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Azione nonviolenta – Luglio 2001

DiFabio

Feb 5, 2001

Azione nonviolenta luglio 2001

– Da Goteborg a Genova, contro la violenza, di Susan George
– La globalizzazione è diventata una guerra contro la natura e contro i poveri, di Vandana Shiva
– Dov’è Porto Alegre? Dopo Seattle e prima di Genova, di Gigi Eusebi
– Kragujeva, Serbia: la resistenza nonviolenta che ha sconfitto Milosevic, di Angela e Beppe Marasso
– In Palestina devono entrare i Caschi Blu dell’ONU, di Alberto Trevisan

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Da Goteborg a Genova contro la violenza

di Susan George

ATTAC/Svezia ha ora tra i 4000 ed i 5000 membri; in proporzione alla popolazione svedese sono tanti quanti, o più che, in Francia dopo meno di un anno di esistenza ed è riconosciuto come un fenomeno politico significativo. ATTAC svedese lavorava da molti mesi alla preparazione del summit di Goteborg trattando con il governo e la polizia affinchè le manifestazioni si svolgessero pacificamente. Il Presidente del Consiglio di ATTAC, Hans Abramsson che occupa una cattedra universitaria di studi sulla pace e il conflitto, era al centro di questa preparazione e America Vera-Zavala ha incontrato il primo ministro Goran Persson (la foto di America con il suo chemisier bianco adorno del simbolo rosso di ATTAC a fianco di Persson era sulla prima pagina di “Metro”, il quotidiano del summit). Tutto questo è nella tradizione svedese della concertazione e del consenso e, secondo i membri di ATTAC, si era stabilita una reciproca fiducia.
Ahimè, tutti questi sforzi sono stati vanificati. I problemi sono cominciati giovedì pomeriggio. Il governo aveva aperto numerose scuole perchè i militanti vi potessero dormire; correva voce che ci fossero armi nascoste in una scuola, gli occupanti si sono rifiutati di uscire, la polizia ha fatto venire degli immensi container per bloccare tutti gli accessi alla scuola e tafferugli tra polizia e manifestanti si sono verificati in un parco attiguo dove la polizia era a cavallo, contrariamente alle promesse fatte durante le trattative. Malgrado tutto niente di molto grave è accaduto giovedì, anche se la tensione cominciava a crescere. Venerdì gli occupanti di “Globalisation from Below” “Ya Basta” e “Tute Bianche” sono stati evacuati. Venerdì ero personalmente nel villaggio alternativo dove si trovavano tende ospitanti diverse organizzazioni e tutti i forum, ma a meno di 500 metri da là gli scontri e le distruzioni erano cominciati. Sul grande viale, che i goteborghesi paragonano ai Champs-Elysées, non restava una sola vetrina intatta alla fine della sera. Duecento persone circa erano riuscite a farne precipitare nella zuffa un migliaio o più. I poliziotti, completamente sopraffatti e con le vetture distrutte, hanno sparato pallottole vere e una persona almeno è stata gravemente ferita all’addome e altre più lievemente. Gli svedesi non hanno mai visto violenze simili sul loro territorio e ne sono profondamente colpiti.
Io condanno in modo chiaro e netto queste violenze e ciò per più ragioni.

– Indipendentemente dalle posizioni filosofiche sull’argomento ed a prescindere dal fatto che i nostri colleghi svedesi sono stati piuttosto traumatizzati, le violenze fanno invariabilmente il gioco dell’avversario. Anche in caso di provocazioni e quando la polizia è responsabile nell’aprire le ostilità, come spesso avviene, ci si mette tutti nello stesso sacco. I media evidentemente non parlano che di questo. Le idee, le ragioni della nostra opposizione, le proposte vengono completamente nascoste.

– Lo Stato si definisce per il suo “monopolio della violenza legittima”. Chiunque pensi di poterlo affrontare e vincere su questo terreno non ha fatto molta strada nell’analisi politica. Chiunque pensi che rompere vetrine e picchiare poliziotti “minacci il capitalismo” non ha per niente un pensiero politico.

– Noi non possiamo costruire un movimento ampio e popolare sulla base di una cultura di giovani e persone che sono pronti a farsi spaccare la faccia. Tutte le persone che hanno paura dei lacrimogeni, della violenza – le persone della mia età, le famiglie con bambini, le persone meno in forma fisicamente – si asterranno e non verranno a nessuna nostra manifestazione.

– Questo non è democratico. Francamente ne ho abbastanza di questi gruppi che non ci sono mai per il lavoro preparatorio, che non fanno mai nulla nella politica quotidiana ma che arrivano nelle manifestazioni come fiori (“velenosi”) per distruggere, quali che siano gli accordi negoziati dagli altri. Per di più ciò tende a spezzare l’alleanza tra quelli che condannano queste violenze e quelli che le tollerano. – Si insultano quelli che rifiutano e condannano la violenza trattandoli da “riformisti”, ma l’opposizione “riforma-rivoluzione” non ha alcun senso nel contesto attuale e non è così, secondo me, che si pone il problema. Non è “rivoluzionario” dividere il movimento sociale e perdere alleati potenziali; non è “rivoluzionario” suscitare la simpatia per i nostri avversari nella grande maggioranza della popolazione; non è “rivoluzionario” opporsi a tutte le misure parziali (come la Tassa Tobin): è solo idiota e controproducente.

In una parola, ne ho abbastanza di questi teppisti e temo che se si continua a lasciarli fare finiranno per distruggere il movimento: la più bella speranza politica da trent’anni a questa parte.

 

La globalizzazione è diventata una guerra contro la natura e contro i poveri

di Vandana Shiva

Sono stata di recente a Bhatinda in Punjab per via di una epidemia di suicidi tra i contadini. Il Punjab è sempre stata tra le regioni agricole più fiorenti dell’India. Oggi i contadini sono indebitati e disperati. Ampie distese di territorio sono diventate desertiche. E, come fa notare un vecchio contadino, persino gli alberi hanno smesso di dare frutti perché l’eccessivo uso di insetticidi ha eliminato gli impollinatori – api e farfalle.
Il Punjab non è il solo ad aver sperimentato questo disastro ecologico e sociale. L’anno scorso sono stata a Warangal, nell’ Andhra Pradesh, dove altri contadini si sono suicidati. Agricoltori che coltivavano tradizionalmente legumi e miglio e riso sono stati convinti dalle società venditrici di sementi a comprare semi ibridi di cotone proposti come “oro bianco”, che avrebbero dovuto renderli milionari. Invece sono diventati poveri.
I semi indigeni sono stati soppiantati dai nuovi ibridi che non possono essere riprodotti e devono essere acquistati ogni anno a costi elevati. Gli ibridi sono anche molto vulnerabili agli attacchi degli insetti nocivi. A Warangal la spesa per gli insetticidi è cresciuta del 2000% passando da 2,5 milioni di dollari nel 1980 a 50 milioni di dollari nel 1997. Adesso i contadini usano gli stessi insetticidi per uccidere se stessi così da poter sfuggire per sempre da enormi debiti.
Le industrie stanno ora cercando di introdurre semi geneticamente modificati, che aumenteranno ulteriormente i costi e i rischi ecologici. Ecco perché dei contadini, come Malla Reddy della Andhra Pradesh Farmers’ Union, hanno sradicato in Warangal il cotone Bollgard geneticamente modificato della Monsanto.
Il 27 marzo, il venticinquenne Betavati Ratan si è tolto la vita perché non poteva restituire un debito contratto per far trivellare un pozzo profondo nella sua azienda di due acri. I pozzi sono adesso asciutti, come lo sono in Gujarat e Rajasthan dove oltre 50 milioni di persone fronteggiano una grave penuria di acqua.
La siccità non è una “calamità naturale”. E’ provocata dall’uomo. E’ il risultato dell’estrazione dell’acqua in terreni già scarsi in regioni aride per coltivare prodotti da esportazione pagati in contanti, che richiedono molta acqua, invece di prodotti meno esigenti in acqua che sarebbero in grado di soddisfare i bisogni locali.
Sono queste esperienze che mi hanno fatto riflettere sul fatto che siamo in errore ad essere accomodanti nei confronti della nuova economia globale. E’ ora di fermarsi e riflettere sull’impatto della globalizzazione nella vita della gente comune. E’ essenziale se vogliamo mantenere la capacità di sopravvivere.
Le dimostrazioni a Seattle e le proteste contro l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) dell’anno scorso obbligano tutti noi a rifletterci ancora. Per quanto mi riguarda è tempo adesso di ripensare radicalmente ciò che stiamo facendo. Quello che stiamo facendo verso i poveri in nome della globalizzazione è crudele ed imperdonabile. In particolare questo è evidente in India dove assistiamo a disastri in pieno svolgimento provocati dalla globalizzazione soprattutto nei cibi e in agricoltura.

Chi sfama il mondo? La mia risposta è molto diversa da quella data dalla maggioranza della gente.
Ci sono donne e piccoli contadini che lavorano con la biodiversità, che sono i principali fornitori di cibo nel Terzo Mondo e, contrariamente all’opinione dominante, la loro biodiversità basata sul sistema di piccole aziende è molto più produttiva delle monocolture industriali.
La ricca varietà e l’organizzazione sostenibile della produzione di cibo sono stati distrutti in nome dell’incremento produttivo di cibo. Peraltro, con la distruzione della diversità, fertili risorse dell’alimentazione sono andate perdute. Quando vengono valutate in termini di prodotto per acro, e dalla prospettiva della biodiversità, le così dette “ottime rese” dell’agricoltura industriale non implicano maggior produzione di cibo e alimentazione.
La resa in genere si riferisce alla produzione per area unitaria di un’unica coltura. La quantità prodotta si riferisce invece alla produzione totale di diversi raccolti e prodotti. Seminare solo una coltura su tutta la superficie quale monocoltura incrementerà, naturalmente, la sua resa individuale. Seminare più colture mescolate porta ad avere una bassa resa della singola coltura, ma una grande quantità totale di cibo prodotto. Misurando il raccolto solo con il criterio della resa – e non calcolando l’effettiva quantità prodotta – si fa scomparire la produzione dei delle piccole aziende, dei singoli contadini.
Tutto questo nasconde la produzione di milioni di donne contadine nel Terzo Mondo – contadine come quelle del mio nativo Himalaya che combatterono contro il taglio di alberi nel movimento Chipko, che nei loro campi terrazzati coltivano diverse varietà di miglio, di legumi (piselli, soia, lenticchie), di riso. Vista con la prospettiva della biodiversità, la produttività basata sulla biodiversità è superiore alla produttività della monocoltura. Questa cecità nei confronti della diversità si può definire come una “Monocoltura della mente”, che a sua volta crea la monocoltura nei nostri campi.
I contadini Maya nel Chiapas sono definiti non produttivi perché producono solo due tonnellate di grano per acro. Peraltro, la quantità totale di cibo prodotto è di venti tonnellate per acro quando la diversità dei loro piselli e zucche, delle loro verdure e dei loro alberi da frutta è valutata nel conteggio. A Java, piccoli contadini coltivano 607 specie nel loro giardino di casa. Nell’Africa sub-sahariana, ci sono donne che coltivano quasi 120 piante diverse nello spazio lasciato a lato delle colture da reddito, e questa è la principale risorsa di garanzia del cibo domestico. Un solo giardino casalingo in Thailandia ha più di 230 specie, e i giardini delle case africane ospitano più di sessanta specie di alberi.
Uno studio fatto nell’est della Nigeria ha messo in evidenza che i giardini delle case – che occupano solo il 2% di superficie dell’ azienda familiare – rendono la metà del raccolto totale. Nello stesso modo, si valuta che gli orti familiari in Indonesia provvedano a più del 20% delle entrate domestiche e forniscano il 40% del cibo familiare.
Ricerche fatte dalla FAO dimostrano che aziende che coltivano una varietà di specie possono produrre migliaia di volte più cibo di vaste monocolture industriali.
La diversità è anche la strategia migliore per prevenire siccità e desertificazione.
Ciò che è necessario al mondo per nutrire in modo sostenibile una popolazione crescente è l’incremento della biodiversità, non l’aumento della chimica o l’ingegneria genetica. Mentre donne e piccoli contadini cibano il mondo con la biodiversità, noi continuiamo a ripeterci che senza ingegneria genetica e globalizzazione dell’agricoltura il mondo si ridurrà alla fame. A dispetto dell’evidenza empirica che ci mostra che l’ingegneria genetica non produce più cibo – anzi – spesso porta all’abbandono dei campi, questa è continuamente proposta quale unica alternativa valida per cibare gli affamati.

Questo è il motivo per il quale io mi chiedo: chi sfama il mondo?
Questa deliberata cecità nei confronti della biodiversità, cecità verso i prodotti della natura, prodotti dalle donne, prodotti dai contadini del Terzo mondo, permette la distruzione e l’appropriazione della programmazione della creazione.
Prendiamo il caso del tanto decantato “golden rice” il riso geneticamente modificato nel combattere la deficienza di vitamina A quale cura per la cecità. E’ dato per scontato che senza ingegneria genetica non possiamo eliminare la carenza di vitamina A. Peraltro, la natura ci offre abbondanti e diverse risorse di vitamina A. Se non venisse lavorato, il riso stesso sarebbe una fonte di vitamina A. Se gli erbicidi non fossero sparsi sui nostri campi di grano, noi potremmo raccogliere bathua, amaranto, foglie di senape: verdure squisite e nutrienti, ricche di questa vitamina.
Le donne in Bengala utilizzano come verdura più di 150 piante. Ma il mito della creazione indica i biotecnologi quali creatori della vitamina A, negando i diversi doni di natura e la conoscenza delle donne su come utilizzare questa diversità per nutrire i propri figli e la famiglia.
Il mezzo più efficace per attuare la distruzione della natura, delle economie locali e dei piccoli produttori autonomi è rendere le loro produzioni invisibili. Le donne che producono per la loro famiglia e per la comunità sono considerate come “non-produttive” e “economicamente inattive”. La svalutazione del lavoro delle donne, e del lavoro fatto in economie sostenibili, è l’ovvio risultato di un sistema costruito da un capitalismo patriarcale. Questo è il motivo per cui la globalizzazione distrugge le economie locali e la distruzione stessa è ritenuta una crescita.
E le donne stesse sono sminuite, perché molte di esse nelle comunità rurali e indigene con il loro lavoro cooperano con i processi della natura, trovandosi spesso in contraddizione con il dominante “sviluppo” indirizzato dal mercato e dai traffici politici: il lavoro che soddisfa i bisogni e assicura sussistenza è svalutato in generale. Ci sono meno supporti alla vita e sistemi per garantire la sopravvivenza.
La svalutazione e l’invisibilità delle produzioni sostenibili e in grado di riprodursi è più palese nel settore alimentare. Mentre la divisione patriarcale del lavoro aveva assegnato alle donne il ruolo di provvedere al cibo per le proprie famiglie e comunità, l’economia patriarcale e la visione scientifica e tecnologica fanno scomparire magicamente il lavoro delle donne per la produzione di cibo. “Nutrire il mondo” si distacca dalle donne che a tutti gli effetti lo fanno, e viene associato al commercio agricolo globale e dalle ditte biotecnologiche.
L’industrializzazione e l’ingegneria genetica del cibo e la globalizzazione dei commerci in agricoltura sono ricette per creare affamati, non per nutrire i poveri. Dappertutto, la produzione di cibo diventa un’economia negativa, con i contadini che spendono più per acquistare i mezzi per produzioni industriali di quanto incassano per i loro prodotti. Le conseguenze sono debiti in crescita ed epidemie di suicidi sia nei paesi ricchi che in quelli poveri.

La globalizzazione economica ci sta portando a una concentrazione di aziende sementiere, a un incremento nell’utilizzo dei fitofarmaci, e, in ultimo, a un aumento del debito. Capitale concentrato e agricoltura controllata dalle industrie si stanno diffondendo in paesi dove i contadini sono poveri ma, finora, sono stati autosufficienti per il cibo. In paesi dove l’agricoltura industriale è stata introdotta attraverso la globalizzazione, i costi più alti hanno reso praticamente impossibile sopravvivere ai piccoli agricoltori.
La globalizzazione dell’agricoltura industriale non sostenibile sta dissolvendo le entrate dei contadini del Terzo Mondo attraverso la combinazione di svalutazione della moneta, aumento dei costi di produzione e crollo dei prezzi delle merci.
I contadini dovunque sono pagati una frazione di quanto hanno ricevuto per la stessa merce un decennio fa. Negli USA, il prezzo del grano è crollato da 5,75 a 2,43 $, il prezzo della soia è sceso da 8,40 a 4,29 $, e il prezzo del mais è passato da 4,43 a 1,72 $ per staio [uno staio equivale a circa 7 quintali, n.d.T.]. In India, dal 1999 al 2000, i prezzi del caffè sono crollati da 60 a 18 Rupie al Kg. e i prezzi dei semi oleosi sono scesi di oltre il 30%.
Quest’anno la canadese National Farmers’ Union lo ha così puntualizzato in un rapporto al Senato:
“Mentre gli agricoltori che coltivano cereali – grano, orzo, mais – hanno un reddito negativo e sono spinti a chiudere per bancarotta, le industrie che fanno cereali per la colazione raggiungono enormi profitti. Nel 1998, le ditte di cereali Kellogg’s, Quaker Oats e General Mills hanno goduto di un aumento del tasso di rendimento rispettivamente del 56%, 165% e 222%. Mentre uno staio di mais era venduto a meno di 4 dollari, uno staio di corn flakes era commercializzato a 133 dollari. Nel 1998, le industrie di cereali incassavano utili da 186 a 740 volte più delle aziende agricole. Può darsi che i contadini stiano facendo troppo poco in quanto gli altri stanno ottenendo troppo”.
E un rapporto della Banca Mondiale ha riconosciuto che “dietro alla polarizzazione dei prezzi al consumo e dei prezzi mondiali c’è la presenza di grandi aziende commerciali nei mercati internazionali delle merci”.
Mentre i contadini guadagnano di meno, i consumatori, soprattutto nei paesi poveri, spendono di più. In India i prezzi per il cibo sono raddoppiati tra il 1999 e il 2000, e il consumo di cereali come cibo è crollato del 12% nelle zone rurali, accrescendo la privazione di cibo per coloro che già erano malnutriti, accrescendo il tasso di mortalità. L’aumento della crescita economica attraverso il commercio globale è basato su false eccedenze. E’ commercializzato più cibo mentre i poveri stanno consumando di meno. Mentre la crescita aumenta la povertà, quando le produzioni reali diventano un’economia negativa, e gli speculatori sono definiti “creatori di ricchezza”, qualcosa non ha funzionato tra i concetti e le categorie di ricchezza e la creazione di ricchezza. Portare la reale produzione della natura e della gente all’economia negativa implica che la produzione di beni reali e servizi è in declino, e si crea una maggior povertà per i milioni di persone che non fanno parte del percorso verso la creazione immediata di ricchezza.

Le donne – come ho detto – sono i principali produttori di nutrimento e elaboratrici di cibo nel mondo. Comunque, il loro lavoro nella produzione e nella elaborazione adesso è diventato invisibile.
In accordo con la società McKinsey, “i giganti del cibo americano riconoscono che il commercio agricolo indiano ha poche possibilità di crescita, soprattutto nella lavorazione degli alimenti. L’India lavora un minuscolo 1% del cibo che coltiva rispetto al 70% degli USA, Brasile e Filippine”. Non è che noi indiani mangiamo il nostro cibo grezzo. I consulenti globali dimenticano di rilevare il 99% dell’elaborazione di cibo effettuata dalle donne a livello casalingo, o da piccole industrie artigianali, perchè non controllati dal commercio agricolo globale. Il 99% dell’elaborazione dei prodotti agricoli è stata intenzionalmente mantenuta ad un livello familiare. Ora, sotto la pressione della globalizzazione, le cose stanno cambiando. Fasulle leggi sull’igiene, che smantellano l’economia del cibo basata su processi di lavorazione locali su piccola scala sotto il controllo della comunità, sono parte dell’arsenale del commercio agricolo globale per instaurare il mercato dei monopoli attraverso la forza e la coercizione, non la competizione.
Nell’agosto del 1998, la lavorazione su piccola scala di olio commestibile è stata messa al bando in India attraverso una “legge di inscatolamento” che ha messo fuori legge la vendita di olio sfuso e impone che l’olio sia confezionato nella plastica o nell’alluminio. Questo ha obbligato alla chiusura piccolissimi “ghanis” o mulini. Ha smantellato il mercato dei nostri vari semi da olio – senape, lino, sesamo, arachidi e cocco.
L’impadronirsi dell’olio commestibile da parte dell’industria ha danneggiato 10 milioni di esistenze. La recenti decisioni che impongono che la farina venga venduta impacchettata da parte di marchi di fabbrica costerà 100 milioni di vite. Tutti questi milioni di persone saranno spinti verso la nuova povertà.
L’obbligo del confezionamento aumenterà il carico sull’ambiente di milioni di tonnellate di plastica e alluminio. La globalizzazione del sistema del cibo sta distruggendo la diversità delle culture dei cibi locali e le locali economie del cibo. Una monocoltura globale sta forzando la gente a pensare che tutto ciò che è fresco, locale, fatto a mano è un rischio per la salute. Le mani umane sono state definite il peggior contaminante, e il lavoro per le mani dell’uomo sta diventando fuorilegge, per essere rimpiazzato dalle macchine e dalla chimica acquistati dalle industrie globali. Questi non sono concepiti per sfamare il mondo, ma per rubare sostentamento ai poveri, per creare mercati per i potenti. Le persone sono considerate parassiti, da essere falcidiati per la “salute” dell’economia globale. Nel processo nuovi rischi ecologici e sanitari sono stati imposti alla gente del Terzo Mondo buttando su di loro – come pattumiera – cibi geneticamente modificati e altri prodotti rischiosi.
Recentemente, a causa di una decisione del WTO, l’India è stata obbligata ad abolire le restrizioni a qualsiasi importazione. Tra i prodotti ammessi all’importazione ci sono carcasse e parti di animali di scarto che sono una minaccia per la nostra cultura e portano rischi per la salute pubblica, come la malattia della mucca pazza.
Il Center for Desease and Prevention (CDS) di Atlanta negli USA ha calcolato che si verificano quasi 81 milioni di casi all’anno di malattie causate dal cibo. I morti causati da intossicazioni alimentari sono più che quadruplicati a causa della liberalizzazione degli scambi, passando da 2000 nel 1984 a 9000 nel 1994. Molte di queste infezioni sono state causate da carne allevata in aziende agricole-industriali. Negli USA ogni anno vengono macellati 93 milioni di maiali, 37 milioni di bovini adulti, 2 milioni di vitelli, 6 milioni di cavalli, capre e pecore e 8 miliardi di polli e tacchini. Adesso i giganti dell’industria della carne degli USA vogliono usare l’India come discarica per la carne contaminata prodotta con metodi violenti e crudeli.
Lo scarto dei ricchi è smaltito a spese dei poveri. La ricchezza dei poveri è sottratta con violenza attraverso nuovi e astuti mezzi quali il brevetto della biodiversità e la conoscenza indigena.

Si suppone che i brevetti e i diritti sulla proprietà intellettuale vengano rilasciati per nuove invenzioni. In realtà, invece, sono stati richiesti brevetti per varietà di riso come il basmati per il quale la Doon Valley – dove sono nata – è famoso, oppure per insetticidi derivati dal neem [un albero molto diffuso in tutta l’India, di cui tradizionalmente vengono utilizzate foglie, frutti, linfa per le proprietà insetticide e disinfettanti, n.d.T] che le nostre madri e le nostre nonne hanno sempre usato. La Rice Tec, una industria di origine USA, ha ottenuto il brevetto n° 5.663.484 per delle varietà di riso basmati e dei frumenti.
Il basmati, il neem, il pepe, le zucche amare, la curcuma … tutti gli aspetti di novità espressi dal nostro cibo indigeno e dal nostro apparato medico sono ora derubati e brevettati. La conoscenza dei poveri è trasformata in proprietà delle grandi industrie globali, e si arriva al punto in cui i poveri dovranno pagare per semi e medicine che essi stessi hanno elaborato e hanno utilizzato per sopperire alle loro necessità di cibo e cure mediche.
Tali falsi proclami di creazioni sono adesso la regola globale, con il Trade Related Intellectual Property Rights Agreement del WTO che obbliga i Paesi ad introdurre regimi che concedano brevetti per forme di vita e conoscenze indigene.
Invece di riconoscere che i vantaggi commerciali sono costruiti dalla natura e dal contributo di altre culture, la legge globale ha custodito gelosamente il mito patriarcale della creazione per inventare nuove proprietà sul diritto alle forme della vita proprio come il colonialismo utilizzava il mito della scoperta quale motivazione dell’assorbimento delle terre di altri come colonie.
Gli esseri umani non creano la vita quando la manipolano. La rivendicazione del Rice Tec di aver fatto “un’invenzione repentina di una nuova varietà di riso”, o la notizia del Roslin Institute che Ian Wilmut “ha creato” Dolly rinnega la creatività della natura, la capacità di auto-organizzazione delle forme di vita, e le precedenti innovazione delle genti del Terzo Mondo.
I brevetti e la proprietà intellettuale sono preposti alla prevenzione della pirateria. Invece stanno diventando gli strumenti di rapina delle conoscenze tradizionali comuni del Terzo Mondo e le fanno diventare “proprietà” esclusiva di aziende e scienziati dell’Ovest.
Quando i brevetti sono concessi per semi e piante, come nel caso del basmati, il furto è definito creazione, e mettere in serbo e spartire i semi è definito furto della proprietà intellettuale. Ditte che hanno brevetti completi di raccolti quali cotone, soia e senape perseguono i contadini che serbano i seme e assumono agenzie di investigatori per scoprire dove gli agricoltori hanno messo il seme o se li hanno condivisi con i vicini.
Il recente annuncio che la Monsanto ha messo a disposizione gratis il genoma del riso è ingannevole: la Monsanto non ha preso l’impegno di bloccare la richiesta di brevetti delle varietà di riso o di altre colture.
La condivisione e lo scambio, le basi della nostra umanità e della nostra sopravvivenza ecologica, sono state ribattezzate come un crimine. Questo rende tutti noi più poveri.
La natura ci ha dato l’abbondanza. La conoscenza delle donne indigene in biodiversità, agricoltura e alimentazione ha basato su questa ricchezza la creazione di tanto dal poco, di crescita attraverso la condivisione. I poveri sono spinti verso una maggior povertà dal fatto che devono pagare per ciò che erano le loro risorse e la loro conoscenza. Anche i ricchi sono più poveri poiché i loro profitti sono basati sul furto e sull’uso della coercizione e della violenza. Questa non è creazione di ricchezza ma saccheggio.
La sostenibilità richiede la protezione di tutte le specie e di tutte le genti e il riconoscimento che specie differenti e genti differenti giocano un ruolo essenziale nel mantenimento degli ecosistemi e dei processi ecologici. Gli impollinatori sono fondamentali per la fertilità e lo sviluppo delle piante. La biodiversità nei campi fornisce ortaggi, mangime, medicine e protezione al suolo dall’acqua e dell’erosione eolica.
Tanto più l’umanità continua sulla strada della non sostenibilità, quanto più diventa intollerante verso le altre specie e cieca verso il loro ruolo fondamentale per la nostra sopravvivenza.
Nel 1992, quando i contadini indiani distrussero le piante da seme della Cargill in Bellary, Karnataka, per protesta contro la mancanza di semi, il direttore generale della Cargill affermò :”Noi forniamo i contadini di tecnologie intelligenti che impediscono alle api di appropriarsi del polline”. Quando partecipai alla Biosafety Negotiations delle Nazioni Unite, la Monsanto faceva girare delle pubblicazioni per difendere i suoi raccolti resistenti all’erbicida Roundup in cui c’era scritto che impediscono “alle malerbe di rubare la luce del sole”. Però ciò che la Monsanto chiama malerbe sono i campi verdi che procurano la vitamina A al riso e prevengono la cecità nei bambini e l’anemia nelle donne.
Una visione del mondo che definisce l’impollinazione come “furto delle api” e asserisce che la biodiversità “ruba” la luce del sole è una visione del mondo che mira essa stessa a rapinare i raccolti della natura sostituendo varietà impollinate e aperte con ibridi e semi sterili, e a distruggere la biodiversità della flora con erbicidi quali il Roundup della Monsanto. La minaccia rivolta alla farfalla Monarca dalle colture modificate geneticamente è solo uno degli esempi della povertà ecologica creata dalle nuove biotecnologie. Quando farfalle e api scompaiono, la produzione è compromessa. Come sparisce la biodiversità, con lei se ne vanno le fonti di nutrimento e di cibo.
Quando le più grandi industrie vedono i piccoli contadini e le api come ladri, e attraverso lo sviluppo dei commerci e le nuove tecnologie cercano la ragione per eliminarli, l’umanità ha raggiunto una soglia pericolosa. L’imperativo di eliminare gli insetti più piccoli, le piante più piccole, i contadini più piccoli arriva da una profonda paura – la paura di tutto ciò che è vivente e libero. E questa profonda insicurezza e timore portano a esprimere violenza contro tutta la gente e tutte le specie.
L’economia del libero commercio globale è diventata una minaccia alla sostenibilità. La sopravvivenza dei poveri e delle altre specie è in gioco non solo come effetto collaterale o come un’eccezione ma in modo sistematico attraverso una riorganizzazione della nostra visione del mondo al più basilare livello. La sostenibilità, la condivisione e la sopravvivenza sono economicamente banditi in nome della competitività e dell’efficienza del mercato.
Abbiamo urgente bisogno di riportare alla ribalta il pianeta e la gente. Il mondo può essere nutrito solo nutrendo tutti gli esseri che costituiscono il mondo.
Nel dare cibo agli altri e alle altre specie manteniamo le condizioni di garanzia della nostra stessa alimentazione. Cibando i lombrichi cibiamo noi stessi. Nutrire le vacche è nutrire il terreno: procurando cibo al suolo provvediamo alla nutrizione per gli esseri umani. Questa visione del mondo di ricchezza si fonda sulla condivisione e sulla profonda consapevolezza degli esseri umani quali membri della famiglia della terra. Questa consapevolezza che depauperando gli altri esseri, impoveriamo noi stessi e nutrendo gli altri viventi, nutriamo noi stessi è la base della sostenibilità.
La sfida per la sostenibilità nel nuovo millennio è se l’uomo globale economico è in grado di abbandonare la visione del mondo basata sul timore e la scarsità, sulle monocolture e i monopoli, sul furto e sulla spogliazione per assumere una prospettiva fondata sull’abbondanza e la condivisione, sulla diversità e il decentramento, e il rispetto e la dignità per tutti i viventi.
La sostenibilità ci chiede di uscire dalla trappola economica che non lascia spazio alle altre specie e alla maggioranza degli uomini. La globalizzazione economica è diventata una guerra contro la natura ed i poveri. Ma le leggi della globalizzazione non sono divine. Possono essere cambiate. Dobbiamo far cessare questa guerra.
In seguito a Seattle, una espressione sovente usata è la necessità di un sistema basato su regole. La globalizzazione è legge del commercio e ha posto Wall Street quale unica fonte di valore, e come risultato le cose che dovrebbero avere maggior valore – la natura, la cultura, il futuro – sono state svalutate e distrutte. Le regole della globalizzazione minano le leggi di giustizia e sostenibilità, di pietà e di condivisione. Dobbiamo spostarci da un totalitarismo di mercato a una democrazia della terra.
Possiamo sopravvivere come specie solo se viviamo in armonia con le leggi della biosfera. La biosfera è sufficiente per le necessità di tutti se l’economia globale rispetta i limiti posti dalla sostenibilità e dalla giustizia.
Come ci ricorda Gandhi “La Terra è sufficiente per i bisogni di tutti, non per l’avidità di qualcuno”.

Traduzione di Maria Teresa Melchior
da un articolo pubblicato su Resurgence, N.ro 202, Pag.15-19, Sept./Oct. 2000)

 

Dov’è Porto Alegre? Dopo Seattle, e prima di Genova

di Gigi Eusebi

“Noi siamo campioni del mondo di disuguaglianza! Il Brasile ha attualmente circa 167 milioni di abitanti. Sfortunatamente non siamo oggi campioni mondiali di calcio, però siamo certamente campioni del mondo di disuguaglianza. Il 20% più ricco degli abitanti del Brasile possiede il 64% del reddito nazionale, mentre il 20% più povero deve dividere il 2,5% di questo reddito”. Frei Betto – al secolo Carlos Alberto Libanio Christo, tra i più importanti esponenti della teologia della liberazione, dominicano che durante la dittatura militare brasiliana fu preso, incarcerato e torturato per quattro anni – lancia da uno dei “palchi” del Forum Social Mundial di Porto Alegre dello scorso gennaio una tra le tante denunce che rimbombano da anni nelle nostre orecchie, nei comunicati, nei seminari pubblici, nelle riunioni che il cosiddetto “popolo di Seattle” (con tutte le sue lillipuziane ramificazioni internazionali) indice e/o gestisce.
Concentrando l’attenzione sui dati che mettono a fuoco il contesto brasileiro, Frei Betto, uno dei promotori principali del Forum, insiste: “Siamo la decima economia mondiale, siamo i primi produttori di frutta, caffè e molte altre derrate, i sesti di prodotti alimentari, perché il Brasile è l’unico paese al mondo che è in grado di fare tre raccolti all’anno, visto che non ha nemmeno catastrofi naturali, terremoti, uragani, non c’è la neve né il deserto. L’unico problema è che non ha governo. Nonostante tutti questi privilegi, che ci fanno pensare che Dio avesse voluto riprodurre da noi il paradiso, abbiamo 111 milioni di persone che vivono tra la miseria e la povertà ed abbiamo 15 milioni di contadini senza terra, cioè contadini che fino a 50 anni fa l’avevano e poi l’hanno persa. Questi sono gli effetti della globo-colonizzazione. Uno dei responsabili di questa situazione è il presidente Fernando Henrique Cardoso, che ha tradito il sociologo Fernando H. Cardoso (esiliato durante il regime militare, professore in varie università tra cui la Sorbona ed autore di numerosi saggi nei quali teorizzava la resistenza popolare contro l’ingiustizia), perché il sociologo Cardoso era di sinistra ed il presidente si è venduto alla destra. Deve essere un caso di clonazione al rovescio. Siamo usciti da una dittatura militare ma oggi viviamo in una dittatura economica. Tutta l’economia dell’America Latina, ad eccezione parziale di Cuba, è guidata e diretta dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale di Washington. Questa è quella che chiamiamo globo-colonizzazione: i teorici del neoliberismo scrivono ad esempio che la storia è finita e che la guerra alla povertà ormai è terminata ed i poveri l’hanno persa”.

Alegre, questo Porto…
Solo questo ha detto il Forum Social Mundial? No, ha detto un sacco di altre cose. Per esempio che c’erano oltre 10.000 persone, di cui 4.702 ufficialmente delegate (2.570 brasiliani, 1.509 stranieri, 623 “cani sciolti”), rappresentando 117 paesi. Che 2.000 giovani e 700 indios hanno convissuto e gestito spazi autonomi in rispettivi mega-accampamenti dentro la città, che si sono svolti 16 grossi dibattiti su temi generali e circa 440 “oficinas” di gruppo, che 19 “testemunhos” (testimoni, da Galeano a Lula, da Bové a Stedile, da Danielle Mitterrand a Augusto Boal) hanno acceso cuori e menti con il fuoco del loro carisma dialettico e umano, che 65 realtà hanno esposto attraverso propri stand storie e lavoro di tutto il mondo, che 1870 giornalisti rappresentando 764 mezzi di comunicazione hanno provato a raccontare se e come “un altro mondo è possibile” (lo slogan del Forum), che circa 1.000 persone dello staff operativo hanno reso concreto il doppio miracolo di gestire un’orda famelica di 10.000 “alternativi” e di mettere in piedi in neanche 4 mesi un’organizzazione da far invidia al parallelo World Forum di Davos, riuscendo anche a proporre a utenti e giornalisti una batteria di 50 computer collegati in rete in modo… ideologicamente non modificato, in quanto utilizzavano sistemi operativi alternativi alla Microsoft.
L’analisi e le conseguenze dei risultati effettivi del Forum di Porto Alegre si vedranno probabilmente nei prossimi mesi, sono già oggetto di dibattiti un po’ in tutto il mondo e non sono l’obiettivo principale di queste note, ma possono essere sottolineati alcuni successi (non solo emotivi) e qualche limite:

+ (più):
1) la portata e la caratteristiche dell’incontro, forse la prima esperienza mondiale di questo tipo – 2) la partecipazione numerosa ed il fatto che la sede sia stata proprio Porto Alegre, città governata da 12 anni (da… sempre, in Brasile, cioè da quando si vota) da un’amministrazione di sinistra, famosa per la già esportata esperienza del budget partecipato (i quartieri e la gente possono influenzare con proposte l’attribuzione delle spese annuali del comune) – 3) l’essersi proposto come un Forum costituente e non solo di contestazione contro i meeting economico-politici globalizzati, che ha contato con la partecipazione di molte delegazioni istituzionali e ha promosso un parallelo forum di parlamentari presenti – 4) l’impatto su alcuni media internazionali (solo alcuni, come detto e di solito non italiani), principalmente la teleconferenza in diretta tra “lor signori” di Davos (con il grande speculatore internazionale Soros in testa, uscito dal confronto piuttosto sbugiardato e sbeffeggiato) e alcuni rappresentanti del Forum di Porto Alegre, trasmessa dalla televisione TVE brasiliana e da quella svizzera – 5) la diminuzione, almeno pubblica, dell’alto livello di rissosità, protagonismo e narcisismo che normalmente caratterizza l’incrocio dei movimenti del terzo settore nostrano e mondiale (un celebro detto brasiliano dell’epoca della dittatura rammenta che la sinistra si sa unire solo in carcere)

-(meno):
1) qualcuno ha sottolineato un tono eccessivamente “light” del Forum, in quanto gli organizzatori internazionali e l’amministrazione del PT di Porto Alegre volevano evitare qualunque “marchio” di estremismo attribuibile all’incontro – 2) alcune tra le minoranze normalmente discriminate (negri, indios, ecc.) hanno lamentato una certa ghettizzazione, nei contenuti e nella divisione logistica del Forum – 3) un po’ tutti hanno rilevato di essersi un po’ parlati addosso, ripetendo slogan e concetti stra-conosciuti più che elaborare o ascoltare nuove proposte – 4) altri sostenevano che hanno avuto voce solo i leader carismatici e gli intellettuali, mentre la base e i movimenti meno strutturati sono stati piuttosto silenziosi – 5) i latinoamericani dei movimenti ritenevano di aver avuto poco spazio, mentre gli africani lamentavano l’eccessiva latinoamericanità del Forum, e gli asiatici dicevano che non se li filava nessuno, perché nao falavam português ni hablaban español e neanche avevano la pella nera che faceva tanto trendy – 6) e i “gringos” occidentali? Per quanto riguarda anglosassoni e nordamericani: chi li ha visti? Mentre i francesi spaziavano a tutto campo, tra Le Monde Diplomatique in cabina di regia, ministri e deputati a gogò, delegazione estera tra le più numerose, promotori di Attac che cercavano di impiantarlo dappertutto (c’è chi ha malignato che dai tempi di Napoleone non si vedeva un simile tentativo di “grandeur”). Discorso a parte meriterebbe la figura mediatica di José Bové, il rappresentante dei “paysan” francesi, globetrotter dell’anti-globalizzazione (non se ne perde una: in questi giorni è anche a Città del Messico vicino al sub-comandante Marcos ed è già attesissimo a Genova a luglio per l’anti-G8), assurto agli onori (?) delle cronache dopo i ripetuti attacchi ai Mc Donald francesi. Questo novello Asterix (notevole la somiglianza) ha catalizzato da metà Forum in poi l’attenzione dei media internazionali (e, purtroppo, di troppi partecipanti) per aver co-partecipato insieme ad alcuni Sem-Terra e a decine di stranieri ad un’azione simbolica di distruzione di qualche pianta OGM della Monsanto, in un municipio prossimo a Porto Alegre dal nome propiziatorio di “Nao-me-toque” (si chiama proprio così: non mi toccare…). L’eco mediatico dell’azione ha indotto un zelante deputato a richiedere e ottenere inizialmente un decreto di espulsione entro 24 ore dal Brasile del “nostro eroe”, cosa che ha provocato nel Forum una caduta di livello nei contenuti con reazioni di esaltazione del personaggio troppo sopra le righe. Per la cronaca, secondo il sottoscritto (e qualche altro, compresi alcuni parenti stretti di Bové), avendo anche avuto modo di chiaccherare più volte con il nostro… Asterix, si tratta di un indubbio “volpone” nel saper gestire i media mentre sarei meno convinto della sua reale rappresentatività nei confronti del movimento contadino francese e meno ancora internazionale (avete già visto dei “paysan” dare interviste in tre lingue discettando di filosofia e globalizzazione?).

Frasi celebri
A Davos il sociologo tedesco Ulrich Beck ha detto che c’è una sola cosa peggiore dell’essere manipolato dalle multinazionali: non esserlo!
Su Repubblica l’ex candidato alla presidenza del Perù e celebre scrittore Mario Vargas Lllosa ha paragonato il movimento anti-globalizzazione ai contadini rivoltosi brasiliani di fine ottocento chiamati “quebraquilos” (spacca-chili), che si opponevano ingenuamente all’introduzione del sistema metrico decimale.
E a Porto Alegre? Un sindacalista vietnamita mi ha raccontato che la Coca Cola ha iniziato a vendere bibite nel paese. Per farsi pubblicità ha appeso grandi cartelloni nelle principali città del paese con un’ironica e agghiacciante scritta a caratteri cubitali, che forse più di ogni altra considerazione può racchiudere la filosofia della globalizzazione: “Estamos de volta!” (siamo tornati!).
¡Hasta Porto Alegre 2002!

 

Kragujevac, Serbia: appunti di viaggio

Di Angela e Beppe Marasso*

Nella prima settimana di maggio siamo stati a Kragujevac con il Comitato di solidarietà di Ivrea.
E’ stata un’esperienza ricca e stimolante: queste sono le nostre riflessioni, al ritorno.

Conoscere una realtà difficile, incontrare le persone
Ci ha colpito, fin dal primo giorno, la cordialità con la quale eravamo accolti, il sorriso di benvenuto che li illuminava quando ci riconoscevano come italiani. E ciò ci stupiva: Kragujevac è stata bombardata otto volte durante la guerra contro la Federazione Jugoslava, l’Italia ha contribuito a tutto questo, gli avieri partivano da Aviano…, ci saremmo attesi un po’ più di diffidenza e di ostilità. Nulla di tutto ciò. I motivi possono essere molti, ci piace pensare che anche la diplomazia popolare vi abbia contribuito in modo significativo. Il comitato di Ivrea opera da circa due anni, ha stabilito contatti significativi con diverse realtà, ma anche i sindacati sono stati presenti fin dal tempo della guerra, costituendo il comitato piemontese “SOS Zastava”, che dal 1999 sostiene economicamente i lavoratori della Zastava, bombardata dai missili della NATO, con adozioni a distanza, medicinali, apparecchiature sanitarie e tutto ciò che può essere utile ad alleviare la dura condizione di 20.000 disoccupati su 24.000 lavoratori della fabbrica di automobili che lavoravano a Kragujevac, una città di 230.000 abitanti . Il valore della diplomazia dal basso emerge con grande evidenza in simili situazioni, in cui si può toccare con mano quanto sia importante creare contatti attraverso i confini, parlare con le persone, far sentire concretamente la solidarietà e la vicinanza, far crescere il peso di quelle terze parti che rifiutano la logica dell’altro come nemico e contribuiscono ad articolare le posizioni nei fronti contrapposti, creando le condizioni per costruire ponti di dialogo e di riconciliazione.

Entrare in contatto con la società civile e le istituzioni locali: scuole, chiese, gruppi sportivi, associazioni…
Siamo stati a visitare due scuole, l’Ekonomika skola, una scuola secondaria ad indirizzo economico-amministrativo, con 1200 studenti e 32 classi, che aveva già stabilito un contatto con l’Istituto tecnico Cena di Ivrea e una scuola dell’obbligo con 1000 bambini tra i 7 ai 14 anni, in corrispondenza con la scuola elementare Olivetti . Abbiamo trovato in entrambi i casi molto entusiasmo e cordialità, ricevuto piccoli doni da alcuni insegnanti, sentito da parte loro un grande desiderio di aprirsi ai contatti esterni, di superare chiusure e dogmatismi, percepito un bel clima nel rapporto con gli studenti (40 per classe nella scuola superiore).
Commovente è stata la visita all’orfanotrofio Mladnost, che il comitato di Ivrea ha aiutato con l’acquisto delle attrezzature per la cucina: un ambiente curato, con bambini vivaci e personale affettuoso, che lavora con dedizione.
Abbiamo poi assistito al torneo di Basket al quale partecipava anche la squadra dei ragazzi di Ivrea. Significativa è stata la partecipazione di uno dei ragazzi della squadra di Kragujevac nella formazione dell’Ivrea: è stato un modo, anche questo, per segnare simbolicamente un attraversamento di confini, una solidarietà che vuole superare ogni divisione, anche quelle poste dalle regole del gioco sportivo, per mettere in primo piano l’amicizia e la relazione tra le persone.
Abbiamo preso contatto con associazioni come quella fondata da Vladimir Pandurov, di Pancevo, uno dei partecipanti al training interetnico condotto da Alberto L’Abate e Pat Patfoort a Ohrid, Pristina e Firenze, che aveva organizzato uno spettacolo sulla difesa dei diritti umani al quale purtroppo non siamo riusciti a partecipare.
Siamo andati a visitare il prete cattolico (500 anime, 32 chiese da seguire) e il pope ortodosso: entrambi gli incontri sono stati cordiali e si sono conclusi con scambi di doni.
Abbiamo, infine, assistito a ben due feste di matrimonio che si sono svolte nell’albergo in cui alloggiavamo: grandi banchetti, con circa trecento persone, musica dal vivo e danze. Ci ha molto colpito la capacità di far festa, nonostante le difficoltà poste da condizioni di vita assai dure, che traspaiono da tanti indizi, uno di questi è l’età ancor giovane che si può leggere sui manifesti mortuari (quasi tutte le persone decedute erano nate non prima degli anni trenta, diversi erano degli anni cinquanta, alcuni giovani degli anni settanta: non si può non ipotizzare una qualche relazione con la guerra, in tutto ciò).

Rivisitare la memoria
Uno dei momenti più intensi è stata la visita al Parco memoriale, una grande distesa verde che ospita 30 tombe, diversi monumenti e un museo storico. E’ stato costruito per ricordare i morti durante la resistenza antinazista, in particolare l’eccidio di 7000 cittadini maschi tra i 16 e i 60 anni avvenuto il 21 ottobre del 1941, per una rappresaglia dei tedeschi, che ordinarono la fucilazione di 100 abitanti di Kragujevac ogni tedesco ucciso e 50 ogni ferito, in seguito ad uno scontro con i partigiani. In quella occasione furono giustiziati anche 300 studenti del locale liceo e 18 insegnanti: uno dei monumenti più suggestivi del parco ricorda questa “grande lezione di scuola” come viene chiamato oggi a Kragujevac questo episodio, che si può considerare come un vero e proprio caso di resistenza civile, perché ai professori fu offerta la possibilità di salvarsi, ma tutti scelsero di “continuare la loro lezione” e di morire insieme ai loro studenti.
E’ chiaro che nessuna possibilità di relazione di pace può essere costruita se non a partire dal riconoscimento di questo dolore, dalla possibilità che esso sia espresso, raccontato, elaborato, perché solo in questo modo diventa possibile, per chi ha subito questi atti feroci, saper vedere anche la sofferenza di altri popoli, comprendere il dolore altrui, non sentirsi l’unica vittima e interrompere così un processo interminabile di perpetuazione della violenza nella storia.

Sentire la voce di un protagonista dell’opposizione a Milosevic
Abbiamo posto alcune domande, nel corso di una conversazione informale, a Cole Kovacevic, deputato del DOS per l’aggregazione politica Coalizia Sumadija (la Sumadija è la regione di Kragujevic), uno dei protagonisti dell’opposizione che ha vinto contro Milosevic.
In particolare gli abbiamo chiesto cosa pensa della questione del Kosovo e quale opinione ha di Rugova. Ci ha risposto che il problema del Kosovo non è un problema di 10 o 20 anni, ma un problema con radici più profonde , che si estendono in un tempo molto più lungo. Di Rugova apprezza la moderazione, ma pensa che abbia perso un’occasione, quella di allearsi con l’opposizione interna al regime di Milosevic; c’è stato un momento, a suo parere, in cui ciò sarebbe stato possibile. Poi sono prevalse le posizioni più estremiste e nazionaliste, si sono radicalizzate le posizioni da entrambe le parti e i moderati sono stati sopraffatti, emarginati.
Ora come soluzione praticabile vede quella di un Protettorato per il Kossovo, preferibilmente sotto controllo europeo, anche se ritiene l’Europa troppo debole rispetto agli USA per poterlo sostenere.
Gli abbiamo chiesto che cosa possono fare, secondo lui, i movimenti di base, per favorire una evoluzione pacifica della situazione. Ci ha risposto: “prendere le distanze dalle posizioni nazionaliste di entrambe le parti, sostenere le posizioni contrarie alle soluzioni armate”.
Gli abbiamo infine posto una domanda circa gli elementi e le circostanze che hanno reso possibile la vittoria dell’opposizione in Serbia. Ha sottolineato i seguenti fattori:
a-le numerose sconfitte militari di Milosevic , che lo hanno indebolito e gli hanno tolto il sostegno di diversi apparati di potere;
b- la crisi economica, la corruzione, il degrado politico, che hanno allontanato molta gente;
c-la capacità delle 18 forze politiche di opposizione , pur molto diverse tra loro, di trovare una comune unità di intenti nella sconfitta di Milosevic;
d-il risultato elettorale, che ha colto Milosevic di sorpresa , al punto che non ha osato subito contrastarlo;
e-le grandi manifestazioni popolari , che hanno difeso il risultato elettorale creando una mobilitazione continua per una settimana, con la presenza a Belgrado di 200.000 persone in piazza; di fronte a ciò l’esercito stesso ha rifiutato di intervenire contro i manifestanti: “a quel punto abbiamo capito che avevamo vinto”.

Del Movimento Nonviolento- Movimento Internazionale della Riconciliazione
La strategia di azione nonviolenta come chiave della rivoluzione serba

La fiducia in una strategia di resistenza nonviolenta ha consentito all’opposizione serba di cacciare Milosevic senza colpo ferire, sostiene Srdja Popovic, uno dei leader del movimento giovanile di resistenza serbo Otpor (che significa “resistenza”). Otpor è stato uno dei protagonisti cruciali della rivolta del 5 ottobre, durante la quale i dimostranti presero d’assalto il Parlamento yugoslavo, assunsero il controllo degli studi televisivi statali e cacciarono Milosevic.
Sebbene molti osservatori abbiano descritto la rivolta come spontanea, così non fu, a detta di Popovic, il quale sostiene che gli obiettivi erano stati accuratamente individuati secondo un piano strategico ben ponderato : “La nonviolenza è cruciale in questa storia”, ha affermato al briefing dell’U.S.Institute of Peace “La Yugoslavia dopo la rivoluzione”, che si è svolto il 12 ottobre 2000.
Popovic ha spiegato che i tre mesi di pacifiche dimostrazioni svoltesi a Belgrado contro Milosevic nel 1996-97, guidate dall’opposizione e dal movimento degli studenti, segnarono l’inizio della strategia di azione nonviolenta, mostrando a Milosevic e ai suoi sostenitori che la gente ormai non lo temeva più. La loro sfida disciplinata raccolse consensi tra la popolazione.
La strenua pressione messa in atto dall’opposizione è “emblematica di come funzione l’azione nonviolenta”, ha osservato Peter Ackerman, principale consulente scientifico per il recente documentario della PBS “Una forza più potente: un secolo di conflitti nonviolenti” e co-autore del testo che accompagna il video ( “Strategia del conflitto nonviolento: le dinamiche del people power nel ventesimo secolo”, 1994)
“Milosevic era riuscito a terrorizzare un ristretto gruppo per ottenere l’acquiescenza della maggioranza, che gli ha consentito di usare un piccolo gruppo di fanatici per perseguire i suoi obiettivi e avere il controllo di molti”, ha detto Ackerman “la genialità dei movimenti di resistenza nonviolenti è che sono presenti in tutti i settori sociali, non solo geograficamente, ma demograficamente, tra gli anziani e tra i giovani, gli uomini e le donne, i ricchi e i poveri, rendendo difficile il controllo della situazione ed il mantenimento del potere da parte dell’autorità.”…
Ackerman ha ancora sottolineato come il mondo degli affari esterno ha ignorato le implicazioni politiche del conflitto nonviolento “ Di solito si pensa che la violenza sia l’unico problema con cui fare i conti, nella gestione di un conflitto. Tale convinzione resta intatta, nonostante l’evidenza del contrario, come hanno mostrato i movimenti nonviolenti nell’Europa dell’Est, che hanno posto fine alla guerra fredda. ” Gli eventi in Serbia confermano ulteriormente queste evidenze.

Il training nella resistenza nonviolenta
Nel corso degli ultimi due anni, ha affermato Popovic, l’opposizione ha affilato le sue armi nella preparazione all’azione nonviolenta, recentemente anche con l’aiuto di un ex colonnello USA, Robert Helvey, che ha tenuto un seminario intensivo di venti ore sui principi e la strategia della lotta nonviolenta nei mesi di marzo e aprile…
“Erano donne e uomini svegli”, ha detto Helvey dei partecipanti di Otpor…”Erano naturalmente molto impegnati e coraggiosi. Molti di loro erano già stati arrestati e picchiati diverse volte. Hanno fatto un grande lavoro, e tutto il merito va a loro.” Helvey ha spiegato che egli basa i suoi training sui concetti di Gene Sharp, autore di Politica dell’azione nonviolenta, (1973, tradotto e pubblicato da EGA, Torino, 1985,1986,1997) Il secondo volume riporta 198 esempi di azioni dirette nonviolente. Nelle sue sessioni di training Helvey esplora le fonti del potere in una società, con i relativi punti di forza e di debolezza, poi invita i partecipanti a definire i loro obiettivi e a sviluppare un piano strategico per raggiungerli…..
Dopo il training Otpor ha creato un manuale di teoria e tecniche di resistenza nonviolenta basate sul testo di Sharp e ha addestrato 70.000 attivisti che, attraverso una grande varietà di metodi e tecniche nonviolente, hanno preparato il terreno e portato al successo la rivolta del 5 ottobre.
Nonostante l’accurata preparazione, vi era ancora un elevato grado di incertezza su ciò che sarebbe successo e su come si sarebbe sviluppata l’azione, nessuna garanzia che la resistenza sarebbe stata totalmente libera da violenza e da morti e molto spazio alle azioni spontanee da parte dei dimostranti, ha detto Cerovic. I dimostranti hanno mostrato molto coraggio, qualcuno ha detto che erano pronti a morire. E non tutti, tra i partiti di opposizione erano d’accordo nell’assalire il Parlamento, compreso, stando a quanto si dice, lo stesso Kostunica, il nuovo presidente yugoslavo… Tuttavia, l’opposizione era riuscita a creare una situazione in cui Milosevic non avrebbe più potuto usare il suo potere repressivo perché aveva ormai perso ogni legittimazione.
“Quando non sei legittimato, non puoi usare la forza, perché quando chiami per dare l’ordine, nessuno risponde al telefono”.

L’articolo è tratto da : Peace Watch, United States Institute of Peace, December 2000, vol.VII, n.1, Washington, DC, tradotto e adattato da Angela Dogliotti Marasso

 

In Palestina devono entrare i caschi blu dell’ONU

di Alberto Trevisan*

Se Ali Rashid, uno dei massimi rappresentanti dell’ambasciata palestinese a Roma, da molti anni in Italia, da sempre sostenitore convinto del processo di Pace per una risoluzione giusta ed equilibrata del conflitto israelo-palestinese, dichiara che “il colpo mortale al processo di pace lo sta infliggendo la comunità internazionale che con il suo silenzio sta pugnalando chi, pur fidandosi di Israele ed esponendosi a gravi rischi, lo aveva accettato” (il piano di pace da Oslo a Madrid e così via), penso che ormai la misura sia colma e sia necessario rompere un silenzio denso di morte e di tragedie umane.
Mi chiedo, è ancora possibile essere equidistanti? È giusto puntare ancora sulla soluzione “pace in cambio dei territori” quando questi sono sempre più occupati dagli israeliani? Come pacifista convinto, solidale in tempi non sospetti per la causa Palestinese ma nello stesso tempo per Israele sicura, credo sia giusto fermarsi, riflettere perché quando i cannoni sparano esiste un solo imperativo che è quello di fermare la guerra e i genocidi.
Ho lasciato la Palestina pochi giorni prima dell’incredibile provocazione di Ariel Sharon sulla spianata delle Moschee. C’era qualcosa di grave che si preannunciava: la possibilità del ritorno di una “Intifada” non più con le pietre ma anche con i fucili o i missili ma sempre comunque impari di fronte alle armi del quarto esercito al mondo. E così è stato.
Ebbi questa sensazione proprio a Gaza quando, assieme a oltre mille pacifisti, rientravamo a Gerusalemme e vidi le ombre dei frontalieri che rientravano da Israele dopo una giornata di duro lavoro per ripartire poco dopo, sempre che le autorità di frontiera israeliana fossero d’accordo nell’aprire il varco. Gaza simbolo dell’autonomia palestinese, passaggio intermedio per la nascita di uno Stato palestinese libero e indipendente, ancora più occupata di prima: una specie di prigione “dorata” da cui si può uscire solo se “altri”, cioé l’altra parte in conflitto lo permette, lo concede.
Com’è possibile pensare alla crescita economica, sociale e politica di un Paese, in che modo si può costruire una situazione socioeconomica che renda la struttura produttiva autonoma e indipendente quando lo sviluppo è lasciato alla discrezionalità della forza “occupante”, quando i prodotti palestinesi entrano nel mercato internazionale solo su “permesso” e per ragioni di “sicurezza”?
Eppure l’organizzazione economica della Palestina era lentamente riuscita, dal 1994 in poi, a dare più benessere all’enorme campo profughi di Gaza alzando il reddito pro-capite e cominciando a realizzare le prime infrastrutture per la nascita di un nuovo Stato come il porto, l’aeroporto, i primi investimenti produttivi e industriali. Quale la stampa o i mezzi di informazione che, al di là delle notizie dei morti e delle tragedie della guerra, trattano in maniera seria e approfondita questi problemi o spiegano veramente cosa significa il piano Barak sul quale in molti avevamo firmato quasi una cambiale in bianco. In sostanza il piano proposto dall’ex Premier israeliano prevedeva la costituzione di un eventuale Stato palestinese solamente sul 12\% della Palestina, con dei territori frastagliati, non collegati tra loro, cioè delle vere enclaves o riserve indiane. Solo conoscendo nel dettaglio questo “piano” di pace si può capire la determinazione con cui ormai tutta la popolazione palestinese si sta opponendo alla vera occupazione: quasi nessuno è più disposto a rinunciare ad un solo metro quadrato di terra perché le condizioni territoriali per costituire un nuovo Stato si sono quasi ridotte al minimo. Ecco perché da molto tempo oramai Arafat, l’unico in grado di firmare una qualsiasi pace, chiede e supplica l’intervento della comunità internazionale e in particolare dei Caschi Blu dell’ONU per difendere il popolo inerme da uno spiegamento militare che non ha pari dimensione. Perché non è ancora entrato in terra di Palestina un solo Casco Blu dell’ONU in più di 50 anni di conflitto e per esempio a Cipro da oltre 30 anni esiste la presenza ONU per garantire la “convivenza” o comunque non lo scontro armato tra Greci e Turchi? A me pare che si sia applicata la logica di due pesi e due misure e forse è tempo di rompere un silenzio che ogni giorno che passa si fa sempre più equivoco e vicino alla corresponsabilità. Ora si parla di iniziative sia europee che degli Usa per mediare e far ritornare al tavolo le due parti in conflitto: speriamo sia una scelta decisiva ma è certo che la pace potrà esistere solo sui presupposti di una pace giusta e duratura e non sulla conferma dello status quo o della conferma della forza militare.
*Movimento Nonviolento – Rubano (Padova)

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
La musica dei Mau Mau contro la “pornografia” della società

Tre musicisti, provenienti da diverse esperienze, si uniscono per dare vita ad un gruppo che scuote la scena artistica torinese con il soffio nuovo di una musica rivoluzionaria. Sono Luca Morino (voce e chitarra), Fabio Barovero (voce e fisarmonica) e, dal Cameroun, Bienvenu Nsongan (voce e percussioni).
Si chiamano Mau Mau, una parola che nel dialetto piemontese definisce straccioni, marocchini, vagabondi, gente quasi sempre del sud dell’Italia o del mondo. E Mau Mau erano anche il gruppo di liberazione del Kenia che ha combattuto ferocemente i coloni inglesi fino a cacciarli.
Dopo dieci anni di attività, tanti dischi, riconoscimenti internazionali e compagni di viaggio incontrati per strada, il gruppo è ormai affermato e gode di un seguito non indifferente.
Intervistiamo Luca Morino alla Fiera del Libro, seduti sulla moquette dello stand del Manifesto.

Allora Luca, cominciamo da una frase che compare in “Mustafaja”, l’hit che vi ha fatto conoscere al grande pubblico, e che dice: “sgamaluma cun la Fulvia, l’uma nen fait al suldà” (sgommiamo con la Lancia Fulvia, non abbiamo fatto il soldato).
Si, ovviamente ha una componente personale. Io non ho fatto il militare: ho scelto l’obiezione di coscienza perché non avrei potuto indossare una divisa, e adesso tanto meno. Quando l’ho fatto, nell’87, fare l’obiettore di coscienza era abbastanza “spesso”, era di 20 mesi e si andava distante da casa. Io sono stato a Casale Monferrato, in una casa di riposo per anziani, e quando ho chiesto l’avvicinamento mi hanno mandato a Varese…

E come è andata?
Hanno completamente ignorato quali erano le mie competenze. Quando sono arrivato all’USL di Varese ho fatto notare che avevo fatto Geologia, e potevo essere impiegato in vari settori: rilevazioni, dissesto geologico… Per tutta risposta mi hanno mandato al reparto tossicodipendenze.
Il servizio è stato una botta, per me, molto interessante, soprattutto al ricovero per anziani, anche se ci facevano impazzire con la burocrazia e gli orari. Mi è servito per imparare ad attaccarmi alla terra, a capire cose di vita concreta che non avevo ancora vissuto.

I Loschi Dezi, il gruppo in cui cantavi prima, era interamente composto da obiettori, vero?
Beh, quella formazione ha cambiato componenti diverse volte, ma comunque io nel mondo della musica, o per scelta o per caso, ho spesso avuto a che fare con gente che non aveva fatto il militare.
Ora c’è il servizio militare professionale, che abolirà di fatto la possibilità di fare obiezione di coscienza.

E’ meglio o peggio?
Io temo che l’assenza di un canale come l’obiezione di coscienza possa eliminare un potenziale di esperienze che potrebbero essere molto utili. E devo dire che forse anche il servizio militare una volta aveva un suo valore sociale: quando soprattutto nel dopoguerra i ragazzi non potevano viaggiare e conoscere altre realtà, il fatto di essere presi, sradicati dal proprio posto, spediti da un’altra parte e messi a confronto con un’altra vita, dove tutti in teoria dovevano essere uguali, aveva una componente perversa, ma efficace per molti.

Visitando il vostro sito (www.maumau.it), ho trovato una sezione dedicata alla “pornografia”.
Come Mau Mau, da sempre cerchiamo di associare la nostra musica, la nostra figura, il nostro immaginario, a un contesto che è il mondo in cui viviamo. Quando abbiamo deciso di aprire un sito, abbiamo pensato che una vetrina collegata a questo immaginario ci stesse bene e l’ho chiamata “Pornodrome”, partendo dal significato della parola pornografia, e cioè “esposizione dell’osceno”. Di solito si associa questa parola al sesso, ma l’esposizione dell’osceno, purtroppo, è molto più ampia.

E infatti ci troviamo la Nestlé…
…una delle multinazionali più famose e blasonate, per gli scempi che ha fatto e per la sua politica aggressiva. E’ la punta di un iceberg che comunque è fatto di tantissime componenti che sono molto meno conosciute della Nestlé, che vedi dappertutto. Per esempio, ho scoperto da poco l’esistenza degli eserciti privati, come Executive Outcomes, e questo è allucinante. Se navighi su internet e hai un pacco di soldi, puoi permetterti di assoldare un tuo piccolo esercito, efficiente. E soprattutto, se lo puoi trovare, vuol dire che ha una sua ragion d’essere, un mercato, c’è gente che lo richiede, e nonostante tutto questo sia pazzesco, nessun giornale, anche i più battaglieri, ne parla.

Quindi troveremo altri esempi di pornografia, sul vostro sito?
Si, mi piacerebbe trovare un sistema per rendere viva questa finestra, confrontarmi con la gente e avere la possibilità di cambiarla, modificarla.

Vuoi dire qualcosa ai lettori di Azione Nonviolenta?
Da nonviolento praticante ed ex-obiettore di coscienza…

Non si è mai “ex” obiettori, lo si rimane per tutta la vita.
E’ vero, hai ragione: con la differenza che però adesso non ho problemi di orario! Direi che bisogna mantenere la componente battagliera molto forte, e svilupparla ovviamente non con un pugno chiuso, ma con una mano capace: capace a scrivere, o di aprirsi. Siamo circondati dalla violenza, e combatterla senza usarne altra è molto più difficile.

A cura di Paolo Macina

CINEMA
A cura di Flavia Rizzi

Natura e cultura del Nepal in un film che è un documento

Estate: la programmazione ormai langue inesorabilmente, eppure un colpo di fortuna ben azzeccato potrebbe farvi incappare in una coraggiosa arena estiva che proponga qualche «chicca», accuratamente sottovalutata dalle ribalte.
Se così sarà, una preziosa perla che potrete opportunamente recuperare sarà Himalaya. L’infanzia di un capo, che è, a suo modo, davvero un kolossal: è un film avventuroso, un racconto intrigante sulla giovinezza e sulla vecchiaia, un affascinante ritratto delle montagne più alte del mondo, oltre che un reportage etnografico sui popoli che in mezzo a tali montagne vivono.
La trama: gli abitanti dell’altopiano di Dolpo, in Nepal, hanno come principale elemento di sopravvivenza il sale. Periodicamente, quindi, una carovana di uomini e yak si mette in cammino verso l’alto Tibet per trasportare questo sale e scambiarlo con grano: un percorso di giorni e giorni tra le montagne dell’Himalaya. La tragica morte di Lapka, giovane capo del villaggio, mette la comunità di fronte a un dilemma: affidare la responsabilità della guida delle carovane al giovane Karma, oppure al vecchio Tinlé, padre del defunto, pronto a rimettersi di nuovo in marcia affinché il ragazzo Pasang, figlio di suo figlio, possa venire iniziato ad assumere quel comando che a Lapka è stato drammaticamente strappato?
Questo conflitto tra i due personaggi in primo piano, entrambi ammirati dal nipote, è anche confronto tra generazioni e visioni del mondo. Esso avviene nello svolgersi di un epico viaggio di carovane, costellato di situazioni che grondano simultaneamente di fatica e di elegia, di quotidianità e di eroismo, di emozione e di spettacolo (come dimenticare le sequenze mozzafiato girate sul “sentiero del lago”?), fino all’armonico, sebbene drammatico, compimento finale.
Per realizzare il film il regista Eric Valli, noto documentarista francese, dal settembre 1997 al luglio 1998 ha realmente trasferito la sua troupe a Dolpo, 5.000 metri sul livello del mare, a 3 settimane di cammino dall’ultimo luogo cui le auto possono giungere, ed è riuscito a trasformare gli stupendi e autentici montanari indigeni (così come il monaco Norbou, figlio minore di Tinlé, è un autentico monaco buddista) in attori efficaci e credibili, raccontandoci una storia che noi, spettatori del Primo Mondo all’inizio del Terzo Millennio, potremmo incautamente giudicare favolosa o tutt’al più anacronistica, e che invece è assolutamente realistica.
Il risultato finale merita ampiamente di venire apprezzato e raccomandato: si tratta di un prodotto capace di far respirare profondamente l’anima dello spettatore, trasmettendogli quella purezza che immaginiamo appartenere all’aria himalayana; non solo: si tratta di un invito, sullo sfondo del rapporto tra il popolo di Dolpo e la montagna, a riconsiderare la globalità della relazione della collettività con la natura.
Riflessione sulla natura, quindi; ma anche squarcio arricchente sulla cultura di un popolo – quello nepalese – a noi sconosciuto, salito solo per qualche giorno agli onori dei nostri telegiornali a causa di un cruento e misterioso evento di cronaca nera che ne ha coinvolto la famiglia reale; ma anche Katmandu, la capitale del Nepal, sembrerebbe essere lontana anni-luce dall’altopiano di Dolpo.
I critici hanno riscontrato qualche pecca nel film; d’altra parte è il loro mestiere: emerge invero una rappresentazione semplificata ed agiografica, talvolta indulgente allo scontato, dei personaggi e delle loro reciproche relazioni.
In effetti lo stesso Valli ha definito il suo film «un western himalayano»: il racconto si reggerebbe ugualmente se fosse ambientato nel Kentucky o nell’Ontario; anche la musica, pur debitrice delle melodie delle nenie dei monaci buddisti, pare evocare in taluni passaggi alcuni echi delle sonorità che hanno reso celebre Ennio Morricone.
È vero; così come è vero che avrebbe ulteriormente giovato alla forza evocativa delle immagini se l’autore avesse rinunciato alla pretesa di inglobarle – o ingabbiarle – nella narrazione di una storia, accontentandosi, si fa per dire, di un semplice documentario; per la cronaca, Valli lavora anche come giornalista-fotografo per il National Geographic Magazine. Ma è altrettanto vero che la possibilità per un documentario di raggiungere il grande pubblico degli appassionati di cinema è ancora più bassa rispetto a quella di un film, per quanto non targato USA; si tratta infatti di una produzione franco-anglo-elvetica-nepalese.

Ivano Mora
Cooperativa FuoriSchermo – Cinema & Dintorni –

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina
Secondo voi può esistere una “assicurazione” etica?

Cosa vuole dire “etica” in campo assicurativo? A differenza delle banche, dove il rapporto con il cliente è regolato soprattutto dall’interesse riconosciuto ai soldi prestati o avuti in prestito, le Compagnie assicurative si occupano, oltre all’aspetto finanziario, di questioni molto più complesse. I risarcimenti previsti in caso di disgrazia comprendono ogni aspetto dalla vita umana: la salute minata da una malattia o da un infortunio, la casa colpita da fenomeni atmosferici o malavitosi, l’auto in caso di furto o di incidente, la tranquillità economica in caso di morte di un familiare o di pensionamento, la tutela professionale quando la nostra responsabilità civile viene chiamata in causa.
Esamineremo quindi, in tempi diversi, solamente due settori, quello della RC auto e quello delle polizze sulla vita, sperando di aprire un dibattito in proposito con i nostri lettori.
Recentemente i giornali hanno riportato con enfasi le notizie relative all’aumento delle polizze automobilistiche. Tutte le associazioni di consumatori si sono attivate per chiedere prezzi più bassi (sarebbe più giusto chiederli più equi), ma un buon consumatore critico non può limitarsi a tale richiesta tramite una contrattazione collettiva. E nemmeno può ridursi a chiedere una vendita trasparente ed onesta, perché questo è il minimo che si deve chiedere a qualunque venditore, dal supermarket al bottegaio.
Vendere polizze etiche deve essere quindi cosa diversa dal dire di vendere polizze in modo etico o meno costose. Procederemo quindi elencando cosa sicuramente non è etico in questo settore, e partiremo dalle compagnie internet o telefoniche.
Queste compagnie sono state negli anni scorsi al centro di vertenze sindacali per lo sfruttamento dei lavoratori (sia in termini di ore lavorative che per il basso livello degli stipendi) e per le condizioni che contravvengono la legge 626 sulla salute nei luoghi di lavoro. Passare tramite loro per avere uno sconto maggiore è (con i dovuti distinguo) un po’ paragonabile a comprare palloni Nike perchè costano meno.
Inoltre, quasi tutte evitano di assicurare clienti nel sud Italia, dove gli incidenti avvengono con maggiore frequenza, nonostante l’assicurazione sia un obbligo di legge che le compagnie svolgono per conto dello Stato. La discriminazione geografica è assicurata tramite la proposta di prezzi esorbitanti che scoraggiano l’acquisto della polizza.
Infine, il meccanismo di costruzione tariffaria della RC Auto è diverso da quello adottato dalla maggioranza delle altre Compagnie; in parole povere le loro tariffe costano meno finché non si hanno incidenti (quando cioè si paga solo e non si gode di alcun servizio, e per questo siamo considerati “buoni clienti”); i prezzi proposti alle scadenze successive all’incidente recuperano con gli interessi quanto risparmiato fino a quel momento, quando diventiamo clienti non più desiderati. Si elimina quindi quel fenomeno detto di “mutualità” che richiama in un certo senso il termine di “solidarietà” sociale (pago un po’ di più per chi sta peggio di me).
Sul prossimo numero analizzeremo altri aspetti di “etica assicurativa”.

STORIA
A cura di Sergio Albesano

Le radici storiche dell’esercito italiano

Il 25 giugno 1862 il ministro della guerra Agostino Petitti-Bagliani di Roreto annunciò ai deputati del Regno, riuniti a palazzo Carignano a Torino, che l’obbligo di leva era esteso a tutte le province italiane. Dietro l’entusiasmo risorgimentale della dichiarazione si celava un dibattito serrato sul modello di esercito da adottare. La questione non era soltanto tecnica, ma profondamente politica.
Nel XIX secolo, infatti, gli eserciti erano chiamati a due compiti distinti. Da un lato dovevano prepararsi ad un’eventuale guerra difensiva o offensiva, mentre dall’altro dovevano garantire il mantenimento dell’ordine costituito all’interno dello Stato, reprimendo qualsiasi tentativo insurrezionale o eversivo. Gli eserciti si riferivano allora a due modelli: quello francese e quello prussiano. Il modello francese prevedeva un esercito piccolo e agile, ben armato e addestrato, composto per la maggior parte da professionisti. Il suo elemento distintivo era la ferma lunga, compresa tra i cinque e gli otto anni, che era considerata indispensabile per formare un vero soldato, cioè per estraniarlo dal suo ambiente di origine e abituarlo all’obbedienza. Oltre ai volontari era sorteggiata annualmente una piccola percentuale di coscritti scelti fra gli idonei alla leva, ma coloro che provenivano dalle famiglie più ricche potevano evitare l’arruolamento procurandosi un sostituto oppure versando una considerevole somma di denaro. Così i figli dei proprietari terrieri si facevano surrogare dai loro contadini. Un tale esercito era strumento efficace per il mantenimento dell’ordine interno, ma, rispetto alle esigenze belliche, mostrava i limiti dei superati eserciti di mestiere settecenteschi. Il modello prussiano, invece, si fondava sulla ferma breve (tale era considerata quella di due o tre anni) e sull’arruolamento di tutti i giovani fisicamente idonei, senza possibilità di sostituzione a pagamento. Si sanciva così il principio del servizio militare come dovere di ogni cittadino, che in caso di necessità poteva essere richiamato dalla riserva. Inoltre i reparti traevano i soldati dalla regione in cui erano stanziati; ciò permetteva la creazione di forti legami tra i militari e la popolazione, semplificando quindi tutte le operazioni di mobilitazione in caso di guerra. Dal punto di vista dell’efficienza bellica questo tipo di reclutamento era ottimo, ma presupponeva una situazione sociale tranquilla, perché gli stretti legami tra esercito e popolazione escludevano l’impiego delle truppe per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il reclutamento regionale, possibile pertanto nella Prussia socialmente compatta, era invece improponibile in Stati inquieti come la Francia o travagliati da profondi contrasti di nazionalità come l’Austria-Ungheria.
L’esercito piemontese, organizzato nel 1854 dal generale Lamarmora, rappresentava un adattamento particolare del modello francese. La ferma era di cinque anni e riguardava solo una parte esigua del contingente di leva, scelta per sorteggio e con possibilità di sostituzione a pagamento. Una percentuale limitata dei giovani rimasti riceveva un’istruzione di quaranta giorni ed era richiamata in caso di guerra. Dopo l’unificazione, l’ordinamento Lamarmora fu esteso a tutto il Regno, poiché si pensava che le nuove province fossero troppo diverse fra loro e troppo tiepide di entusiasmo patriottico per dare garanzie con un esercito di modello prussiano. Infatti il primo massiccio impiego delle truppe unitarie fu la repressione del brigantaggio meridionale tra il 1861 e il 1865. “Da qui la scelta di escludere dall’incorporamento la maggior parte dei volontari garibaldini, elementi dall’indubbio valore ma di orientamento democratico, difficilmente compatibili con le direttive autoritarie del governo centrale”1. Quindi l’annuncio del ministro Petitti dichiarava che la leva obbligatoria veniva estesa a tutte le province, comprese quelle che non l’avevano mai sperimentata come gli ex territori pontifici, anche se i giovani effettivamente incorporati rimanevano una minoranza. Una scelta ben diversa dalla leva di massa voluta dai rivoluzionari francesi nel 1793.
La guerra franco-prussiana del 1870-71 dimostrò, però, che l’esercito di modello francese non dava alcuna garanzia di efficienza bellica. Le armate imperiali di Napoleone III capitolarono a Sedan, un altro esercito francese si arrese alle truppe di von Moltke e Parigi stessa fu stretta d’assedio. A tutti gli Stati maggiore europei fu chiaro che il modello prussiano aveva travolto quello francese. In Italia il dibattito portò alla ristrutturazione delle Forze armate condotta dal generale Cesare Ricotti-Magnani, ministro della guerra dal 1870 al 1876.

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso

Le strutture genealogiche della violenza e gli interventi di solidarietà educativa

Culture educative, famiglia e individuo
Inizio con un ricordo tratto da un’esperienza formativa vissuta a Corleone, vicino a Palermo. Corleone è un paese noto in tutto il mondo per un destino alquanto sfavorevole che ha legato il suo nome a quello della mafia siciliana. Da alcuni anni però c’è un tentativo serio di trasformare questo destino e di liberarsi da questa immagine di città capitale della mafia siciliana. In questi ultimi anni sono stati attivati tantissimi interventi verso un rinnovamento. Anche il Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti (CPP) ha lavorato diversi anni per dare un contributo in questa direzione. Proprio per questo qualche anno fa, a metà degli anni Novanta, mi trovai a Corleone per una conferenza dedicata alla presentazione di un progetto formativo. Con me c’era il sindaco, un uomo giovane, progressista, molto impegnato a trasformare democraticamente il paese di Corleone; nativo del luogo, pieno di energia e buone intenzioni. Alla fine della conferenza gli si avvicinò una signora piuttosto anziana, che lo salutò calorosamente e poi gli disse: “Caro sindaco, io non ti conosco, però le nostre famiglie si conoscono. L’importante è che le nostre famiglie si conoscano”. L’episodio mi consente di iniziare una riflessione sul rapporto fra l’individuo e il proprio destino familiare, e fra l’individuo e il destino collettivo; in una seconda fase vorrei approfondire il rapporto fra l’individuo e le culture educative di appartenenza.
La prima distinzione che mi sento di fare e che ritengo piuttosto importante è fra culture educative centrate sulle potenzialità individuali e culture educative centrate sull’appartenenza familiare. È una distinzione che ovviamente non è solo educativa, ma che uso nell’accezione pedagogica per chiarire che queste culture rappresentano un training formativo a tutti gli effetti molto forte nei confronti dei figli e comunque dei membri giovani della collettività.
Cosa si intende per culture educative centrate sulle potenzialità individuali? Sono le culture educative tendenzialmente di natura democratica che anche sotto il profilo politico riescono a elaborare culture democratiche (anche se non si può stabilire un nesso automatico assoluto fra i due piani). Il loro compito primario è quello di sviluppare l’individuo nelle sue potenzialità e quindi di offrirgli una serie di risposte formative centrate sulla valorizzazione delle sue risorse. In certi casi in queste culture la creatività è un valore riconosciuto in termini sociali, e viene enfatizzato anche sotto il profilo educativo. L’individuo non appartiene insomma alla società o alla famiglia, ma appartiene anzitutto a se stesso; la società e la famiglia si impegnano a fare in modo che il soggetto liberi le sue facoltà e porti al massimo il proprio esito personale.
Le culture educative centrate sull’appartenenza alla famiglia, viceversa, mettono in primo piano il destino familiare: quello che conta è la sintonizzazione fra il destino individuale e la programmazione familiare. Pertanto l’individuo si realizza quando riesce a esprimere al meglio le potenzialità del nucleo e del clan familiare. Non conta ciò che l’individuo potrebbe diventare, ma quello che gli viene affidato dalla programmazione genealogica familiare. Questa programmazione è intenzionale da un lato, nel senso che l’intenzionalità compare quando un individuo decide per esempio di staccarsi da questa programmazione familiare, e allora si nota la reazione spesso brutale della famiglia nei suoi confronti, ma dall’altro è anche un processo subliminale, nel senso che se tutto procede liscio non esiste una coercizione, non esiste una repressione vera e propria, ma il tutto viene vissuto nei termini di naturalezza, di un evento scontato, quindi nei termini di un destino oggettivo, al punto che in genere l’individuo neanche si accorge di far parte di una programmazione genealogica. La forza della programmazione sta proprio in questo, nella sua natura implicita, che non consente al singolo di ragionare sulla programmazione stessa. L’individuo non appartiene a se stesso, ma alla società familiare.
È molto importante cogliere la dimensione subliminale di questo processo, perché questo rende ragione anche di eventi gravi – come può essere una guerra etnica – che sembrano fuori dalla storia e dalla civiltà, ma che in realtà dentro una programmazione genealogica familiare acquistano il senso di una continuità storica improntata alla necessità di vendetta, di riparazione dei torti subiti, di sacrifici umani che in termini molto concreti possano sanare le antiche ferite.
A proposito di violenza, e di strutture genealogiche, il caso del nazismo è piuttosto interessante, anche perché è uno dei pochi casi nella storia che sia uscito dalla subliminalità, per essere sottoposto a un giudizio storico e quindi analizzato scientificamente.
Il nazismo, come struttura genealogica, si discosta da entrambi i modelli precedenti. Nel nazismo non contano né la famiglia né l’individuo. Nel nazismo il soggetto appartiene al Popolo, la grande struttura ancestrale che il Romanticismo tedesco porta alle estreme conseguenze, l’entità astratta che fa parte del background culturale teutonico, e che in qualche modo rimanda alle tribù germaniche.
Il popolo è una struttura oggettiva in cui si stempera sia il soggetto individuale che la famiglia. L’educazione nazista proviene sotto certi aspetti dall’educazione prussiana, che voleva trasformare ogni famiglia in una caserma, e che ci è documentata in maniera molto viva dall’autobiografia di Rudolph Hess, comandante di Auschwitz1e da altri libri drammatici come La famiglia che uccide di Schatzman2. D’altro canto va detto che il richiamo ancestrale del nazismo come forma culturale arcaica ci proviene anche dagli studi sull’educazione formale nazista che, senza mezzi termini, tenta di eliminare ogni componente di civilizzazione cristiana, ad esempio cercando di erodere progressivamente l’educazione cristiana nell’ambito dell’educazione religiosa sostituendola con elementi di altra natura, a dimostrazione della volontà di incorporare in maniera coattiva l’individuo all’interno di un complesso statale e culturale che non è semplicemente un complesso ideologico, ma è una volontà di creare un ‘appartenenza che va al di là di quella familiare3. In questo contesto si spiega anche la violenza sistematica, volta all’eliminazione di un intero popolo (quello ebraico), una modalità estrema di organizzazione della violenza che erode le resistenze individuali ancorandosi a delle componenti culturali che erano in qualche modo implicite nel background tedesco. Su queste componenti il nazismo elabora una complessa forma di adesione che induce nell’individuo l’abbandono delle radici personali e familiari.
Possiamo fare questa riflessione sul nazismo perché il nazismo ha perso la guerra ed è stato messo sotto la lente degli studiosi. Non possiamo dire lo stesso di altri fenomeni di distruttività di massa, come è stato lo stalinismo, lo sterminio degli armeni, quel che è successo in Cambogia o quel che è successo nei Balcani. Si tratti in questi ultimi due casi di situazioni aperte, non ancora rielaborate, il che ci priva degli elementi di indagine che ci consentirebbero di trarre delle conclusioni certe, come in qualche modo – anche se il dibattito è ancora aperto – possiamo fare con il nazismo. Certo la violenza delle guerre balcaniche appare legata, rispetto ad altri contesti, a dimensioni genealogiche familiari, quindi a un senso di appartenenza etnico-familiare sotto certi aspetti molto tradizionale. Se il nazismo è un’operazione di relativa complessità che si fa forte di varie componenti, il modello della violenza delle guerre balcaniche appare abbastanza elementare, centrato su un’appartenenza primaria del tipo cui accennavo sopra: l’individuo si identifica con la famiglia etnicamente intesa a prescindere da ogni consapevolezza e in questo trova le ragioni di atti violenti che altrimenti non avrebbero senso.
Per chiudere questo discorso vorrei citare un pensiero di Johan Galtung, uno dei pochi studiosi che ha la capacità di ricondurre situazioni locali in una logica mondiale. Anni fa nel corso di un convegno in Italia, Galtung diceva: “Se è vero che il motivo profondo dei conflitti che esistono oggi sul pianeta è in gran parte culturale, la terapia per questi conflitti non può essere quella delle armi. Come la cultura si fa con la parola, così la terapia si deve fare con la parola. Questo anche nel caso in cui certe parole sono molto difficili da pronunciare”.4

Daniele Novara

1° parte (continua)

LIBRI
A cura di Silvia Nejrotti

Alberto L’Abate (a cura), Giovani e pace. Ricerche e formazione per un futuro nonviolento, Pangea, Torino, 2001

Il libro curato da Alberto L’Abate, che contiene saggi suoi e relazioni di esperienze e ricerche di amici , studenti e collaboratori, rappresenta una ricca e singolare miniera di materiali, spunti e contributi nell’ambito dell’Educazione alla pace e alla nonviolenza, elaborati nell’ultimo decennio e recentemente sistematizzati.
Dal punto di vista metodologico l’opera è caratterizzata dai seguenti aspetti:
1-il costante intreccio di Ricerca-Educazione-Azione come impianto costituivo dell’approccio proposto, elemento comune a tutte le esperienze presentate: la ricerca muove dagli interrogativi e dai problemi della realtà ed è orientata all’azione , l’educazione è uno dei processi fondamentali per promuovere e mettere in atto il cambiamento;
2-l’attenzione all’interazione dei diversi livelli, delle caratteristiche personali e situazionali da un lato e delle dinamiche strutturali, dall’altro;
3-una proposta formativa globale che coinvolge le tre fondamentali dimensioni della mente (dimensione cognitiva/affettiva; sapere, conoscere, comprendere, sentire), del corpo (dimensione operativa, saper fare), dell’anima (dimensione esistenziale, saper essere);
4-l’accento posto sulla centralità delle metodologie e degli strumenti usati: nella cultura della nonviolenza mezzi e fini coincidono, non c’è subalternità, ma coessenzialità tra strumento usato e fine perseguito.
I contenuti trattati sono molteplici, tra questi mi paiono di particolare rilevanza:
1-la concezione dell’educazione alla pace come “educazione a combattere ingiustizie e violenza senza usare le loro stesse armi” (pag.184), vale a dire come educazione alla trasformazione nonviolenta dei conflitti;
2-un approccio dinamico e relazionale al conflitto: il conflitto è inteso come processo e l’accento è posto sui fattori personali, strutturali e situazionali che ne caratterizzano la dinamica;
3- la tesi dell’atteggiamento “schizofrenico” nei confronti del conflitto: esaltazione del conflitto a livello politico e sociale; rifiuto e negazione di esso, invece, in favore di atteggiamenti consensuali e solidaristici, nei rapporti interpersonali e in ambito educativo. Ciò fa sì che “ la religione e la pedagogia, educando al consenso in una società in cui, a livello politico, prevale il conflitto e la dominazione di un gruppo più forte, in realtà divengano strumenti di riproduzione del potere attuale, mantenendo le ingiustizie sociali e gli equilibri su cui si basa il nostro sistema” (pag.156). La “Teologia della liberazione” e la “pedagogia degli oppressi” rappresentano, in questo senso, la reintroduzione del conflitto nella religione e nella pedagogia e la nonviolenza è la strada maestra per l’assunzione e l’umanizzazione del conflitto;
4-l’ipotesi che “il pregiudizio sia uno dei fondamenti su cui si basa la nostra società”: esso è infatti un elemento fondante per creare e mantenere quella distanza sociale che consente la de-umanizzazione dell’altro, fino all’uccisione, è, insomma, un elemento strutturalmente necessario per mantenere in vita l’istituto della guerra (in linea con il modello dominante di cooperazione all’interno e competizione all’esterno);
5-le ricerche sul ruolo centrale dell’assertività nella trasformazione costruttiva dei conflitti, in connessione con la teoria nonviolenta del potere diffuso: essa è caratterizzata da una serie di competenze sociali che vanno dalla capacità di percepire in modo adeguato le conseguenze dei propri comportamenti (livello cognitivo), alla capacità di far fronte a sentimenti di ansia, frustrazione e fuga e di gestire la rabbia e l’ira (livello emotivo), alla capacità di trovare soluzioni che non siano violente né verso l’altro, né verso se stessi (livello comportamentale).
Il testo contiene materiali, appendici e un ricco apparato bibliografico che lo rendono un prezioso strumento di lavoro.

Angela Dogliotti Marasso

Alberto Tomiolo, Elogio della volpe e altri scritti, Campanotto editore, Udine, 2001, 116 pagine, 20.000 lire

La volpe ha la singolarissima, e fin troppo proverbiale, capacità di percorrere i sentieri più impervi. Nel saggio che dà il titolo al volume, scritto originariamente per la Deutsche Oper di Berlino in occasione di un recente allestimento dell’opera lirica La volpe astuta di Leos Janàcek, il più elusivo degli animali ci accompagna attraverso i simboli del folklore e delle religioni primitive, le raffigurazioni delle cattedrali romaniche e della pittura novecentesca, i miti delle letterature, comprese quelle reputate “alte”, e i luoghi comuni che popolano il nostro quotidiano culturale e scientifico.
Ci si inoltra, così, in un viaggio fascinoso dal punto di osservazione di un malandrino patentato, dai bassorilievi di San Pietro a Monteluco di Spoleto fino alle angosciose rappresentazioni di Antonio Ligabue e degli impressionisti francesi ;oppure, nel campo più frequentato della letteratura, dal favoloso Roman de Renart che fonda il romanzo francese moderno, attraverso le riprese della favolistica debitrice dei classici antichi Esopo e Fedro, fino al commovente incontro del Piccolo Principe nel celebre romanzo di Saint-Exupèry o alle inquietanti eroine di Lawrence e Garnett.
Alla fine, dopo aver finalmente capito che in realtà la volpe mangia l’uva, rimane la non remota impressione di avere noi, fino ad ora, saccheggiato i pollai degli esseri naturali e della misura delle cose di cui essi, invece, sono portatori. Che è il significato esplicito di questo scritto singolare, che sembra quasi poter contribuire ad una nuova scienza, la volpologia, ovvero un’ecologia della letteratura.
Completano la raccolta altri saggi (sulla soap opera e sul culto dannunziano dei gioielli, fino alle pagine sulla renaissance della drammaturgia di Carlo Gozzi e sul nazional-popolare gramsciano nel versante teatrale), tutti governati da una prudente perplessità nei confronti delle cose troppo serie, che permette di occuparsi senza imbarazzo degli intrattenimenti dell’immaginazione che tanto appassionano gli uomini comuni e quasi niente i titolari ufficiali dell’intelletto.
L’autore, poeta e saggista, viene da una lunga consuetudine con la letteratura e con in nodi ecologici della cultura, che ha fatto coesistere negli anni con l’impegno politico anche istituzionale: proprio in veste di consigliere regionale veneto, ha elaborato e fatto approvare, a metà degli anni ’80, una legge per eliminare una taglia venatoria che premiava la caccia alla volpe, e anche da questa esperienza ha avuto alimento il libro adesso pubblicato.
B.C.

Segnaliamo

Il sociale nel 2001
E’ in edicola il Rapporto annuale del Gruppo Abele, 3.100 flash di cronaca, nomi, ricerche, statistiche, schede e approfondimenti attraverso i quali vengono presentate una novantina di tematiche sociali. Si tratta di uno strumento informativo (1.000 pagine, 360 tabelle e 120 schede, 9 cronologie) di facile consultazione, ad uso di quanti sono impegnati nel sociale: istituzioni, associazioni, giornalisti, formatori, volontari, studenti, insegnanti.
INFO: Edizioni Gruppo Abele, Ufficio Vendite. T: 011.8395444.

Globalizzazione dal basso
Nel suo ultimo libro, Mario Pianta (collaboratore de Il Manifesto) descrive la globalizzazione dell’economia; le realizzazioni ed i disastri connessi alle attività delle imprese, allo sviluppo tecnologico, dei commerci, della finanza e del lavoro; i nuovi centri di potere globale opposti alla democrazia internazionale; i controvertici della società civile; le opportunità per il futuro.
INFO: Manifestolibri, Via Tomacelli, 146 – 00186 Roma. T: 06.5881496; f: 06.5882839.
E-mail: redazione@manifestolibri.it

Tempo di scelte
Dalla globalizzazione dei profitti, alla globalizzazione dei diritti; è un video della durata complessiva di 70 minuti, suddiviso in 3 parti e accompagnato da un libretto esplicativo, prodotto dal Centro Nuovo Modello di Sviluppo in collaborazione con la Rete di Lilliput.
INFO: Valerio Magnani, Rete di Lilliput. E-mail: magnani@racine.ra.it

LETTERE
Inviare le lettera a: azionenonviolenta@sis.it

Due Giugno
Festa della Repubblica

Non è una festa di pochi, come ci appare dalle tv e dai discorsi ufficiali, ma è la festa di tutti. E’ la festa di chi non sfila in parate bruciando miliardi in “effetti speciali”, di chi non viene messo in mostra dai telegiornali o lusingato dalla retorica ufficiale, dal militarismo alla moda. La Repubblica, che dovrebbe essere fondata sul lavoro, onesto, sicuro e non flessibile, è la gente che oggi ha vissuto semplicemente una giornata di sole, le persone che lavorano per campare e non per fare soldi, coloro che la pace la fanno davvero, quotidianamente, senza nemmeno l’ombra di un fucile; sono coloro che promuovono i diritti di tutti e non i privilegi di pochi; è la gente che è morta ammazzata da eserciti patriottici o liberatori; i cittadini che spesso non hanno molto da festeggiare, e che senza pensarci cedono a pochi le fanfare, le medaglie ed i fori imperiali, faticando ogni giorno per un futuro migliore o per le illusioni delle lotterie, del divertimento, dei salotti televisivi.
Forse un giorno presidenti, ministri, generali (e giornalisti) si metteranno una mano sulla coscienza, e si faranno da parte.
E la gente comune – cittadini, e non servi – si accorgerà di poter festeggiare, almeno un giorno all’anno, nonostante tutto. Con loro faremo festa, a loro diremo grazie per questa Repubblica.

Gabriele De Veris – Perugia

Cari amici di Azione Nonviolenta,
sono un vostro abbonato, e vi leggo sempre con piacere.
Ho pensato di scrivere una lettera al presidente Ciampi sul fatto che la festa della Repubblica non debba essere rappresentata da una parata militare. Vorrei fare una raccolta di firme, per cui chiedo il vostro aiuto.
Come potete vedere il tono antimilitarista è molto sfumato, perché ho dovuto tener conto del fatto che il presidente e` pur sempre il capo delle forze armate, e non potrebbe prendere in considerazione proposte troppo radicali.
Vi prego di raccogliere le firme su un foglio predisposto e di rispedirmele all’indirizzo:
Paolo Dall’Aglio, Via della Cisterna 23, 33100 Udine
Naturalmente potete diffondere la proposta a chi volete, ma vorrei che i fogli delle firme mi arrivassero entro fine luglio – metà agosto, perché pensavo di spedire la lettera d’estate quando, presumibilmente, il Quirinale ne riceve di meno.

Paolo Dall’Aglio – Udine

Egregio Presidente,
le scriviamo a proposito della festa della Repubblica del 2 giugno. Lei, fin dall’inizio del suo mandato, ha voluto riportare d’attualità i temi relativi all’amore per la nostra patria e per la nostra identità.

Noi italiani abbiamo bisogno di una spinta ad amare di più il nostro paese, la nostra identità e le nostre tradizioni, non per contrapporci agli altri, ma per andare loro incontro più ricchi e più consci di noi stessi.
Apprezziamo quindi la sua scelta di ridare importanza alla Festa della Repubblica perché sia simbolo solenne di unità e di identità; abbiamo pero` più di una perplessità sulle celebrazioni dell’ultimo due giugno.
Perché una sfilata militare?
Non si ricorda una vittoria militare, ma il referendum fondativo della nostra Repubblica, cui non i militari in quanto tali, ma tutti i cittadini, ciascuno con pari dignità, hanno contribuito.
Riteniamo che l’esistenza degli eserciti non sia un segno di forza, ma di debolezza di una società che non può governare i conflitti in modo pacifico; quindi non é con le parate militari che l’Italia (che “ripudia la guerra”) celebra le proprie fondamenta. Queste fondamenta sono invece, secondo il primo articolo della Costituzione, in tutti i cittadini, ciascuno con il proprio lavoro e con il proprio ruolo.
Se il due giugno deve essere veramente la festa della Repubblica, e questa deve dare mostra di se’, delle proprie fondamenta, e` dal lavoro che si deve partire. E allora perché non far sfilare i rappresentanti dei lavoratori e di tutte le categorie sociali, a partire da insegnanti, medici, magistrati e dagli altri che, prestando il loro servizio come dipendenti statali, sono per primi al servizio della collettività? E` in questo contesto che hanno il loro posto i militari, che come cittadini e lavoratori sono al servizio della patria.
Caro presidente Ciampi, ci auguriamo veramente, per la fiducia che abbiamo nel suo amore per la patria e per le istituzioni, di veder sfilare, il prossimo due giugno, un’Italia in cui riconoscerci pienamente, che rappresenti se stessa, non con i simboli ottocenteschi del militarismo, ma con le insegne moderne del lavoro, della cittadinanza, del senso civico.
Sicuri della sua attenzione la ringraziamo e la salutiamo,

(seguono firme)

La pace cresce anche dentro la guerra

Continuano ad emergere dal passato e dal tentativo di dimenticarli, casi di criminali di guerra nazisti: Friedrich Engel, Michael Seifert (sul quale “Azione Nonviolenta”, nel n. 4, ha anticipato la stampa nazionale). Io vorrei ricordare un caso diverso, opposto, positivo: quello di Josef Schiffer, classe 1914, vivente in buona salute a Duesseldorf, che ho conosciuto di persona e col quale sono diventato fraterno amico. Mi ero trovato vicino a lui, da bambino, nel 1945, pur senza conoscerlo ma avendone sentito parlare, perchè mi trovavo allora in quei luoghi.Schiffer era artificiere a Pallerone, frazione di Aulla (Massa Carrara) durante l’occupazione tedesca. In molte occasioni aiutò la popolazione locale, sottraendo uomini all’arresto, restituendo beni sequestrati da altri suoi commilitoni, infine disobbedendo all’ordine di far saltare la polveriera di cui era responsabile, al momento della ritirata. Di questo suo comportamento gli fu dato atto, alla fine della guerra, da parte di personalità locali civili, religiose, industriali, e dagli stessi partigiani, come è documentato.
Schiffer restò a lavorare in Italia per dieci anni, credo caso più unico che raro per un soldato tedesco.
Nel 1995 il Comune di Aulla gli conferì una medaglia d’oro e nel 1999 il Presidente Scalfaro lo ha nominato Commendatore della Repubblica Italiana. Lo scorso novembre è venuto a Torino, per un incontro pubblico nel Centro Studi Sereno Regis, presenti il Sindaco e il presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.
Oggi Josef Schiffer è felice di essere invitato dalle associazioni democratiche e antinaziste, nelle scuole di Duesseldorf e dintorni, a parlare ai giovani della sua esperienza.Ho scritto diversi articoli su questa significativa figura: su “Rocca” del 15 aprile 1995, su “il foglio” n. 262, settembre 1999, su “Il nostro tempo” del 19 novembre 2000.
“Più uomo che soldato”: così ho definito Schiffer, ed ho visto nella sua azione – che è stata anche di altri soldati tedeschi, troppo poco conosciuti – il più importante e difficile tipo di pace: non la pace invece della guerra (che è la migliore), non la pace dopo la guerra (che è l’ultimo atto della guerra, il suo scopo di dominio), ma la pace dentro la guerra, cioè il seme e la preparazione di amicizia e concordia nonostante e contro l’infuriare dell’ostilità omicida.
Non dobbiamo dimenticare i crimini di guerra, ma – ancora meno, direi – i più preziosi meriti di pace.

Enrico Peyretti – Torino

Il Burundi che non vuole morire

Carissimi amici.
Dal lontano Burundi volevo darvi un po’ di nostre notizie, perché siete voi che ci date la forza di continuare a viaggiare sulla strada della libertà e della pace con i senza voce del mondo intero. E’ una strada molto difficile, che ti prende la vita, i sogni, le notti e i giorni, tutto!
A livello politico siamo nei guai. Dopo la crisi di Kinama, dove i morti sono stati oltre duecentosessanta fra i soli civili e otto giovani del Centro sono stati uccisi da pallottole vaganti o obici vari, la guerra è continuata altrove ed è arrivato anche un colpo di Stato fallito. Le ingiustizie aumentano. Ora sono all’ordine del giorno stupri, ruberie, arresti arbitrari, torture. Una mattina è arrivata al nostro ufficio per le associazioni una vecchietta di ameno sessant’anni, che corrispondono ad ottantacinque dei nostri. Piangeva. Durante la notte un militare l’aveva violentata gridandogli dietro: “A me l’hanno dato pagandolo, a te lo do gratis.” Parlava dell’AIDS, ricevuto in seguito a rapporti avuti con prostitute.
Sono cose che ti prendono veramente tutto e ti lasciano completamente vuoto. La guerra! Ad Arusha i dialoghi di pace non vanno avanti, Mandela è disperato, le tasse aumentano per pagare la guerra. Vi faccio un esempio soltanto: un anno fa la benzina costava 145 franchi locali al litro, ora costa 670.
Al Centro e nei quartieri le cose funzionano veramente bene. Abbiamo 17.500 giovani iscritti. Un altro esempio. Gli scout, il gruppo più grosso di giovani organizzati, in tutto il Burundi sono tredicimila. Gli impegni nei quartieri aumentano. Ci si aiuta veramente a tutti i livelli, solo che i bisogni sono immensi e i soldi sempre meno. Pochi sono disposti a scommettere sull’uomo con noi. Abbiamo ricevuto l’OK per avere il materiale di ricostruzione, lamiere, porte e finestre per cinquecento case e ora con milletrecento giovani, durante l’estate, aiuteremo la gente a fare i mattoni. Tra due settimane esatte inizieremo, anche se non abbiamo ricevuto il minimo per fare questi campi di lavoro e formazione. Noi speriamo sempre. Anche se le notti, spesso, passano in bianco per la preoccupazione.
Vi do un altro esempio per dirvi l’implicazione di tutti. Oggi ho incontrato il gruppo di dieci donne che prepara il cibo per tutta l’estate ai giovani dei campi, il tè al mattino e riso e fagioli a pranzo. Ho chiesto loro che cosa vogliono come paga. Mi hanno risposto che lavorano gratis, perché vedono tutto quello che noi facciamo per la gente. Sono mamme di famiglia, con una nidiata di figli, appena state derubate totalmente nell’ultima crisi di Kinama. Daremo loro almeno qualche cosa, oltre al cibo e a qualche quaderno per la scuola dei figli, almeno sessantamila lire mensili. Un chilo di riso, cibo base, oggi costa almeno mille lire italiane!
Questa è la nostra realtà quotidiana! Il nostro progetto di informazione sull’AIDS ci ha fatto fare oltre quattrocento incontri in otto mesi, oltre venticinquemila persone. In Burundi ora è ufficiale, i sieropositivi sono il 20%. Nei quartieri nord è ufficioso, superano il 30%. Se qualche cosa non cambierà, tra dieci anni non ci saremo più. Nel solo 1999, è ufficiale, si sono avuti 360.000 nuovi malati, 160.000 nuovi orfani a causa dell’AIDS. Viene freddo solo a pensarci. In Burundi siamo solo in cinque milioni.
Scusateci se vi abbiamo disturbato. Non lasciateci soli. Stateci vicino con tutto il vostro cuore. Ne abbiamo veramente bisogno. Vi saluto carissimamente a nome di tutti noi, a nome dei 17.500 giovani del Centro, di tutti gli animatori, di tutti noi che stiamo sognando e lavorando per un Paese diverso, dove sia bello vivere insieme.
Un forte abbraccio.

Claudio

Di Fabio