• 3 Luglio 2024 21:35

Azione nonviolenta – Agosto-Settembre 2001

DiFabio

Feb 5, 2001

Azione nonviolenta agosto settembre 2001

– Le profonde ferite di Genova si curano con la nonviolenza, di Mao Valpiana
– La mostruosa (prevista) follia di Genova. Ci vuole una risata per scacciare il dolore, di Jacopo Fo
– Guai a chi darà scandalo ad uno di questi piccoli. Violenza e sfruttamento dei bambini e delle bambine, a cura di Elena Buccoliero
– I diritti negati delle bambine e dei bambini. Un decalogo per farli vivere meglio, a cura di Daniele Lugli
– Isreaele – Palestina: il nemico che non ha volto, di Nicola Marchesoni
– Premio Langer 2001. Israele e Palestina per la pace

Rubriche

– Musica, a cura di Paolo Predieri
– Educazione, a cura di Angela Dogliotti Marasso
– Storia, a cura di Sergio Albesano
– Libri, a cura di Silvia Nejrotti
– Economia, a cura di Paolo Macina
– Lettere

Le profonde ferite di Genova si curano con la nonviolenza

di Mao Valpiana

Non voglio dire nulla dei G8, che hanno concluso il vertice con un niente di fatto. Non voglio dire nulla del “blocco nero”, composto da professionisti della guerriglia urbana. Non voglio dire nulla della polizia, delle sue provocazioni, della sua violenza.
Mi interessa, invece, parlare di noi e delle prospettive del movimento di critica alla globalizzazione.
Dopo Seattle, dopo Goteborg, dopo Genova, se il movimento vuole avere un futuro, deve affrontare con chiarezza la questione della nonviolenza. Non solo come parola magica da inserire nelle dichiarazioni di principio, ma come fine e mezzo del proprio agire. Qual era il fine? Impedire ai G8 di riunirsi, o trovare soluzioni per un’economia di giustizia? Le tecniche della nonviolenza non possono essere ridotte a training per parare i colpi della polizia, né basta alzare le mani bianche in alto per fare un’azione nonviolenta. Oggi bisogna ripensare completamente i metodi ormai inadeguati come i mega cortei indistinti che sono stati utilizzati dai teppisti quali paravento per le loro scorribande. Dopo Goteborg era evidente (l’abbiamo detto e scritto) che la manifestazione di massa a Genova non andava fatta, che sarebbe stata una trappola. Abbiamo suggerito (ed organizzato) centinaia di iniziative locali, in tutta Italia, cortei silenziosi in fila indiana (per rappresentare chi non ha voce e per essere visibili con la propria identità): un modo per evitare la globalizzazione del movimento antiglobalizzazione… Ma non siamo stati ascoltati.. All’interno del Genoa Social Forum (GSF) è prevalsa la logica “di massa”: tutti uniti sotto la bandiera del no-global (anarchici, comunisti, cattolici, scout, pacifisti, ambientalisti, cobas, tute bianche, missionari, antimperialisti, socialisti rivoluzionari, partiti e sindacati…), pronti ad offrire una prova di forza.
Invece a Genova è stato un massacro, in senso fisico e politico. Tutto prevedibile e previsto.
Troppo facile ora dire che mille delinquenti organizzati hanno impedito a centomila persone pacifiche di manifestare e che la polizia ha fatto il resto.
Non basta dissociarsi dalla guerriglia del Black Block; non basta denunciare le violenze delle forze dell’ordine.
Quel che è accaduto a Genova ha radici profonde e mette in evidenza limiti, approssimazioni, ambiguità di un movimento troppo variegato, che ha allargato indistintamente i propri confini.
Per mesi il GSF ha tollerato ed accettato l’obiettivo delle tute bianche: “invadere la zona rossa”. Il subcomandante dei centri sociali, promosso sul campo a vice portavoce del GSF, ha farneticato per settimane di “guerra ai G8”, ha dichiarato che “l’illegalità diffusa è alla base del cambiamento”, ha definito i poliziotti “soldati dell’impero”. Il GSF anziché sconfessare le tute bianche ed escluderle dal movimento, ha concesso loro il riconoscimento politico e le ha accettate come parte integrante e prioritaria. Il portavoce dei centri sociali ha conquistato la scena, si è messo sotto i riflettori e davanti alle telecamere: obiettivo raggiunto. Da quel giorno il capo delle tute bianche ha indossato la maschera da buono, dichiarando che loro sarebbero andati ad invadere la zona rossa “solo con i corpi, con gli scudi ma senza bastoni” e avrebbero deposto anche le divise. Un consumato politico. Ma chi semina vento raccoglie tempesta. Carlo Giuliani, il 23enne morto, ha preso sul serio le parole di sfida e di odio, ha creduto alla guerra contro i G8 e con un estintore voleva colpire un soldato dell’impero. Le parole sono pietre! Tollerare politicamente chi ha enfatizzato gli animi con proclami e addestramenti al corpo a corpo, è stato un errore clamoroso da parte del GSF. Come è stato un errore mantenere il corteo del 21 luglio dopo la tragedia annunciata del ragazzo morto.
Quando Gandhi assistette a violenze scatenate dall’interno del suo movimento, sospese ogni campagna in atto. La nonviolenza è una cosa seria, che non si improvvisa. E’ da irresponsabili convocare migliaia di persone ad una manifestazione politica delicata, senza avere la capacità e gli strumenti per gestirla.
Genova lascia una ferita aperta, che non si può richiudere addossando tutta la colpa alla polizia, né si può esorcizzarla dichiarando “vittoria” perché il G8 è stato ridimensionato, come ha fatto avventatamente il portavoce del GSF. I problemi del movimento sono ben più profondi e tali resteranno finchè non si affronterà seriamente il nodo della nonviolenza. A partire dai contenuti, ancora troppo vaghi e generici per un movimento che si prefigge addirittura lo stravolgimento dei rapporti economici mondiali.
Ci vuole ora una pausa di riflessione, una purificazione. Ci vuole un lungo lavoro per creare omogeneità di intenti e di linguaggio, di strategia e di tattica. Un movimento non può fare scorciatoie. Deve crescere lentamente, nella chiarezza. Diversamente si combinano solo guai.
E ancora una volta la nonviolenza è questione centrale.

La mostruosa follia (prevista) di Genova
Ci vuole una risata per scacciare il dolore

Di Jacopo Fo

Quello che è successo a Genova è stato mostruoso.

E’ stato sparso sangue e dolore a piene mani.

Ancora una volta le forze dell’ordine hanno ucciso un ragazzo. Il dolore che sentiamo dentro ci porta a guardare i fatti per cercare di capire. Perché noi non vogliamo che in futuro altri ragazzi muoiano. E questo ci costringe a riflessioni dure su questo momento.

Così ci sentiamo in dovere di fare la storia di queste tragiche manifestazioni di Genova. Per mesi c’è stato un grande dibattito nel movimento su come organizzare la contestazione al G8. Molti compagni proposero di seguire la via di Porto Alegre, cioè di non andare a Genova, come si decise di non andare a Davos, e di organizzare altrove una grande manifestazione pacifica che ci permettesse di comunicare con la parola e la festa le ragioni del nostro dissenso.
Questa posizione parve ad un certo punto maggioritaria ma alla fine la rete di Lilliput ha deciso di andare a Genova. Fino all’ultimo abbiamo cercato di opporci a questa scelta.

Scrivemmo a chiare lettere che a Genova si rischiava il morto e che questo era il progetto dei potenti della terra: radicalizzare in senso violento il Movimento costringendolo su un terreno militare.
Visto che ormai i più erano convinti di dover andare a Genova a tutti i costi abbiamo proposto di andare ai cortei nudi, con le mani alzate, e di non tentare assolutamente di entrare nella Zona Rossa. Questa posizione, a metà giugno, sembrava maggioritaria all’interno della Rete di Lilliput. Poi le Tute Bianche intensificarono le dichiarazioni sulla loro intenzione di violare la Zona Rossa e il Genoa Global Forum decise di accodarsi a questa scelta.

Il 7 luglio diffondemmo un comunicato nel quale dichiaravamo che avremmo disertato Genova. Nessun giornale ripubblicò questo comunicato.

Ormai dopo il ragazzo ucciso in Svezia, le lettere esplosive e la pioggia di falsi allarmi per le bombe era chiaro che anche a Genova le probabilità della morte viaggiavano alte. L’ultima settimana è stata per noi un bagno di angoscia, insieme a Dario Fo e Franca Rame e a tanti altri compagni, abbiamo cercato di convincere le Tute Bianche e il Genoa Social Forum a cambiare il programma, a spostare all’ultimo momento il raduno in un’altra località, a lasciare potenti e provocatori da soli con le loro armi. O, almeno, a rinunciare di avvicinarsi alla Zona Rossa. Agnoletto ci rispose che aveva portato questa proposta al coordinamento ma che era stata bocciata.

E arriviamo alla giornata tragica del 20 luglio. Viene recitato un copione già scritto e rappresentato decine di volte negli anni ‘70. Piccoli gruppi di disperati e di provocatori scatenano gli incidenti. Le forze dell’ordine agiscono con ferocia disumana, spingendo i gruppi violenti addosso ai gruppi pacifici e picchiando senza pietà. Certo condanniamo senza mezzi termini questo comportamento barbaro. Ma non possiamo non sapere che provocazione e crudeltà sono una prerogativa ovvia delle forze militari dei potenti della terra.

Si tratta di reazioni meccaniche degli ingranaggi della repressione.

Reazioni certe e prevedibili come quelle di una ghigliottina che ti uccide se infili la testa sotto la lama che sta calando. Un movimento che pretende di salvare il mondo dalla disperazione e dal sopruso non può far finta di non sapere che se infili la testa sotto una ghigliottina finisci decapitato.
La nostra domanda è: come è stato possibile che la Rete di Lilliput, che professa con coraggio il pacifismo, abbia deciso di accettare lo scontro? Molti si stanno esercitando nei distinguo: i militanti di Lilliput erano per i fatti loro, inermi, in una piazza dove discutevano pacificamente e facevano musica. La polizia ha spinto alcune centinaia di violenti in quella piazza per avere la scusa di attaccare il corteo pacifico. Ma, cari amici, care amiche, la polizia fa così da sempre. Potevate credere che a Genova succedesse qualche cosa di diverso? Perché? Crediamo che un movimento che vuole cambiare il mondo debba prendersi le proprie responsabilità. Si è regalata la piazza alla violenza tradendo sostanzialmente l’idea di lottare senza dare spazio agli scontri. E anche le Tute Bianche non sono riuscite, come era ovvio, a mantenere le loro promesse di limitarsi ad azioni difensive. Appena la polizia ha caricato a freddo il loro pezzo di corteo si è passati dalla semplice difesa all’attacco. Ed era ovvio che succedesse.

La radiocronaca degli scontri fatta da Radio Popolare (e confermata dal Manifesto) ci ha raccontato di un cellulare dei carabinieri che, nelle prime ore del pomeriggio, è stato bloccato con alcuni cassonetti dell’immondizia e circondato. I carabinieri sono scappati, tutti eccetto uno che è restato bloccato dentro il mezzo, bersagliato da pietre, con alcuni giovani che saltavano dentro per colpirlo ulteriormente.
Il cronista di Radio Popolare urlava: “Lo massacrano!”. Poi per fortuna la folla ha iniziato a urlare:”Basta! Basta!!” e il linciaggio è stato interrotto anche grazie al sopraggiungere di un altro mezzo dei carabinieri.

E’ così che succede: quando si dà spazio alla violenza non si riesce a limitarla.

Un episodio analogo, un’ora dopo porterà alla morte di Carlo Giuliani: un poliziotto bloccato e ferito in un gippone perde la testa e uccide. E’ chiaro come il sole che il comando militare dei potenti ha cercato il morto, che non si è limitato a difendere la Zona Rossa, resa invalicabile dalle reti di acciaio.

Ed è veramente strano che gli agenti siano stati mandati al massacro a bordo di cellulari e gipponi che mancavano totalmente delle reti di protezione ai vetri, elementare garanzia di sicurezza in questi casi. Se ne sono dimenticati?

Negli anni ‘70 non c’era un solo mezzo che non fosse protetto con reti di acciaio dal lancio dei sassi. E’ palese che in mezzo ai “Gruppi Anarchici” c’erano provocatori di professione e agenti speciali provenienti da mezzo mondo. E’ indiscutibile che questo macello sia stato preparato scientemente da Bush e dai sui subordinati per spostare l’attenzione dalle rivendicazioni del Movimento al disgusto per la violenza “dei soliti estremisti”. E ci sono riusciti perfettamente.
Chi voleva fare dell’appuntamento di Genova uno strumento di comunicazione esce completamente sconfitto. Ha vinto la strategia fascista della tensione e della provocazione. E hanno vinto anche i gruppi terroristici che potranno reclutare centinaia di giovani sconvolti dalla violenza del potere e desiderosi di vendetta.

Ha vinto la logica dei film western dove trionfa sempre chi è più bravo a fare violenza. E completamente fuori dal mondo ci è apparso il comunicato fatto davanti alle telecamere dal portavoce del Genoa Global Forum dopo la morte di Carlo Giuliani: si chiedeva di sospendere il G8, si lamentava che le forze dell’ordine non fossero disarmate come era stato chiesto, si protestava perché i cortei pacifici sono stati aggrediti e si chiedeva come mai 400 casseurs, ben conosciuti dalle polizie di tutta Europa, avessero potuto entrare a Genova indisturbati.

Il portavoce conosceva benissimo la risposta, ovviamente, si trattava solo di “domande retoriche”. Si sa che il potere dei signori del mondo è un potere totalmente criminale che uccide ogni anno decine di milioni di persone per stupidità e per interesse. Il portavoce del Genoa Social Forum avrebbe piuttosto dovuto chiedersi perché siamo stati così coglioni da regalare al mostro della violenza un altro lago di sangue.

La Rete di Lilliput voleva questo? E’ questo il risultato per il quale lavoriamo da anni costruendo concreti momenti di vita ed economia alternativa, etica e solidale? Se non era questo che si voleva, dobbiamo esercitarci in una pesante autocritica che coinvolge anche noi, disperate Cassandre, perché non siamo stati capaci di comunicare una filosofia diversa e un’iniziativa politica veramente altra rispetto a quella del potere.

O forse qualcuno pensa che versando sangue nelle strade d’Europa si possa muovere la coscienza di milioni di cittadini ricchi del primo mondo e convincerli a ribellarsi? Non contateci. L’opinione pubblica oggi è schierata più di ieri a fianco dei potenti. Noi, ancora una volta, siamo stati accomunati ai teppisti. Se l’obiettivo era pagare col sangue la visibilità sui media delle nostre denunce contro chi sta distruggendo il pianeta il flop è stato clamoroso.

O forse si pensa che chiedendo cose impossibili da ottenere risulteremo buoni agli occhi dell’opinione pubblica?

Noi crediamo che un movimento come il nostro debba chiedere solo quello che sa di poter ottenere e avanzare a piccoli passi convincendo e dando fiducia alla gente attraverso la solidità di risultati concreti. La demagogia non serve a sfamare i popoli. E oltretutto non educa a un’azione costruttiva e vincente.

Oggi niente appare più duro che continuare a costruire e propagandare la filosofia del ridere. Per noi ridere non è un condimento da usare per insaporire i cibi nei giorni di festa. Ridere è la forma più alta ed efficace di opposizione al culto del dolore e del sacrificio. Alla liturgia dei funerali dove si piange e si celebra la fine della vita invece di festeggiare il fatto che prima della morte è esistita la vita. Ridere è lo strumento della nostra opposizione contro la miseria del mondo. Noi siamo quel popolo che va a ridere negli ospedali con i malati terminali, nelle periferie disastrate con i ragazzi di strada, negli accampamenti dei profughi dietro i campi di battaglia.

Il nostro cuore sanguina per il dolore di queste morti, di questa disperazione portata dalle armi. E mai come oggi è difficile trovare qualche cosa che faccia ridere. Ma il fatto che in questo articolo non si sia trovato lo spazio neppure per una battuta umoristica non è dovuto al nostro rispetto per la tragicità del momento ma alla nostra debolezza. E per questo ci impegneremo con più forza, nel cambiare ancor di più la nostra stessa cultura. Per liberare la nostra mente dai condizionamenti dell’ideologia del dolore.

Trovare sempre dove la follia distruttrice fa ridere, è l’unica speranza.

Solo una risata seppellirà la sofferenza di questo mondo.
“Guai a chi darà scandalo ad uno di questi piccoli…”
Violenza e sfrutamento dei bambini e delle bambine

di Elena Buccoliero

“L’abuso sui minori è strisciante. Raramente le vittime vengono uccise o portano segni esteriori di violenza. E nella quasi totalità dei casi, la vittima stessa o i suoi parenti cercano di nascondere l’accaduto. Questo rende assai difficile stilare delle statistiche. Per anni mi sono portato dentro la convinzione che, nelle Filippine, una minore su dieci fosse vittima di abusi sessuali di un qualche tipo: poi ho dovuto ricredermi durante un convegno. Un esperto, certo più qualificato di me, sosteneva che la proporzione corretta è di una bambina su tre!”
Shay Cullen è un missionario irlandese che da oltre trent’anni opera nelle Filippine, ed ha orientato la sua opera contro l’abuso sessuale sui minori, arrivando a promuovere incriminazioni contro una sessantina di abusatori e a collaborare con l’Onu a campagne internazionali di tutela dell’infanzia. Lo abbiamo incontrato a Ferrara, nella primavera scorsa, dove ha ricevuto l’edizione 2001 del premio annuale Città di Ferrara e ha raccontato la sua storia.
“Fui mandato nelle Filippine nel 1969, appena diventato membro della Società missionaria irlandese di San Colombano. Trasferito a Olongapo, venni ovviamente in contatto con la realtà della base navale americana. Si può dire che tutti gli abitanti fossero coinvolti dalla sua presenza, simbolo di un benessere che sembrava illimitato e alla portata di tutti. Inoltre, in questa regione non c’erano molte altre possibilità di lavoro. E così, col tempo, molti uomini finirono per diventare dipendenti della base, oppure proprietari di bar, musicisti, procacciatori di ogni genere di merci. E molte donne si tasformarono in intrattenitrici e prostitute. A quel tempo il nostro aiuto ai minori consisteva nel tentativo di assistere i tossicodipendenti e di contenere una violenza che rischiava continuamente di degenerare”.
L’esperienza missionaria di padre Cullen si interruppe nel 1971 per riprendere poi l’anno successivo. Nel 1972 nacque il nucleo centrale di quella che è diventata Preda (la casa di accoglienza rivolta a tossicodipendenti, minori, prostitute e famiglie in difficoltà), in risposta alla legge marziale imposta da Marcos in tutto il Paese e alle molte violazioni dei diritti umani che ne erano discese, anche nella città di Olongapo.
Non ci volle molto perché padre Cullen destasse l’ostilità della potente famiglia Gordon che governava la città. Ciò nonostante, continuò la sua opera avviando programmi di sviluppo economico, oltre che terapeutici e di assistenza. Il suo impegno era concentrato intorno a due punti focali: giungere alla chiusura delle basi americane e combattere lo sfruttamento sessuale delle donne e dei bambini. A questo proposito ci fu un incontro fondamentale, nel 1982.
“La suora responsabile di una piccola clinica mi chiamò ad assistere con urgenza una ragazzina. Aveva scoperto che diverse bambine loro ospiti erano coinvolte nel giro della prostituzione e non sapeva che cosa fare. Inoltre, le autorità le avevano intimato di non far parola con nessuno. In quell’ospedale trovammo una ventina di bambine tra i nove e i tredici anni in cura per malattie veneree. Erano state vendute ai marinai della base americana, da parte di procacciatori locali. Per noi fu come se improvvisamente si fossero aperte le porte di un mondo che avevamo sempre guardato da lontano”.
Una di quelle ragazze, Jennifer, aveva tamponato una emorragia di sangue con la maglietta del suo abusatore, un militare della base americana. Grazie all’etichetta della lavanderia, fu possibile risalire alla persona. Ci fu uno scandalo che non diede alcun risultato dal punto di vista legale, ma ebbe risonanza sulla stampa internazionale. Si cominciava a diffondere l’idea che le basi non fossero soltanto una benedizione.
“La scadenza del trattato che consentiva la presenza della marina statunitense sul suolo filippino scadeva nel 1991-92. La gente di qui non riusciva ad immaginare un mondo senza le basi. Uno dei problemi più gravi era la disoccupazione che avrebbe colpito almeno 20.000 persone. La nostra proposta era di creare una Zona economica, sull’esempio di altre del Paese, che sfruttasse tutte le strutture esistenti, dagli impianti aeroportuali alle abitazioni, alle zone ricreative, integrandole tra loro e inglobandole in un piano di sviluppo nazionale. Elaborammo un Piano di riconversione della base militare che, alla fine, venne approvato e tradotto in Legge. Il Senato di Manila respinse il nuovo trattato presentato da Washington e il 22 novembre 1992 le ultime navi lasciarono il porto”.
Cosa accadde allora?
“Per tre anni i bar sono rimasti inattivi. Poi, con la riconversione al turismo e con il sopravvenire di gruppi di visitatori provenienti dall’estero – tedeschi, svizzeri, inglesi, statunitensi, giapponesi, australiani…- i vecchi problemi sono tornati alla superficie. Il mercato del sesso ha ripreso quota, incoraggiando di fatto l’arrivo di turisti spesso non disinteressati, con alle spalle un personale background di vizio e organizzati dalle reti mondiali di fruitori di sesso esotico o di pedofili”.

Alcune tipologie di abuso sui minori
Dopo l’esperienza della base Usa e, ora, del turismo sessuale internazionale, possiamo dire che la responsabilità degli abusi è comunque da addebitare a stranieri?
“No, il problema non si esaurisce qui. L’80-90% dei pedofili è filippino. E’ un problema enorme e delicato, anche perché la maggior parte degli abusi avviene all’interno delle famiglie. Anzitutto da parte del padre nei confronti delle figlie; poi da parte dei vicini di casa che hanno accesso ai bambini”.
E’ possibile tracciare un identikit dei “turisti del sesso”?
“C’è il semplice molestatore, colui che ne abusa sessualmente, ed infine il pedofilo vero e proprio. Il pedofilo tipo è perlopiù maschio, sposato, con due o tre figli. In genere sono particolarmente abili a mostrare un volto assolutamente irreprensibile. Non ci sono mostri tra loro. Sono prevalentemente persone miti, gentili, che offrono dolci e denaro ai bambini e riescono a guadagnarsi la loro fiducia. E comunque, non sempre si tratta di turisti in cerca di emozioni forti o di poveri alcolizzati che abusano dei propri figli: ci sono anche persone potenti, che si sentono al sicuro”.
Padre Cullen accenna ad alcuni casi particolari.
“Una realtà che stiamo approfondendo è quella di minori che abusano di altri minori, più piccoli. Qui a Preda stiamo seguendo il caso di una bambina di sei anni violentata da ragazzi di dodici, tredici anni, a loro volta vittima di violenza. Questo ci solleva dei grossi problemi di coscienza: come possiamo perseguire legalmente adolescenti che abusano di bambini dopo aver subito a loro volta violenza?
Abbiamo poi il caso di chi abusa di minorenni ma non si può considerare pedofilo in senso stretto. Ragazzi di 14 o 15 anni sono facilmente manipolabili ed è poi difficile stabilire se erano consenzienti oppure no. In Olanda, ad esempio, si è legalmente consenzienti a 14 anni, 16 anni in Germania e in Italia. Nelle Filippine lo sviluppo psicofisico è molto lento, persino l’età legale dei diciotto anni non tiene conto della realtà”.
Che tipo di aiuto offrite ai bambini vittima di abuso?
“Il nostro approccio terapeutico è multidisciplinare: terapia primaria, consulenza e altre forme di assistenza. I bambini trovano cure, sostegno psicologico, comprensione. Non sarebbe sufficiente assisterli: la maggior parte dei ragazzi non hanno nessuna fiducia in se stessi. Per questo il lavoro è così importante ai fini terapeutici, serve affinché possano provare a se stessi che valgono davvero e possano reinserirsi nel mondo concreto”.

Una giustizia difficile
Da circa quindici anni Preda collabora con la giustizia per raccogliere prove a carico dei pedofili. Dal 1986 al 1998, la sua organizzazione ha contribuito ad individuare e, in alcuni casi, a condannare una sessantina di pedofili.
“E’ molto difficile avere giustizia. In molti casi sarebbe meglio se i pedofili venissero perseguiti nelle Filippine, perché nei loro paesi la pena è irrisoria. Nelle Filippine il minimo è otto anni. Un britannico e un australiano giudicati qui sono stati condannati a diciassette anni; un giapponese, addirittura a quarantadue, per aver abusato di cinque minorenni”.
Quali sono le posizioni del governo filippino?
“Attualmente gli strumenti legislativi per perseguire il reato di pedofilia ci sono. Purtroppo resta il problema della corruzione, verso giudici, poliziotti e verso gli stessi genitori dei ragazzini abusati, per cui spesso le indagini vengono insabbiate.
C’è poi un’altra questione. Il governo pare intenzionato a perseguire chi abusa di minori, addirittura con la pena di morte se il minore ha meno di dodici anni e chi ne abusa è un parente. Questo ci crea un problema ulteriore perché noi stiamo combattendo, insieme a tutta la chiesa filippina, contro la pena di morte, da poco reintrodotta nel Paese: a nostro parere non risolve nulla e crea ulteriore criminalità. Porta all’uccisione di bambini da parte dei pedofili, ed accresce il numero delle violenze sessuali: un criminale che sa di rischiare comunque la vita, non si fa scrupolo ad abusare di dieci bambini anziché di uno solo”.
E la Chiesa, in che modo guarda al problema dello sfruttamento infantile?
“Ora qualcosa sta cambiando. In passato, a lungo la gerarchia ecclesiastica ha cercato di coprire il problema, anche perché la Chiesa stessa non ne era immune, all’interno di parrocchie, scuole e strutture educative. Credo che la Chiesa dovrebbe portarsi in prima linea nel denunciare gli abusi, ed essere d’esempio nel cercare delle soluzioni concrete ed efficaci. D’altra parte, se un medico o un insegnante commettono dei crimini o degli illeciti nel loro lavoro, vengono immediatamente espulsi dalla professione… perché questo non dovrebbe accadere in ambito ecclesiastico?”
Quale sarà il passaggio fondamentale per ridurre gli abusi sui minori?
“Ciò che potrà condurre all’eliminazione degli abusi, in Europa come ad Olongapo, è la forza dell’opinione pubblica. I governi possono fare qualcosa, ma alle radici di un vero cambiamento sta solo il diffuso e concreto rifiuto di ogni tolleranza”.

Per chi vuole saperne di più segnaliamo il libro di Stefano Vecchia, “Ladri d’innocenza – Un missionario contro i pedofili”, Ed. Monti, Saronno – Verese, aprile 2000.

Riferimenti legislativi e atti istituzionali di particolare importanza:

– la Dichiarazione delle Nazioni Unite per i diritti dell’infanzia (1959)
– la Convenzione internazionale per i diritti dell’infanzia, siglata a New York il 20 novembre 1989 ed entrata in vigore il 2 settembre dell’anno successivo. Da allora molti Paesi firmatari hanno modificato la loro legislazione interna, o sono in procinto di farlo, come in alcuni stati dell’est europeo.
Tutti i Paesi del mondo hanno ratificato la Convenzione sui diritti dei minori, eccetto la Somalia e gli
Stati Uniti. Secondo Shay Cullen, “la mancata ratifica Usa è dovuta ad una malintesa visione etica, per cui i genitori avrebbero ogni potere sui figli, e poi perché laggiù si reclutano nell’esercito anche sedici-diciassettenni”.
– il Programma di azione Onu per la prevenzione della vendita di minori, della prostituzione minorile e della pornografia infantile (1992), basato su: informazione ed educazione, misure sociali e assistenza allo sviluppo, cooperazione internazionale.
– il piano d’azione approvato dai 122 governi partecipanti al Congresso mondiale contro lo sfruttamento sessuale dei minori a fini commerciali, a Stoccolma dal 27 al 31 agosto 1996, che insiste su tre punti: la prostituzione infantile, il traffico e la vendita dei bambini per scopi sessuali, la pornografia infantile.

In Italia nel ’97 è stato adottato un Piano nazionale contro i maltrattamenti, gli abusi e lo sfruttamento sessuale dei minori. Ad esso è seguita l’approvazione della Legge contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno dei minori, (L.N. 269/98), che autorizza a perseguire connazionali che compiano reati di natura sessuale o pedofila all’estero.

PREDA, un’azione concreta contro lo sfruttamento dei bambini

Preda (People’s Recovery Empowerment and Development Assistance) è stata fondata da Shay Cullen nel 1974 come comunità di prevenzione, educazione e recupero per tossicodipendenti. Dagli anni Ottanta Preda si occupa anche di bambini di strada, emarginazione, sfruttamento sessuale dei minori.
Attualmente Preda si occupa di:

Attività educative e terapeutiche
Ospitalità diretta a tossicodipendenti, prostitute e minori in difficoltà.
Assistenza psicologica a bambini vittime di abusi.
Aiuto ai bambini amerasiatici privi di una vera famiglia, con programmi di educazione che consentano loro di non sentirsi esclusi e marginalizzati.
Come strumento terapeutico e di autofinanziamento, Preda ha avviato diverse attività lavorative, soprattutto legate all’artigianato e alla commercializzazione dei propri prodotti.

Attività sociale e legale
Visite nelle prigioni per contattare i ragazzi di strada e organizzare per loro attività ricreative.
Sostegno ai bambini di strada e alle loro famiglie, in termini psicologici e materiali.
Supporto legale e indagini sui casi di abuso di minori, raccolta di prove, coordinamento con le agenzie di assistenza ai minori, raccolta di documentazione.

Attività culturali e di prevenzione
Campagne a livello nazionale ed internazionale sui diritti dei minori e delle donne, in collaborazione con numerosi partners stranieri.
Prevenzione sui temi della prostituzione, della pedofilia, della tossicodipendenza, dell’aids, della povertà, con seminari ed incontri nelle scuole statali e private, in luoghi pubblici, nelle comunità.
Attività teatrale di sensibilizzazione, nelle Filippine e altrove, proposta da ragazzi e ragazze tra i 12 e i 18 anni.

Sostegno allo sviluppo
Appoggio allo sviluppo economico per tenere le famiglie unite nei villaggi d’origine, per permettere loro di prosperare, tramite esperienze artigianali avviate in molti villaggi, incentivi all’allevamento di bestiame selezionato, produzione e trattamento di prodotti alimentari da esportazione.
Programmi di sviluppo rurale e un piano di microcredito per i più poveri tra i poveri urbani, finalizzato a piccole iniziative imprenditoriali e che finora ha fruttato duemila posti di lavoro nell’industria ittica.

ECPAT – una rete mondiale a favore dei più piccoli
ECPAT (End Child Prostitution, Pornography and Trafficking) è nata nel 1991 per volontà di una sessantina di rappresentanti di organizzazioni governative e non governative, a seguito di un incontro in cui si era preso atto dell’ampio fenomeno dello sfruttamento sessuale dei minori e del legame fra turismo e abusi sessuali in alcuni Paesi asiatici: Filippine, Sri Lanka, Taiwan e Thailandia.
Oggi Ecpat ha sedi in 48 Paesi e si occupa di tutto ciò che riguarda l’abuso sessuale nei confronti di minori. L’area geografica di interesse comprende i Paesi Asiatici, dell’est europeo e i Paesi in via di sviluppo.
Per chi vuole contattare la sezione italiana di Ecpat:

Ecpat Italia
Piazza Santa Maria Liberatrice 45, 00153 Roma
Tel. 06-57287708 – 06-57290738
e-mail ecpat@cambio.it

 

I diritti negati delle bambine e dei bambini
Un decalogo per farli vivere meglio

Di Daniele Lugli

E’ vero: anch’io lo fò, ma per tutt’altre ragioni.
Erode

I diritti dei bambini sono, in ogni campo, solennemente proclamati e palesemente disattesi. Lo dice bene Edoardo Galeano:
Giorno dopo giorno, si nega ai bambini il diritto di essere tali. I fatti, che si burlano di questi diritti, impartiscono i loro insegnamenti nella vita quotidiana. Il mondo tratta i bambini ricchi come se fossero denaro, affinchè si abituino ad agire come agisce il denaro. Il mondo tratta i bambini poveri come se fossero rifiuti, affinchè diventino dei rifiuti. E quelli che stanno in mezzo, i bambini che non sono nè ricchi nè poveri, li tiene legati alla gamba del televisore, perchè fin da molto piccoli accettino, come destino, una vita prigioniera. I bambini che riescono a essere bambini hanno molta magia e molta fortuna.
I bimbi che conosco meglio stanno in mezzo: fin da piccoli sono legati alla gamba del televisore, che guardano intensamente, mentre la mano attende la playstation e l’orecchio il telefonino, che non tarderanno ad arrivare. “Vai dalla donna, non dimenticare la frusta” raccomandava a Zarathustra la solerte vecchia. Così da millenni la donna è il prodotto della frusta, il calco del dominio, per dirlo con Adorno. Una condizione dalla quale è uscita non da molto, non ovunque. “Vai dal bimbo – diciamo noi – non dimenticare la videocassetta”. Gli effetti cominciano a vedersi.
Un direttore didattico, amico dei bimbi e della natura, Gianfranco Zavalloni, di Cesena, ha scritto una Carta dei diritti negati delle bambine e dei bambini. Sleghiamo i nostri bambini dalla gamba del televisore ( sleghiamoci anche noi ) e proviamo ad attuarla.
1 Il diritto all’ozio o meglio all’esperienza non programmata: è un diritto radicalmente negato dal lavoro minorile, per eliminare il quale è necessario, appena, appena, cambiare il modello di sviluppo del mondo. Finora non ci si è riusciti e, visti alcuni cattivi risultati, anche l’impegno generale sembra calato. Ma anche ai bimbi che non lavorano non è riconosciuto il diritto all’ozio, a perdere tempo. Tutta la loro giornata è super organizzata, poco o nullo è lo spazio per accogliere il nuovo, per esplorare senza una meta, in compagnia di coetanei ed adulti. Quando mia figlia era piccola ne ho accolto talvolta l’invito “Ci perdiamo?”. Dovunque fossimo abbandonavamo la strada consueta e via per stradine o viottoli verso l’ignoto, verso l’avventura. Il tempo che ho perso con lei è quasi il solo tempo che mi ritrovo ora. Mi fossi più “perso” con lei mi sarei “perso” di meno.
2 Il diritto di sporcarsi: anche ai bambini (sempre più ai bambini) si chiede di apparire: capi firmati dai piedi ai capelli, per non parlare degli accessori. I giochi sono fatti di materiali artificiali, appositamente studiati, fatti apposta per i bambini: morbidi e tenaci, resistenti e confortevoli, igienici e terapeutici, che si rivelano, nel tempo, inadatti, pericolosi, tossici. Ed è un bene perchè ciò apre la strada a nuove ricerche, a nuovi prodotti. Erba, fango, foglie, terra non vanno toccate: è cacca. Credevo che le giornate di pioggia fossero uggiose per grandi e piccini, finchè mia nipote non mi ha fatto riscoprire lo straordinario mondo delle pozzanghere.
3 Il diritto agli odori: l’esperienza che la maggior parte dei bimbi compie è povera e triste. L’aria puzza del fumo dei mille scappamenti di macchine, moto, motorini, autobus, camion, scaricato giusto all’altezza del naso del bimbo condotto dall’adulto per mano o in carrozzina. Di quando in quando si aggiungono altre puzze più pungenti, che fanno guardare allarmati verso la zona industriale. Deodoranti di varie fogge ed impianti, che promettono meraviglie, tentano il contrasto nell’abitacolo delle macchine e nelle case. Qualche differenza si può ancora cogliere anche in città se portiamo i nostri bimbi dal fornaio, dal biciclaio, dal calzolaio, dal falegname, se non siamo su una strada troppo trafficata, nel parco o sulle mura dopo la pioggia. E’ un diritto ad un modo di conoscere ed alla non atrofia di un senso importante e ricco. Quando ho fatto un corso di sommelier (sì, ho fatto anche questo) mi hanno chiesto di riconoscere i sentori più frequenti nei vari vini ( a parte quelli che ne denunciano i difetti come odore di tappo, muffa, legno, feccia, solfuri, ossidato…) :
fiori – acacia, biancospino, iris, ginestra, rosa, violetta, sambuco, fior di pesco, tiglio, frutta fresca – limone, fragola, lampone, marasca, mora, ciliege. ribes, ananas, banana, mele (renetta, golden, delicius, cotogna), pesca, albicocca, frutta secca – nocciole, mandorle, fichi secchi, prugne, vegetali – erba, fieno tagliato, limoncella, menta, tabacco, sottobosco, alloro, finocchio, mallo di noce, spezie – anice stellato, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, legno di liquirizia, animali – ambra, muschio, cuoio, pelliccia, selvaggina, cacciagione, vari – caffè tostato, mandorle toste, vaniglia, resina, catrame, tartufo, creosoto, cacao, caramello, lieviti, crosta di pane, miele, confettura (precisare quale).
Mi sono reso conto, in buona compagnia, della mia ignoranza olfattiva. Il docente apriva una boccettina di acetato di iso-amile ed ecco riconoscevo l’odore di banana. Vorrei che mia nipote conoscesse la rosa selvatica sulla sua siepe e non attraverso una immagine accompagnata da antranilato di metile. Ma allora bisogna impegnarsi per salvare piante e mestieri odorosi.
4 Il diritto al dialogo: il dialogo, che Calogero pone a fondamento della sua proposta filosofica ed il suo amico Capitini alla proposta politica dei Centri di Orientamento Sociale, è sempre più raro. “Chi può parlare ascolta con maggiore attenzione” diceva Capitini, ma ciò va contro la specializzazione. C’è chi è specializzato a parlare e chi è specializzato ad ascoltare ed applaudire. Un tempo i ruoli si giocavano rispettivamente da balconi e in grandi piazze, ora più comodamente, dal televisore, che pensa anche all’applauso, e nelle proprie case. C’è progresso. Ma anche il dialogo ed il dibattito ci sono, tra esperti e presi dalla strada, su tutti i possibili argomenti. Si moltiplicano i talk show che guardiamo ed ascoltiamo, tifando per l’uno o per l’altro o, imparzialmente, aspettando che degeneri, come deve, in urla di sopraffazione e, ahimè più raramente, in rissa. Il rapporto faccia a faccia è molto difficile: quello feccia a feccia è a portata di mano. Il bisogno di dialogo, che si esprime anche nella CHAT (meglio di niente), può trovare un più solido fondamento nell’incontro e nel dialogo tra adulti, tra bimbi, tra bimbi ed adulti. Vanno costruiti, con attenzione e rispetto, spazi ed occasioni.
5 Il diritto all’uso delle mani: ci sono abilità che non vengono stimolate e trasmesse, abilità che scompaiono. I giochi per i bimbi sono perfetti in sè: soffrono per un loro intervento, che può solo guastarli, romperli. A chiedere l’intervento sono solo i viedeogiochi, sempre più e sempre più precocemente diffusi. Sviluppano una abilità monodirezionale, specializzata. Zavalloni suggerisce di andare in ferramenta a comprare i regali per i propri figli, che imparino a piantar chiodi, segare, scartavetrare, incollare. Mia figlia, molto abile nell’uso delle mani, associa sua figlia ( per questo una nipote è figlia due volte) nella realizzazione di allestimenti per feste od oggetti. Mi sembra uno dei modi più belli ed intensi ( anche per quel che ricordo e pur non essendo io affatto abile) di stare assieme.
6 Il diritto ad un buon inizio: è la grande questione dell’inquinamento che viene alla ribalta. Il neonato ha un motivo in più per piangere quando lascia il ventre materno ed aspira la prima dose di ossidi di carbonio, azoto ed altri inquinanti. Poi verrà l’acqua sempre meno pura e il cibo, derivato dalla chimica di sintesi ed ora anche dalle tecnocologie transgeniche. “Mamma, attenta che il tuo bimbo non mangi schifezze” ammoniscono i contadini, che fino a ieri denunciavano il terrorismo ambientalista sulla produzione dei cibi, fieri di aver fatto fallire un referendum, che voleva mettere al bando i pesticidi. Meglio tardi che mai, comunque. Per assicurare un buon inizio occore portare l’attenzione sull’accoglienza di una nuova vita. Ci sono da riprendere ed incentivare buone abitudini, come l’allattamento al seno. Occorre che l’attenzione che si vuole morale, o come ora si dice, bioetica non si arresti al momento della nascita ( giù le mani dagli embrioni ) per riprendere quando si tratta della morte ( no all’eutanasia ), ma si preoccupi dei nati e delle loro condizioni.
7 Il diritto alla strada: la strada, la piazza erano i luoghi dell’andare, del sostare, dell’incontro, delle iniziative sia per grandi che piccini. Il maggior pericolo, per i ragazzi che giocavano a palla per le strade cinquant’anni fa, nella mia città, era il temuto sequestro della palla da parte dei vigili urbani. Venivano a due alla volta in bicicletta, lentamente, dando tutto il tempo per nascondere il corpo del reato, sottraendolo alla confisca. Se questa avveniva era perchè il confronto era così accanito che l’arrivo dei vigili, pur così solenne, non veniva notato. In prima no, ma in seconda elementare ci andavo da solo ed ero abbastanza grande per accompagnare all’asilo mio fratello di tre anni più piccolo, che forse non ne avrebbe neppure avuto bisogno. Già con mia figlia le cose erano cambiate. Ora i bimbi debbono essere sempre accompagnati, per via del traffico, meglio se in macchina, aumentando quel traffico appunto che costringe ad accompagnarli. Il diritto alla strada – a percorrerla con il massimo di velocità e di rumore, ad occuparla, in lungo e in largo compreso il marciapiede, a riempirla di puzzo e sangue – lo eserciteranno più avanti prima col motorino, poi con la moto e l’automobile. L’eliminazione del traffico privato motorizzato, ovunque possibile, nelle città è un fatto di civiltà e libertà. Non è facile: ho visto sventolare, non mi accadeva da tempo, una bandiera rossa. Naturalmente, dovevo indovinarlo, era della Ferrari.
8 Il diritto al selvaggio: S. Francesco raccomandava di lasciare nell’orto del convento una parte incolta, perchè la natura vi avesse il suo sfogo. Io sono laico, ma la sua raccomandazione merita di essere tenuta nella massima considerazione. Forse anche il suo impegno per la pace, la sua contrarietà alle armi, il rispetto di ogni forma di vita, il rifiuto dell’intolleranza meriterebbero attuazione più convinta nel Paese che lo ha per patrono e che lo ricorda solo come l’inventore del presepe. Abbiamo bisogno di un po’ di natura non contaminata nel mondo tecnologico che ci siamo costruiti. E’ un bisogno semplicemente vitale, per i nostri corpi, come il dissesto idrogeologico attesta e conferma in tutti i modi e le occasioni, per il nostro spirito, che abbiamo imprigionato in una crosta non meno costrittiva di quella realizzata sulla terra. Ne hanno bisogno soprattutto i bambini, che non hanno più fossi dove bagnarsi, boschetti dove nascondersi, alberi da scalare, animali da trovare.
9 Il diritto al silenzio: viviamo con il rumore di fondo del traffico automobilistico, nel rumore che viene dai nostri elettrodomestici più amati: televisori, radio, stereo, fissi e portatili, con le cuffie ben piantate nelle orecchie. La musica più assordante accompagna i momenti di festa di grandi e piccini. Il silenzio è fuggito, fa paura. Perdiamo – dice Zavalloni – occasioni uniche: il soffio del vento, il canto degli uccelli, il gorgogliare dell’acqua. Perdiamo, aggiungerei, l’occasione di ascoltare veramente noi stessi e gli altri. Ci sono leggi che, se applicate, diminuirebbero il rumore e aiuterebbero il diritto al silenzio, l’educazione all’ascolto silenzioso per i bambini e anche per noi.
10 Il diritto alle sfumature: la città ci abitua alla luce anche quando la luce non c’è – dice Zavalloni. Il sorgere ed il tramontare del sole passa inosservato. Non si percepiscono più le sfumature. Quando vedi solo bianco o nero rischi l’integralismo. Non ci avevo pensato. Ma l’attenzione alle sfumature, ai particolari, alle diversità me l’insegna mia nipote, che tutto vede, tutto nota e mi fa rilevare. Guardata con l’aiuto dei suoi occhi la realtà mi appare incomparabilmente più ricca e più varia ed anch’io presto più attenzione.
In questa ricchezza sta forse la possibilità di attuazione dei diritti negati e che la stessa, per il mutamento economico, politico e sociale che comporta, aiuti anche i bambini più poveri, quelli trattati come rifiuti. Come ad es. in Angola, ricca di petrolio e diamanti, dove un bimbo su tre non arriva ai 5 anni ed i sopravvissuti sono destinati a vivere, 8 su 10, in estrema povertà e senza cure mediche. Può aiutare anche i figli dei ricchi offrendo loro un’alternativa alla prigionia nel privilegio.
Israele/Palestina: il nemico che non ha volto

di Nicola Marchesoni

Abbiamo incontrato Dan Bar-On a Gerusalemme, presso le Notre Dame Center, albergo di proprietà del Vaticano, raccomandatoci da Dan Bar-On ed anche dal Consolato italiano, e che scopriamo essere spesso luogo degli “incontri proibiti”, di cui vi racconteremo.
Il professor Bar-On è una persona colta, schiva e molto coraggiosa. Ci racconta dei lavori fatti insieme al professor Adwan sia qui sia in Germania, dove da alcuni anni è in atto una stretta collaborazione con il team coordinato dalla prof. Ursula Apitzsch della facoltà di scienze sociali della Università di Frankfurt e con il prof. Harald Mueller, nominato, a suggello della positiva collaborazione, Presidente Onorario dell’Istituto per la ricerca per la pace (PRIME) di cui i due premiati sono fondatori e condirettori.
Entra subito nel concreto con l´estremo pragmatismo che ci accorgeremo essere il tratto che contraddistingue la personalità e l´agire dei premiati. Per prima cosa ci dice che la sede del PRIME, posta a Beit Jala, vicino a Betlemme, fino a settembre scorso era facilmente raggiungibile in pochi minuti di auto da Gerusalemme, mentre ora i numerosi posti di controllo e di polizia rallentano ed ostacolano persino l`accesso principale all`edificio. Il PRIME è ospitato presso la scuola luterana, frequentata per il 90% da musulmani, che si chiama Thalita Kumi, il cui significato è “giovane donna alzati” e si riferisce ad un miracolo di resurrezione compiuto da Gesù, forse attesa di altri più umani miracoli.
Avvertiamo, infatti, sin da queste prime battute che ciò entrambe le parti si augurano di più sia un urgente ritorno alla normalità, intesa come reintegro dalla follia di quella che appare essere una strisciante e subdola guerra civile. I due premiati hanno tenuto spesse volte le loro settimanali riunioni in auto, nella terra di nessuno, ma controllata da tutti. Alle ore 18 di lunedì 21 maggio abbiamo avuto la possibilità di presenziare ad uno dei giornalieri bombardamenti dalla collina di Gillo, proprio come la TV mostra, su Beit Jala, sede della Brigata 77, coordinata da Hamas.
L´ironia sottile di Dan (i nostri titoli e cognomi vengono immediatamente aboliti dopo brevi ma doverosi salamelecchi) ci ricorda, con l´espressione serena e franca che impareremo ad apprezzare anche in altri più difficili momenti (come il clandestino superamento, protetto solo dalla targa consolare della nostra auto, del check point per Beit Jala, recando un cittadino israeliano al quale è preclusa l´entrata nei “territori”) che ciò che più preoccupa è proprio il ritorno alla normalità da troppo tempo atteso e che si caratterizza, ad esempio, nel semplice diritto di spostarsi liberamente per visitare un parente di un altro villaggio situato a dodici km, superando tre check points e dopo varie ore di guida per strade secondarie, quando, invece, prima dell’ultima intifada occorrevano poche decine di minuti.
La libertà di spostamento e di stabilimento di un´attività economica è indispensabile per ragioni di lavoro, considerato il tasso di disoccupazione, salito a livelli altissimi dopo l´aggravarsi della situazione di settembre scorso causata dall´insorgere della terza intifada (secondo un rapporto consegnatoci da Yael Stein, direttrice di “B’tselem”, ONG israeliana che si occupa della violazione dei diritti dell`uomo nei territori palestinesi).
Molti sono i palestinesi che si recano giornalmente a Gerusalemme, per guadagnare lo stipendio, sola fonte di reddito accanto alle rimesse di coloro che, considerati a seconda profughi o emigrati, si sono stabiliti all´estero, negli ultimi anni specialmente in America meridionale ed anche negli USA. Ad ogni spostamento è necessario essere muniti dell´indispensabile permesso di lavoro, le cui procedure per il rilascio sono sottoposte al rigido e spesso pedante controllo dei servizi di sicurezza israeliani.
Dan ci ricorda che quasi tutte le organizzazioni miste, faticano molto a lavorare, per il clima di sfiducia, ma mai di rassegnazione, parola sconosciuta nel lessico dei nostri amici “indigeni levantini”, mia libera espressione che vuole semplicemente sottolineare che ogni tanto meglio sarebbe, in luogo di parlare di arabi, arabo-israeliani, palestinesi, profughi etc., considerarli uomini sofferenti e stufi di una situazione da troppo tempo in drammatico stallo, ora più che mai da Oslo 1993.
Fra due giorni Dan partirà per Washington, “per svolgere attività di lobbyng” ed incontrare persone influenti che diano supporto e finanziamenti specifici per i progetti futuri e per ottenere la liquidazione dei fondi degli ultimi progetti, che hanno ottenuto anche il sostegno della Banca mondiale, incentrati sullo studio dell´ “altro” nella nostra cultura, sulla conoscenza e studio della storia (è insieme triste e assurdo sapere che i libri di storia palestinesi non contemplano l´olocausto degli ebrei!) condotta da gruppi paritetici di adolescenti israeliani e palestinesi e sull´ individuazione di strumenti per la risoluzione pacifica dei conflitti e per la costruzione della pace.
Sami Adwan è docente di pedagogia all’Università di Betlemme. Membro di una famiglia musulmana praticante di Beit Sahur, negli anni 1991-1992 è stato rinchiuso nelle prigioni israeliane come attivista palestinese, in applicazione dei provvedimenti di emergenza che consentono di arrestare chiunque, senza alcun provvedimento di convalida da parte del giudice, e mentenerlo in stato di detenzione per un tempo non determinato. E´ il trionfo della legge del sospetto, ove la pretesa imputazione di un individuo per un reato penalisticamente definito “di mero sospetto” o “di posizione”, porta a “prevenire” la commissione del reato “integrando” in luoghi di controllo, dal carcere alla fabbrica, il probabile autore, facilmente individuabile dalla sua lingua, dai suoi costumi, insomma dal suo essere umano,
Ha studiato dal 1972 al 1976 ad Amman, in Giordania, e ha conseguito il suo diploma in Pedagogia, dal 1976 al 1979 ha lavorato in qualità di lettore ad Amman. Nel 1979 è migrato a San Francisco, dove si è laureato alla California State University. Vive a Betlemme con la moglie e sei figli.
Dal 1982 al 1984 Sami ha lavorato come lettore all’Università di Hebron. Nel 1987 torna all’Università di San Francisco dove consegue il Ph. D. in Education Administration; ha lavorato con diverse ONG`S, specialmente su progetti di revisione dei testi scolastici.
Dan Bar On e Sami Adwan si erano conosciuti attraverso il lavoro promosso da diverse ONG´S, ed in particolare modo nel “Child and Health Care Center” a Gerusalemme Est, ed il lavoro comune per lo studio empirico sullo studio della storia tra adolescenti israeliani e palestinesi.
Nel 1999 hanno fondato a Beit Jala l´organizzazione non governativa indipendente PRIME, che è gestito, in maniera completamente paritetica, da israeliani e palestinesi.
Con il coinvolgimento diretto di numerosi altri colleghi e giovani il PRIME promuove, in una situazione molto critica, progetti e iniziative volte a ricostruire processi di pace e di democrazia, una lettura comune degli avvenimenti storici, la difesa dell’ambiente come patrimonio indiviso, come “common goods” messi in pericolo dal conflitto.
La pubblicazione che descrive i progetti del PRIME raffigura in copertina un israeliano ed un palestinese che innaffiano due alberi vicini ma diversi, ciascuno attingendo al proprio innaffiatoio, posti di spalle ma con l´occhio rivolto in alto, dove si nota che le fronde delle stesse piante, rivolte come ogni creatura al cielo, alla ricerca di luce e quindi di vita, necessariamente si intrecciano e rigogliscono.
Nel dettaglio, ricordando che tutto il materiale e le fonti sono disponibili presso la sede della Fondazione Langer, oltre agli obiettivi già citati, il PRIME è deputato alla riduzione delle esistenti asimmetrie e diseguaglianze tra israeliani e palestinesi, a promuovere i diritti umani e a realizzare una piena libertà accademica, mantenendo l´indipendenza da interessi politici di entrambe le parti e dimostrando una “practical solidarity” quando i nominati principi e diritti siano minacciati o violati, sempre mirando ad una eccellente livello qualitativo di scolarizzazione, di convivenza e di rispetto per l´ambiente, quest´ ultimo inteso, oltre che nel significato tradizionale, soprattutto come tessuto socioeconomico in cui interagiscono gli individui, che troppo spesso appare secondario e talvolta è giudicato ininfluente nella dinamica dello sviluppo relazionale.
Attualmente i main projects sono quattro: azione congiunta per la costruzione della pace di ONG´S ambientaliste israelo-palestinesi; opportunità per la risoluzione pacifica dei conflitti che dividono israeliani e palestinesi; condivisione della storia, dove palestinesi ed israeliani scrivono insieme la loro storia (c’è anche un progetto per conservare la memoria degli anziani, intervistati con videocamera, per costituire un patrimonio audiovisivo finora inesistente); infine, un progetto di vera e propria riconciliazione tra palestinesi ed ebrei rifugiati.
Insomma, obiettivi ambiziosi, condivisibili e difficili, spesso osteggiati e mantenuti in piedi con il solo personale impegno dei collaboratori del PRIME, come ad esempio il sig. Jasúr, responsabile del centro di igiene mentale infantile di Betlemme, che ci ha raccontato episodi veramente impressionanti di incredibile aumento di patologie psichiatriche infantili dovute al riaccendersi dell´intifada. E’ facile, in totale assenza di strutture ricreative come parchi o piscine o campetti da calcio, adocchiare una ruvida pietra, soppesarla leggermente nella mano e scagliarla lontano, verso “il nemico che non ha volto”.

 

Premio Alexander Langer 2001 Israele e Palestina per la pace

Il comitato della Fondazione Alexander Langer ha deciso di assegnare il Premio Alexander Langer a Sami Adwan e Dan Bar On.

Dan Bar On è nato a Haifa, figlio di emigranti ebreo-tedeschi. E’ stato per 25 anni membro del Kibbuz Revivim, ha lavorato in ambito agricolo e nel contempo ha studiato psicologia sociale. Per molti anni si è occupato dei figli delle vittime dell’Olocausto e dei figli dei loro carnefici analizzando le conseguenze dei traumi subiti da entrambe le parti. I suoi libri su questo argomento sono stati tradotti in molte lingue. Come docente dell’università di Beer Sheva Dan Bar On, ancor prima che si arrivasse agli accordi di Oslo, aveva istituito gruppi di dialogo fra studenti israeliani e palestinesi sulla base di una concezione del conflitto che considera la convivenza all’interno della società civile la cosa per cui “combattere” senza però tralasciare di elaborare i motivi del conflitto. Dopo la stipulazione degli accordi di pace di Oslo Dan Bar On ha allacciato stretti contatti con organizzazioni non governative palestinesi che intendevano promuovere il processo di pace al fine di migliorare le condizioni di vita della popolazione palestinese.

Sami Adwan viene da una famiglia musulmana praticante di Beit Sahur nei pressi di Betlemme. Dal 1972 al 1976 ha studiato in Giordania ad Amman, dove dopo aver conseguito il diploma in pedagogia è restato per lavorare in qualità di lettore. Nel 1979 si trasferisce a San Francisco con tutta la famiglia, laureandosi alla California State Univerisity. Dal 1982 al 1984 Sami Adwan ha lavorato come lettore all’università di Hebron. Nel 1987 ritorna a San Francisco, dove ottiene il Ph.D. Dopo il suo ritorno nella West Bank nel 1991-1992 è rinchiuso nelle carceri israeliane con l’accusa di essere un attivista palestinese. Dal 1992 è docente di pedagogia all’università di Betlemme, specializzandosi in questioni relative al conflitto israelo-palestinese e in educazione ambientale. Sin dall’inizio dei colloqui di Oslo collabora con numerose organizzazioni non governative, occupandosi in modo particolare della revisione dei libri di scuola nei territori autonomi.

Mentre molti parlano del fallimento del processo di pace di Oslo, Sami Adwan e Dan Bar On con la loro collaborazione continuativa e con la fondazione del PRIME alla fine del 1999 hanno dato un esempio pratico del fatto che la collaborazione fra gli appartenenti ad entrambi i popoli rappresenta il solo modo praticabile per uscire dal conflitto attuale che tenga conto degli obiettivi umani, democratici e ambientali. Con il loro lavoro concreto, svolto con grande impegno nonostante le crescenti difficoltà degli ultimi mesi e esponendosi a gravi rischi, assistiti da altre donne e altri uomini palestinesi e israeliane/i, Sami Adwan e Dan Bar On continuano a credere nella possibilità di trovare soluzioni democratiche ed eco-sostenibili per questa regione contesa, il che nel contempo è anche ciò che si chiede alle forze politiche. Il PRIME si propone di contribuire a realizzare le infrastrutture intellettuali per un possibile progetto di pace, di rimuovere gli ostacoli attualmente esistenti e apparentemente insormontabili che impediscono il processo di pace e di influenzare in tale senso l’opinione pubblica in Israele e Palestina. Per fare ciò bisogna soprattutto formare una nuova generazione di insegnanti e politici che siano disposti a garantire la coesistenza pacifica e la cooperazione nonché la salvaguardia dell’ambiente sociale e naturale. In questo senso PRIME contribuisce già oggi al rafforzamento della società civile in Palestina e in Israele attraverso una serie di progetti, sia in fase di attuazione che di elaborazione.

Assegnare il premio a questi due uomini di scienza attivisti della pace e ambientalisti significa premiare il lavoro e lo sforzo di persone che vedono in uno sviluppo civile, democratico ed ecologico del Medio Oriente l’unica possibilità di risolvere il conflitto nella loro regione e che sono disposti ad impegnarsi per un superamento del conflitto nonostante le pressioni e noncuranti dei pericoli.

MUSICA
A cura di Paolo Predieri
Quando la passione politica si unisce al senso lirico

In una bella osteria di Bologna incontriamo e intervistiamo Claudio Lolli, storico cantautore bolognese e indimenticato autore di un repertorio simbolo dell’impegno in musica (per esempio “disoccupate le strade dai sogni”, “vecchia piccola borghesia”…) quest’anno ha pubblicato l’album “dalla parte del torto”.

Wodhi Gutrie affermava che “le canzoni sono da adoperare e non solo da ascoltare passivamente”, tu in passato, soprattutto nel ’77, eri considerato tra i cantanti “guida” del movimento di contestazione e quindi le tue canzoni erano usate come simbolo da questo movimento. Come ti trovavi in questo?
Non mi da fastidio pensare a questo anche se non era vero perché io ho cominciato a scrivere e cantare in un periodo in cui le canzoni erano un po’ troppo adoperate. Comprimevano molto il livello di emozione individuale. Non mi piacevano quelle canzoni che erano degli slogan e inni politici. L’inno, secondo me, ha linguisticamente qualcosa di autoritario e di militaresco, che sia di destra o di sinistra. Io non avevo voluto scrivere degli inni, ho cercato di combinare nelle mie canzoni la passione politica e per il mondo ad un senso lirico di percezione di stare al mondo che mi sembra più difficile e più vero. Di inni ce n’erano molti ma erano troppo semplicistici e poco rispettosi dell’ascoltatore. Le canzoni, quindi, vanno adoperate sicuramente e io credo che qualcuna delle mie lo sia stata e questo mi fa piacere, però non le ho scritte col progetto preciso che fossero adoperate, le ho scritte per scriverle. Se qualcuno le ha trovate degne di essere adoperate o se si è riconosciuto in parti di esse questo va benissimo.

Ti sei fatto un’idea di questi movimenti di base, non partitici, che ultimamente stanno lavorando molto sulla contestazione alla globalizzazione e sulla ricerca di forme di vita più sostenibili?
Mi sembra interessante la trasversalità che c’è all’interno di questi movimenti e mi sembra un segno di un superamento di un sistema di attribuzione di zone di pensiero, di zone di influenza o di modalità organizzative. E’ come se tutto quello che abbiamo pensato di politico fino ad oggi fosse inadeguato ad affrontare un problema di livello globale. C’è un cambiamento di linguaggio rispetto ai vecchi modi da far politica; questa novità linguistica, che risponde ad una percezione affettiva del mondo, scardina la gabbia ideologica e va alla ricerca del nuovo e del giusto.

Anni fa hai scritto “morire di leva”. Tra qualche anno la “naia” scomparirà per far posto all’esercito professionista. Che idea ti sei fatto di questo?
Questa domanda mi imbarazza molto, perché francamente non lo so. Quella canzone nasceva dalla tragica esperienza di un mio amico siciliano, un ragazzo normale che però ha vissuto il periodo di leva con molta drammaticità. Quindi l’esercito di leva è sicuramente una situazione violenta, gerarchica e la sua fine non può che farmi piacere. Da un altro punto di vista però l’esercito professionale mi inquieta molto perché sembra una specie di corpo separato dalla volontà popolare che in qualche modo doveva rappresentare lo Stato. Anche perché una certa “democraticità” (almeno sulla carta) nell’esercito di leva era possibile, mi ricordo ad esempio che nel periodo di Lotta Continua c’era una grande lotta politica anche all’interno dell’esercito…

Ti riferisci ai “proletari in divisa”? con loro c’era anche un giovane Alex Langer…
Certo, grandissimo e compianto personaggio. Loro cercavano di avere una voce, di svolgere un’azione contrastiva e di controllo. Penso che in un esercito professionale qualsiasi tipo di azione di controllo possa venire meno.

Che cos’è la nonviolenza per Claudio Lolli ?
A volte mi sembra che venga considerata come un valore in sé, astratto, un valore di principio e non contestualizzato.
Io penso che il mondo in cui viviamo sia molto violento e quindi non credo che la violenza possa essere un’astrazione e valutabile in un unico modo. Forse sarebbe più giusto parlare di violenze che di violenza. Ci sono le violenze che uccidono le persone, le violenze che sfruttano i minorenni, quelle che sfruttano capitalisticamente e le violenze dei gruppi giovanili urbani che sfasciano qualche vetrina. Non penso che le due cose possano essere messe sullo stesso piano. Penso che le questioni di principio abbiano creato molti disastri, analizzare un problema dal punto di vista del principio crea l’astrazione dal concetto. Non possiamo sradicare i concetti dalla radicalità del contesto in cui si verificano.

a cura di Massimiliano Pilati e Sandro Sorrentino

EDUCAZIONE
A cura di Angela Dogliotti Marasso
Le strutture genealogiche della violenza e gli interventi di solidarietà educativa

1. Le strutture genealogiche della memoria: la rielaborazione del passato.
Da almeno un paio di secoli la guerra è un modus vivendi della cultura balcanica. Questa è un’affermazione piuttosto grave e me ne rendo conto. D’altronde uscire dall’inconsapevolezza e dalla banalità della violenza significa riappropriarsi della memoria in senso critico e rielaborativo, abbandonando una visione basata sulla pura e semplice rievocazione del passato (basti pensare alla fissità con cui i Serbi hanno congelato certi avvenimenti storici, ad esempio la trecentesca battaglia del “Campo dei Merli”).1
Questo è un processo formativo e culturale che necessariamente impegna un’intera generazione.
La generazione che viene preservata dalla violenza può decidere di rinunciare alla preparazione della vendetta per crearsi gli antidoti affinché l’odio non si ripeta più.
Solo un’azione formativa basata sulla rielaborazione della memoria può impedire che si ripeta inconsapevolmente e in maniera automatica il contenuto del passato. La memoria da questo punto di vista è una struttura culturale-formativa, che deve avere dentro di sé la dimensione dell’apprendimento. La memoria è quindi una condizione rigenerativa e non una condizione nostalgica a differenza di altre modalità come la pura e semplice rievocazione. È la capacità di trasformazione del passato in una dimensione che consenta di uscire dai vicoli ciechi, dagli ingorghi oppressivi, dalle reiterazioni, dagli automatismi.
La capacità di usare costruttivamente la memoria è una capacità abbastanza rara nei popoli. Senz’altro l’esempio della Germania è, da questo punto di vista, uno dei più interessanti. Come dice lo storico Gustavo Corni, sull’ultimo numero di Novecento. Rassegna di storia contemporanea2, “Io ritengo che nella Germania federale dopo la fine della guerra – superata una fase piuttosto lunga di relativa disattenzione (motivata anche da ragioni politiche) per ciò che era avvenuto durante il regime nazionalsocialista – si sia instaurata una sana cultura della memoria. Una cultura che ha prodotto numerosi e accesi dibattiti con un forte coinvolgimento dell’opinione pubblica e non soltanto degli addetti ai lavori. Quest’attenzione per la riconsiderazione della memoria storica ha prodotto fra l’altro il cosiddetto Historikerstreit alla metà degli anni Ottanta; ma vorrei ricordare che forse il vero punto di svolta si era avuto un ventennio prima, con la cosiddetta Fischerkontroverse, che riguardava il ruolo dell’Impero tedesco nello scatenamento (e nella conduzione) della prima gerra mondiale. Se facciamo un confronto con l’Italia, ancor più con il Giappone (si veda l’esauriente libro di I. Buruma, pubblicato qualche anno fa), ma se facciamo un confronto anche – più recentemente – con le riflessioni sulla storia contemporanea innescate nei paesi dell’ex blocco comunista, mi sembra che il caso tedesco risalti per una forte attenzione e per un profondo coinvolgimento dell’opinione pubblica. La peculiarità tedesca arriva al punto – a mio avviso – che, fedeli alle loro tradizioni culturali di Gründlichkeit, gli storici tedeschi e la stessa opinione pubblica in non pochi caasi sono arrivati all’orlo di fasi quasi ‘autodistruttive’, nelle quali è emersa a tratti una sindrome di profondo rigetto della propria storia, quasi di pessimismo culturale.”
In altre parole se Hannah Arendt nel suo famoso libro La banalità del male3 seguendo il processo ad Eichmann a Gerusalemme aveva intercettato la banalizzazione della memoria che veniva strumentalizzata , utilizzata non in un senso pieno ma semplicemente strappata a brandelli utilizzando solo i frammenti che potevano servire a liberare la Germania dall’ansia del suo passato, ecco che dopo, con la generazione “dei figli”, la Germania riesce, anche grazie al grande contributo di scrittori come Peter Weir, Heinrich Böll, a fare un’operazione da un lato di ricucitura morale rispetto al proprio passato e dall’altro di identificazione di quelle che erano le radici profonde del nazismo. Non va dimenticato che in Germania l’antisemitismo è presente in maniera piuttosto profonda fin dalla seconda metà dell’Ottocento, non può certo essere visto come un fenomeno unicamente legato all’ideologia nazista, che ebbe piuttosto il ruolo di rendere palese e formalizzare uno stato d’animo collettivo che era, come ci dicono tanti storici, profondamente orientato almeno per alcuni aspetti verso l’antisemitismo.
Questa capacità tedesca è emblematica di ciò che occorre fare per uscire dall’ingorgo genealogico, che si crea quando i padri chiedono ai figli di ripetere lo stesso copione per legittimare ciò che loro stessi hanno fatto di generazione in generazione. Questo atteggiamento è sconvolgente, ma in tante parti del mondo sta proseguendo con un’incredibile complicità e naturalezza.

2. Una vera solidarietà è anche educativa.
In questi ultimi dieci anni abbiamo assistito in varie parti del mondo all’esplodere di conflitti etnici e non solo. Sanguinano zone molto povere del pianeta, nel caso dell’Africa, o zone segnate storicamente dalla violenza, come l’area balcanica, che appartiene all’Europa. La fine della guerra fredda è servita come da detonatore per queste violenze che si celavano sotto il tappo ideologico.
Il rispetto della cultura è anche comprensione della cultura. Non si può pensare che il rispetto diventi una sorta di adorazione della cultura dove si va a intervenire, lasciando intatti i meccanismi profondi che hanno creato la violenza stessa. Questo è un atteggiamento di grande irresponsabilità, che non è di aiuto né a chi soccorre né a chi viene soccorso. Penso che un volontariato attento, vigile si debba porre di fronte alla violenza altri tipi di problemi che non siano semplicemente soccorrere le vittime. Già nel 1994 durante un convegno organizzato a Milano dal Centro Psicopedagogico per la Pace, affrontando il tema dei bambini e la guerra si introdusse il concetto di solidarietà educativa, ossia di un tipo di solidarietà che si pone il problema di offrire anche risposte formative, in modo che una serie di reiterazioni storiche non abbia a ripresentarsi di generazione in generazione4. In quell’occasione dissi esplicitamente che le vittime possono diventare aguzzini, e che un intervento puro e semplice a favore delle vittime non preservava minimamente dalla possibilità che queste stesse in un secondo tempo passassero dall’altra parte della barricata. Nei Balcani questo è ampiamente avvenuto, anche solo nel giro di dieci anni. La mia fu una facile profezia.
Ora nell’area balcanica assistiamo all’enfasi, sia in Croazia che in Serbia, della ritrovata democrazia. Sembra una ripetizione di quello che era successo con la fine della seconda guerra mondiale: tanti paesi europei pretesero di uscire dalle dittature senza fare i conti con il loro passato. Questo purtroppo è avvenuto anche in Italia. In realtà è necessario che i popoli che sono vissuti in una situazione di profonda violenza siano aiutati a ritrovare la capacità di uscire dagli ingorghi che ho definito genealogici, e a ritrovare il senso della memoria costruttiva.
Da questo punto di vista penso che ogni singola iniziativa vada immessa in un contesto formativo, e occorre capire come vada a incidere sulle strutture profonde di una civiltà. In Kosovo in altre parole il problema non è semplicemente quello di aiutare i bambini ad uscire dal trauma della guerra ma è quello di aiutare i bambini ad apprendere a vivere senza la violenza, dal momento che per loro la violenza tenderà ad essere una struttura relazionale ovvia e scontata.
Il problema non è soltanto fare in modo che si passi dall’aiuto esterno all’aiuto autonomo e autocentrato, ma fare in modo che questo aiuto consenta di imparare a fare a meno di ciò che ha creato la violenza, di quei complessi sistemi culturali, relazionali, sociali, familiari che sono alla base dei comportamenti collettivi devastanti. È quindi una riflessione di senso che occorre attivare, e non semplicemente una riflessione tecnica sull’efficacia di certi interventi. Questo non è un giudizio, ma una comprensione. Un giudizio sarebbe una condanna aprioristica; la comprensione è la capacità di cogliere perché è successo quello che è successo e che cosa fare per poter migliorare.
Vorrei in proposito ricordare l’esperienza di Danilo Dolci che negli anni Cinquanta iniziò un grande lavoro sociale nella Sicilia occidentale, un’area al limite della miseria, in cui le attività che creava servivano a porre delle leve per un cambiamento più sostanziale. Sentiamo per esempio cosa dice su un possibile centro educativo: “Il centro educativo sta diventando, all’interno delle famiglie, un’occasione di ripensamento dei rapporti familiari, una leva per far scricchiolare una parte della vecchia struttura sociale economica e politica. Il lavoro che svolgiamo si pone come obiettivo non solo quello di far maturare i ragazzi, ma attraverso di loro penetra nelle famiglie e influisce sulla loro mentalità creando e portando avanti nuovi fronti democratici.”5 Con gli opportuni aggiustamenti questa frase di Dolci include anche il compito che oggi un volontariato maturo deve necessariamente porsi per attuare una solidarietà educativa. Si richiede uno sforzo nuovo, alla capacità di porre domande che finora non si è avuto il coraggio di porre perché la storia non continui a ripetere se stessa e il contributo di tante persone generose possa davvero segnare l’inizio di nuovi patti – nonviolenti e pacifici – fra gli individui e i popoli.

Daniele Novara

2° parte (fine)

STORIA
A cura di Sergio Albesano
Le radici storiche dell’antimilitarismo

L’antimilitarismo ebbe in Italia alcune manifestazioni, per lo più spontanee e disorganizzate, già prima degli anni Novanta dell’Ottocento, ma fu proprio in questo periodo che esso acquistò nuova profondità e diffusione. Esistevano allora tre filoni diversi di antimilitarismo. Il primo era quello della sinistra democratica, che comprendeva garibaldini e mazziniani, repubblicani e radicali. Essi, partendo da un acceso patriottismo, condannavano l’impronta autoritaria dell’esercito e la crescita vertiginosa delle spese militari. La loro critica, però, era condotta all’interno della classe dirigente e non metteva in discussione l’essenza dello Stato liberale; essa non ebbe alcun effetto, se non quello di rafforzare fra le gerarchie militari il sospetto verso le forze progressiste di qualunque genere. Il secondo filone fu quello dell’antimilitarismo delle masse popolari, un sentimento difficilmente definibile, quasi impalpabile, eppure profondamente presente fra la popolazione. Le masse allora provavano indifferenza e spesso ostilità nei confronti dello Stato “che conoscevano attraverso gli esattori di imposte e i carabinieri molto più che per la fornitura di scuole e servizi”1. L’esercito era l’istituzione statale con cui tutte le famiglie entravano in rapporto attraverso la leva obbligatoria e in un’economia spesso ai limiti della sussistenza la sottrazione di giovani vigorosi per due o tre anni era senz’altro un’imposizione gravosa. Questa forma di antimilitarismo non ebbe risultati pratici e anzi confermò fra i militari la convinzione della necessità di una disciplina rigida e di una ferma relativamente lunga. Bisogna anche aggiungere che il servizio militare era divenuto un fatto culturale per la popolazione maschile, per la quale la chiamata davanti al consiglio di leva rappresentava il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, quasi come l’equivalente laico di un sacramento religioso. L’idoneità fisica era accoppiata alla capacità virile e l’essere riformati veniva considerato un disonore2, mentre le operazioni di sorteggio introducevano un elemento cabalistico destinato a colpire profondamente l’immaginario popolare. Infine i coscritti si identificavano come gruppo, legato da vincoli di solidarietà e di complicità, tollerato nelle sue forme di esuberanza chiassosa e spettacolare, legate soprattutto al canto e all’affermazione della virilità. Per molti giovani delle classi popolari il servizio di leva era la sola occasione per uscire dal ristretto orizzonte del paese natio; costituiva perciò un’esperienza che spesso sarebbe stata evocata con nostalgia. Il terzo e più caratterizzato filone di antimilitarismo fu quello che unì anarchici e socialisti, i quali condussero campagne dai toni violenti contro la struttura militare. Ricordiamo in questo campo la figura di Andrea Costa (1851-1910) di Imola, uno dei padri fondatori del socialismo italiano, che nel 1886, al tempo della prima guerra d’Italia contro l’Abissinia, pronunciò in Parlamento la storica frase: “Né un uomo né un soldo per la guerra”. Nonostante la mancanza di successi concreti, questa opposizione politicizzata allarmò fortemente gli ambienti militari, aumentando la loro diffidenza verso le masse popolari e collocandoli ancora più a destra nel panorama politico.
Nei primi anni del ‘900 esistevano in Italia molte associazioni per la pace basate, secondo la tendenza dell’epoca, sul concetto di arbitrato internazionale. Si trattava quindi di un pacifismo legalistico, non rivoluzionario né assoluto. L’idea dell’arbitrato costituì il centro degli sforzi dei pacifisti della seconda metà del secolo XIX, che nutrivano fiducia nel progresso del diritto internazionale e nei governi illuminati. In confronto ad altri Paesi, le organizzazioni pacifiste sorsero in ritardo in Italia, anche perché poterono costituirsi soltanto nel nuovo clima di libertà civile ottenuta dopo il 1870 con la sparizione dei vecchi regimi retrogradi e assoluti, con la diffusione dell’istruzione pubblica e con la possibilità di conoscere le idee presenti nelle altre nazioni. Molti uomini che avevano preso parte alle guerre del Risorgimento divennero banditori della fraternità delle patrie e della confederazione europea e serbarono le cruente visioni dei campi di battaglia a stimolo per l’opera di conciliazione fra i popoli. Nel 1891 al Campidoglio di Roma fu inaugurato sotto la presidenza di Ruggiero Bonghi il terzo degli otto “Congressi mondiali della pace” che dal 1889 al 1897 si tennero in varie città del mondo. Milano divenne il centro delle attività pacifiste italiane che trassero impulso dall’opera di Ernesto Teodoro Moneta3 (1833-1918). Egli nel 1887 fondò l’”Unione Lombarda per la Pace e l’Arbitrato internazionale”, che in seguito assunse il nome di “Società internazionale per la pace (Unione Lombarda)” e dal 1924 quello definitivo di “Società per la Pace e la Giustizia internazionale”. Essa divenne l’organizzazione per la pace più attiva non solo in Italia ma forse anche in Europa e promosse congressi, conferenze, pubblicazioni, esposizioni e condusse un’attiva propaganda antimilitarista. Per sua cura uscirono annualmente dal 1890 al 1937 molti numeri di almanacchi illustrati per la pace, ricchi di materiali e diffusi a forti tirature. Nel 1907 Moneta ricevette il Premio Nobel per la Pace, condiviso con il francese Louis Renault. Ma quando il 29 settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia, il vecchio pacifista diede la sua approvazione in nome della “legittimità dei diritti italiani”, augurandosi tuttavia un conflitto di breve durata e di poche vittime! Infine nel 1937 la Società fu disciolta dal fascismo perché svolgente “attività contrastante con le direttive del Regime” e i suoi beni furono confiscati. Il caso Moneta – al quale però non si possono negare benemerenze – fornisce un esempio di quel pacifismo che, per essere circoscritto entro basi “patriottiche”, sovente andava incontro a contraddizioni. Un altro esempio è fornito dal deputato liberale Edoardo Giretti che nel 1911 aveva protestato contro il bellicismo della Società monetiana e che nel 1915 si schierò a favore dell’entrata in guerra dell’Italia. Dello stesso tipo del pacifismo ultimo di Moneta fu quello dello scrittore Angelo De Gubernatis, nonostante la bella idea che ebbe di costituire a Roma, in occasione delle celebrazioni per il cinquantenario dell’unità nazionale, un Museo storico della Pace. Più integro fu invece il pacifismo di Enrico Bignami che pubblicò dal 1906 al 1919 nella Svizzera italiana la rivista “Coenobium” che dal 1913 ebbe una rubrica intitolata “Guerra alla guerra!”. Ricordiamo anche la figura del padre barnabita Alessandro Ghignoni, che sostenne sempre l’incompatibilità tra cristianesimo e guerra e la necessità di un assetto sociale e morale atto a distruggere le radici dei conflitti armati.

A. DOGLIOTTI (a cura di), Trieste, Istituto per l’ambiente e l’educazione Scholé Futuro, Torino s.i.d., pagg. 76, s.i.p.

I sottotitoli del libro danno un’idea dell’argomento trattato: “Memorie diverse in una città di frontiera. Idee e materiali per percorsi didattici sulla storia del Novecento nella scuola secondaria”. Come scrive la curatrice nella presentazione, nel contesto degli eventi del ventesimo secolo la questione di Trieste e della Venezia Giulia è caratterizzata da una grande intreccio di fattori, circostanze e processi diversi, con componenti di tipo storico, culturale, etnico, sociale e nazionale, da prestarsi ad essere un vero e proprio caso di studio, sia a livello di ricerca storica, sia a livello didattico. Con i materiali raccolti in questo testo è stato utilizzato il caso di Trieste per esemplificare possibili percorsi innovativi nell’insegnamento della storia del Novecento, nella speranza di dare un contributo al rinnovamento didattico della nostra scuola. A testimoniare l’interculturalità dell’operazione, il libro è scritto in italiano e in sloveno. Il volume si rivolge soprattutto a quegli insegnanti di scuola media superiore che abbiano il desiderio di mostrare ai loro discenti una maniera innovativa di apprendere la storia rispetto a quanto è stato sempre proposto nel passato, dove gli avvenimenti storici erano concepiti meramente come alternarsi di dichiarazioni di guerra e di trattati di pace. Un nuovo paradigma è invece possibile come metodologia di ricerca storica ed è quello della nonviolenza, che ha come fine il tentativo di proporre per il presente un modello di risoluzione nonviolenta dei conflitti. Infatti, come sta scritto nel museo del campo di concentramento di Dachau, “coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo”. La storia non è una materia asettica e staccata dalla nostra vita. Hobsbawn scriveva nel 1994: “Sfortunatamente, come dimostra la situazione di molte zone del mondo alla fine di questo nostro millennio, una cattiva storia non è mai inoffensiva. E’ pericolosa. Le frasi battute su una tastiera apparentemente innocua possono essere sentenze di morte”.
Difficilmente potrete trovare questo volume sui banconi delle librerie, come purtroppo capita quasi sempre con questi libri intelligenti, che sono fuori dal circuito distributivo. Perciò indichiamo il numero di telefono dell’Istituto Wesen (tel. 0121 81 452) che ha realizzato il libro e al quale dovrete rivolgervi per poterlo avere.
Sergio Albesano

James Hillman, Politica della bellezza, Moretti & Vitali Editori, Bergamo, 1999

L’autore indaga in questi saggi – scritti nell’arco di venti anni, pubblicati via via su riviste e per la prima volta riuniti in questa edizione italiana – il rapporto tra estetica e politica, nel senso della relazione che intercorre tra domanda di bellezza e vita pubblica.
A partire dall’idea che la psicologia (letteralmente: il ‘discorso (logos) sull’anima (psyché)’ deve porre al centro della sua teoria e della sua prassi il rapporto tra psiche ed eros, ossia il bisogno che l’anima ha di bellezza, Hillman mostra le conseguenze che la perdita di bellezza implica per la vita pubblica, per la città, e per il paziente, che è anche cittadino.
Il legame tra eros (desiderio di bellezza, in senso platonico) e polis (città) è mediato dal concetto di anima: è l’anima individuale, la psiche, il soffio vitale, ad essere viva soltanto nel desiderio di bellezza nei confronti dell’intero cosmo. “Nell’arco della giornata è un continuo, sottile, rispondere esteticamente al mondo”, ma di queste nostre risposte estetiche – risposte al bello e risposte al brutto che incontriamo nella quotidianità – siamo diventati inconsci (pag.9), soffocati dal razionalismo, dal pragmatismo, dall’economicismo, dominanti nella nostra cultura. Il punto è che per Hillman in questo soffocamento ne va della vitalità della nostra psiche: rimuovendo la dimensione estetica, negando all’anima il suo naturale bisogno di bellezza, smarriamo il senso del nostro stare al mondo.
Hillman interpreta poi il testamento culturale freudiano (“là dove è Es, deve diventare Io”: l’inconscio deve essere reso conscio) nel senso che la coscienza da risvegliare oggi non è soltanto coscienza del vissuto interiore, ma è coscienza dell’appartenenza alla dimensione pubblica, politica, civica. Ed è consapevolezza che quest’appartenenza del soggetto al mondo è mediata dall’aspirazione al bello: è coscienza estetica. Ciò che rimuoviamo, ciò nei confronti di cui per difesa più ci anestetizziamo non è soltanto l’abisso dell’interiorità, ma è la polis, il ‘mondo là fuori’: “rimuoviamo la psiche (l’anima) dalla polis e siamo inconsci nei suoi confronti: è la polis l’inconscio” (pag.10).

Liana Fiorani, Dediche a Don Milani dal cimitero di Barbiana, Edizioni Qualevita, 2001, pagg. 736, Lire 50.000

Questo libro raccoglie le numerose dediche che ogni anno i pellegrini in visita alla tomba di Don Lorenzo Milani lasciano sui quaderni del cimitero di Barbiana, in un angolo di mondo situato “al di fuori delle mura” di ogni centro di potere. Servono a ridare vita e voce a quel prete esiliato che continua a scuoterci dal nostro menefreghismo con il suo I care ripetuto quasi ossessivamente in tantissime dediche.
Il lavoro è stato affrontato per far conoscere sempre più Don Milani, oltre che per invitare tutti ad interrogarsi sul fenomeno che questo mondo di dediche rappresenta; le dediche non sono infatti che l’infinitesima parte dell’immenso fiume di firme che ogni anno viene depositato. Bisogna riconoscere che né l’isolamento e neppure la morte, avvenuta 34 anni fa, sono riusciti a far cadere il silenzio sul sacerdote di Barbiana.
Un obiettore dice che non avrebbe avuto la forza di affrontare tre volte il carcere senza il sostegno trovato nelle parole e nell’opera di Don Milani.
Vi è anche chi afferma di aver trovato linfa per adoperarsi in difesa della pace (e di tutti i valori umani) solo dopo aver visitato il luogo dove Don Milani ha svolto il suo operato.
Una voce, dal Brasile, assicura di essere giunta sulla tomba di Don Milani per rinnovare la memoria della sua scuola che insieme a quella di Paulo Freire tanto hanno dato: sono stati i pedagogisti della speranza.
Hanno voluto seppellirlo vivo ma non ci sono riusciti, nemmeno da morto. La sua presenza continua. Il tempo ci conferma una sua paradossale ineluttabile verità: “Perché dovrei fare fatica ad andare io a cercare la gente? Quando è la gente che viene a cercare me?”. Verità confermata: nonostante i tanti anni che lo separano da noi in molti vanno ancora a cercarlo per la sua particolare capacità di scuotere coscienze.
Ciò che resta incancellabile del Priore di Barbiana è la sua intuizione di riscatto dei poveri, senza compromessi. Basta saper costruire uomini, non burattini. È convinto che una scuola seria e un maestro impegnato sappiano risvegliare nei ragazzi la sete del sapere, sappiano dare lo stimolo che fa vibrare i loro cuori. “Il maestro deve avere le idee chiare in fatto di problemi sociali e politici. Non bisogna essere interclassisti, ma schierati. Bisogna ardere dall’ansia di elevare il povero a un livello superiore. Più uomo, più spirituale, più cristiano, più tutto”. Il problema è tutto qui, ma uno non può dare quello che non ha.
Lorenzo, il 14 luglio 1952, scrive: “Ho la superba convinzione che le cariche di esplosivo che ho ammucchiato negli anni di San Donato, non smetteranno di scoppiettare per almeno cinquanta anni sotto il sedere dei miei vincitori”.
Quell’esplosivo continua a scoppiettare, quei rumori richiamano a Barbiana tutti coloro che hanno condiviso e condividono ciò che ha detto e fatto e che riconoscenti ringraziano e pregano.

Liana Fiorani

Chi volesse ricevere il libro ­ che raccoglie le numerose dediche che le persone in visita alla tomba di don Milani lasciano sui quaderni del cimitero ­ può chiederlo alla Redazione, anche via email.

RICEVIAMO

Gianfranco e Daniele Zavalloni, Fattorie didattiche biologiche, Distilleria ecoeditoria, Forlì 2001, pp. 63
Reinhold Messner, Salvate le alpi, Bollati Boringhieri, Torino 2001, pp. 92
Giuseppe Barone, La forza della nonviolenza, Libreria Dante e Descartes, Napoli 2000, pp. 172
AA.VV., Contro le nuove guerre, Odradek, Roma 2000, pp. 278
AA.VV., Sulla pena di morte, Istituto di istruzione Cavalese, Trento 2001, pp. 203
Gerard Lutte, Principesse e sognatori nelle strade in Guatemala, Edizioni Kappa, Roma 1994, pp. 229
Francisco A. Munoz, La paz imperfecta, Eirene, Granada 2001, pp. 308
Alessandro Andreini, Bonhoeffer – l’etica come confessione, Edizioni Paoline, Milano 2001, pp. 246
Roberto Rondanina, Simone Weil – mistica e rivoluzionaria, Edizioni Paoline, Milano 2001, pp. 347
Alida Airaghi, Litania periferica, Piero Manni srl, Lecce 2000, pp. 117
Roberto Bosio, Verso l’alternativa, EMI, Missionaria italiana, Bologna 2001, pp. 157
F. Javier Rodriguez Alcazar, Cultivar la paz, Eirene, Granada 2000, pp.351
Jose Fernandez Ubina, Cristianos y militares, Eirenes, Granada 2000, pp. 730
Tarcisio Chignola, L’agibilità del vivere, febbraio 2001, pp. 111
Guidalberto Bormolini, I vegetariani nelle tradizioni spirituali, Il Leone verde, Torino 2000, pp. 147
Servicio Paz Y Justicia, San Luis y Chihuahua, Mexico 1998, pp. 112
Servicio Paz Y Justicia, Amatàn y Xi’Nich, Mexico 1996, pp. 96
Servicio Paz Y Justicia, Una muestra de la nuestra vida, Mexico 1999, Catalogo mostra, pp.18
Donald Hessler, La fuerza de la no-violencia, Mexico 1994, pp. 50
Luke Chan, Movimento per vivere meglio, edizioni Achab, Verona 2001, pp. 184
Gianfranco Zavalloni, Le piazze dei giochi e dei diritti naturali di bimbi e bimbe, Comune di Cesena, Cesena 2001, pp. 55
AA.VV., Italia Solidale, La meridiana, Bari 2000, pp. 95
AA.VV., Sotto i ponti del nord-est, Società Tipografica Romana, Roma 2001, pp. 96
Karin Jefferys-Duden, Mediatori efficaci, La meridiana, Foggia 2001, pp. 142
Tullio Berlenghi e Ida Lo martire, Una catena ci libererà: la bicicletta e la mobilità sostenibile, Camera dei deputati, Roma 2001, pp.144
Servicio Paz Y Justicia, Una ventana hacia la No-Violencia activa, Agenda 50 anos de la Declaracion Universal de los Derechos Humanos, Mexico 1998.
Centro di educazione ambientale, A scuola all’aperto, Catalogo Mostra didattica, Cesena 2001, pp. 20
Comune di Padova, Servizio civile – un’esperienza in comune, Calvi e EOS progetti di comunicazione, VHS durata 16 minuti
Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Il coraggio della disobbedienza – OdC in Turchia, Rimini 2000, VHS durata 15 minuti

ECONOMIA
A cura di Paolo Macina

Sei sicuro che esiste un’assicurazione sicura?

Hanno raggiunto la ormai astronomica cifra di 200.000 miliardi di lire i risparmi che gli italiani hanno affidato alle compagnie di assicurazioni. E si può scommettere che in futuro aumenteranno ancora, con l’avvento dei mitici fondi integrativi che in futuro dovranno garantirci la pensione in luogo di quella erogata dall’INPS.
E se in questi anni abbiamo fatto le pulci alle banche, è giusto mettere il naso anche nell’operato di questi colossi finanziari. I quali però, dovendo garantire prestazioni certe dopo tempi molto lunghi (anche 30-40 anni), sono obbligati per legge (per gli addetti ai lavori, la circolare ISVAP risale al 26/3/1987) a garantire investimenti in settori definiti “sicuri” quali gli immobili (tramite gli affitti) e, soprattutto, i titoli di Stato (BOT, BTP e CCT, acquistati a prezzi di favore in quanto investitori istituzionali). E infatti, se ci colleghiamo al sito dell’Istituto di Vigilanza, scopriamo che a fine 2000 i titoli a reddito fisso rappresentavano l’84,1% degli investimenti delle 94 compagnie attive nel Ramo Vita, a fronte del 7,3% costituito da azioni italiane ed estere. Il resto è composto appunto da palazzi, prestiti e fondi d’investimento.
La situazione in questi anni non è cambiata molto: nel 1996 i titoli di Stato ammontavano al 76,5% degli investimenti, e anche analizzando l’operato di ogni singola compagnia non si rilevano scostamenti rilevanti. Insomma, il comportamento delle compagnie assicurative somiglia molto all’operato di una oculata massaia che pensa al futuro dei propri figli, accantonando pazientemente anno dopo anno e rischiando il meno possibile. D’altronde, tra i principali attori di questo scenario troviamo anche una società, la Cattolica, che per statuto non consente la partecipazione al suo capitale a chi “non professa la religione cattolica e non abbia manifestato sentimenti di adesione alle Opere Cattoliche”, e con tali presupposti non si può poi essere dei cattivoni in campo finanziario.
Tutte le compagnie hanno quindi allo stato attuale lo stesso (basso) grado di eticità. Ma alcuni comportamenti saranno destinati a cambiare nel momento in cui, con la possibilità di operare nei fondi pensionistici, le società si troveranno a dover gestire patrimoni 20, 30 volte superiori a quelli attuali; le emissioni di titoli dello Stato non saranno più sufficienti a soddisfare le richieste, e le compagnie dovranno avventurarsi nei mari meno sicuri delle borse azionarie.
Alla linea di partenza ha bruciato tutti la bolognese Unipol, da sempre legata al circuito delle cooperative rosse, che già dal febbraio di quest’anno mette a disposizione dei risparmiatori un fondo pensionistico aperto che si impegna a investire in paesi e società che si caratterizzino per comportamenti ed attività socialmente responsabili. Banditi ovviamente produttori di armi, tabacco, alcolici e chi produce energia nucleare, e porte aperte ai gruppi attenti alla tutela dei diritti dell’uomo e al rispetto per l’ambiente.
Perché questa scelta? Forse perché i suoi dirigenti hanno dato un’occhiata a quanto accade negli Stati Uniti, dove i fondi gestiscono patrimoni definiti socialmente responsabili per 1.400 miliardi di dollari, influendo sull’operato delle aziende su cui decidono di investire e, quando occorre, entrando direttamente nei loro consigli di amministrazione. Gli statunitensi, ma anche gli inglesi, hanno dimostrato di preferire quei fondi che hanno fatto la scelta dell’etica responsabile.
In Italia la normativa che regolerà questi mostri finanziari dovrebbe prevedere una gestione congiunta aziende-sindacati, ma non è sicuro che il nuovo governo confermi questo orientamento. E considerando il tema di cui si parla, si può solo concludere con la frase: “chi vivrà, vedrà (la pensione)”.

LETTERE

Il prete, il Cardinale e l’obiezione fiscale

Avendo saputo che i valdesi avevano cominciato a finanziare con il loro 8 per mille iniziative di pace, mi venne l’idea, nell’aprile del 1999, in occasione della Dichiarazione dei redditi, di scrivere al Card. Ruini, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, per esprimere, come prete e come obiettore di coscienza alle spese militari, la mia perplessità se continuare a dare l’8 per mille alla Chiesa cattolica o a quella Valdese.
E’ dal 1987 che ho scelto di fare l’obiezione di coscienza alle spese militari, per cui ogni anno sulla dichiarazione dei redditi sottraggo dalla somma dovuta la fisco il 5,50% (calcolo per difetto su quanto si presume che lo stato destini per le spese militari), devolvendolo a iniziative di pace o a movimenti di difesa nonviolenta.
Nella lettera al cardinale chiedevo di fare, a nome dell’Episcopato e della Chiesa italiana, un gesto concreto di pace, devolvendo una sia pur minima parte dell’8 per mille che i cattolici italiani (ed anche i non cattolici, ma che credono nella Caritas della Chiesa Cattolica) danno alla Chiesa a favore della Caritas per finanziare le tante altre iniziative nel sociale ed anche per la soluzione dei conflitti senza l’uso delle armi.
In una seconda missiva esprimevo al Cardinale la mia gioia per il comunicato con cui in data 21 maggio 1999 la CEI prendeva posizione contro la guerra nei Balcani.
Il 22 giugno dello stesso anno il presidente dei vescovi italiani, tramite il dr. Paolo Mascarino, responsabile del servizio, rispondeva assicurandomi che firmando l’8 per mille per la Chiesa Cattolica potevo contribuire ad iniziative di questo tipo e aggiungeva: Anche se questo non è un compito direttamente attribuito alla CEI i fondi dell’8 per mille concorrono anche al sostegno economico delle attività della Caritas italiana, la quale impegna parte delle risorse ricevute a tale titolo anche per sostenere iniziative di sperimentazione nel campo della Difesa Nonviolenta.
Copia della suddetta lettera, in data 8 settembre 1999, veniva inviata al direttore della Caritas, don Elvio Damoli, che attendeva questo finanziamento.
Passa un anno e in data 15 giugno 2000, al momento di compilare la dichiarazione dei redditi 1999 scrivo ancora al Card. Ruini: Da notizie pervenutemi sembra che la CEI alla conseguente richiesta della Caritas italiana di avere mezzi finanziari , non abbia mai risposto.
Pertanto, il mio dubbio se dare l’8 per mille alla Chiesa Cattolica o alla Tavola Valdese rimane.
Finalmente, nel Convegno tenutosi a Napoli il 6 – 7 ottobre 2001 sulla Difesa Popolare Nonviolenta si dà notizia che la CEI ha concesso alla Caritas Italiana ben 200 milioni per il progetto di 30 obiettori in missione internazionale come CASCHI BIANCHI.
Questo versamento è un fatto importantissimo.
La Chiesa Cattolica viene a riconoscere la DPN, per adesso, in termini monetari; in seguito sicuramente anche in termini dottrinari.
La DPN gode ormai della fiducia della gerarchia ecclesiastica, per cui diventa credile e fattibile.
Nella imminente Campagna OSM – DPN, potrà essere considerato obiettore alle spese militari chiunque versi l’8 per mille o ai Valdesi o alla Chiesa cattolica e, contemporaneamente, invii una lettera alla Confessione che ha scelto, dichiarando che il suo versamento vada per la DPN.
Ciò non comporta alcuna penalità, ma serve a fare pressione sulle chiese per il sostegno della DPN.
Pertanto, tutti gli ordini religiosi, maschili e femminili, tutti i sacerdoti, quanti credono nella Pace potranno partecipare alla campagna OMS -DPN, spingendo così, indirettamente, anche lo Stato e la società civile a riconoscere e a realizzare una Difesa Alternativa.
Se questa pratica diventerà diffusa, ogni anno ci sarà una sorta di referendum per la DPN e di conseguenza aumenterà il contributo delle chiese per la Difesa Popolare Nonviolenta.

don Gennaro Somma – Castellammare di Stabia

Lettera aperta dal carcere chiuso

Noi sottoscritti, detenuti nel carcere di Sulmona, chiediamo attenzione, tutela ed aiuto agli organi competenti ed alla società civile.
Essendo noi soggetti agli umori e ad una disciplina militaresca, ci troviamo in uno stato di non – dialogo, subendo in continuazione abusi, anche di tipo infantile, ma che per detenuti costretti a vivere 20 ore chiusi in una cella diventano problemi enormi.
Spesso il potere militaresco viene a sfociare in pura follia, il dialogo con i quadri dirigenziali è assente o del tutto inutile, se non in chiave individuale e paternal – repressiva ed è caratterizzato dal ricatto e dalla minaccia di ulteriori peggioramenti del regime carcerario.
Nelle altre carceri la situazione è iniqua ma qua a Sulmona è inumana.
In carcere occorrerebbe, il condizionale è d’obbligo, che i dirigenti avessero un’educazione profonda, un’educazione che avesse a che fare con i princìpi di legalità, invece qua i diritti vengono sistematicamente negati, il detenuto è senza difesa e finisce per subire una violenza umiliante per la sua dignità e il suo decoro.
La direzione del carcere di Sulmona ci odia perché non stiamo abbastanza male, infatti usa atti di violenza amministrativa, ci tratta con disprezzo ed insensibilità ; la crudeltà non sta solo nel dolore fisico ma spesso anche nel dare sofferenza psicologica.
Ricordiamo che facendo ingiustizia ci si allontana dalla giustizia e che la vita di un detenuto è come un pezzo di carta su cui ogni colpo lascia un segno.
La giustizia è una sola, non solo quella del direttore/dittatore di turno, i detenuti sono uomini che hanno dei diritti che niente e nessuno può negare e pensiamo che ciò non debba essere un’utopia.
Chiediamo un carcere trasparente in cui ai detenuti non sia tolta la loro libertà di movimento, in cui siano garantiti i diritti fondamentali alla salute, all’istruzione, ai rapporti affettivi (vicinanza alla famiglia), in cui siano promosse occasioni di reinserimento sociale, lavoro e formazione professionale.
Condanniamo l’ipocrisia, le cattiverie gratuite, la stupidità di certe persone che dirigono questo carcere e che sentono il bisogno di comportamenti crudeli per sentirsi forti, in nome della legge e della società, a volte anche in nome di Dio (sembra che la direttrice sia molto religiosa ).
Se il direttore di un carcere si comporta dignitosamente, con esemplare correttezza, i suoi detenuti non saranno irrecuperabili, se le guardie sono giuste i detenuti non saranno intrattabili, perché è più difficile comportarsi male che bene, la direzione di un carcere dovrebbe nutrirsi di giustizia nel modo più scrupoloso possibile, farne umile professione e fedelmente metterla in pratica.
Gli abusi e le malefatte che subiamo a Sulmona sono pane quotidiano : deprivazione del sonno con entrate notturne delle guardie in cella infrangendo la legge, pretesa che si facciano flessioni sopra uno specchio per vederci il buco del culo, invece di usare gli strumenti tecnologici in dotazione.
La televisione viene spenta e accesa ad orari stabiliti dalla direzione, infrangendo ancora la legge (non ci è stato neppure consentito di seguire la competizione politica delle elezioni).
Nelle docce non esiste il rubinetto dell’acqua fredda per miscelare l’acqua calda, quindi decide la direzione con quale temperatura dell’acqua ci dobbiamo lavare e questa è sempre troppo calda.
Non è possibile acquistare o tenere in cella giornali e quotidiani, in particolare Liberazione ed altra stampa sovversiva !
Non ci è possibile accedere fisicamente al servizio bibliotecario, infrangendo anche in questo caso la legge, e non esiste neppure la socialità per consumare un pasto in compagnia come tutti gli altri carceri, dobbiamo mangiare soli come cani; nel carcere di Sulmona non si vive, si vegeta.
Gli oggetti regolarmente acquistati negli altri istituti: orologi, radioline, ecc., qui non ci vengono dati, non possiamo nemmeno acquistare un po’ di colla per attaccare i bolli e nemmeno le buste per scrivere, c’è un tale potere che ci sovrasta fuori da ogni regola, tutto è organizzato per non farsi delle domande, per loro il punto più alto della legalità è proprio l’illegalità, l’ingiustizia della giustizia rende giusto l’ingiusto, mascherano e distorgono la verità, la legge, il nuovo regolamento d’esecuzione e il buon senso con divieti sconsiderati, insensibili ed assurdi.
Grazie dell’attenzione.
Carmelo Musumeci e Giovanni Piacente – Sulmona

Il Dalai Lama e il passato del Tibet

Ho letto su Azione Nonviolenta di giugno il testo del Discorso di sua Santità il Dalai Lama pronunciato il 10.03.2001. Nello stesso testo l’autore dice: “Ho sempre pensato che il Tibet del futuro dovrebbe avere un sistema di governo laico e democratico. Sono certo che nessun tibetano, in Tibet o in esilio, voglia restaurare il passato sistema sociale”.
Pur interessato alle questioni politiche, non sono stato in grado di avere delle informazioni su questo passato sistema sociale del Tibet: leggo del premio Nobel, leggo del conflitto con la Cina, leggo dell’opera di propaganda del Dalai Lama all’estero. Nessuno però, a quanto io sappia, ci illustra quello che lo stesso Dalai intende rimuovere cioè il passato sistema sociale.
Vorrei sapere qualche cosa di più a questo proposito e cioè, per farmi una idea più esatta, quale era quel sistema sociale di un tempo che ora il Dalai Lama dice che appunto è passato e che non deve essere restaurato.
In effetti mi pare molto strano che si accolga, a parte altre questioni, in modo solenne una personalità che rinnega ufficialmente il proprio passato, mentre nessuno gli domanda a quale passato egli si rivolge.
Ringrazio per la pubblicazione della presente, saluto cordialmente.

Avv. Sandro Canestrini – Rovereto

Di Fabio