che rappresentano l’ossatura del sistema difensivo statunitense e con i quali la compagnia riuscì ad entrare nel pool di 4 aziende coinvolte nel progetto di National Missile Defense (NMD), ovvero il superscudo stellare. La Carlyle è per esempio costruttrice del Crusader, nave da guerra di 42 tonnellate, in grado di sparare raffiche di 15 proiettili da 50 chili l’uno e perciò in grado di partecipare all’NMD per quanto riguarda la copertura marina.
Come ogni gruppo di pressione che si rispetti, Carlyle non ha disdegnato in questi anni lo shopping nei media: solo nel 2002 è stata venduta la partecipazione del 40% del famoso quotidiano francese Le Figaro.
Il Wall Street Journal, il 27 settembre 2001, nelle indagini a ridosso dei tragici eventi di New York, scoprì che nel 1998 e nel 2000 George Bush senior effettuò due viaggi privati in Arabia Saudita per conto del Carlyle Group, dove incontrò la famiglia reale e quella di bin Laden. Di qui la scoperta dei capitali arabi al suo interno e gli incredibili intrecci di interessi.
Ma pochi giornali hanno riportato notizie che coinvolgono più direttamente il nostro paese, e noi vorremmo colmare questa lacuna. Nel 1998 infatti la poco onorabile società ha deciso di inaugurare una linea di investimenti in aziende europee, e per questo fine ha creato un fondo di 1 miliardo di Euro gestito da un team di professionisti operante nelle sedi di Londra, Parigi, Monaco di Baviera e Milano. Nella capitale meneghina gli uffici sono in Via Borgonuovo 12, ma ovviamente la sede legale della società è nel paradiso fiscale di Guernsey.
Il metodo di lavoro in Europa è ovviamente lo stesso applicato nel resto del mondo, e identicamente permeato dallo stesso alone di mistero. Per esempio non sapremo mai esattamente che cosa è venuto a fare a Milano papà Bush il 1° ottobre 2001, ma non dovrebbe essere difficile saperlo visto che l’attuale Ministro dell’Istruzione Letizia Moratti nello stesso anno faceva parte dell’Advisory Board di Carlyle Group – Europa, e potrebbe quindi risultare una persona informata sui fatti. Non possiamo però che complimentarci en passant con il ministro per l’eclettismo dimostrato in questi anni, che l’ha portata disinvoltamente a passare dal business assicurativo alla presidenza della RAI, dalla riforma scolastica agli affari economici con l’impresa statunitense.
Un altro possibile incontro il petroliere texano potrebbe averlo avuto con l’altro italiano membro dell’European Advisory Board: Chicco Testa, presidente dell’Enel fino a quest’anno e dirigente di Legambiente dal 1980 al 1987. Chissà quante cose avrebbero potuto dirsi! Forse in campo ambientale, forse in campo energetico, visto che Chicco figurava anche nel membro del Consiglio di Amministrazione del Gruppo Riello che di lì a poco sarebbe entrato a far parte del portafoglio Carlyle. A proposito: sanno i nostri amici consumatori critici che acquistandone i bruciatori contribuiscono a finanziare una realtà del genere? Ma anche i piacentini del gruppo Tecnoforge (raccorderia) hanno lo stesso motivo per rattristarsi, vista l’acquisizione subita due anni or sono.
Chicco e Letizia quindi, risultano una strana coppia unita dalla comune passione per gli affari, nonostante gli opposti percorsi politici.
Nota: alcune notizie sono estratte dal libro “Banche armate alla Guerra” di Simone Falanca, prossima pubblicazione. www.zaratustra.it, e dal sito www.radiopopolare.it/html/trasmiss/diretur/2001/20011110.htm
CINEMA
A cura di Flavia Rizzi
Undici settembre duemilauno Le guerre sante non esistono
11’09’’01 – September 11
di Y.Chahine, A. Gitai, A. Gonzàlez Inàrritu, S. Imamura, C. Lelouch, K. Loach, S. Makhmalbaf, M. Nair, I. Ouedraogo, S. Penn, D. Tanovic
Francia, 2002
Uno sfondo blu sul quale una linea luminosa tratteggia il contorno dei continenti…Quadranti luminosi di orologi, che segnano ciascuno un’ora diversa, si sfiorano e si compenetrano l’un l’altro come fantasmi, veleggiando su questa immensa mappa del mondo…Una sorgente luminosa si accende sulla costa atlantica dell’america settentrionale, in corrispondenza dell’area compresa tra New York e Washington…Un’altra sorgente luminosa si accende in una diversa, e a volte remota, parte del globo: ora è l’Iran e ora la Francia, ora l’Egitto e ora la Bosnia-Erzegovina, ora il Burkina Faso e ora l’Inghilterra, ora il Messico e ora l’India-Pakistan, ora Israele e ora un’altra parte degli Stati Uniti, e infine il Giappone.
11’09’’01, ovvero undici minuti, nove secondi e un fotogramma, con cui ciascuno degli undici registi di fama internazionale che ha firmato questo lavoro, ha cercato di raccontare dal suo punto vista, inteso anche geograficamente, l’11 settembre 2001, l’attacco e la distruzione delle Torri Gemelle di New York.
Sebbene il film sia stato attaccato ancor prima di essere visto perché sospettato di antimericanismo” (solo uno dei cineasti è americano: Sean Penn), l’operazione risulta interessante. Vero è che non tutti gli undici cortometraggi che compongono il film si possono considerare dei capolavori: si può trovare qua e là qualche analisi superficiale, un po’ di retorica magari, e in un caso forse anche un po’ di narcisismo. Resta in ogni modo degna d’attenzione la prospettiva del film, una prospettiva che va alla ricerca di prospettive diverse, di sguardi diversi, che fanno esplodere la loro percezione dello stesso evento dai quattro angoli del mondo, angoli che rappresentano storia, cultura e tradizioni diverse. La volontà di pace, tra gli individui come tra i popoli, inizia proprio da qui: dalla capacità di guardare con gli occhi dell’altro, dalla volontà di confrontare il nostro punto di vista, la “nostra verità”, con i suoi.
In questa collana di cortometraggi spiccano però alcune perle.
Idrissa Ouedraogo, con l’ironia, la fantasia e i colori dell’Africa, ci fa sorridere, seppure con un po’ d’amarezza, con la vicenda di quattro ragazzini del Burkina Faso alle prese con appostamenti e riprese di Bin Laden, che camminerebbe indisturbato nelle strade del loro villaggio, con la speranza di incassare la taglia che pende sulla sua testa e di risolvere così i loro problemi.
Ken Loach ci riporta ad un altro 11 settembre, quello del 1973, anche allora un martedì, e attraverso la musica di un esule cileno a Londra, attraverso la lettera struggente che egli scrive alle famiglie delle vittime delle Torri, ci fa rivivere il golpe militare che ha abbattuto il Governo di Unidad Popular, ucciso Salvador Allende e instaurato la feroce dittatura militare del generale Augusto Pinochet, grazie al sostegno statunitense. Allora il denaro “made in USA” era servito contro i “nemici della libertà”, ovvero i “comunisti”, ora contro altri “nemici della libertà”, i “terrosti- musulmani”.
L’ultimo quadro è affidato al giapponese Shohei Imamura: nessun riferimento apparente alla tragedia di New York, ma la storia di un uomo tornato “pazzo” dalla guerra: si crede un serpente e vive come tale, strisciando, mordendo e mangiando topi, tra la disperazione e il disorientamento dei parenti che non lo comprendono…non comprendono l’orrore di chi ha vissuto la guerra e ne è sopravvissuto solo fisicamente, tanto che gli è insopportabile ormai il disgusto di appartenere al genere umano.
E’ di Imamura anche l’epigrafe finale: “Le guerre sante non esistono”. Una lapide per molte tombe, a diverse latitudini e longitudini.
MUSICA
A cura di Paolo Predieri
La ballata del secolo breve
Incontro con Giovanna Marini
Tra un brano e l’altro intrattiene il pubblico con pochi accordi di chitarra e intanto racconta con quelle sue vocali allungate, anche nel parlato, e ogni parola sembra provenire da molto lontano.
Come da sempre, al centro ci sono le facce, le idee, la vita che si affastella, personale e sociale. Una svolta che non c’è stata, una lotta partecipata che adesso sembra perduta. “Sono andata a cantare in un ospedale psichiatrico e tutti questi mi dicevano: Giovanna, ti ricordi quel giorno, alla manifestazione? E io: eh, mi ricordo, mi ricordo…”. Scherza la Marini con il proprio personaggio divenuto simbolo della canzone politica, ride del giorno in cui un malcapitato studentello busserà alla sua porta impugnando un registratore, a chiederle, ignaro, se ricorda un brano di musica popolare. “E io canto, canto, caanto…”. Ma Giovanna Marini non è solo un frammento della nostra storia, è ancora qui nonostante gli anni e i nipoti, a far vibrare la libertà del pensiero e dell’arte.
Sembra che in questa grande ubriacatura di media ci sia proprio bisogno di recuperare…
“…eh, c’è da recuperare la nostra identità culturale perché ce la siamo persa completamente, secondo me almeno, e l’unico sistema è quello di riandare indietro con la memoria. Attraverso però la storia orale, più che la storia scritta, perché la storia orale colpisce la fantasia: le emozioni, le immagini uno se le ricorda, la storia scritta invece purtroppo diventa anonima.
Il canto di tradizione orale, tutto è fuorché anonimo. Chi canta firma il suo canto, è irripetibile. Quando io sento certi vecchi cantare so che, morto quel vecchio, non sarà più così. Sarà in un altro modo; e un giorno non sarà più nemmeno in quell’altro modo, perché tutti sono degli straordinari solisti, degli straordinari personaggi portatori della loro memoria.
La vita oggi è indifendibile, non vale più niente. È per quello che ci ammazziamo continuamente. Come la difendi, la vita, che non contiene più niente? Una persona non è preziosa, che tu dici: io la guardo e mi ricordo tutto; no, la guardo ed è uguale a tutti gli altri. E allora io perdo interesse per la vita. Per questo è fondamentale ricominciare il recupero della memoria orale”.
E invece la ricerca musicale…?
“Non è “invece”, è “quindi”. Quindi, la ricerca musicale; perché poi la musica ha una particolarità straordinaria, che racconta se stessa. Con un canto di cantastorie si può andare all’indietro fino a Monteverdi, fino al 1500, e anche prima. Noi abbiamo cantato un lamento albanese che è tutt’ora cantato, fa parte della liturgia di Piana degli Albanesi. Quel brano ha duemila anni, anche di più, e si sente. Il pubblico, la gente, anche incolta, lo sente benissimo il valore un brano. Poi si incide, diventa anche lui unico e irripetibile, ma sai che verrà sempre cantato attraverso i tempi perché è rituale, è legato ad una funzione, e questo fa sperare”.
In un pezzo della “Ballata del secolo breve” dici all’incirca che “la guerra non giustifica tutto”. Credi che ancora oggi le canzoni possano essere veicolo di una cultura di pace?
“La musica è sempre servita da veicolo. Quella frase, “credete che la guerra giustifichi tutto”, mi è venuta perché il mio nipotino un giorno mi diceva: “Pagano a quella gente” – non ricordo quale gente, che era morta – “un miliardo a persona. Insomma”, ha detto lui, “è una bella cosa”.
Io gli ho detto: “Andrea, ma ti rendi conto?, quelli sono morti”. E lui: “E va bèh, ma un miliardo è un miliardo”. Allora ho capito che nella sua mente era già passato il concetto consumistico per cui i soldi giustificano tutto. Ma non è vero niente, i soldi servono per acquistare, non per giustificare, capisci? Dare un valore morale ai soldi diventa assolutamente anti-etico. Lo trovi nei ragazzini che lo vedono alla televisione, questa grande diseducatrice.
Adesso noi ci rendiamo conto di essere stati veramente manipolati dalla televisione, perché gente intelligente come questi berlusconiani ne hanno capito il valore e l’hanno saputa usare per preparare l’Italia a dare un voto. È stato tutto giustificato, per loro, quello che hanno avuto e quello che hanno fatto. E i voti li hanno avuti e continueranno ad averli, se noi di sinistra continuiamo su questa strada, perché non abbiamo armi culturali per controbattere, loro ce le hanno tolte e noi ce le siamo lasciate scippare.
Il discorso si fa ancora più complicato perché non vedo davanti a me un cambiamento di panorama. Mi sembra non ci sia più gente che potrebbe parlare al di fuori di questa logica. Semplicemente, quando era il momento, quelli che potevano non l’hanno fatto. Quando noi vediamo il ragazzino che va alla manifestazione con la radio all’orecchio per sentire la descrizione della manifestazione… Questo ci doveva insegnare qualcosa, e invece non abbiamo capito”.
Elena Buccoliero
STORIA
A cura di Sergio Albesano
La Legge sull’obiezione Bocciata in Italia promossa in Europa
Il 21 ottobre 1993 la dott.ssa Cristina Bellentani, pretore di Rovereto, condannò Massimo Passamani per renitenza alla leva. Nella sentenza il magistrato fece seguire alla condanna penale, comminata nella misura minima, alcune considerazioni al fine di supportare la concessione delle speciali attenuanti per motivi di particolare valore morale e sociale. Scriveva il pretore: “… la condotta di Massimo Passamani risponde a principi di rifiuto della violenza nei rapporti tra individui che nel presente momento storico sono indubbiamente condivisi da ampi schieramenti culturali e di opinione pubblica; la sua concezione ideologica tende sicuramente al miglioramento delle condizioni dell’uomo, auspicando l’imputato una recuperata libertà e dignità dell’individuo e un generalizzato benessere pure per quelle popolazioni che vivono nell’indigenza, anche mediante la destinazione dei fondi utilizzati per le spese militari al recupero di condizioni meno disumane di vita per il cosiddetto ‘Terzo Mondo'” (1).
Dal 7 al 9 gennaio 1994 si tenne a Venezia il XVII congresso del Movimento Nonviolento, al termine del quale fu approvata una mozione che affermava tra l’altro: “Il Movimento Nonviolento decide inoltre di impegnarsi in modo continuativo nella gestione diretta del servizio civile degli obiettori di coscienza, oltreché nella loro formazione, con particolare attenzione alle tematiche della nonviolenza, della disobbedienza civile, dell’educazione alla pace, della difesa popolare nonviolenta” (2).
Dopo due mesi di ristagno in commissione difesa del Senato, il testo di riforma venne assegnato il 13 gennaio 1994 all’aula di palazzo Madama, ma non cominciò neppure l’iter, poiché lo stesso giorno si dimise il presidente del consiglio Carlo Azeglio Ciampi e il capo dello Stato sciolse le Camere, indicendo nuove elezioni.
Vasta fu l’amarezza del fronte antimilitarista per la mancata approvazione in venti mesi di legislatura di una legge già pronta, mentre ad esempio l’acquisto di ventiquattro nuovi caccia Tornado era stato approvato senza problemi e in poche ore. Amarezza tanto più grande analizzando le scelte non delle gerarchie militari, che dal loro punto di vista continuavano a considerare l’obiezione quasi come una diserzione legalizzata, ma di quei parlamentari che avevano aderito alla campagna “Democrazia è partecipazione”. Con tale iniziativa alcuni candidati avevano stretto un patto con le associazioni antimilitariste, impegnandosi, in caso di elezione, a far approvare la legge di riforma dell’obiezione. (3).
Il 19 gennaio il Parlamento Europeo approvò una risoluzione sull’obiezione di coscienza al servizio militare, esprimendosi per la quarta volta favorevolmente sulla materia. Fu ribadito che l’obiezione è “un vero e proprio diritto soggettivo, riconosciuto dalla risoluzione 89/59 della Commissione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite e intimamente connesso all’esercizio delle libertà collettive”. Con questa presa di posizione il parlamento impegnò la commissione della Comunità Europea ad agire per armonizzare le legislazioni vigenti in materia dei Paesi aderenti, al fine di creare un servizio civile europeo anche al di fuori degli stessi Paesi della Comunità.
Nel mese di giugno “Azione nonviolenta” pubblicò copia della lettera inviata da Diego dall’Olmo al Presidente della Repubblica, per presentare il suo caso. dall’Olmo, dopo aver svolto il servizio militare, maturò una contrarietà profonda a qualsiasi esercito armato. Il suo problema dunque riguardava il fatto che in caso di conflitto armato sarebbe stato richiamato alle armi come soldato, mentre egli si dichiarava ora obiettore di coscienza. Il suo caso era teso a evidenziare la problematica di coloro che maturano una coscienza nonviolenta dopo aver regolarmente svolto il servizio militare. Per lo Stato e per l’esercito essi rimangono per tutta la vita soldati, richiamabili in caso di necessità. dall’Olmo faceva però giustamente notare che non è detto che a diciotto anni, cioè quando una persona era chiamata a scegliere tra la prestazione del servizio militare o di quello civile, abbia già maturato una visione della vita tendente alla nonviolenza; in molti casi una vera scelta nonviolenta è maturata dopo tanti anni di riflessione e di meditazione. Concludeva quindi la sua lettera chiedendo al Presidente come deve comportarsi una persona nelle sue condizioni per non essere arruolato in caso di conflitto armato. Il Segretariato generale della presidenza della Repubblica trasmise la richiesta al Comando del distretto militare di Vicenza affinché questo vi rispondesse direttamente, accompagnandola con il seguente messaggio: “Spiace dover comunicare al signor dall’Olmo che l’istanza suddetta non può trovare adeguato accoglimento in questa sede non potendosi disporre mediante un provvedimento d’autorità da parte del Capo dello Stato” (4).
(3 – continua)
LIBRI
A cura di Sergio Albesano
Laura Coppo, Terra gamberi contadini ed eroi, Emi 2002, pp. 222, 10 euro; con la collaborazione di Overseas e Centro Regis
Jagannathan si sveglia all’alba indiana nella spartanissima casa comune (ashram) dove vive. A Kuthur, costa del Tamil Nadu, India meridionale. Si solleva dalla branda, tasta gli spazi (non ci vede bene da tanto, per un’infezione contratta 30 anni fa in un carcere buio del Bihar) e apre il suo portatile. E’ un arcolaio! Lo porta ovunque in una 24 ore di legno, per il quotidiano e gandhiano lavoro manuale di filatura. Fila meditando, medita filando per un’ora almeno, finché sotto le sue mani il fuso non ha raccolto una massa color avorio, il filo khadi; un telaio manuale, poi, ne ricaverà la pezza di tessuto sottile, da sempre l’abito di quest’uomo. Krishnammal si sveglia prima dell’alba. Nel buio che si schiarisce medita davanti a una lampada. Riappare accoccolata in cucina a preparare la colazione vegetariana: dischi di farina di riso, verdure cotte, the di erbe e zenzero. Intanto il nipote di nome Gandhi legge i giornali a Jagannathan, che li commenta in tamil, spesso amareggiato, ma talvolta con una risata larga da ragazzo. Ed eccoli pronti, lui e lei, al lavoro quotidiano.
Sono social workers: lavoratori sociali, volontari sul serio perché da nessuno pagati; ma trovano sempre un aiuto per il cibo e le spese, e anche per i progetti sociali. Vivono così dai tempi del mahatma Gandhi. Da allora, dal `40? Sì: Jagannathnan ha 88 anni, Krishnammal 75.
Laura Coppo, torinese, ha registrato i loro racconti e li ha tradotti in un libro.
L’ultima battaglia è quella contro l’acquacoltura industriale, le multinazionali e i capitalisti locali che hanno acquistato terre fertili sulla costa indiana per farne vasche da gamberetti, scopo export. Una tragedia socioambientale. Distrutte le foreste di mangrovie, salinizzati e distrutti i terreni circostanti, ridotti alla fame i braccianti perché, mentre nei campi di riso si trova lavoro, nelle prawn farms ce n’è molto meno. Jagannathan è riuscito a portare il caso alla Corte Suprema a New Delhi, grazie a un avvocato ambientalista, M. C. Mehta, famoso come guerriero verde, che l’ha assistito con gratuità e competenza assolute, tanto che nel dicembre 1996 la Corte ha ordinato la chiusura rapida di tutte le industrie di gamberetti. Purtroppo sono forti le connivenze fra politici, uomini d’affari, funzionari e perfino rappresentanti dei villaggi. Così, nel 2002, Jagannathan e la gente che ha perso la terra continuano a lottare contro queste (inconsapevoli) cavallette ambientali.
Marinella Correggia
Riceviamo
Gordon Zahn, Franz Jaegerstaetter, Editoria Universitaria, Venezia 2002, pp.202.
XX° Anniversario Istituto Lama Tzong Khapa, Il Pensiero, L’Amore, L’Azione del Buddha, Fondazione per la Preservazione della Tradizione Mahayana – Italia, Pomaia 1996, pp.34.
AA.VV., La caduta degli dei, Editoriale Eco, Roma 2002, pp.98.
In questa notte fonda. Meditazione sul Vangelo dei pellegrini di Emmaus, Chiesa della Resurrezione – Comunità Nazareth – Il Pitturello – Torre de’ Roveri – Bergamo – Italia, pp.16.
Luigi Cortesi, La cultura storica e la sfida dei rischi globali, Giano. Pace ambiente problemi globali, supplemento al n.40 (gennaio-aprile 2002), pp.50.
Davide Melodia, Introduzione al cattolicesimo pacifista, Casa Editrice Costruttori di Pace, Luino (VA) 2002, pp.82.
Paolo Aite, Paesaggi della Psiche, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp.266.
Jon Wiener, Dimmi la verità. Il watergate del rock’n’roll. Il dossier dell’FBI su John Lennon, Selene Edizioni, Milano 2002, pp.330.
AA.VV., Mario Operti. Antologia, Itinerari n.2 (Aprile-Giugno 2002), Coop. Solidarietà a r.l. Edizioni Solidarietà, Rimini 2002, pp.194.
Laura Coppo, Terra Gamberi Contadini ed Eroi, EMI, Bologna 2002, pp.226.
Heinrich Boll Foundation, The Jo’burg Memo, EMI, Bologna 2002, pp.130.
Associazione Pace e dintorni, Violenza. Zero in condotta, Edizioni la meridiana, Bari 2002, pp.186.
Alberto L’Abate (Dispense del corso su), Sociologia dei conflitti e ricerca per la pace, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Scienze della Formazione – Facoltà di Scienze Politiche – Corso Interfacoltà in “Operatori per la Pace”, anno Accademico 2001/2002, pp.142.
AA.VV., Parole e colori di pace. L’idea di pace scritta e disegnata, 40° Istituto Comprensivo Statale “Domenico Cimarosa”, Napoli 2002, pp.34.
Dossier XIV legislatura, Attività della deputata Tiziana Valpiana, dal 26/05/2001 al 31/12/2001, pp.320.
Livio Consigli (tesi di laurea di), La renitenza alla leva, Università degli Studi di Urbino – Facoltà di Sociologia – corso di laurea in Sociologia, anno accademico 2001-2002, pp.344.
Luci nel mondo del Centro missionario diocesano – Verona, Facciamo la pace, VHS, colore, Emivideo e Audiovideo Messaggero, Padova 2002, 45 minuti.
LETTERE
Davanti alla morte non ci possono essere due pesi e due misure
L’11 settembre 2002 abbiamo assistito a infinite commemorazioni dei morti della strage di New York. Di per sé, la cosa è giusta. Commemorare i morti assassinati da qualche strage è sempre giusto. Purtroppo, però, ci sono molti modi per constatare che i morti di New York sono diventati l’oggetto di una strumentalizzazione politica di parte.
L’11 settembre non è solo l’anniversario della strage di New York. E’ anche, purtroppo, l’anniversario di una strage ben più vasta e feroce, che fu compiuta quasi trent’ani fa in Cile. L’11 settembre 1973 i militari dell’esercito cileno, al comando del generale Pinochet, attuarono un colpo di stato contro il governi popolare del Presidente Salvador Allende. I morti, all’immediato, furono quarantamila. Migliaia i desaparecidos, persone di cui si è persa ogni traccia, certamente morti anch’essi. Migliaia gli oppositori , o anche solo sospetti tali, ferocemente torturati nelle galere cilene. Decine di migliaia gli esuli. Una strage di dimensioni spaventose, organizzata e diretta con l’appoggio della CIA.
Pochissimi giornali la hanno ricordata. Di fronte al fatto che per la prima volta a memoria d’uomo la guerra si è presentata, con tutta la sua crudeltà, all’interno dei confini americani, tutto il resto sembra essere passato sullo sfondo. Dimenticato, rimosso.
Guadiamoci intorno. Non si condanna più la violenza. Si condanna la violenza contro gli USA. La violenza esercitata contro gli altri popoli non fa più notizia, non ha più valore. Siamo pienamente immersi nell’arte dell’usare due pesi e due misure, arte della propaganda bellica. Bisogna dimostrare che solo gli uomini “della nostra parte” hanno subito delle ingiustizie, delle violenze, dei torti, per alimentare il desiderio di vendetta, malamente mascherato da sedicente “giustizia”, e aprire le porte a nuove guerre, nuove stragi. I morti americani contano, forse conteranno i morti europei, se ce ne saranno. Gli altri non sono nulla. Al massimo, “effetti collaterali”, “spiacevoli incidenti”-.
E’ curioso il fatto che Stati Uniti ed Europa si autodefiniscano civiltà di tipo cristiano. E’ curioso, perché Gesù Cristo, nel suo insegnamento, ha indicato la necessità di curarsi dei propri errori e dei propri peccati, prima di andare a mettere il naso in quelli degli altri.
Forse, come Movimento Nonviolento,assieme alle altre forze pacifiste, dovremmo provare a fare di più per provocare una critica pubblica delle malefatte cui anche il nostro paese, disgraziatamente, aderisce: ad esempio contro l’adesione al blocco commerciale che provoca tante vittime, ancora, in Iraq. E’ difficile scontrarsi contro il muro do gomma dell’ipocrisia sempre più dilagante, eppure non dobbiamo perdere la speranza: moltissimi italiani non vogliono la guerra, ma a questi nessuno da voce. Cerchiamo il modo di far sentire queste voci.
Vincenzo Zamboni
Verona
P.S. Quest’anno insegno all’Istituto G. Giorgi. Appena possibile, farò un abbonamento ad Azione nonviolenta per la mia scuola. Non è molto, ma proviamo a pensare: se ogni iscritto al Movimento Nonviolento riuscisse a fare un abbonamento, oltre che per sé, anche nel proprio luogo di lavoro, ci sarebbero tante piccole occasione in più di riflessione, discussione, dialogo sulla pace. Non può essere un’idea?
E se facessimo nuove Olimpiadi per fermare la guerra?
Chissà se la partita indiano – pakistana si spingerà al sacrilegio di turbare il torneo di calcio coreano – giapponese, o viceversa. Football o barbarie.
Le Olimpiadi non volevano forse fermare le armi? Per restare nella mia pazzia, immaginerei che i signori del Comitato Olimpico volassero in Pakistan e in India a offrire a quei paesi di ospitare insieme una Olimpiade straordinaria, metà di qua metà di là, e magari in Kashmir
Già, ma allora, si violerebbe la scadenza regolare delle Olimpiadi, cioè l’ordine del mondo.
Adriano Sofri
Pisa